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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 132065 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Novembre 12, 2010, 03:26:20 pm »

L'Italia di Avetrana

di Giorgio Bocca

Il Paese intero sembra afflitto da delitti feroci senza senso, come se non sapesse più risolvere i suoi conflitti se non alla maniera barbara di levar di mezzo gli avversari o i contraddittori

(12 novembre 2010)

Gli italiani sono sedotti dai delitti, cioè dal male e dai suoi demoni. Nella campagna di Avetrana, come in tutti i luoghi dei crimini più orrendi, gli italiani vanno in pellegrinaggio per riconoscere da vicino i mostri che frequentano i loro sogni e le loro fantasie. Avetrana è un villaggio del profondo Sud e l'assassinio "familiare" di Sarah Scazzi è maturato e si è compiuto in una profonda campagna secondo un modo familiare cioè contadino, ma tutti gli italiani lo hanno sentito come proprio, a smentita che la società italiana moderna abbia perso i suoi fondamenti contadini: il perdurare di una diffusa barbarie soggetta agli appetiti sessuali e all'ignoranza.
Ciò che colpisce nel comportamento del contadino assassino Michele Misseri, di sua figlia Sabrina e della stessa vittima Sarah è l'assoluta stupidità dei comportamenti, il loro lasciarsi trascinare dai demoni dei desideri, della gelosia, degli istinti. Così privi di raziocinio che oggi a delitto avvenuto risulta difficile, quasi impossibile, ricostruirne una trama comprensibile.

Perché padre e figlia avrebbero ucciso Sarah? Dicono gli inquirenti: perché il Misseri aveva molestato la nipote quindicenne e ne era stato respinto, perché sua figlia Sabrina era gelosa di Sarah, sua rivale in amori paesani. E per questo si uccide, in modo che il delitto riveli tutte le sue origini familiari, e come non bastasse il Misseri ritrova in un campo il telefono della vittima credendo di allontanare da sé i sospetti mentre li ingigantisce? Non la coscienza, non la ricerca di impunità, non il giudizio del prossimo, non la morale guidano gli sciagurati, ma la televisione, l'occhio magico della televisione che riempie le loro giornate, il solo che li possa seguire e svelare nelle loro mosse assassine. "La televisione dava il telegiornale quando io telefonai a Sarah", dice Sabrina, "non ero nella cantina dove è stata uccisa". Tutti animati da una ferocia irragionevole e dall'accanimento contro i familiari.
Perché il Misseri ha accusato la figlia di complicità? Per trascinarla con sé all'inferno? Perché non sa controllare la memoria e la accusa con quel "noi siamo andati al pozzo". Tutti privi di pietà, Sabrina che accusa il padre e lo vuole sepolto vivo in prigione, l'amica di Sabrina Mariangela che non trova parole di pietà, ma di implacabile giustizia: "Se la mia amica c'entra la deve pagare".
Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.

Ma non solo Avetrana, l'Italia intera sembra afflitta da delitti feroci senza senso, una serie quotidiana di mogli uccise dal marito o di fidanzati accoltellati dall'amata gelosa. Come se l'Italia intera, l'intera società italiana, non sapesse più risolvere i suoi conflitti e le sue contraddizioni se non alla maniera barbara di levar di mezzo gli avversari o i contraddittori.
Nei giorni più duri e roventi della guerra civile un modo di dire usuale di un nemico era "fallo fuori", uccidilo, lascia il suo cadavere in un bosco o in un fiume, fallo sparire fisicamente. Come se la memoria e il rimorso non fossero dei testimoni implacabili per una prosecuzione senza fine del reciproco massacro.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/litalia-di-avetrana/2138111/18
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« Risposta #166 inserito:: Novembre 20, 2010, 03:46:37 pm »

IL COMMENTO

Il nord inquinato

di GIORGIO BOCCA

Ha fatto scandalo l'intervento di Saviano sulla Padania mafiosa e sulla Lega come terreno di caccia delle mafie calabresi e siciliane. Ma che la politica basata sulle tessere e sulle clientele, come viene praticata in Italia, sia un terreno adatto alle infiltrazioni mafiose non è una novità. Già nell'Italia rossa e in Toscana le clientele dei mezzadri erano un'istituzione rispettata e ritenuta il nuovo ordine: "Il capitalismo democratico è quello diretto dei comunisti".

E similmente per i cattolici integralisti di Comunione e Liberazione "il capitalismo buono è quello diretto dai seguaci di Don Giussani". La Lega continua la democrazia delle clientele. Se andate a vedere chi sono i leghisti nel Comasco o nel Varesotto trovate delle clientele che si spartiscono il mercato del lavoro, l'accesso alle tenute di caccia, ai sussidi, ai crediti agevolati.

Che le mafie, salite dal meridione, ambiscano ad entrare in queste clientele è normale, che la Lega e la sua organizzazione siano l'oggetto dei desideri dei mafiosi è un rischio concreto. Su questo Roberto Saviano ha detto cose vere, credibili: il leghismo è infiltrato dalle mafie del Sud. Mi convince un po' meno la tesi che tutto il federalismo possa essere un'occasione per un'epidemia mafiosa.
Certo, il federalismo all'italiana favorisce le clientele, basti pensare alle centinaia di finti ciechi mantenuti dalle amministrazioni della Campania, alle migliaia di assunti dalla burocrazia siciliana e della Lucania, più numerosi
percentualmente di quelli di Roma.

Gli sdegni e le proteste dei leghisti contro le accuse di Roberto Saviano sono poco convincenti, piuttosto si rafforza l'idea che nella società di tipo mafioso, dove la libertà di concorrenza è sostituita dai monopoli clientelari, dove la libertà di opposizione e di critica tace di fronte alla rete dei privilegi, la consorteria sia un portato storico, la difesa dalla legge del più forte, anche nel peggio, una forma di protezione per i non protetti e per i non riconosciuti. Qualcosa di simile ai Nap, Nuclei armati proletari, che negli anni di piombo assunsero la protezione dei derelitti e dei delinquenti.

Come ha osato dire Saviano che il virtuoso Nord celtico è mafioso? Eppure per esser d'accordo con lui basta girare per Milano e nell'hinterland. I mafiosi non solo sono visibili, ma padroni. Andate dal famoso ristorante di pesce di Città Studi, a capo del salone principale c'è una tavolata di mafiosi, non solo riconoscibili ma dichiarati, ostentati: una tavola lunga cinquanta metri. Alla destra le donne, fimmine cun fimmine, alla sinistra gli uomini, masculi cun masculi.

Al centro il capo, un vecchio con occhi fissi in un al di là mafioso, pallido, gracile, ma circondato da picciotti pronti a morire per lui. A un suo cenno i camerieri rinnovano le gioie della cornucopia, portano pesci preziosi, verdure raffinate. Noi stiamo a tavoli trascurati dai camerieri, tutti attenti a servire i mafiosi, arrivati in questa terra di marcite e di risaie dalle montagne calabresi o siciliane per rinviare, forse di secoli, la mitica unità d'Italia, per riaffermare la sua disunità reale.

È curioso come nell'era del mercato globale, senza confini, delle industrie senza patria, delle nazioni senza eserciti siano la mafia e la malavita a ricreare dei corpi sociali distinti, delle discipline e delle regole.

A Milano, città del capitalismo cosmopolita, dove una banca può comprare o vendere beni in ogni parte del mondo, dove i grandi ricchi sono al di sopra delle leggi, paradossalmente le mafie rappresentano ancora la diversità, la differenza fra il legale e l'illegale. Quella sera al ristorante di pesce vicino a Città Studi di Milano io e la mia famiglia di borghesi, cresciuti al suono degli inni nazionali, abbiamo potuto guardare i nuovi concittadini, se non i nuovi padroni: i mafiosi della 'ndrangheta o della mafia saliti al Nord e diventati in pochi anni non solo i padroni del denaro e dell'abbondanza, ma della tavola d'onore. Al loro servizio i camerieri zelanti, noi nei tavoli periferici, in attesa di essere serviti. Cose che accadono al centro di Milano, cose più che normali nelle periferie. Ci sono alberghi e ristoranti sulle strade per Lodi o per Vigevano dove alle due di notte, in notti di piogge e di neve, trovi tavoli imbanditi per i mafiosi, che discutono sui loro affari. A Corsico, a Mortara, a Mede, nei ristoranti trovi, se ti va bene, un tavolo d'angolo, lontano da quelli degli uomini d'onore.

E i giornali della borghesia, diventata socia d'affari della mafia, si lamentano e accusano Saviano di essere un comunista che offende l'onore del Nord operoso. A Milano i giovani continuano a fare la movida notturna, a girare per la città come in casa loro. Noi anziani ci muoviamo con cautela, in terra che ci sembra nemica. Forse abbiamo ragione entrambi. La vita continua.

(20 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/11/20/news/nord_inquinato-9303928/?ref=HREC1-4
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« Risposta #167 inserito:: Novembre 26, 2010, 05:21:28 pm »

Sposate un miliardario

di Giorgio Bocca

È la soluzione indicata da Berlusconi a un paese fragile, che si arrende a ogni avversità naturale, che passa da un'emergenza all'altra in un territorio devastato dalla ingordigia e dai furti

(19 novembre 2010)

Alluvione in Veneto Alluvione in VenetoDa ogni parte si annuncia il tramonto del berlusconismo e si dice che a dargli l'ultima spinta sia stato Gianfranco Fini, per anni riconosciuto capo del neofascismo. Insomma, una tipica faccenda del trasformismo italiano della destra affaristica affondata dalla destra ideologica, nel frattempo riveduta e corretta in chiave democratica. Con la sinistra che stava a guardare o quasi. Operazione abilmente condotta da Fini e apprezzata dagli opportunisti che sono corsi ad applaudirlo e a promettergli loro voti. Insomma è toccato all'erede di Giorgio Almirante, fascista di Salò, di sventare il tentativo berlusconiano di instaurare una democrazia autoritaria.

Nella sala in cui Gianfrà, come lo chiamano, celebrava la sua vittoria si riconoscevano i fascisti di sempre che applaudivano l'abilità di Gianfrà nel presentare il suo progetto politico di una destra sempre a destra ma presentabile, lieti di abbandonare la nave pericolante e di saltare sulla zattera di salvataggio.
Forse che a noi il tramonto del berlusconismo non va bene? Va benissimo, anche se accompagnato dal sospetto che sia passibile di nuovi giri di valzer. Quali sono i pilastri, i fondamenti della democrazia sana e forte che piace a Fini e alla sua destra presentabile? I soliti cari alla borghesia ben pensante: l'amor di patria, vulgo nazionalismo, il rispetto della persona purchè ricca, la legalità, il meglio di un liberismo ben ordinato e civile. Fini, come ogni politico, fa bene a mostrarsi ottimista, ma la realtà del paese Italia non sembra incoraggiante, sembra piuttosto quella di un paese che non regge o regge male al suo sviluppo caotico e dissennato.

Intanto possiamo tirare le somme dell'esperienza berlusconiana. Fino all'ultimo il Cavaliere ha applicato al governo del paese i sacri principi del capitalismo aggressivo e ingordo. Buono forse negli anni in cui il mondo era ricco di risorse e di spazi vuoti, non ora, pieno di moltitudini affamate e di terre cementificate. La sua idea del progresso sociale si riassume in una delle battute che non fanno ridere ma piangere che gli sono care, il consiglio a una giovane donna in cerca di fortuna: "Sposi un miliardario".

Nei lunghi anni del suo potere il Cavaliere è stato un maestro di populismo, ha capito che poteva fare degli italiani suoi complici incoraggiandoli al naturale anarchismo, a non pagare le tasse, a liberarsi dei lacci e lacciuoli delle leggi, ad affidarsi alla pubblicità "anima del commercio" che nella gestione del paese si risolveva nel "tutto va bene", nei miracoli che sostituivano la buona amministrazione.

Il paese non ha resistito a questa cura massacrante: nei suoi punti deboli, fisici e civili, si è sfasciato, è arrivato al disastro perenne di Napoli e di altri luoghi del profondo sud. Governare l'Italia non è mai stato facile, ma pensare di governarla coll'attivismo del "faso tuto mi", delle amicizie con i potenti della terra, anche con i più feroci tiranni dimenticando ogni regola etica e praticando disinvoltura e furbizia, forse è servito ad arricchire la casta dei politici amici, ma non a salvarci da una retrocessione continua in tutti gli aspetti del vivere civile. Ancora una volta si è dimostrato che il buon imprenditore capitalista non è sempre un buon politico.
Al termine della gestione berlusconiana l'Italia si presenta come un paese fragile che si arrende a ogni avversità naturale, che passa da un'emergenza all'altra in un territorio devastato dall'ingordigia e dai furti. Forse al Cavaliere conveniva restare nelle sue televisioni, nei loro spettacoli, e nelle loro illusioni.

 
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« Risposta #168 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:18:06 am »

L'opinione

Caro Maroni hai la mafia in casa

di Giorgio Bocca

Da sempre la malavita organizzata si infiltra nelle schiere di chi ha il potere politico. E il Carroccio al nord ne ha moltissimo

(03 dicembre 2010)

Raduno della lega a Pontida Raduno della lega a PontidaGianfranco Fini e Pier Luigi Bersani sono comparsi in televisione invitati da Fabio Fazio per spiegare agli italiani che cosa sono oggi la destra e la sinistra. Nessuno dei due ha risposto in maniera convincente, a prova che la politica oggi è una partita di tessere e di interessi più che di idee.
Fini ha parlato di una destra immaginaria, disinteressata e patriottica, tacendo su quella reale che vota Berlusconi per cui il denaro è tutto, e Bersani di una sinistra che si dedica alla cura delle ingiustizie sociali e non di quella reale che si occupa principalmente dei posti e delle clientele.
L'unico tema nuovo lo ha affrontato Saviano parlando dell'affinità tra la 'ndrangheta calabrese che opera a Milano e dintorni e la Lega che ha creato in questi anni le sue reti affaristiche e clientelari, con la differenza che per ora non uccide chi le dà noia. Differenza decisiva fra concezione barbara o civile della società, ma non tale da impedire una certa affinità di metodi. La Lega non uccide, non coltiva riti segreti, salvo l'innocuo folklore celtico, e per il momento non va al di là del suo "celodurismo", delle sue rodomontate.

Ma ha ragione Saviano quando parla di affinità: la Lega ha un'organizzazione leninista e dove arriva politicamente distribuisce posti buoni ai suoi, come Cesare ai legionari, ed è più comprensibile per i mafiosi che non l'avvocato Ambrosoli, dai mafiosi ucciso.
È un movimento politico democratico, ma non rinuncia al distintivo come i partiti di regime, il fazzoletto e la cravatta verdi orgogliosamente esibiti quasi a segnalare una superiorità della specie. Non sono democratici quelli che in tutti i partiti fanno le prediche democratiche ma che rifiutano la libera scelta degli elettori e si dimettono se non vince il loro candidato, non sono democratici i leghisti e il loro ministro Maroni che si scaglia contro Saviano per aver detto una semplice verità: le mafie cercano di infiltrarsi nelle schiere di chi ha il potere politico, e che la Lega ce l'abbia nel nord Italia sembra indubitabile.
I segni di questa perdurante riluttanza alla democrazia dei protagonisti della politica italiana sono sotto gli occhi di tutti. I giovani evitano le elezioni e la lotta politica, pensano, e lo dicono, che "tanto non cambia mai niente". I radicali, che in passato erano il sale della politica, i sostenitori della sua funzione critica, producono personaggi come Capezzone, portavoce di Berlusconi, la destra berlusconiana si riempie la bocca della parola libertà secondo la concezione pubblicitaria che la ripetizione massiccia e martellante di un messaggio come di un annuncio pubblicitario risulta vincente.

Gli ascolti record di "Vieni via con me" sono la prova che c'è una sete di verità, di ricerca della verità, una nausea del linguaggio stereotipo. Anche nei partiti di sinistra continua a prevalere un certo autoritarismo, i partiti democratici chiedono la riforma della legge elettorale, promettono agli elettori di restituirgli il diritto di scegliere i loro rappresentanti, ma in pratica le direzioni continuano a riservarsi il diritto di imporli.
Per secoli da noi le virtù riconosciute dai politici sono state la furbizia e il tornaconto. Romano Prodi, a me che gli chiedevo se avrebbe vinto le elezioni diceva: "Lo spero, ma quello (Berlusconi) ha molti soldi, troppi soldi". E in questi giorni assistiamo al mercato delle vacche, con i deputati che passano per soldi da un partito all'altro. Che pena!

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« Risposta #169 inserito:: Dicembre 05, 2010, 09:01:26 am »

Sud, basta coi luoghi comuni

di Giorgio Bocca

Ancora oggi c'è chi al leghismo di Bossi contrappone l'immagine di un Mezzogiorno fiorente depredato dal Nord. E' una balla. I veri motivi dell'arretratezza del Meridione sono altri

(26 novembre 2010)

Il lamento meridionalista si rinnova. Era il 1990 quando Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia, disse: "Sappiamo in molti qui al Sud che siamo ormai vicini al punto del non ritorno posto dai nostri problemi irrisolti". Ribadito oggi dall'attuale presidente Raffaele Lombardo. Intanto presso Napoli i dimostranti contro i rifiuti nella discarica di Terzigno bruciano la bandiera nazionale.
Ritorna la vecchia storia del Nord ricco e industriale che sfrutta il Sud povero agricolo e lo depreda dal poco di benessere che aveva raggiunto. Facendo eco alla lunga campagna meridionalista durata per tutta l'Italia unita che, accanto a buoni e ragionevoli argomenti, allinea le lamentele di comodo e oggi di nuovo di moda. La Sicilia e il Sud ricchi depredati dai nordisti, come sostiene Lombardo, è in buona parte un'invenzione demagogica. Il Sud e la Sicilia del regno borbonico, liberati o conquistati da Garibaldi, ricchi e progrediti certamente non lo erano.

Il Sud è povero da secoli e lo è ancora. Due capitali popolatissime, Napoli e Palermo, e attorno migliaia di villaggi poveri, inospitali, dimenticati. Le differenze con il Nord nell'anno dell'unità enormi, a cominciare dalle strade: al Nord 67 mila chilometri, al Sud 15 mila. Quando il presidente Berlusconi annuncia in Parlamento che in breve risolverà il problema dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria l'assemblea ride e rumoreggia, perché tutti sanno che è sempre in costruzione o riparazione.
Il Sud viene definito "uno sfascio pendolo" in perenne frana. Ci sono paesi, si legge in una cronaca di fine Ottocento, dove una lettera messa alle poste a Castrovillari impiega ad arrivare due volte il tempo che da Londra o da Parigi. Neanche un chilometro di ferrovia sotto Salerno nell'anno dell'unità, il 90 percento di analfabeti in Sardegna, l'89 in Sicilia, l'86 in Calabria e in Campania.

Egregio onorevole Lombardo, ci voleva un bel coraggio da parte di un Nord che lei definisce predone e oppressivo a prendere sulle braccia un simile fardello? Quante volte il meridionalismo onirico ci ha raccontato come lei che l'industria del Sud era fiorente e che fu sacrificata al Nord. Le industrie tessili del Sud non vendevano una pezza sul mercato europeo, l'arsenale dei Borboni era certamente per l'epoca un grande complesso industriale, con più di mille operai che producevano navi, locomotive, cannoni e macchine, ma fuori mercato, destinato a fallire già nel 1870. Scrive lo storico Carlo De Cesare: "L'industria napoletana era armonica ma immobilista e senza prospettive. Le campagne separate dalla capitale con scarsissime comunicazioni, un livello culturale infimo, debolissime attrezzature civili".
Un altro luogo comune è che nel Sud la rivoluzione agraria fallì per colpa del capitalismo nordista. Ma a dire il vero le condizioni dell'agricoltura meridionale erano pessime e così ne scriveva in francese Fulchignon: "O il latifondo o contadini così poveri e ignoranti da non poter diventare imprenditori. Si accontentano di piantare qualche ulivo o qualche gelso e vivono in condizioni bestiali".

I movimenti secessionisti meridionali che copiano quello leghista sono insensati. La crisi del mondo contemporaneo è altra, di essere senza governo, di affidare solo agli appetiti del capitalismo la programmazione della produzione e dei consumi, di non capire che questo andare verso il futuro in ordine sparso in affannosa caotica lotta per accaparrarsi i mercati nuovi abbandonando i vecchi porta soltanto al generale disastro.


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« Risposta #170 inserito:: Dicembre 10, 2010, 10:19:27 am »

Servilismo, l'arma finale del Cav..

di Giorgio Bocca

Berlusconi va alla battaglia decisiva dividendo il mondo in due: da un lato chi si inchina a lui, ricavandone tutti i vantaggi; dall'altra parte chi «non ha capito niente del mondo»

(10 dicembre 2010)

Che cos'è il berlusconismo? È che, abbandonato da Mara Carfagna, il re di denari Silvio si è subito aggrappato al nondum matura est, chi non mi segue non mi merita. La forza e la condanna degli uomini fatali, provvidenziali, del destino è la loro incorreggibilità, restano fedeli a se stessi, ai loro vizi, alle loro autoassoluzioni fino all'ultimo. La sorte umana di Silvio come di tutti i pari suoi è un'inestricabile mescolanza di vanità sua e di obbedienza altrui, il fascino di amore e odio, di paura e di servitù che li circonda.

L'uomo fatale, il padrone, il duce è la stessa cosa del bene e del male uniti in ogni essere umano, il re e il fratello, il tiranno e il benefattore. Quando lo incontri hai l'impressione di aver trovato il tuo dio in terra, colui che ti libera dal vuoto e dalle incertezze della vita, il Berlusconi adorato da Bondi. Il poter lavorare nello stesso palazzo, il poterlo incontrare nei corridoi e nelle scale, il sentirlo parlare in un'assemblea ti dà felicità e sicurezza di essere un suo discepolo, di partecipare alla sua ricchezza e alla sua fama. I suoi adoratori e servitori vivono l'ebbrezza della servitù, di poterlo imitare, di copiare i suoi abiti, le sue giacche, le sue divise da manager, di cantare con lui su una nave da crociera o di essere ospiti nelle sue ville ai Caraibi. La sua segretaria quando qualcuno arriva negli studios senza cravatta sorride: ecco l'uomo presuntuoso che non ha ancora capito la necessità e i vantaggi della divisa padronale.

L'uomo fatale è un uomo massa. Egli senza dubbio sa che l'obbedienza totale al capo è fondamentale nella sua e nella vostra fortuna. Chi non obbedisce non è tanto un ribelle, ma un emarginato, uno che non sa riconoscere la convenienza del servire. Il fascino dell'obbedienza è fondato anche sulla solidarietà, chi obbedisce pensa di essere utile agli altri, fa la guardia per salvare gli altri. L'obbedienza è come la fede, come la grazia divina, quando sei fornito di "una marcia in più", come dicono di Berlusconi.

Dell'obbedienza si danno spiegazioni logiche, bisogna obbedire perché l'homme fatale è la fonte di ogni potere. Chiunque affermi in sua presenza che l'uomo è nato libero e per essere libero non sa quel che dice: l'uomo è ciò che è perché ha un capo, saggio e onnipotente. Tornato da una missione diplomatica Silvio alza gli occhi al cielo e dice: "Abbiamo riformato la Nato, l'alleanza che regola il mondo libero, abbiamo recuperato l'amicizia con la Russia, unificato il mondo civile e i giornali si occupano della Carfagna".

Dalla parte di Silvio sta quella forza onnipotente che è la voglia di servire, il riparo che l'uomo comune trova alle incertezze della vita, il sentirsi parte di quel mondo miracoloso che spetta ai fortunati e ai ricchi, la sensazione che stare al suo servizio, al servizio della sua ricchezza, sia già parteciparvi, il primo passo per raggiungerla, per essere anche tu un Vip, un very important person.

Ho conosciuto anche io l'ebbrezza di stare vicino al signore, alla sua luce di uomo fortunato. Un altro dei fondamenti della sindrome autoritaria è quello di credere, di far credere, che essa sia qualcosa di divino, che il suo potere discenda dall'alto, ed è per via di questo dono divino che il duce, il capo, anche il più onesto e volenteroso diventa un despota e un tiranno, insindacabile: se i sudditi mettono in discussione il suo potere si stupisce, reagisce nell'unico modo che conosce, la volontà di potenza. Sventurati coloro che lo amano.

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« Risposta #171 inserito:: Dicembre 16, 2010, 03:42:58 pm »

La mafia che fa paura alla grande Milano

di GIORGIO BOCCA


NEL PAESE della mistificazione e degli illusionisti, nulla ci sorprende più della realtà quando la sua durezza ci viene sbattuta in faccia. La stampa governativa è ottimista, narra di un Paese in gara con il mondo avanzato per benessere e riformismo, ma gli uomini di legge e di giustizia sono di parere opposto. Questa è la notizia di ieri: il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, durante un incontro con la stampa, a cui erano presenti magistrati e esponenti della direzione nazionale antimafia, ha tracciato un ritratto della nostra società molto diverso e molto preoccupante.

Regna nel Paese, persino nella grande Milano nordista e padana affacciata sull'Europa, il silenzio delle vittime, di quanti subiscono le prepotenze e i furti delle mafie. Il fenomeno estorsivo e usuraio, hanno detto i magistrati e i titolari dell'ordine, continua e si infittisce. I cittadini sono restii a denunciare i delitti di cui sono vittime. "Non ci arrivano denunce" ha detto la Boccassini. "È un dato sintomatico di cui dobbiamo prendere atto, la società si piega alla delinquenza, ne subisce le violenze e le minacce". "Ritengo che il fenomeno dell'usura e dell'estorsione nel Milanese e in Lombardia sia in netto aumento" ha aggiunto il procuratore della Repubblica Bruti Liberati. "Si parla molto di questi tempi della penetrazione mafiosa, ma l'omertà degli imprenditori non è mutata. Si preferisce sopportare piuttosto che denunciare".

È ancora la Boccassini a rincarare la dose: "Cambiano le città ma l'omertà verso fenomeni come quello dell'usura non muta. A Milano non ci sono state denunce da parte di imprenditori, anche se le estorsioni non si sono fermate. Ne dobbiamo prendere atto. Dietro la porta del mio ufficio non c'è la fila di chi è vittima dell'usura". Sono stati arrestati centottanta mafiosi notoriamente pericolosi, uomini della 'ndrangheta per i quali si chiede il processo, ma le estorsioni sono aumentate. È stato chiesto al procuratore a che punto è l'inchiesta del governo sulle infiltrazioni della 'ndrangheta nei partiti e nelle istituzioni lombarde. Ha risposto: "Se ne parla molto ma nei fatti l'omertà nei riguardi delle mafie non muta".

Questa è la situazione. Ogni giorno un proclama del capo del governo o del ministro dell'Interno sui clamorosi successi dello Stato al crimine mafioso e ogni giorno migliaia di estorsioni, di minacce e di silenzi. Capita così che molte nostre domande trovino una risposta cruda, se non crudele. Il governo Berlusconi conduce seriamente la lotta contro la mafia o favorisce la crescita di un'economia mafiosa? Siamo in una democrazia dove la legge è uguale per tutti o in un regime autoritario dove le associazioni e la mentalità mafiosa costituiscono la norma e dettano le regole? Da un lato abbiamo la vulgata governativa, gestita dal ministro dell'Interno, per cui ogni giorno si celebrano le vittorie del legale sull'illegale, si pubblicano gli elenchi delle centinaia di criminali arrestati e incarcerati fra il tripudio di poliziotti e un altro, quello dei magistrati, dei giuristi, dei sociologi che ogni giorno prendono atto della progressiva uscita del Paese dalla legalità, dal rispetto delle leggi, delle regole del vivere civile, dalla democrazia con rispetto dei diritti e dei doveri e non come campo di battaglia in cui prevalgono i più forti e i più furbi.

(16 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/16/news/la_mafia_che_fa_paura_alla_grande_milano-10251490/?ref=HREC1-3
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« Risposta #172 inserito:: Dicembre 22, 2010, 10:35:45 pm »

La tempesta non passa da sola

di Giorgio Bocca

Chi spera che finisca l'era della politica al servizio dei giochi del sultano può essere ottimista.

A patto di impegnarsi. Perché la libertà non è un regalo ma una conquista

(17 dicembre 2010)

25 aprile, partigiani 25 aprile, partigianiFinirà questa discesa nel vuoto, questa disgregazione del paese Italia, civile e fisica? In quest'autunno di pioggia senza fine gli italiani guardano in televisione il loro "bel paese ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe" disfarsi in frane e smottamenti, lo "sfascio pendulo" che si consuma, che vien giù con le sue case e le sue chiese millenarie, i superstiti che indicano ai cronisti la linea bianca della frana e raccontano storie di parenti, di amici scomparsi sotto il fiume di fango.
Finirà questo imbarbarimento della politica ridotta ai giochi e alla volgarità di un sultano che l'ha sostituita, coperta con la sua ossessiva fame di potere, di ricchezza e di protagonismo?
Finirà, finirà anche questa volta: chi ha conosciuto la caduta del fascismo e il ritorno alla democrazia e gli anni dei miracoli economici e politici sa che finirà, che si troveranno sempre i mille di Garibaldi o della guerra partigiana, le minoranze capaci di riunire il Paese o di combattere gli invasori, capaci di rovesciare gli opportunismi millenari, di chiedere al signore della storia di dargli tempo, dopo l'8 settembre del '43, di pagare il ritorno alla libertà, non di averlo in regalo.

Una cosa va detta: nessuno, neanche il più pessimista, pensava che saremmo finiti così in basso, che il sultano brianzolo sarebbe arrivato al pubblico dileggio della democrazia, all'esortazione a "non leggere giornali", a garantire i segreti dei potenti.
C'è chi ha detto del sultano: la sua eccellenza politica consiste in questo: ha fatto degli italiani suoi complici, che riconoscono nei suoi difetti i loro difetti, la loro furbizia, il loro gallismo, i loro piaceri plebei, la loro voglia di harem, il loro squadrismo. L'ha fatto perché è fatto così o per calcolo sottile, perché conosce se stesso e il suo prossimo, perché sa che il male è più divertente del bene. Di certo le ultime sortite contro l'informazione, contro la giustizia, contro lo Stato, contro la democrazia erano mirate all'eterno qualunquismo italico, e così l'esibizionismo dei suoi piaceri volgari a misura piccolo borghese, le feste che piacciono al generone, coca e puttane, ville nei Caraibi, in Sardegna e sul lago Maggiore. E su tutto l'attivismo incessante, il "faso tuto mi", anche l'amor del prossimo, la protezione delle minorenni ladruncole.
Finirà, anche stavolta finirà.

Non lo dico per una vana patriottica speranza, ma perché so che può accadere, che è già accaduto, nel settembre del '43 quando i mille che diedero il via alla guerra partigiana salirono in montagna. Il pensiero affliggente e paradossale di quella minoranza era: non sarà troppo tardi? Gli alleati angloamericani padroni del mare e del cielo non sbarcheranno in Liguria come sono sbarcati in Sicilia? Quanti giorni ci rimarranno per meritarci sul campo il ritorno alla democrazia e alla libertà? Sì, a dirlo può sembrare retorico, ma la guerra che continuava, la lenta risalita dei liberatori dalla Sicilia alla Pianura padana furono per la Resistenza un sollievo: inspiegabilmente la strategia dei vincitori ci concedeva il tempo per il nostro esame di riparazione, avremmo avuto il tempo di formare un esercito di popolo, il Corpo volontari della libertà come fu chiamato.
Anche allora gli attendisti, i prudenti, quelli di buon senso pensavano che fosse meglio aspettare che la tempesta passasse da sola, "chinati giunco che il maltempo se ne andrà". Ma avevano ragione i mille, la libertà la si conquista, non la si riceve in regalo.

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« Risposta #173 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:13:44 pm »

Denaro e potere, cioè soprusi

di Giorgio Bocca

Gli incroci tra grandi patrimoni e cariche politiche stanno creando una forma moderna di monarchia assoluta.

Da Putin a Berlusconi, pionieri delle nuove istituzioni affaristiche travestite da democrazie

(29 dicembre 2010)

È tornato il SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali in cui le Brigate rosse riconobbero o credettero di riconoscere il nemico assoluto del proletariato mondiale: le grandi aziende senza altra patria che il profitto capitalistico, le padrone del mercato globale senza frontiere e senza controlli, il nuovo dominio che non arretra davanti alle stragi. Utilissimo, indispensabile per attribuirgli tutte le violenze, le prepotenze dei ricchi verso i poveri, dei sapienti verso gli ignoranti. Siamo tornati con WikiLeaks allo stato fluido e incontrollabile della comunicazione, alle voci che diventano notizie, alle supposizioni che sostituiscono le informazioni, al credibile che conta più dell'autentico. Tutto nel fiume delle notizie segrete può essere vero come inventato, preciso come generico. È la rivincita della comunicazione sull'informazione. Tutto è possibile e niente è sicuro: che i veri nemici dell'espansionismo iraniano, musulmano, siano i sovrani arabi che custodiscono il simbolo della religione musulmana, che i collaboratori segreti della Russia imperialista siano i capitalisti alla Berlusconi.

A me sembra di essere tornato agli anni confusi e isterici, con le centinaia di bollettini e fogli magari suggeriti dagli stessi che diffondevano informazioni tendenziose del tipo "la strage di Stato", feuilleton fabbricati con l'aiuto di chi le stragi di Stato preparava o nascondeva. Segreti, scoop credibili ma non autentici, frutto di diplomazia di servizi segreti che nessuno può contraddire o confermare.
Per esempio i rapporti di affari di Berlusconi e Putin. Berlusconi dice: io ho agito solo per il bene dell'Italia. Nella democrazia autoritaria i capi di governo ritrovano i poteri delle monarchie assolute, possono dare a chi vogliono doni e appalti. Il primo ministro può praticare i commerci che vuole, anche quello dei deputati: si è saputo che alcuni deputati del partito di Di Pietro, il più attento all'etica politica, sono passati per soldi da Berlusconi. Assieme a essi un industriale milanese ricco e fortunato che è stato persino capolista in Veneto per il Partito democratico. Anche lui transfuga e con dispetto, non lo avrebbero onorato abbastanza. Tutti sanno quale è il premio per i transfughi, non solo una rielezione ma anche una congrua parcella. A tutti sembra quasi normale e Di Pietro che vuol ricorrere alla magistratura per punire i traditori pare un fazioso. La nomina a deputato è una rendita personale, qualcosa che può essere comprata e venduta.

Essere primo ministro è anche essere titolare di vantaggi economici enormi, come le forniture del gas russo agli Stati europei. E se Putin e Berlusconi godono di tali poteri e beneficano i loro soci e amici in affari non è forse giusto che come gli antichi sovrani godano di questo potere di far doni ai loro sostenitori? Solo che ciò che nelle monarchie o dittature era considerato normale e giusto, il potere del monarca o duce di arricchire il suo seguito, qui fa scandalo. Donde le finzioni delle leggi sui conflitti di interessi. Il premio che tocca a chi ha il potere politico di far regali in pratica è normale. Tutti sanno che Putin è il despota rosso perché ha alle spalle la polizia segreta di stampo staliniano e il potere economico di Gazprom, cioè dell'ente per l'energia, e così tutti sanno che Berlusconi è l'uomo che può imporre la sua politica all'Eni e all'Enel, due enti che controllano l'energia in Italia.

La differenza tra le monarchie, gli Stati autoritari e quelli sedicenti democratici è che i poteri di fatto prevalgono su quelli di diritto, e l'illegalità non è solo normale ma necessaria al funzionamento del sistema, e che non si sa mai dove finisce l'interesse degli Stati e dove comincia quello dei clan di potere e del capo, non sai mai dove finisce la delega concessa dai cittadini con il loro voto e dove comincia il potere che il capo e i suoi collaboratori si sono ritagliati.

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« Risposta #174 inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:48:33 pm »

A chi servono gli infiltrati


di Giorgio Bocca

Il loro impiego non ha portato a nulla. Le mafie hanno continuato la loro marcia alla conquista del Paese. La corruzione è dilagata

(14 gennaio 2011)

I giornali si occupano spesso dei cosiddetti infiltrati, che sono un po' il motore del nostro tempo, esseri misteriosi malvagi che accorrono dove ci sono disordini tumulti per seminare confusione, ferite, colpire alle spalle non visti e non uditi e poi dileguarsi prima che i carabinieri chiudano i malcapitati nei panier à salade, come li chiamano i parigini, i carri della polizia dalle pareti metalliche traforate per sorvegliare gli arrestati. I giornali amano molto gli infiltrati, la specie misteriosa e furtiva che nei disordini sociali, nelle convulsioni spesso inspiegabili si abbandona a violenze imprevedibili. La spiegazione più semplice che la stampa politica dà degli infiltrati è che il disordine di cui sono portatori fa il gioco sicuro, matematico dell'ordine repressivo o, per usare un linguaggio tecnico, che senza cambiare radicalmente il quadro sociale, senza fare la rivoluzione che in fondo è un rischio per tutti, anche per chi guida il gioco, lo sposta a destra, lo riconduce sotto il controllo delle autorità repressive.

Fin qui tutto sembra chiaro dai tempi manzoniani: gli infiltrati del governo spargono disordini per Milano, gridano che i popolani stanno dando l'assalto ai forni e rumoreggiano quando appare un gendarme, gli tirano dei sassi, assaltano i negozi finché scatta la repressione; i più facinorosi sono arrestati, Renzo Tramaglino fugge in tempo su un barchino attraverso l'Adda e la vicenda dei dominatori e dei dominati rientra in un alveo accettabile per i primi e obbligato per i secondi. Ma questa non è una spiegazione convincente degli infiltrati e del loro ruolo, che sarebbe quello di far prevalere l'ordine e con esso il vivere ordinato della società.

Chi, come il sottoscritto, ha passato gran parte della sua vita di giornalista a raccontare e a strologare sui misteriosi infiltrati di cui la storia patria è fornitissima, si chiede ancora se il preteso utile che si attribuisce al loro intervento sia davvero tale, se sia stato conveniente davvero al potere e ai suoi organi repressivi, se sia stato utile ai governanti e in ultima analisi alla società. C'è stato un tempo, diciamo alla fine degli anni Settanta, in cui il famoso servizio segreto americano, la Cia, carabiniere del mondo libero, e le polizie dell'impero furono come colte dalla frenesia degli infiltrati: da assoldare, addestrare e nascondere per lavorare a tempo pieno al disordine generale con ogni genere di minacce, di delitti, di treni passeggeri fatti saltare, di bombe nelle piazze dove si tenevano comizi, di attentati ai carabinieri, di impiego di neofascisti addestrati nella Grecia dei colonnelli, di reduci della X Mas del comandante Borghese, di anarchici sprovveduti per spargere la voce di una congiura dinamitarda. Insomma, il disordine endemico: il caso 7 aprile, l'assassinio di Mattei, lo Oas, i legionari del colonnello Massu, la mafia che ne approfitta per piazzare le sue bombe, la giustizia impotente in coda, i colpevoli assolti. Questo è stato negli anni Settanta il lavoro continuo e sanguinoso degli infiltrati, guidati dalla polizia dell'impero e da quella della Nato. A che è servita, anche da un punto di vista imperiale e conservatore? A niente o a peggiorare la vita della gente comune, dei cittadini, il livello medio della società.

Con tutti questi infiltrati e le loro bombe, i loro morti, le mafie organizzate hanno continuato la loro marcia alla conquista del Paese. La corruzione è dilagata, ogni comportamento etico è diventato quasi ridicolo. È cresciuta l'occupazione giovanile, si sono aperte nuove strade per i giovani? Al contrario, a forza di infiltrati e strategie degli opposti estremismi siamo andati al peggio. Anche per i padroni che degli infiltrati si sono serviti.

 
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« Risposta #175 inserito:: Gennaio 21, 2011, 05:32:40 pm »

La festa è finita

di Giorgio Bocca

Fa uno strano effetto vivere in un mondo che non sa bene che ne sarà di lui nei prossimi anni e di cui abbiamo perso il controllo

(21 gennaio 2011)

Sono stato in una borgata alpina durante le feste di Natale e mi sono chiesto: c'è ancora la crisi economica o non c'è più? In apparenza la crisi se n'è andata. Sul piazzale della borgata lungo la strada che ci scende dalla provinciale un lastricato metallico di auto, forse 200 auto, nuove, senza graffi nelle verniciature, che ci si poteva muovere a stento. Ne scendevano famiglie ben vestite di panni invernali, pellicciotti e maglione di lana, scarpe da sci impermeabili e calzettoni ricamati alla nordica. Uno spettacolo confortante?
Direi il contrario, uno spettacolo di gente in bilico fra l'ultimo consumo di massa e l'incertezza del futuro, per i giovani il buio di un futuro dove le possibilità di un lavoro ben retribuito sembrano essere letteralmente scomparse. In montagna per una grande festa di fine anno. L'ultima grassa o proprio l'ultima? Fa uno strano effetto vivere in un mondo che non sa bene che ne sarà di lui nei prossimi anni, un mondo di cui abbiamo perso il controllo o la falsa certezza di averlo, il controllo dell'economia, della scienza, del nostro numero demografico fra noi ignari e incerti.

Solo qualche finto sapiente alla Marchionne che continua a immaginare un futuro di produzione incessante e crescente e per convincerci se ne va in giro vestito da uomo tranquillo con un pullover nero e un po' slabbrato e un faccione rotondo alla buona.
Ma chi sono questi italiani in vacanza alcune ore per l'ultima festa grassa? Quasi tutti provvisti di una riserva del grasso che colava negli anni dei miracoli veri o creduti tali. Li vedete quei giovani che alloggiano nel condominio più alto, nell'alloggio del padre di uno di loro? Laureati di fresco in cerca di un lavoro che non trovano, quasi una merce che evapora nell'aria, introvabile. I soldi per le funivie e per mangiare glieli hanno passati i genitori, loro ci mettono la loro voglia di vivere i loro vent'anni che sono sempre una bella risorsa. E quegli altri che scendono da un pulmino e bisogna correre dietro ai bambini che sono entrati in un garage. Lui è un giovane architetto, appena licenziato dallo studio del famoso architetto che ha dovuto tirare i remi in barca per una crisi e una settimana fa li ha riuniti nel suo studio per dire che il lavoro è scomparso, se n'era andato nell'aria, volatilizzato. Lui ha resistito finché ha potuto, ma ora ha dovuto dare il sciogliete le fila. Non è allegro, ma si può finire l'anno senza andare in vacanza nella borgata dove si è andati da quando si era bambini?
Nella casa dell'editore di letteratura popolare le luci sono accese. Tempi duri anche per lui, ha appena venduto una parte dello studio di Milano, ma poteva passare l'ultimo dell'anno in città, poteva non invitare la segretaria amante? In tutte le case della borgata ci sono gli italiani della crisi che nessuno sa quando è arrivata e quando se ne andrà. Tutti per questa forse ultima vacanza hanno tagliato qualcosa nei regali, nelle spese, tutti hanno fatto i conti e sono riusciti, almeno credono, a farli.

Gli unici che siano riusciti a fare un Natale grasso, incredibile, sono stati gli impiegati regionali della regione autonoma che quest'anno li ha mandati in crociera nel Mar Rosso e adesso sono lì che raccontano ad amici e parenti com'era azzurra l'acqua del golfo di Aqaba o com'erano verdi le palme del Negev.
La crisi non è finita, il futuro è incerto ma la gente ci ha fatto l'abitudine. Prendete i milanesi. Vivono nella regione più ricca d'Italia, ma proprio a Milano c'è un fiumiciattolo di nome Seveso, un rigagnolo non navigabile che al minimo temporale esonda, allaga interi quartieri, e per vie sotterranee arriva in tutte le cantine e nei negozi per le riprese dei telegiornali.

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« Risposta #176 inserito:: Gennaio 28, 2011, 10:05:27 pm »

I dubbi di un padre

di Giorgio Bocca

Ma che altro è la famiglia se non quest'intreccio di contraddizioni, di lacci e lacciuoli da cui cerchiamo di scioglierci mentre li stringiamo?

(28 gennaio 2011)

Penso di continuo, da padre, a come garantire il futuro dei miei figli e nipoti, anche se mi rendo conto benissimo che in certo modo forzo i loro desideri e le loro scelte, che è un sopruso da vecchio. Ma che altro è la famiglia se non quest'intreccio di contraddizioni, di lacci e lacciuoli da cui cerchiamo di scioglierci mentre li stringiamo?
Mi rendo conto di continuo che l'educazione permissiva è un errore, che l'educazione senza verghe non li abitua alle punizioni e ai sacrifici, ma appena sento di genitori duri e aridi compiango i loro figli. Com'è difficile vivere e come è insostituibile vivere anche nei suoi errori. Non la finisco mai di tediare i miei figli e nipoti con la necessità della parsimonia, se non del sacrificio, non cesso mai di ricordargli i vantaggi di un padre lavoratore, risparmiatore, di ricordargli che la presente fortuna è sempre a rischio, che la triste povertà è sempre in agguato. Arrivo all'assurdo di rimproverargli in cuor mio di non aver fatto i sacrifici che giustamente potevano evitare. Di non aver osato e rischiato quando non ne avevano bisogno o quando sarebbe stato un errore osare e rischiare.

So che questo colloquio interiore con figli e nipoti è privo di senso, una copia in falsetto del colloquio interiore che certamente essi hanno con me, ma come sostituirlo, come non rendersi conto che la famiglia è questo e non altro: un eterno compromesso fra gli affetti e il buon senso, fra il buon pater familias e i giovani vitali e istintivi che siamo stati, fra le generazioni che continuano ma cambiano, e questa è la sola labile storia che li unisca, una storia che ci segue e comanda.

I parenti saggi, per dire quelli della mia età che sono saggi finché non danno fuori se non di matto, ma da imprevedibili come tutti siamo, mi ripetono i loro consigli: alla figlia dai troppi soldi, non imparerà mai a vivere del suo, del ragazzo non freni la violenza che ora è voglia di vivere ma potrebbe diventare arroganza o prepotenza.

Hanno ragione, ma a parole, non nella vita come è, ed è la vita com'è che non insegna niente a nessuno, checché ne dicano i libri di scuola, che costringe tutti a ripetere gli stessi errori salvo diventare un tronco d'albero senza più vita. Ora ti frena e ora ti consiglia a non remare contro ai desideri e ai capricci dei figli. Il miracolo della famiglia è di resistere negli anni alle sue contraddizioni, ai confronti dei difetti e dei gusti, di far vivere fianco a fianco per anni persone legate nel sangue ma diversissime in tutto il resto, insomma il miracolo di vincere la noia familiare e di far prevalere i conforti, gli imprevedibili conforti familiari di cui mi sono reso conto negli anni di ferocia che abbiamo chiamato di piombo.

In quegli anni ho visto che gli unici legami che resistevano alla paura e all'odio erano quelli familiari, che gli unici a non ripudiare il figlio terrorista o sbirro erano i parenti, gli unici che incontravi nei parlatori delle carceri o nelle corsie degli ospedali.

È la constatazione che a superare le prove supreme della parentela, della comune origine, della comune storia è un legame carnale, un fatto diciamo bestiale più che intellettuale ci richiama al mistero dell'umana esistenza pronta a uccidere per sopravvivere e a morire per solidarietà.

   
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« Risposta #177 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:33:17 pm »

Una giornata in ospedale

di Giorgio Bocca

La Milano dei poveri, degli ambulatori, la Milano vera che vive fuori dalla tv, mi ha spaventato, è terribile

(11 febbraio 2011)

Ci sono due Italie che riescono a convivere non si sa come, non si sa per quale miracolo: l'Italia dei ricchi e quella dei poveri, l'Italia di piazza della Scala, dello stilista Armani, del Biffi, la Milano da bere e quella della periferia, del grande ospedale, dove i poveri arrivano dopo aver aspettato il loro turno magari per sei o sette mesi.
Io che sto nella Milano dei ricchi, dove tutte le donne sono magre, belle e sexy, appena tornate da una vacanza alle Maldive, guardo le infermiere e mi chiedo perché non ce n'è una in pace con il suo corpo, o troppo grasse o magre come chiodi, come se non fossero padrone di se stesse.


Siamo al sesto piano dell'immenso ospedale, sotto di noi nel piazzale escono fumate bianche da camini che ricordano i lager, ma anche i soldi e le energie che il Comune spende per i poveri. Chiedo al dottore che mi opererà alla mano: "Come mai le infermiere sono tutte troppo grasse o magre come chiodi?". Mi guarda stupito: "Si vede", dice, "che non sanno regolarsi".


Già, ci sono italiani ricchi e colti che sanno regolarsi e altri che, arrivati finalmente a mangiare a volontà, non si fermano più. Andiamo agli ascensori per raggiungere la sala operatoria. Ce ne sono quattro. Quando ne arriva uno, soffiando, gli italiani poveri degli ospedali partono alla carica come se fosse l'ultimo vascello di salvezza, e in mezzo a loro mi chiedo se siano veramente italiani, gli stessi che appaiono in televisione, ma no sono molto diversi, quasi irriconoscibili, impauriti, impacciati con i volti tirati dalle paure e dalle sofferenze. Connazionali, sì, ma che vivono separati da noi dell'Italia ricca, che basta un'infermiera di cattivo umore a spaventarli.
Siamo al San Paolo, in uno dei migliori ospedali italiani, un ospedale di avanguardia nel mondo civile, ma anche qui, dove tutto sembra previsto, preordinato per il pronto intervento, l'impressione è di stare in guerra, di essere nella retrovia di una battaglia sanguinosa.


Passi per un corridoio e attraverso una porta aperta vedi che in una stanza stanno vestendo una donna morta da pochi minuti, e intorno la vita dei sopravvissuti continua con rabbia e frastuono, infermiere e infermieri discutono animatamente del contratto degli ospedalieri che sta per essere firmato a Roma, poche decine di euro in più ma ne parlano come se gli cambiasse la vita.
La mia mano pare sistemata, anch'io posso raccontare di aver avuto il mio intervento al condotto carpale, che è una malattia molto di moda. "E una volta", chiedo al mio medico, "chi ce l'aveva che faceva?". "Si teneva la mano fredda e dolente", risponde. Mio figlio viene a prenderci, ci vuole più di mezz'ora per arrivare dal centro di Milano al San Paolo, così puoi vedere come ci si muove, come si vive nella più ricca città italiana, quella dei terroni che sono arrivati con la valigia di cartone.


Nelle strade auto parcheggiate su due o tre file che a muoverle sembra impossibile, ma due vigili urbani in impermeabile nero ed elmetto bianco guardano il caos da pioggia con indifferenza professionale, prima o poi tutti riusciranno a tornare a casa per accendere la televisione e ritrovare l'Italia dove le donne sono magre, snelle e sexy o almeno così sembra grazie ai riflettori e ai ceroni.
Mia moglie mi chiede come sto. "Alla mano bene", le dico, "ma la Milano dei poveri, dell'ospedale, la Milano vera che vive e campa fuori dalla televisione mi ha spaventato, è terribile". "Sempre esagerato", commenta lei, "questa è la vita, l'importante è che ci sia. La vuoi anche bella?".

   
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« Risposta #178 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:34:23 pm »

Perché Marchionne ci ricatta

di Giorgio Bocca

Nel vecchio capitalismo la fabbrica era il risultato di un perenne scontro-accordo tra padroni e operai. In quello nuovo, la produttività è pensata fin dall'inizio per non lasciare scelta ai dipendenti

(07 febbraio 2011)

Dicono che la proposta di Sergio Marchionne agli operai Fiat di Pomigliano e di Mirafiori (gli altri, quelli di Termini Imerese, sono fuori, la fabbrica ha già chiuso) sia chiara, anzi chiarissima: o gli operai lavorano in modo sostenibile dalla concorrenza delle altre fabbriche di auto del mondo o si chiude, si va in Brasile o a Detroit. Qual è la novità?
Questa semplicissima: il futuro dell'industria nel mondo non dipende più dalla lotta di classe, dal confronto fra il capitale dei padroni e la forza di braccia dei lavoratori, ma da un solo giudice, un solo padrone: la produttività, l'insieme di ritrovati tecnici e organizzativi che consentono di produrre a costi inferiori e a profitti crescenti.


Come a dire: l'unità lavorativa della Fiat, come la chiamava Vittorio Valletta, non è più quell'associazione di uomini e di mezzi da cui dipende il modo di progredire e di crescere, non è più il confronto di uomini e di interessi umani che cercano di far convivere i profitti dei padroni con quelli degli operai, che tentano di stabilire attraverso le lotte e le trattative i rispettivi diritti e doveri, la proprietà non è più il risultato di questo incessante scontro-accordo, ma un aut aut come quelli che Marchionne ripete: o si lavora secondo le richieste della produttività vincente o si chiude, si va altrove nel mercato globale.
Certo, ci sono vari modi per esporre questo nuovo modo di concepire lo sviluppo industriale. Si può sempre dire che il manager intelligente come Marchionne tiene conto dei desideri e dei diritti umani dei dipendenti, che la difesa di un minimo civile di cooperazione fra le parti è, come dice il ministro Maurizio Sacconi, assicurata e normale, ma è chiaro che la condizione sine qua non posta da Marchionne è che l'ultima parola deve spettare alla produttività, cioè a chi vince la corsa tecnica organizzativa nel mercato mondiale.
Ma si dirà: che c'è di nuovo? Non è sempre andata così? Da quando esiste l'industria non è sempre andata che i padroni, i detentori dei capitali, sia privati che pubblici, sono sempre dovuti ricorrere a correttivi di questo liberismo totale, hanno sempre dovuto "proteggere", disciplinare, correggere la produttività, che il liberismo non era in grado di gestire?


L'idea liberista che il mercato sia il giudice sovrano giusto e provvidenziale dell'economia è un'idea che sedusse alcuni economisti, ma si rivelò sempre perdente. Per assicurare la continuità del lavoro gli Stati sono ricorsi a tutto, dall'autarchia alla dittatura, dal coinvolgimento totale giapponese allo stacanovismo sovietico, ma pensare come pensa o finge di pensare Marchionne che la produttività venga prima del confronto sociale è un'idea che solo Toni Negri aveva sfiorato quando disse che forse la filosofia capitalistica era entrata nelle stesse macchine, che il turbo capitalismo contemplava non solo il dominio del capitale sugli operai, ma che anche gli strumenti della produzione erano ideati e fabbricati per assicurare il potere del capitale.


Quello che sembra sfuggire a Marchionne, o che probabilmente finge di non capire pur di far passare il suo nuovo-vecchissimo modo di produrre fra la rassegnazione generale, è che non esistono delle soluzioni democratiche alle dittature, non esiste un modo di trasformare gli operai schiavi, sia pure ben nutriti, in operai cittadini dotati di diritti come gli altri cittadini.
A questo mondo o si va avanti tutti insieme o si subisce la produttività che regola tutto a suo comodo.

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« Risposta #179 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:49:11 pm »

Il sultanato e i suoi danni

di GIORGIO BOCCA

Che cosa è stato per l'Italia il periodo che va sotto il nome di berlusconismo? Certamente un periodo di perdita della pubblica educazione, della correttezza dei rapporti civili. Di una delle sue allieve predilette, la signora Minetti, Berlusconi ha detto: "Una donna intelligente, laureata, che è diventata per suoi meriti consigliere regionale".

Ma nelle intercettazioni di questa signora viene fuori un altro personaggio, una donna di una volgarità è di un'avidità notevoli, che di Berlusconi dice: "Quel vecchio dal sedere floscio che ci faceva eleggere a cariche pubbliche per farci pagare dai contribuenti". Nessuna vivandiera di lanzichenecchi sarebbe stata più feroce.

Il berlusconismo è anche una riduzione della lotta politica a livello infimo, in questa politica il ministro degli Esteri della Repubblica italiana, invece di occuparsi delle bufere sociali in corso in Egitto o in Tunisia, legge alla Camera una comunicazione di un ministro di Santa Lucia, repubblica delle banane caraibica, la rivelazione storica che Gianfranco Fini, co-fondatore del partito di governo, ha un cognato di nome Tulliani che è proprietario di una casa Montecarlo. In altre parole il ministro degli Esteri di una grande nazione europea si presta a diffamare il presidente della Camera diventato nemico politico del sultano.

Il berlusconismo è un periodo nero della storia politica e civile italiana anche per altri aspetti, a cominciare dai rapporti fra il presidente del Consiglio e l'informazione, fra il signore di Arcore e la libertà di stampa. Criticato da giornalisti e da politologi il premier si comporta come un sultano vendicativo e minaccioso, viola tutte le regole della pubblica informazione, irrompe nelle trasmissioni televisive e radiofoniche per insultare i suoi critici usando parole da trivio come "la sua trasmissione è un postribolo" e "infami menzogne". Offrendosi alla giusta reazione degli accusati di cui dice: "di lei mi vergogno", "la sua trasmissione è infame". Un'impressionante riedizione del Nerone di Petrolini, del despota feroce e ridicolo che abusa del suo potere e si fa applaudire dalle sue vittime.

Con il Cavaliere di Arcore ecco il danno maggiore: la giovane e fragile democrazia italiana si riduce a un pettegolezzo volgare, a un gossip che tutto occupa e soffoca, che rischia di mascherare tutti i problemi del governo, tutti i doveri di educazione e di stile, il paese intero, sotto una nube ronzante di menzogne e abuso di potere. Perché comunque si consideri l'uomo di Arcore, egli è la gente che frequenta, che ama, che protegge, che innalza o abbassa a suo piacere, questa corte maleducata e supponente che grazie a lui vive di bassi servizi. Tutti, anche i migliori, che ritengono normale avere dalla res publica non solo un lauto stipendio ma anche le amanti.

Il berlusconismo come un tempo di corruzione e di servitù, esentato dalla ferocia solo dal controllo internazionale e dall'indole del sultano che vuole non solo l'obbedienza ma anche la gratitudine del popolo. E il disagio, la stanchezza di vivere in un paese senza morale, senza regole del gioco rispettate da tutti, senza disciplina, ci fa rimpiangere quelle società che ti mettono alla prova di educazione e di ragione, non quelle dove tutto è permesso a patto che tutto decada verso il peggio. Purtroppo per molti italiani il laisser faire è preferibile ai doveri.
 

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