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Autore Discussione: Marco TRAVAGLIO -  (Letto 116482 volte)
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« inserito:: Luglio 24, 2007, 05:42:29 pm »

Forza Clementina!

Pubblico un intervento di Marco Travaglio.

NON PERTINENTE SARA’ LEI

"Anche il Presidente della Repubblica dei Mandarini Intoccabili, davanti al Csm, ha voluto dare la sua bastonata al gip Clementina Forleo, rea di “valutazioni non pertinenti ed eccedenti”, cioè di lesa maestà nei confronti di sei parlamentari che due estati fa scalavano banche e case editrici in combutta con i furbetti del quartierino e si avvertivano a vicenda delle intercettazioni in corso (D’Alema, essendo molto intelligente, per avvisare Consorte del suo telefono intercettato, gli telefonò).

Secondo Napolitano, con queste “fughe di notizie” l’opinione pubblica rimane disorientata. In realtà, proprio grazie al giudice Forleo e ai giornali che hanno riferito le sue ordinanze, l’opinione pubblica ha capito benissimo tutto. E cioè che “non pertinente ed esorbitante” è il comportamento dei politici scalatori, non dei giudici che li hanno scoperti e processati. E che la vera fuga di notizie è quella di chi avvertì politici e furbetti che erano intercettati, rovinando le indagini sul più bello, non certo quelle dei giornali che stanno pubblicando atti non segreti, cioè pubblici.

Napolitano, come pure Marini e Bertinotti, presidenti del Parlamento degl’inquisiti e dei condannati, e come il cosiddetto ministro della Giustizia Mastella, è sgomento per la pubblicazione delle ordinanze della Forleo prima che queste giungessero al Parlamento. Forse il suo costosissimo staff (il Quirinale costa il quintuplo di Buckingham Palace) s’è dimenticato di spiegargli come avvengono queste cose: visto che, dal 2003, la legge impone ai giudici di chiedere il permesso al Parlamento per usare le telefonate intercettate in cui compare la voce di un parlamentare, la gip Forleo ha chiesto quel permesso con due apposite ordinanze. Che, secondo la legge, sono state depositate nella cancelleria del Tribunale venerdì scorso, a disposizione degli indagati e dei loro avvocati. Da quel momento le ordinanze hanno cessato di essere segrete. Gli avvocati ne hanno preso copia e, senza commettere alcun reato, le hanno passate ai giornalisti. I quali, senza commettere alcun reato, le hanno raccontate ai cittadini.

Nessuna violazione del segreto, nessuna fuga di notizie. Di che parlano, allora, le più alte cariche dello Stato? Possibile che non abbiano nulla da dire sugli onorevoli D’Alema, Fassino, Latorre, Cicu, Comincioli e Grillo (Luigi) che scalavano banche abusando del proprio potere, alle spalle dei propri elettori?

Possibile che, ogni qual volta il termometro segnala la febbre e il medico diagnostica la malattia, le alte cariche se la prendano col termometro e col medico?

In ogni caso, se Clementina Forleo e i suoi colleghi vogliono evitare, in futuro, di finire massacrati dai politici della casta, anzi della cosca, sanno quel che devono fare.
1) Mai intercettare un delinquente Vip, onde evitare il rischio che questo poi parli con un politico.
2) Se comunque scappa qualche intercettazione in cui si sentono le voci di politici a colloquio con vari farabutti, fare finta di non riconoscerle.
3) Se il perito che trascrive le telefonate riconosce ugualmente le voci dei politici, cestinare la perizia e cambiare perito.
4) Se i reati risalgono a due anni prima, anche se non è ancora scattata la prescrizione, bruciare tutto perché – come dicono D’Alema e Prodi - “comunque è roba vecchia”.
5) Se la Procura insiste a chiedere di inoltrare le telefonate al Parlamento, evitare di spiegare nell’ordinanza perché queste sono penalmente rilevanti o, meglio ancora, dire che sono tutte cazzate e pregare le Camere di negare l’autorizzazione.
6) Non depositare mai le ordinanze agli avvocati difensori, onde evitare che finiscano sui giornali, e chissenefrega dei diritti della difesa.
7) Se non si è d’accordo con l’impostazione dei pm, appiattirsi comunque su di loro perché ora, all’improvviso, piacciono i gip appiattiti sulle Procure.
Fico Prima di fare qualsiasi cosa, recarsi in pellegrinaggio a Ceppaloni per la necessaria autorizzazione a procedere del superprocuratore nazionale anti-giustizia Clemente Mastella." Marco Travaglio


da www.beppegrillo.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 24, 2007, 06:02:22 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

Un pasticcio politico
di GIUSEPPE D'AVANZO


Giorgio Napolitano prende posizione. E nelle sue funzioni di presidente del Consiglio superiore della magistratura. Quindi, nella sede più opportuna e nella forma più adeguata. E' un intervento formale che, nei fatti, sostiene i dubbi e l'iniziativa ispettiva già annunciata da Clemente Mastella. Le parole del capo dello Stato sono più di un monito e poco meno che un'esplicita richiesta di un procedimento disciplinare contro il giudice per le indagini preliminari Clementina Forleo. Il tono scelto dal capo dello Stato è didattico e censorio. "Desidero rinnovare il richiamo a non inserire in atti processuali valutazioni e riferimenti non pertinenti e chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti".

Dunque, nella richiesta al Parlamento di rendere utilizzabili le intercettazioni telefoniche tra Gianni Consorte (Unipol) e i ds D'Alema Fassino Latorre, il giudice di Milano utilizza in eccesso il potere che gli è assegnato dai codici, con uno "sviamento", uno "straripamento" delle prerogative che gli attribuisce la legge. Deve soltanto illustrare al Parlamento le ragioni che, a suo giudizio, rendono necessario utilizzare nel processo delle "scalate" Antonveneta/Bnl/Rizzoli-Corriere della Sera le registrazioni di quei colloqui. Con "valutazioni eccedenti" e "riferimenti non pertinenti", il giudice indica esplicitamente e in sovrappiù - per Napolitano, abusivamente - una corresponsabilità nel delitto (aggiotaggio) dei parlamentari non ancora indagati.

Scrive la Forleo: "A parere di questa autorità giudiziaria, sarà proprio il placet del Parlamento a rendere possibile la procedibilità penale nei confronti dei suoi membri i quali, all'evidenza, appaiono non passivi percettori di informazioni pur penalmente rilevanti, ma consapevoli complici di un disegno criminoso".

Se le parole hanno un senso - e non possono non averlo se dette dal presidente della Repubblica in un'occasione così rituale - l'ordinanza del giudice è, come dicono i tecnici, "abnorme" e costituisce il solo caso in cui un ministro di giustizia è legittimato a intervenire sul provvedimento di un giudice. Se i comportamenti saranno coerenti con le parole, si deve credere che siamo alla vigilia di un nuovo, robusto conflitto tra la politica e la magistratura. Il procuratore generale della Cassazione Mario Delli Priscoli chiede di acquisire le ordinanze. Mastella invierà a Milano gli ispettori mentre la Giunta per le autorizzazioni (decide dell'utilizzabilità dei colloqui) avrà molte difficoltà - dinanzi all'ipotizzato vulnus inflitto al potere legislativo con un'iniziativa anomala - ad accogliere la richiesta dei giudici di Milano (ammesso che avesse voglia di accoglierla).

Il putiferio è assicurato anche perché il giudizio di Napolitano non è condiviso da tutti gli addetti. Tra i quali, c'è chi autorevolmente difende le decisioni e le ordinanze di Clementina Forleo giudicandole, forse "border line", ma non illegittime o abusive. Doveva motivare, come le impone la legge, l'essenzialità per il processo di quelle registrazioni. Lo ha fatto forse con qualche parola storta, ma all'interno delle costrizioni procedurali, e schiacciata per di più dalla decisione del pubblico ministero di non iscrivere al registro degli indagati i parlamentari, nonostante quei colloqui li vedessero partecipi e collaboratori di un progetto che occultava e manipolava le notizie da offrire per legge ai mercati e ai risparmiatori. Ora si vedrà quale direzione prenderanno gli organi di disciplina della magistratura, quale giudizio dei passi della Forleo prevarrà tra i giuristi. Esiste una macchina procedurale che vaglierà il rispetto o il dispetto delle regole.

Quale che sia l'esito, appare burlesco soffocare l'intera storia che provoca l'inchiesta penale (le "scalate" del 2005) in una esclusiva questione tecnico-giuridica anche se rilevante perché interpella il sistema delle garanzie. In queste ore, si odono formule troppo confuse. La macchina giudiziaria farà la sua strada, ma l'affare - conviene ricordarlo agli smemorati - è anche politico. La manovra del ceto politico di fare spallucce dinanzi a legami imbarazzanti e obliqui - si vedrà con o senza rilievo penale - è debole. Ancora più fragile è la litania che con Prodi, D'Alema, Fassino, Violante, Finocchiaro ripete: è roba vecchia, già letta e digerita. Letta sì, ma digerita da chi?

E' utile ricordare che cosa è accaduto per scongiurare il rischio che si finisca di parlare soltanto di codici. La scena ricostruita dalla magistratura e dalle testimonianze dei protagonisti (da Ricucci come da Fazio) - e rinforzata, al di là di ogni dubbio, dalle intercettazioni telefoniche - conferma che la politica non ha espresso soltanto "opinioni" nell'anno delle scalate ad Antonveneta, a Bnl, al Corriere della Sera, al gruppo Riffeser. E' stata protagonista. Con l'ambizione esplicita e dichiarata (parole del senatore Nicola Latorre) di "cambiare il volto del potere italiano". I leader politici non si sono limitati ad attendere l'esito di una contesa di mercato. Sono intervenuti, con il peso del loro ruolo e responsabilità pubbliche, a vantaggio dei protégés. Berlusconi indica a Stefano Ricucci il partner industriale per l'assalto a via Solferino e scrutina i possibili mediatori. D'Alema consiglia a Consorte (Unipol) l'acquisto di pacchetti azionari mentre Fassino e Bersani (come ha riferito ai pubblici ministeri Antonio Fazio) incontrano il governatore della Banca d'Italia per "spingere" una fusione Unipol-Monte dei Paschi-Bnl. Quel che se ne ricava è la ragionevole certezza che la politica abbia giocato in proprio la partita, per di più cercando di influenzare uno degli arbitri (il governatore).

Chiunque comprende che non può essere questo il primato della politica. La politica legifera. Seleziona opzioni. Sceglie regole che possano modernizzare il Paese e renderlo capace di affrontare le sfide del futuro. A destra come sinistra sembrano, al contrario, non voler prendere atto che una politica che, nello stesso tempo, gioca, fa l'arbitro e legifera è una cattiva politica. Che scredita se stessa.

Già in occasione della pubblicazione delle testimonianze di Stefano Ricucci, si è avuta la sensazione che, quasi "a freddo", il ceto politico volesse resuscitare il conflitto tra il potere politico e l'ordine giudiziario, la contrapposizione tra ceto politico e informazione per aumentare il "rumore", sollevare polvere, star lontano dal nocciolo più autentico della questione. Da questo punto di vista, se non fosse esistita, Clementina Forleo l'avrebbe dovuta creare la politica. Ma con o senza la Forleo, non è agevole eliminare dal tavolo la questione politica. Quell'intrigo, che vede protagonisti intorno allo stesso tavolo Berlusconi e Prodi, D'Alema e Gianni Letta con un poco nobile codazzo di banchieri, arbitri faziosi, avventurieri della finanza, astuti nouveaux entrepreneurs, racconta ancora oggi la distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi; la divaricazione tra gli accordi in corridoio e i contrasti in pubblico. Da due anni si attende una parola trasparente e critica su quel pasticcio, un'assunzione di responsabilità, un impegno pubblico. Chi può, in buona fede, giudicarla roba vecchia? E' una questione attualissima, qualsiasi cosa decida di fare la magistratura.

(24 luglio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 10, 2007, 10:38:31 pm »

Ma quale antipolitica

Marco Travaglio


A vedere i telegiornali di regime, cioè praticamente tutti, sabato a Bologna e nelle altre piazze non è successo niente (molto spazio invece al matrimonio di Baldini, l’amico di Fiorello). A leggere i giornali di regime (molti), il V-Day è stato il trionfo dell’«antipolitica», del «populismo», del «giustizialismo» e del «qualunquismo». In un Paese che ha smarrito la memoria e abolito la logica, questa inversione del vocabolario ci sta tutta: la vera politica diventa antipolitica, la partecipazione popolare diventa populismo, la sete di giustizia diventa giustizialismo, fare i nomi dei ladri anziché urlare «tutti ladri» è qualunquismo.

E infatti, che il V-Day fosse antipolitico, populista, giustizialista e qualunquista, lorsignori l’avevano stabilito prim’ancora di vederlo, di sapere che cos’era. A prescindere. Non sapevano e non sanno (non c’erano) che per tutta la giornata, in 200 piazze d’Italia e all’estero, migliaia di giovani dei Meet-up grilleschi hanno raccolto 300 mila firme (ne bastavano 50 mila) in calce a una proposta di legge di iniziativa popolare che chiede il divieto per i condannati di entrare in Parlamento, il tetto massimo di due legislature per i parlamentari e la restituzione ai cittadini del diritto di scegliersi i propri rappresentanti sulla scheda elettorale. Cioè hanno esercitato un diritto previsto dalla Costituzione, quello di portare all’attenzione delle Camere tre questioni «politiche» quant’altre mai. E l’hanno fatto con l’arma più antica e genuina di ogni democrazia: la manifestazione di piazza.

Quella piazza che, quando la occupano Berlusconi e Bossi e Casini e Mastella per chiedere cose incostituzionali, tutti invitano ad «ascoltare». E quando la occupano un milione di persone senza etichette né bandiere (tante erano mal contate, sabato, da Bologna a New York, se alle 20 i firmatari della petizione erano 300 mila, altrettanti erano ancora in fila a mezzanotte e molti di più avevano desistito per fare ritorno a casa) diventa un obbrobrio da ignorare e rifuggire.

Mentre, nel V-Day after, riparto da Bologna per tornare a casa, chiamo Beppe Grillo per commentare a mente fredda: lui mi racconta, ridendo come un pazzo, che gli ha telefonato il suo vecchio manager, «Cencio» Marangoni, per dirgli che a Villanova di Bagnacavallo c’è ancora la fila ai banchetti. E a Villanova di Bagnacavallo sono quattro gatti, perlopiù di una certa età, e chissà come han fatto a sapere che c’erano i banchetti visto che non l’ha detto nessuna tv e quasi nessun giornale. Ma se a Villanova di Bagnacavallo si firma ancora, forse questa non è antipolitica: questa è superpolitica. È antipolitica difendere la dignità del Parlamento infangata dalla presenza di 24 pregiudicati e un’ottantina di indagati, imputati, condannati provvisori e prescritti? È antipolitica chiedere di restituire la sovranità al popolo con una legge elettorale qualsiasi, purchè a scegliere gli eletti siano gli elettori e non gli eletti medesimi? È antipolitica pretendere che la politica torni a essere un servizio che si presta per un limitato periodo di tempo (dieci anni al massimo), dopodichè si torna a lavorare o, se s’è mai fatta questa esperienza, si cerca un lavoro come tutti gli altri? È antipolitica chiedere rispetto per i magistrati e dire grazie a Clementina Forleo e ai giudici indipendenti come lei? Chi era a Bologna in piazza Maggiore, o in collegamento nel resto d’Italia e all’estero, ha visto decine di migliaia di persone restare in piedi da mezzogiorno a mezzanotte. Ha sentito Grillo chiedere il superamento «di questi» partiti, i partiti delle tessere gonfiate, dei congressi fasulli, delle primarie dimezzate (vedi esclusione di Furio Colombo, Di Pietro e Pannella), della legge uguale per gli altri; smentire di volerne creare uno nuovo; e rammentare che gli «abusivi» da cacciare non sono ambulanti e lavavetri, ma politici e banchieri corrotti o collusi. Un economista, Mauro Gallegati, spiegare i guasti del precariato in un mercato del lavoro senza mercato e senza lavoro. Un grande architetto come Majowiecki illustrare i crimini cementiferi che i suoi colleghi seminano per l’Italia e per l’Europa con la complicità di amministratori scriteriati, e le possibili alternative verso un modo «leggero» di pensare e costruire città e infrastrutture. Alessandro Bergonzoni spiegare la partecipazione democratica con una travolgente affabulazione («Chi è Stato? Io sono Stato»). Un esperto di energie alternative come Maurizio Pallante raccontare quel che si potrebbe fare nel settore ambientale ed energetico al posto di inceneritori, termovalorizzatori, centrali a carbone e treni ad alta velocità per le mozzarelle. I ragazzi di Locri lanciare l’ennesimo grido di dolore dalla Calabria della malavita e della malapolitica. Il giudice Norberto Lenzi rischiare il procedimento disciplinare per avvertire che il berlusconismo è vivo e lotta insieme a noi, anche a sinistra. Sabina Guzzanti prendere per i fondelli la deriva fuffista e conformista dell’informazione. I genitori familiari di Federico Aldovrandi raccontare, in un silenzio misto a lacrime, la tragedia del figlio morto due anni fa durante un «controllo di polizia». Massimo Fini tenere una lezione sul tramonto della democrazia rappresentativa citando Kelsen, Mosca e Pareto. Il giornalista Ferruccio Sansa sintetizzare la sua inchiesta sul «tesoretto» da 100 miliardi di euro che lo Stato non ha mai riscosso dai concessionari, spesso malavitosi, dei videopoker e altri giochi, una mega-evasione fiscale scoperta dal pm Woodcock e dalla Guardia di Finanza, ma coperta da incredibili silenzi governativi.

Alla fine ho parlato anch’io: ho ricordato Lirio Abbate minacciato dalla mafia; ho cercato di spiegare che la tolleranza zero deve cominciare, come nella New York di Giuliani, dai mafiosi e dai corrotti, non dai lavavetri e dagli ambulanti; e ho difeso Cofferati, che avrà tanti difetti, ma non quello di partire dai poveracci, visto che prima ha preteso legalità dagli imprenditori sullo Statuto dei lavoratori. Ho fatto parecchi nomi e cognomi, come tutti gli altri sul palco di piazza Maggiore. Ora scopro che fare i nomi sarebbe «qualunquismo»: e parlare in generale per non dire niente, allora, che cos’è?

P.S. Ho trascorso l’intero pomeriggio sotto il palco e sul palco, e mai ho sentito parlare non dico «contro» Marco Biagi, ma «di» Marco Biagi. Il nome «Marco Biagi» non è mai strato citato per esteso. S’è parlato un paio di volte della legge 30 che abusivamente il governo Berlusconi intestò al professore assassinato, che non poteva più ribellarsi, mentre un ministro di quel governo lo chiamava «rompicoglioni». E ne ha parlato Grillo per chiedere di riformarla, insieme alla legge Treu, aggiungendo che però «il vero problema non sono neppure le leggi: è che in Italia non c’è lavoro». Lo dico perché un amico, l’ex giudice ora assessore Libero Mancuso, che nessuno ha visto alla manifestazione, ha parlato di presunte «offese a Biagi». Posso assicurare che se qualcuno, dal palco, avesse davvero mancato di rispetto a Marco Biagi, su quel palco nessuno di noi, nemmeno Grillo, sarebbe rimasto un minuto di più.

Pubblicato il: 10.09.07
Modificato il: 10.09.07 alle ore 13.18   
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 03, 2007, 10:40:48 pm »

Sme, tutti colpevoli. Ma il reato è ormai prescritto

Marco Travaglio


Il titolo della notizia, rivelata ieri da Luigi Ferrarella sul “Corriere della Sera”, potrebbe essere questo: «Come vendere la Giustizia per decenni e vivere felici». Almeno per quanto riguarda Renato Squillante, già vicecapo dell’Ufficio Istruzione di Roma, già capo dei Gip capitolini, già consulente giuridico di Craxi a Palazzo Chigi e di Cossiga al Quirinale, amico della famiglia Berlusconi, candidato al Senato per Forza Italia nel ’96 (candidatura poi tramontata causa manette): il giudice che nel ’96 teneva in Svizzera un tesoretto di 9 miliardi di lire e disse, respingendo le accuse di corruzione, di averli guadagnati con l’insider trading e l’evasione fiscale, che come alibi non era niente male.

Ora Squillante è uscito indenne anche dall’ultimo processo aperto a suo carico. Non perché innocente, anzi: le prove della sua stabile corruzione da parte degli avvocati Fininvest Cesare Previti e Attilio Pacifico ci sono eccome. Ma riguardano fatti commessi fino al 1991, dunque sono cadute in prescrizione. L’ha stabilito il gip di Perugia, Claudio Matteini, che ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm Miriano, Comodi e Paci per il processo Sme-Ariosto, trasferito un anno fa dalla Cassazione nel capoluogo umbro a un passo dalla sentenza definitiva: «Un’archiviazione nel merito non è possibile, stanti i numerosi, precisi, riscontrati e incontrovertibili elementi di prova raccolti nel corso delle indagini a carico degli indagati». Dunque «non può farsi altro che constatare l’intervenuta prescrizione di tutti i reati contestati». Cosa che non sarebbe avvenuta se la Cassazione, il 30 novembre 2006, non si fosse spogliata del processo inventandosi in zona Cesarini una competenza perugina, ma avesse invece confermato le condanne d’appello per Squillante (7 anni), Previti e Pacifico (5 anni a testa).

Un anno fa, infatti, i reati non erano ancora prescritti: la ex-Cirielli non funziona per i processi in dibattimento. Ora invece lo sono, anche perché, retrocedendo il fascicolo all’udienza preliminare, si «aggancia» la ex-Cirielli che dimezza i termini di prescrizione: così il reato è estinto dal 2002.

Risultato: Previti e Pacifico evitano di tornare ai domiciliari per 5 anni (il bonus-indulto se lo son già giocato per la condanna Imi-Sir), ma soprattutto Squillante la fa franca da tutto. Nel processo Imi-Sir era accusato di corruzione giudiziaria per aver incassato 133 milioni di lire nel ’91 dalla famiglia Rovelli in cambio dell’«avvicinamento» di un giudice della Cassazione che doveva decidere sulla causa: ma la Suprema Corte lo mandò assolto, riconoscendo che i soldi e il fatto erano dimostrati, ma stabilendo che per la legge italiana il «traffico di influenza» non è reato. Qui invece, secondo il gip di Perugia, «nessun dubbio vi può essere sulla qualificazione giuridica dei fatti»: cioè sulla corruzione del giudice estero su estero con soldi Fininvest. Senza la prescrizione, sarebbe stata condanna sicura.

La «prova regina» del mercimonio è il famoso bonifico del 5 marzo 1991, quando in poche ore 434.404 dollari provenienti dal conto svizzero Ferrido (alimentato dal patrimonio personale di Berlusconi) transitarono sul conto Mercier di Previti e di lì al conto Rowena di Squillante. Poi c’è la testimonianza di Stefania Ariosto, che giura di aver visto alla fine degli anni 80 almeno due passaggi diretti di denaro da Previti e Squillante: il primo al circolo Canottieri Lazio, quando Previti inseguì l’amico giudice con un pacco di banconote gridando «A Rena’, te stai a dimentica’ a bbusta!»; il secondo a casa Previti, quando notò da una porta socchiusa il padrone di casa e il magistrato che maneggiavano mazzette di contanti su un tavolino. Soldi che, secondo l’Ariosto, Previti vantava di ricevere dalla Fininvest per foraggiare una «lobby di magistrati» al servizio del Biscione e di Craxi.

Anche i versamenti cash, secondo il gip, sono provati: «È stato documentalmente ricostruito il percorso del denaro giunto poi su conti esteri riferibili a Squillante e inoltre sono state accertate e verificate le erogazioni in denaro contante da Previti a Squillante». Ricorda il giudice che è stata la Cassazione, nella sconcertante sentenza sull’incompetenza di Milano a favore di Perugia, a «individuare in Roma il luogo delle dazioni di denaro e indicarle componenti essenziali della “reiterazione” remunerativa a favore del magistrato considerato “a libro paga” (della Fininvest, ndr), con ciò avvalorando e ritenendo credibile Stefania Ariosto, testimone oculare di tali pagamenti».

Chi s’è perso nella giungla di 12 anni di indagini e processi, leggi ad personam, ispezioni, ricusazioni, richieste di rimessione e di incompetenza, denunce penali contro i pm e i giudici, domanderà: e Berlusconi? Se per la sentenza comprata da Previti con soldi suoi per arraffare la Mondadori l’ha sfangata per prescrizione, al processo Sme-Ariosto il fortunato Cavaliere è stato processato separatamente dopo lo "stralcio" del 2003 e addirittura assolto in appello, sia pur in base alla vecchia insufficienza di prove (comma 2 art. 530 Cpp). Ma la sentenza fa acqua: quanto al bonifico svizzero, si ritiene improbabile che Berlusconi pagasse i giudici con bonifici anziché con versamenti cash; quanto ai versamenti cash di Previti a Squillante, si ritiene improbabile che Previti pagasse i giudici con versamenti cash anziché con bonifici in Svizzera. Visto che sono provati sia il bonifico sia i versamenti, è come dire che la corruzione esiste solo quando non viene scoperta; ma se non viene scoperta, non è mai punibile. La Cassazione esaminerà il ricorso del Pg De Petris a novembre. Se questa scombicchierata assoluzione fosse annullata, non ci sarebbe comunque il tempo per celebrare un nuovo appello prima della prescrizione. Ma almeno si cancellerebbe una macchia nera dalla Giustizia italiana.

Pubblicato il: 03.10.07
Modificato il: 03.10.07 alle ore 8.38   
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 04, 2007, 11:26:18 pm »

Quando Luttazzi si «sparò» in tv

Peter Gomez e Marco Travaglio


Un giorno Daniele Fabbri da Santarcangelo di Romagna (Rimini), in arte Luttazzi, legge sul manifesto un articoletto che lo colpisce. Racconta la presentazione di un libro semiclandestino uscito tre settimane prima, L’odore dei soldi. Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi, pubblicato da Editori Riuniti e scritto dal deputato dipietrista Elio Veltri, membro della commissione parlamentare Antimafia, e dal giornalista di Repubblica Marco Travaglio. Sono gli ultimi giorni del febbraio 2001. Alla presentazione romana, nella sala stampa della Camera, sono intervenuti diversi deputati del centrosinistra ma non solo (c’erano persino alcuni leghisti, come l’ex ministro Giancarlo Pagliarini); pochissimi giornalisti italiani, il direttore di Liberazione Sandro Curzi e la cronista del manifesto Daria Lucca; e molti corrispondenti della stampa estera. Del libro, salvo la Repubblica, non ha parlato nessuno, eppure nelle prime due settimane ha venduto 18mila copie (merito anche di misteriosi personaggi che si presentano nelle librerie più in vista, come quella dell’aeroporto di Fiumicino, a fare incetta di tutte le copie disponibili). Luttazzi se lo procura e comincia a leggerlo. C’è l’ultima vera intervista di Paolo Borsellino prima di morire (rifiutata da tutti i tg Rai e trasmessa nottetempo da Rainews24 il 19 settembre 2000), in cui il giudice antimafia parla di indagini sui rapporti fra Berlusconi, Marcello Dell’Utri e il cosiddetto «stalliere di Arcore», il boss mafioso Vittorio Mangano. Ci sono stralci della requisitoria del pm di Caltanissetta Luca Tescaroli, che parla anche delle indagini in corso su Berlusconi e Dell’Utri come possibili «mandanti a volto coperto» delle stragi politico-mafiose del 1992-93 (indagini archiviate soltanto nel 2002). C’è una sintesi dei rapporti dei consulenti tecnici della Procura di Palermo sui finanziamenti alle società - le «Holding Italiana» numerate dalla 1 alla 37 - che controllano la Fininvest, imbottite fra il 1978 e il 1983 di oltre 500 miliardi di lire al valore attuale di origine misteriosa e mai spiegata. Ci sono gli esilaranti interrogatori di Berlusconi e Dell’Utri nel processo di Torino, in cui Dell’Utri è stato appena condannato in via definitiva a 2 anni di carcere per false fatture e frode fiscale.

Luttazzi divora il libro in un paio di giorni. Trova strano che nessuno ne parli: il materiale è incandescente. L’attore conduce un programma su Rai2, Satyricon, dichiaratamente ispirato al David Lettermann Show e di grande successo, vicino al 20 per cento di share, con un pubblico (2 milioni e mezzo di persone) addirittura superiore alla Piovra 10 e a Porta a Porta, ma soprattutto alla concorrenza di Mediaset, che in prima serata strapazza la Rai con Il grande fratello. Ogni settimana Luttazzi intervista personaggi della politica, della cultura, dello spettacolo, dello sport. Decide di invitare Travaglio per parlare dell’Odore dei soldi. Il suo accordo con Carlo Freccero, direttore di Rai2, gli permette la più ampia libertà nella scelta degli ospiti e nell’elaborazione di ogni puntata. Freccero e il capostruttura Antonio Azzalini assistono alla registrazione per valutarne i contenuti prima del montaggio tecnico definitivo, che Luttazzi esegue il giorno seguente, a ridosso della messa in onda.

L’addetta al casting Raffaella Fioretta telefona a Travaglio per concordare la data: 13 marzo. Quel martedì sera Luttazzi registrerà la puntata che verrà trasmessa l’indomani, in seconda serata. Travaglio chiede di poter incontrare Luttazzi qualche minuto prima della registrazione. I due non si conoscono e, vista la delicatezza e la complessità dei temi trattati nel libro, il giornalista vuole sapere fin dove l’attore intende spingersi con le domande. Viene convocato in studio per le 20, un’ora prima della registrazione. Si sottopone al rito riservato dalla produzione (Bibi Ballandi) a tutti gli ospiti di Satyricon, all’insaputa di Luttazzi: posa per un’istantanea, sulla quale gli viene chiesto di scrivere a pennarello una dedica al conduttore. Scrive queste parole: «Ecco un teppista (quasi) paragonabile a te. Uno che, con quel che dirà, anticiperà la chiusura di Satyricon». Luttazzi, bloccato dal traffico, arriva qualche minuto dopo le 20,30. Appena in tempo per cambiarsi, incontrare la regista Franza Di Rosa per gli ultimi dettagli, salutare di corsa gli ospiti e infilarsi in studio. Travaglio riesce a malapena a stringergli la mano, senza poter concordare nulla.

L’intervista, dunque, è senza rete. Il comico fa domande su tutto quanto ha letto nel libro: la mafia, le stragi, lo «stalliere» mafioso, i soldi di dubbia origine, la nascita di Forza Italia. Il pubblico ascolta ammutolito in 26 minuti d’intervista, interrompendo più volte con applausi. Alla fine Luttazzi dice a Travaglio: «A questo punto mi chiedo in che paese viviamo. Comunque volevo ringraziarti perché, scrivendo questo libro e parlando come fai, dimostri di essere un uomo libero. E non è facile trovare uomini liberi in quest’Italia di merda». Travaglio ricambia: «Sai chi mi ricordi? Quel governatore della Pennsylvania che un giorno si presentò in televisione, si infilò la canna di una pistola in bocca,e si sparò».

Dietro le quinte, il giornalista incontra un Freccero molto emozionato che gli dice: «Sei stato efficacissimo. Se potessi, ti darei subito un programma. Ma, da domani sera, non avrò più una rete...». Finito di registrare, Luttazzi domanda a Freccero: «L’intervista a Travaglio può andare in onda?». Il direttore lo rassicura: «Certamente. Travaglio non ha fatto altro che raccontare i documenti del suo libro».

Da un pezzo Luttazzi è un sorvegliato speciale. Ha annusato gli slip rossi di Anna Falchi. Ha mangiato una finta cacca di cioccolato in risposta al consigliere Rai Alberto Contri che gliel’aveva suggerita come l’ultima cosa disgustosa che gli restava da fare. Ha intervistato Marco Pannella che ha attaccato la Chiesa per la sua posizione sulla droga, la pillola del giorno dopo e il preservativo («un brutale attacco al Papa», per l’«Osservatore romano»). E poi Paolo Flores d’Arcais, che ha rincarato la dose sul cardinale Camillo Ruini e su Massimo D’Alema. Visti i precedenti, ogni mercoledì mattina il consiglio d’amministrazione Rai convoca Freccero per conoscere in anticipo il menu di Satyricon. Il mattino del 14 marzo il direttore rassicura: «Stasera niente sesso né coprofagia». I consiglieri, visibilmente sollevati, dimenticano di informarsi su cos’è invece previsto.

La sera, appena partita la sigla, Freccero spegne il cellulare e si gode lo spettacolo. In quelle stesse ore Maurizio Gasparri arriva negli studi di Rai3 per partecipare a una puntata di Mediamente, il programma di Carlo Massarini sulle nuove tecnologie informatiche. In attesa di andare in onda, fa zapping e s’imbatte in Satyricon. Pochi minuti dopo, quando Massarini comincia a interrogarlo su Internet, esplode: «Ma quale Internet, su Rai2 stanno dando del mafioso a Berlusconi! Questa Rai è una vergogna!».

Forse, alla Casa delle Libertà, sarebbe convenuta la strategia del silenzio: a parte i quasi 3 milioni di fedelissimi di Luttazzi, nessun altro avrebbe saputo di quel libro e del suo contenuto. Ma la sparata di Gasparri innesca la corsa allo stracciamento di vesti, la gara alla dichiarazione più indignata. Alle 23,57 l’Ansa dirama quella di Mario Landolfi (An), presidente della commissione di Vigilanza: «La misura è colma. Quello che è andato in onda stasera non ha precedenti nella storia della tv. Il programma di Luttazzi va chiuso e Freccero deve essere allontanato. Zaccaria e tutto il vertice Rai devono dare le dimissioni». Gli fa eco, per non esser da meno, Paolo Romani, responsabile per l’informazione di Forza Italia: «È stato un attacco proditorio, vergognoso, senza precedenti contro il presidente Berlusconi sul servizio pubblico. Richiediamo una riunione immediata della commissione di Vigilanza per chiedere le dimissioni dell’attuale vertice Rai e dei suoi direttori. Un’azienda totalmente allo sbando non è più in grado di gestire il servizio pubblico nella prossima campagna elettorale». Alle 2 del mattino, Freccero chiama Travaglio: «Ho riattaccato ora il cellulare. Meglio che non ti dica chi ha chiamato la segreteria telefonica, e cosa ha lasciato detto». Freccero e Zaccaria (che non sapeva nulla dell’intervista a Travaglio) difenderanno a spada tratta la libertà di Satyricon. E pagheranno prezzi altissimi.

Pubblicato il: 03.11.07
Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.22   
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 09, 2007, 05:50:10 pm »

SIGNORNÒ

Falso non fare, paura non avere

di Marco Travaglio


Il governo Prodi ripristina il falso in bilancio. Ma l'ex senatore Ds mette il lutto e parla di 'riforma giacobina'  Romano ProdiFinalmente una buona notizia: il governo Prodi ripristina il falso in bilancio com'era prima di Berlusconi, autore della controriforma del 2002 che di fatto cancellava per legge il reato di cui lui stesso era imputato. E che, come scrisse la bibbia del capitalismo mondiale, 'The Economist', "farebbe vergognare anche una repubblica delle banane". Per i reati futuri non leggeremo più sentenze di assoluzione con l'imbarazzante formula "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Tutti i veri liberali, sempre pronti a tirar fuori dal taschino il 'modello americano', dovrebbero esultare. O magari chiedere - come fa Giacomo Lunghini sul 'Sole 24 ore' - che la nuova legge venga ritoccata per farvi rientrare le sanzioni previste dalla 231/2001 sulla responsabilità penale delle società (pare che il testo del governo se la sia scordata).

Invece il cosiddetto 'liberal' Franco Debenedetti, ex senatore Ds, mette il lutto. E straparla sul 'Corriere della sera' di "riforma giacobina" perché "l'aumento delle pene consente l'uso di intercettazioni e di altri strumenti della demagogia penale". Ma le intercettazioni non sono giacobine (ai tempi della Rivoluzione francese non c'erano telefoni né microspie): sono un prezioso mezzo investigativo per scoprire i reati, soprattutto quelli invisibili che si consumano nelle segrete stanze. Tant'è che negli Usa, non nella Francia di Robespierre, anche la Sec (la versione seria della nostra Consob) può disporre intercettazioni per smascherare i reati finanziari. Che senso ha prevedere un fatto come reato, se poi non si forniscono ai controllori gli strumenti per scoprirlo? Debenedetti lamenta poi la scomparsa delle "soglie minime al di sotto delle quali la punibilità era esclusa".

Rimpiange la norma più tragicomica della legge berlusconiana, che consentiva il falso in bilancio in 'modica quantità' (come per la droga, per uso personale): fino al 5 per cento del risultato d'esercizio, fino al 10 delle valutazioni e fino all'1 per cento del patrimonio netto. Una franchigia enorme, che permetterebbe all'Eni di stornare ogni anno fondi neri fino a 190 milioni di euro, alla Pirelli fino a 140, all'Eni fino a 400, alla Fiat fino a 80 e alla Fininvest fino a 40. Quanto basta, volendo, per mantenere a suon di mazzette la classe politica di tutta Europa. L'ex senatore teme pure "l'ingolfamento degli uffici giudiziari". Ma, se pensa che l'aggravio sarà così enorme da sovraccaricare i tribunali già oberati da 3 milioni di nuovi processi all'anno, vuol dire che ha notizia che migliaia di aziende hanno i bilanci falsi: il che basta e avanza a giustificare la riforma Prodi come sacrosanta. Se poi gl'imprenditori temono le manette, le intercettazioni e l'ingolfamento dei tribunali, hanno un sistema semplicissimo per scongiurare i rischi: non truccare i bilanci.

(08 novembre 2007)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 22, 2007, 06:54:11 pm »

L'uso criminoso della Tv

Marco Travaglio


Chapeau. Nemmeno il più feroce demonizzatore, il più accanito antiberlusconiano poteva immaginare la meticolosità, la scientificità, la capillarità del controllo esercitato su ogni minuto, ogni minimo dettaglio di programmazione Rai dagli uomini Mediaset infiltrati da Silvio Berlusconi nel cosiddetto “servizio pubblico”.

Intendiamoci: la fusione Rai-Mediaset in un’indistinta Raiset al servizio e a maggior gloria del Cavaliere si notava a occhio nudo e questo giornale, da Furio Colombo in giù, l’ha sempre denunciato. Ma le intercettazioni della Procura di Milano, disposte nell’inchiesta sul fallimento del sondaggista del Cavaliere, Luigi Crespi, e pubblicate da Repubblica dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio la privatizzazione della Rai da parte della “concorrenza” e la sua trasformazione in una succursale di Mediaset.

Da sette lunghi anni, cioè da quando Berlusconi tornò al governo e occupò militarmente Viale Mazzini, la Rai è cosa sua, un feudo privato da usare per blandire gli amici, manganellare i nemici, ammonire gli alleati appena un po’ critici, ma soprattutto per celebrare le gesta del Capo. Tacendo le notizie scomode, enfatizzando quelle comode, parlando solo di quel che vuole Lui. Non c’è voluto molto per ridurre quella che fu la prima azienda culturale d’Europa e alfabetizzò l’Italia in una miserabile Pravda ad personam: è bastato sistemare una dozzina di visagisti, truccatori e politicanti berlusconiani nei posti giusti e lasciarne molti di più sulle poltrone precedentemente occupate. Intanto venivano cacciati i Biagi, i Santoro e i Luttazzi, poi le Guzzanti e gli altri della seconda ondata, incompatibili col nuovo corso.

Ma non perché fossero “di sinistra”. Perché sono fior di professionisti: con due o tre programmi ben fatti avrebbero rovinato tutto. Se qualcuno li chiama per pregarli di nascondere i dati delle elezioni amministrative per non far soffrire il Cavaliere, quelli mettono giù («uso criminoso della televisione pagata coi soldi di tutti»).

I rimasti, invece, obbediscono ancor prima di ricevere l'ordine. Si spiegano così non solo le epurazioni bulgare e post-bulgare, ma anche lo sterminio delle professionalità, soprattutto nella rete ammiraglia di Rai1, affidata (tuttoggi) al fido Del Noce: uno che, oltre ad aver epurato Biagi, è riuscito a litigare persino con Baudo, Arbore, Frizzi, Carrà e Celentano. Chi ha idee e talento ha più séguito, dunque è più libero e meno censurabile, ergo inaffidabile. I superstiti, invece, sono pronti a qualunque servizio e servizietto. Il Papa sta morendo e il Ciampi prepara un messaggio a reti unificate?
Anziché preoccuparsi che la Rai copra la notizia meglio della concorrenza, i dirigenti berlusconiani pianificano una degna uscita mediatica del Capo, onde evitare che il Quirinale lo oscuri. Il Papa muore proprio alla vigilia delle amministrative, distraendo gli elettori cattolici dal dovere di correre alle urne per votare il Capo? Si organizza una serie di «programmi che diano alla gente un senso di normalità, al di là della morte del Papa, per evitare forte astensionismo alle elezioni amministrative».

Più che un servizio pubblico, un servizio d’ordine. In cabina di regia c’è la signorina Deborah Bergamini, detta “Debbi”, già assistente del Cavaliere, da lui promossa capo del Marketing strategico della Rai, mentre Alessio Gorla, già dirigente Fininvest e Forza Italia, diventava responsabile dei Palinsesti. Al resto pensano i servi furbi. Mimun, si sa, era in prestito d’uso da Mediaset, dov’è poi morbidamente riatterrato. Non c’è neppure bisogno di dirgli il da farsi: lo sa da sé. E poi assicurano Debbi e Delnox - fa un ottimo «gioco di squadra con Rossella» (Carlo, allora direttore di Panorama, molto vicino al premier e dunque alla Rai).

Anche Vespa non ha bisogno di suggerimenti. Del Noce telefona a Debbi per avvertirla che «Vespa ha parlato con Rossella e accennerà in trasmissione al Dottore (Berlusconi, ndr) a ogni occasione opportuna». Qualcuno suggerisce che Bruno potrebbe «non confrontare i voti attuali con quelli delle scorse regionali», per mascherare meglio la disfatta del Capo, o magari «fare più confusione possibile per camuffare la portata dei risultati». Ma poi si preferisce lasciarlo libero di servire come meglio crede, perché dice giustamente la Debbi «tanto Vespa è Vespa». Ogni tanto c’è un problema: Mauro Mazza, troppo amico di Fini per piacere a Forza Italia, farà la prima serata di Rai2 sulle elezioni. Bisogna sabotarlo, perché quello magari i dati non li nasconde.

Idea geniale: Deborah parla con Querci «e gli chiede di mettere una cosa forte in prima serata su Canale5», così la gente guarda quella e lo speciale Mazza non se lo fila nessuno. Del resto è un’abitudine, per lei, concordare i palinsesti con Mediaset: più che del Marketing della Rai, è la capa del Marketing di Berlusconi. Infatti, ancora commossa, commenta così i funerali di Giovanni Paolo II: «Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere». Si sa com’è fatto il Cavaliere: «Ai matrimoni - diceva Montanelli - vuol essere lo sposo e ai funerali il morto».

In tutti questi anni, mentre ogni inquadratura di ogni telecamera di ogni programma diurno e notturno di Raiset veniva controllata dai guardaspalle del Padrone, chiunque si azzardasse anche soltanto a ipotizzare che questi signori lavorassero per il re di Prussia, anzi di Arcore, veniva zittito dai “terzisti” e dai “riformisti” come “demonizzatore” e “apocalittico” animato da “cultura del sospetto”, incapace di comprendere che le tv non contano per vincere le elezioni; anzi, a parlar male di Berlusconi si fa il suo gioco. Poi veniva querelato e citato in giudizio per miliardi di danni dai Del Noce e dai Confalonieri, sdegnati dalle turpi insinuazioni sulla liaison Rai-Mediaset nel paradiso della concorrenza e del libero mercato. Dirigenti come Loris Mazzetti e Andrea Salerno, rei di aver chiamato censure le censure, sono stati perseguitati dall’azienda con procedimenti disciplinari. L’ultima è piovuta su Mazzetti,per aver partecipato ad AnnoZero e detto la verità sull’epurazione del suo amico Biagi.

Salerno, già responsabile della satira per Rai3 quando c’era ancora la satira, ha preferito togliere il disturbo. Intanto Confalonieri non si perdeva una festa de l’Unità e le quinte colonne berlusconiane facevano carriera in Rai, tant’è che sono ancora tutte lì: Del Noce a Rai1, Bergamini al Marketing, Vespa a Porta a porta. Tutti straconfermati dalla “Rai del centrosinistra”.

Ora si spera che, oltre alla solita “indagine interna”, fiocchino i licenziamenti per giusta causa, (con richiesta di danni per intelligenza col nemico) almeno per chi ha lasciato le impronte digitali nello scandalo, come accadrebbe ai manager di qualunque azienda sorpresi ad accordarsi con la concorrenza. Ma, onde evitare che la scena si ripeta in un prossimo futuro, licenziare i servi di Berlusconi non basta. Occorre una vera “legge Biagi” (nel senso di Enzo) per cacciare per sempre i partiti dalla Rai e stabilire finalmente l’ineleggibilità dei proprietari di giornali e tv. Sempreché, si capisce, la cosa non disturbi il «dialogo per le riforme». E ora, consigli per gli acquisti.

Pubblicato il: 22.11.07
Modificato il: 22.11.07 alle ore 12.57   
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 13, 2007, 07:10:47 pm »

Il mercato di Palazzo Madama: dal capocomico alla spalla

Marco Travaglio


Il supermarket dei senatori che ha innescato l'ennesima accusa di corruzione a Silvio Berlusconi s'inserisce perfettamente nella nuova stagione politica delle «larghe intese», ultimo approdo della commedia all'italiana, a cura di Castellano & Pipolo. Titolo: «Ok il prezzo è giusto» o «Chi vuol esser milionario». Ecco personaggi e interpreti, in ordine di apparizione.

Berlusconi Silvio, il capocomico. Un tempo si comprava Craxi e quello gli faceva due decreti salva-tv più la legge Mammì. Si comprava il giudice Metta e quello gli regalava la Mondadori. I suoi manager si compravano la Guardia di Finanza (a sua insaputa, s'intende) e quella chiudeva un occhio, anzi due sui bilanci del gruppo. E si compravano pure l'avvocato inglese David Mills (senza dirgli nulla, si capisce) perché testimoniasse il falso nei processi a suo carico. Il grande venditore era anche un formidabile compratore: mostrava il libretto degli assegni, diceva «scriva lei la cifra», e di solito funzionava. Ora, per dire com'è ridotto, telefona ad Agostino Saccà perché «sollevi il morale del Capo» sistemandogli certe «attrici» (ieri l'ometto le ha definite «artiste discriminate perché non di sinistra», insomma ideologhe anticomuniste, un po' come quelle che sedevano sulle sue ginocchia nel parco di Villa Certosa). Una, fra l'altro («la Evelina») sarebbe amica di un senatore dell'Unione «che mi può essere utile per far cadere il governo Prodi». E il governo non cade. Allora corteggia e coccola un senatore dell'Oceania, promettendogli un posto nel suo eventuale, prossimo governo (il famoso «sottosegretariato all'Australia»), e la piazza numero 2 nelle liste nazionali di Forza Italia (o come diavolo si chiama adesso) alle presunte elezioni anticipate. Il tutto con la stessa credibilità con cui Totò vendeva la fontana di Trevi all'italoamericano Decio Cavallo, che lui chiamava Caciocavallo. Solo che, diversamente, da Decio Cavallo, il senatore Randazzo non abbocca e lo manda a stendere, inseguito dal povero Cavaliere che gli promette addirittura «un contratto», millanta «ho con me Dini e i suoi» e lo implora in ginocchio: «Mi basta anche solo una piccola assenza...». Poveretto, come s'offre.

Randazzo Nino, l'antagonista. L'uomo che resiste impavido (e inedito) alle profferte del Grande Compratore è un vecchio giornalista italoaustraliano d'altri tempi, che dinanzi ai contratti e alle promesse risponde: «Sono stato eletto col centrosinistra e dunque resto fedele al centrosinistra perché ho una mia moralità». Alla parola «moralità», il Cavaliere chiama Bonaiuti e chiede un dizionario: dev'essere un termine australiano, comunque arcaico. Poi capisce che non c'è nulla da fare: la lunga permanenza all'estero deve aver guastato il senatore, non troppo aggiornato sulle prassi recenti della nostra politica. Affranto per l'affronto, il Cavaliere ripiega sugli italiani doc.

Nick Scavi, il buttadentro. Imprenditore australiano, si materializza alle spalle di Randazzo un giorno che questo sta passeggiando alla galleria Alberto Sordi, a Roma. Da quel momento diventa il suo angelo custode, gentile omaggio del Cavaliere: «Voglio offrirti la possibilità di diventare milionario», gli dice, e pare gli mostri un assegno in bianco accompagnato dalla frase: «Scrivi tu la cifra, fino a 2 milioni». Il suo ruolo è simile a quello delle ragazze buttadentro che accalappiano i giovanotti davanti alle discoteche. Ma Randazzo, tetragono, resiste anche alle sue sirene.

Saccà Agostino, la spalla. Calabrese, giornalista (chi non lo è?), craxiano, poi forzista, poi dalemiano, poi di nuovo forzista («voto Forza Italia come tutta la mia famiglia»), nel 2002 fu l'esecutore materiale dell'editto bulgaro del Capo contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Da allora si garantì una serena vecchiaia. Da direttore generale dovettero cacciarlo perché in un anno la sua Rai aveva perso 4 punti di share su Mediaset: sull'onda dell' entusiasmo, era andato anche oltre il mandato. Ma lo sistemarono a Raifiction, una specie di grotta di Alì Babà piena d'oro, che lui amministra da par suo con gli amici degli amici. Ultimamente, mentre partecipava alla campagna acquisti berlusconiana dei senatori e preparava la fiction sul Barbarossa («Bossi non fa che parlarmene», insisteva il Cavaliere), si spacciava per veltroniano: pare che, per essere credibile, pronunciasse solo parole che iniziano con la w: walter, wafer, water, woobinda, wow, woody allen, watussi, wonderbra. Soprattutto wonderbra.

De Gregorio Sergio, il servo furbo. In controtendenza col proliferare in politica di servi sciocchi, il senatore ex socialista, ex forzista, ex democristiano, ex dipietrista, neo forzista ha recuperato la tradizione plautiana del servo furbo. Eletto nel 2006 con l'Italia dei Valori per nobili motivi ideali -un posto da sottosegretario- fu deluso quando non l'ottenne e cominciò a fare la fronda. Intanto fu indagato a Napoli per certi assegni trovati in mano a un contrabbandiere. E cominciò a votare contro la maggioranza che l'aveva eletto. L'improvvisa sintonia programmatica con la Cdl fu corroborata dalla promessa berlusconiana di finanziare la sua associazione Italiani nel mondo con 5 milioni di euro l'anno. Con tanto di contratto spedito via fax e addirittura firmato - scrive <CF74>Repubblica</CF> - dall'ingenuo Bondi.

Fuda Pietro, servitor di due padroni. Calabrese, già forzista, poi margherito, poi numero 2 del Pdm di Loiero, indagato per storie di 'ndrangheta, balzò alle cronache un anno fa per un comma di poche righe che mandava salvi centinaia di pubblici amministratori nei guai con la Corte dei conti per reati contabili. Saccà, suo conterraneo, lo contatta poi riferisce: «Fuda vuol far sapere al Capo che il suo cuore batte sempre a destra, anche se oggi è costretto a stare a sinistra. Ma se gli toccano gli interessi e le cose sue, darà un aiuto al Cavaliere in Parlamento». Ecco, anche Fuda c'ha le cose sue.

P. S. C'è poi da segnalare Fausto Bertinotti che protesta vibratamente con la Procura di Napoli per la «fuga di notizie» e per eventuali «intercettazioni di parlamentari». Speriamo che il Presidente della Camera trovi anche tempo e modo per allarmarsi della compravendita di senatori in corso nell'altro ramo del Parlamento. 


Pubblicato il: 13.12.07
Modificato il: 13.12.07 alle ore 15.59   
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« Ultima modifica: Dicembre 21, 2007, 06:38:11 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:37:27 pm »

Il coraggio di Mancino

Marco Travaglio


«Il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può non pubblicarlo. Il diritto di cronaca è garantito dalla Costituzione». L’ha ripetuto due volte nel giro di una settimana il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino. Ora, ringraziare un politico, fra l’altro piuttosto antico, perché banalmente riconosce - bontà sua - ai giornalisti il diritto-dovere di fare il proprio mestiere di informare, è bizzarro, ma doveroso. Perché l’ovvio e il banale, in un paese che ha smarrito i fondamentali, diventano quasi rivoluzionari. Infatti di solito, quando parlano di giornalisti, i politici dicono tutt’altro. E pensano anche peggio.

Tant’è che soltanto otto mesi fa la Camera approvava trionfalmente il disegno di legge Mastella che mette la museruola ai giornali su intercettazioni e atti d’indagine con 447 voti favorevoli, 7 astenuti e nessun contrario (nemmeno uno). La maggioranza più bulgara mai vista nella storia recente: dai fascisti storaciani ai comunisti terzinternazionalisti.

Se la stessa corrispondenza di amorosi sensi della casta degl’intoccabili si ripetesse anche in Senato, la legge entrerebbe in vigore e metterebbe il silenziatore sui grandi scandali della politica e dell’economia, ma consentirebbe pure alla magistratura di operare per anni nell’ombra, lontano da quel controllo sociale che il Parlamento, nel 1989, ritenne doveroso abrogando il segreto istruttorio affinché il popolo italiano potesse verificare come viene amministrata la Giustizi nel suo nome.

Il ddl Mastella+447 si impernia, infatti, sul principio abominevole secondo cui il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può e non deve pubblicarlo. Altrimenti rischia una multa fino a 100 mila euro o, in alternativa, una pena detentiva.

E, si badi bene, il divieto di pubblicazione non riguarda le notizie coperte dal segreto, che già oggi è vietato pubblicare. Riguarda gli «atti non più coperti da segreto». Oggi quegli atti, se riportati integralmente, costano al giornalista un’oblazione di 240 euro. In futuro, con l’elevazione della multa a 100 mila, saranno oblazionabili a 50 mila euro: 100 milioni di lire, una somma che nessun giornalista può permettersi. Solo un editore può sobbarcarsi un simile esborso. Così saranno gli editori a decidere, di volta in volta, se se autorizzare o meno il proprio giornale la pubblicazione di un atto, anche non segreto. Diranno sì se converrà ai loro interessi, cioè se quell’atto mette in cattiva luce un loro avversario politico o affaristico, mentre se dispiacerà a loro o ai loro amici, o semplicemente sarà interessante per i cittadini, lasceranno perdere.

La libertà d’informazione sarà affidata alle guerre per bande tra editori, che poi sono anche e soprattutto banchieri, finanzieri, costruttori, imprenditori, palazzinari, politici o amici di politici o suoceri di politici. E la politica sarà ancor più sotto ricatto di quanto lo sia oggi, perché intercettazioni e altri atti giudiziari «non coperti da segreto» saranno comunque noti a giornalisti ed editori, che potranno eventualmente far sapere ai personaggi interessati di averli in pugno e contrattare con loro il prezzo del silenzio.

Un altro ovvio quanto rivoluzionario passo in avanti, Mancino lo compie quando parla di «segreto investigativo», invece di ripetere la solita giaculatoria del «segreto istruttorio». Che è stato abrogato nel 1989, com’è noto a tutti gli addetti ai lavori, fuorché a coloro che lo abrogarono.

E come ha finalmente riconosciuto lo stesso presidente Giorgio Napolitano, che nei giorni dello scandalo Rai-Mediaset aveva invece invocato il «segreto istruttorio». I due segreti non si differenziano soltanto per il nome, ma per la sostanza. Il segreto istruttorio copriva come un sudario tutta l’istruttoria: sino al termine delle indagini, non si poteva sapere né scrivere nulla. I magistrati operavano sott’acqua, all’insaputa della stampa e dei cittadini. Il segreto investigativo o «delle indagini», invece, ha due particolarità. Anzitutto è posto a esclusiva tutela delle indagini: non degli indagati.

Decide il pm quando cessa l’interesse dell’indagine a nascondere all’indagato che si indaga su di lui. A quel punto lo avverte, o con l’avviso di garanzia per notificargli l’accusa, o con l’invito a comparire per interrogarlo, o col mandato di perquisizione per perlustrargli la casa o l’ufficio, o con l’ordine di custodia cautelare per arrestarlo, o con l’ordinanza di sequestro per portargli via qualche bene. In quel preciso istante, da quando l’indagato ne «ha conoscenza» o «può avere conoscenza», l’atto non è più segreto. Com’è noto all’indagato e al suo difensore, può essere divulgato ai cittadini.

Tant’è che, se il pm decide che è meglio che resti riservato per un po’, ne dispone la «segretazione». Quando,dunque, i giornali raccontano il contenuto avvisi di garanzia, inviti a comparire, verbali di interrogatorio, ordinanze di sequestro o di perquisizione o di custodia, magari citando intercettazioni o altre fonti di prova, non violano alcun segreto. Se li riportano dalla prima all’ultima parola, incappano nell’anacronistico divieto di pubblicazione integrale, oblazionano a 240 euro e morta lì. È il caso, per esempio, della telefonata Berlusconi-Saccà pubblicata ieri dal sito dell’Espresso senz’alcuna violazione del segreto, in quanto contenuta negli atti depositati a disposizione delle parti a chiusura dell’indagine della Procura di Napoli.

Tutt’altra questione sono gli atti segreti, che sono pochi ma pure esistono. Per esempio, lo scoop di Repubblica sulla stessa indagine napoletana (che una settimana fa non era ancora giunta al deposito degli atti) a carico di Berlusconi, Saccà e altri sulla compravendita di senatori e sulle ragazze raccomandate a Raifiction. Dice autorevolmente Mancino, «il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può non pubblicarlo», ma «chi fa uscire una notizia che invece non deve uscire si rende responsabile di violazione del segreto investigativo». Come ha fatto Repubblica nel darne la notizia, ancorché segreta. Come ha fatto il Giornale pubblicando la famosa telefonata Fassino-Consorte, ancora top secret, e il nome di Silvio Siricna come possibile oggetto di ricatti da parte del clan Corona. Il giornalista deve, se la notizia è vera e di interesse pubblico, violare i segreti: poi naturalmente si assume la responsabilità di aver infranto la legge e dunque accetta le conseguenze della sua violazione. E cioè l’indagine a suo carico, con lo spiacevole corollario di perquisizioni, per violazione del segreto in concorso con il pubblico ufficiale (magistrato o investigatore) che gli ha spifferato la notizia segreta. Dovendo coprire le sue fonti, il giornalista ha il dovere di tacere il nome di chi gli ha dato la notizia, anche a costo di farsi indagare per reticenza o favoreggiamento. Il che spiega perché raramente le fughe di notizie trovano un colpevole.

Ricapitolando. In un sistema liberale, gli atti non segreti devono essere sempre pubblicabili, possibilmente integrali e testuali, onde evitare manipolazioni del giornalista (dunque il ddl Mastella+447 non deve proprio esistere); e gli atti segreti devono restare non pubblicabili, ma se il giornalista se li procura ha il dovere di pubblicare anche quelli, accettando poi di risponderne della propria violazione dinanzi alla legge. Ma siamo in Italia, dunque va tutto a rovescio: quando esce una notizia non segreta, si tuona alla violazione del segreto istruttorio (che non esiste più da 18 anni). Poi si fa una legge per vietare la pubblicazione di notizie non segrete, a riprova del fatto che oggi non è vietata.

Ma si può fare il giornalista in un manicomio simile?

Pubblicato il: 21.12.07
Modificato il: 21.12.07 alle ore 8.15

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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:39:35 pm »

Marco Travaglio.

Salvate il soldato Latorre


La giunta di Palazzo Madama non ha ancora messo all'ordine del giorno la discussione sull'uso delle intercettazioni dei casi Unipol-Bnl e Bpl-Antonveneta che vedono coinvolto anche il vicecapogruppo ulivista al senato Nicola Latorre

Il 20 dicembre compie cinque mesi la richiesta di autorizzazione all'uso delle intercettazioni dei casi Unipol-Bnl e Bpl-Antonveneta avanzata il 20 luglio alle Camere dal gip Clementina Forleo. Montecitorio ha già autorizzato l'uso delle telefonate di due dei tre deputati coinvolti - il ds Piero Fassino e il forzista Salvatore Cicu - e ha rispedito al mittente quelle di Massimo D'Alema, sostenendo la competenza del Parlamento europeo. Invece la giunta di Palazzo Madama dorme sonni profondi e, a 150 giorni di distanza, non ha neppure messo all'ordine del giorno la discussione sul vicecapogruppo dell'Ulivo Nicola Latorre (per le sue telefonate con Giovanni Consorte e Stefano Ricucci) e sui senatori forzisti Luigi Grillo e Romano Comincioli (per i loro amabili conversari con la signora Fazio e con Gianpiero Fiorani).

La scusa accampata inizialmente era la necessità di attendere la sentenza della Corte costituzionale sulla legge Boato che regola l'utilizzabilità delle intercettazioni che coinvolgono parlamentari. Ma poi, il 25 ottobre, la sentenza è arrivata: non occorre l'ok del Parlamento per usare le telefonate contro il non-parlamentare che parla col parlamentare. Che cos'aspetta dunque il Senato a dire sì o no alla Forleo? Che venga trasferita dal Csm, magari nella speranza che le subentri un gip più malleabile? Sia come sia, questa melina è un pessimo spettacolo. Per il Senato e per i tre senatori coinvolti. Soprattutto per Latorre, l'unico che in caso di autorizzazione - come preannunciava il gip - rischia di finire indagato dalla Procura di Milano per concorso nel presunto aggiotaggio di Consorte. Nemmeno il leader del Partito democratico, Walter Veltroni, ci fa una bella figura. Era stato proprio lui, a fine agosto su 'Micromega', a impegnarsi solennemente a nome dei compagni: "Sia Fassino che D'Alema hanno chiesto alla Camera di autorizzare le intercettazioni che li riguardano.

Dunque, nessun limite verrà frapposto all'azione dei giudici". E, siccome 'ubi maior, minor cessat', la promessa doveva valere anche per Latorre. Invece sono trascorsi quasi due mesi e al Senato nulla s'è mosso. Forse è il caso che Latorre solleciti la giunta (a maggioranza di centrosinistra), prima che qualcuno lo sospetti di "frapporre limiti all'azione dei giudici". Anche perché, mentre i senatori dormono, il Csm ha una gran fretta di trasferire la Forleo. E Consorte ha una gran fretta di sfruttare il presunto 'caso Forleo' per ottenere il trasloco del processo Unipol da Milano a Brescia per 'legittima suspicione', sulle orme di Berlusconi e Previti. La legge Cirami sul 'legittimo sospetto', infatti, è più che mai in vigore, anche se l'Unione aveva solennemente promesso di cancellarla insieme alle altre 'leggi vergogna' berlusconiane. Riusciranno i nostri eroi a veder trasferire il proprio giudice naturale e il processo Unipol prima che il Senato sblocchi le telefonate?

(20 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 27, 2007, 06:55:34 pm »

Garantismo modello Casta

Il pm di Catanzaro Luigi De Magistris indaga su sei giudici di Matera e Potenza che avrebbero protetto un comitato d'affari di cui farebbe parte l'avvocato Emilio Buccico 

DI MARCO TRAVAGLIO


Chissà se questa storia riuscirà a smuovere il Csm, il ministro della Giustizia e il Garante della privacy, così giustamente solleciti nel caso della nuova inchiesta su Berlusconi per lo shopping dei senatori e così distratti su altre faccende. Breve riassunto. Il pm di Catanzaro Luigi De Magistris indaga su sei giudici di Matera e Potenza che avrebbero protetto un comitato d'affari di cui farebbe parte l'avvocato Emilio Buccico, senatore di An, già membro del Csm, ora sindaco di Matera, pure lui indagato. Buccico querela un cronista locale. La Procura di Matera allarga l'indagine ad altri quattro giornalisti, tra cui Carlo Vulpio del 'Corriere della Sera', e al capitano dei carabinieri Pasquale Zacheo, che per conto del pm indaga sulle toghe lucane. L'accusa è 'associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione' di Buccico: accusa tanto bizzarra (la diffamazione scatta quando uno scrive, non prima) quanto pesante: diversamente dalla diffamazione, consente le intercettazioni.

Infatti i cronisti e Zacheo vengono intercettati dal 25 maggio al 25 luglio mentre seguono il caso 'toghe lucane' e, com'è prevedibile, parlano pure con De Magistris. Che finisce anche lui intercettato dai colleghi di Matera proprio mentre indaga sul sindaco e su alcuni colleghi di Matera. Nelle intercettazioni c'è di tutto: anche le telefonate professionali di Vulpio con le sue fonti (pm, investigatori, avvocati) e con la direzione del 'Corriere'.

Telefonate finalizzate a verificare le notizie e a farle pubblicare. Ora, il segreto delle fonti del cronista è tutelato dagli articoli 200 e 256 del Codice di procedura penale e può essere violato solo se è indispensabile alle indagini. Invece Vulpio e altri cronisti vengono allegramente ascoltati e perquisiti, con tanto di sequestro dei computer, poi bocciato dal Riesame. Di più. Dal 9 dicembre, vigilia della decisione del Csm sul trasferimento di De Magistris su richiesta del ministro Clemente Mastella, il quotidiano 'Libero' pubblica a puntate i brogliacci delle chiamate fra Vulpio, le fonti e i colleghi.

Telefonate protette dal segreto professionale e coperte dal segreto investigativo, mai depositate - pare - ai difensori e quindi note solo agli inquirenti.
Telefonate penalmente irrilevanti (non c'entrano con l'accusa di concorso morale nell'associazione a delinquere per la diffamazione di Buccico), che non dovrebbero essere nemmeno trascritte. Invece i brogliacci di polizia, che dovrebbero limitarsi a riassumerle, le riportano testuali. E qualche inquirente materano le ha girate a 'Libero'. Così un politico indagato riesce a far indagare, intercettare e screditare giornalisti, investigatori e pm che si occupano di lui. Segnaliamo la galleria degli orrori alle vestali intermittenti della privacy, della libertà di stampa e dell'indipendenza della magistratura.
Casomai fosse sfuggita al Garante, al Csm, alle alte cariche dello Stato, a Mastella e ai suoi ispettori, sempre così scattanti quando c'è di mezzo un socio della Casta.

(27 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 05, 2008, 04:26:04 pm »

Così parlò Mastella

Mesi fa nell'Unione si dava per certo un rimpasto di governo per l'inizio del 2008.

Il primo a partire dovrebbe essere il ministro dell'Interno Giuliano Amato.

E il secondo, a furor di popolo, il cosiddetto ministro della Giustizia 

DI MARCO TRAVAGLIO


Mesi fa nell'Unione si dava per certo un rimpasto di governo per l'inizio del 2008. Un po' per ridurre i 103 fra ministri e sottosegretari. Un po' per rivedere certe competenze e soprattutto certe incompetenze. Con quel che è accaduto col 'decreto sicurezza', scritto coi piedi e bocciato dal Quirinale, il primo a partire dovrebbe essere il ministro dell'Interno Giuliano Amato. E il secondo, di diritto, anzi a furor di popolo, il cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ne fa e ne dice di tutti i colori. Tralasciamo, per carità di patria, quel che fa, e concentriamoci su quel che dice.

Dopo un mese di silenzio, il 9 dicembre a 'Crozza Italia' Mastella ha risposto all'inchiesta de 'L'espresso' sull'uso privato dei fondi del giornale Udeur, 'Il Campanile', finanziato dallo Stato: ad esempio, per l'acquisto di panettoni e torroncini natalizi. Anziché smentire sdegnato un'accusa tanto imbarazzante, il Guardasigilli s'è detto "dispiaciuto per le tante persone che non riceveranno più" quel bendidio. Pare brutto pagare i regali di Natale di tasca propria: o a spese del contribuente, o ciccia. Poi ha confessato che lui sapeva benissimo che il decreto sicurezza conteneva un errore nella parte sull'omofobia, "ma non l'ho detto a nessuno" per farlo saltare. Ora, visto quel che riesce a dire, si spera che Mastella abbia la favella scollegata dal pensiero.

Al suo esordio in via Arenula, lo spensierato ministro andò a Regina Coeli scortato da Giulio Andreotti e annunciò, fra gli stupiti battimani degl'inquilini: "Sarò un Guardasigilli dalla parte più dei detenuti che dei magistrati". Dopodichè mantenne la promessa con l'indulto extra-large e con l'istruttoria-lampo per la grazia a Bruno Contrada. Due mesi fa chiese al Csm di trasferire il pm Luigi De Magistris che indagava su di lui. Poi dichiarò testualmente: "Non mi si può chiedere di fare il lavoro sporco e poi far finta di niente. Non sento le voci della maggioranza dire: ma Mastella che c'entra? Perché ce l'avete con lui?" ('la Repubblica', 20 ottobre).

Senza spiegare chi gli abbia commissionato il lavoro sporco, quale lavoro sporco, e a che titolo un ministro della Giustizia faccia il lavoro sporco. A dicembre, quando Berlusconi è finito sotto inchiesta a Napoli, ha proposto un baratto fra la sua solidarietà al Cavaliere indagato e la solidarietà del Cavaliere a Mastella indagato: "Quando i pm toghe si occupano di lui sono toghe rosse, e quando si occupano di me sono rossonere?". E, nei giorni della strage alla Thyssen Krupp, ha proposto un decreto contro l'"emergenza civile" delle intercettazioni.

Poi ha minacciato le dimissioni, cioè la fine del governo, se la Corte costituzionale non "trova qualche arzigogolo per bocciare il referendum elettorale" ('La Stampa', 15 dicembre).

Possibile che nemmeno questa indecente pressione sulla Consulta sia ritenuta incompatibile con la sua permanenza alla Giustizia? Visto che lo statista di Ceppaloni aveva chiesto fin dall'inizio la Difesa, sarebbe il caso - pur tardivamente - di accontentarlo. Prima che riapra bocca.

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 11, 2008, 11:28:22 pm »

Marco TRAVAGLIO

Gran teatro Contrada

Intorno al caso dell'ex numero 3 del Sisde s'è scatenato il solito guazzabuglio all'italiana che ha finito col confondere le idee a tutti

Intorno al 'caso Contrada', cioè alla sorte dell'ex capo della Mobile e poi della Criminalpol di Palermo, nonché ex numero 3 del Sisde, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, s'è scatenato il solito guazzabuglio all'italiana che ha finito col confondere le idee a tutti e col danneggiare lo stesso Bruno Contrada. 'Merito' anche del suo nuovo difensore, Giuseppe Lipera, avvocato con un passato un po' così (nel 1993 fondò a Catania Sicilia Libera, il partito ispirato dai boss Bagarella, Graviano e Cannella).

Il 20 dicembre Lipera "supplica" Giorgio Napolitano per "un provvedimento di clemenza sua sponte". Cioè la grazia a Contrada, che però non la chiede perché vuole la revisione del processo. Ma per la revisione servono nuove prove, al momento improbabili visto che il processo s'è chiuso appena 7 mesi fa (la Cassazione non ha ancora depositato la sentenza). Quanto alla grazia, non s'è mai vista per un condannato per mafia, che per giunta ha appena iniziato a scontare la pena. Ma Lipera, nell'imbarazzato silenzio degli ex difensori Gioacchino Sbacchi e Piero Milio, insiste con una conferenza stampa al giorno: "Motivi di salute", Contrada "sta morendo in carcere". In realtà contesta il menù del carcere, che non rispetta la dieta anti-diabete suggerita dai medici.

Perciò ha avviato uno sciopero del cibo, che non migliora il suo stato di salute. Napolitano trasmette la pratica a Clemente Mastella che, pressato dalla sua signora Sandra, garantisce "procedura d'urgenza per motivi umanitari". Intanto parte il battage degli innocentisti a prescindere, una variopinta compagnia di giro capitanata da Giuliano Ferrara, Lino Jannuzzi e Stefania Craxi: puntano a demolire una sentenza che ancora non conoscono, con argomenti piuttosto miseri. "Hanno creduto ai mafiosi pentiti e non ai testi della difesa" (oh bella, e chi altri dovrebbe sapere se Contrada aiutava i mafiosi, se non i mafiosi? E poi l'accusa si regge soprattutto sulle parole di poliziotti e giudici come Carla Del Ponte e Giuseppe Ayala). "Lo trattano peggio di Totò Riina" (ma Riina ha diversi ergastoli, mentre Contrada, condannato per aver favorito le latitanze di Riina e altri boss, uscirà nel 2014). "Le sentenze sono contraddittorie" (mica tanto: dopo la condanna in tribunale, la Cassazione ha annullato l'assoluzione del primo appello e confermato la condanna del secondo). In realtà - osserva Rita Borsellino - se Contrada sta male, la via maestra è un'altra: ricovero in ospedale in vista dell'eventuale differimento pena per motivi di salute. Ciò che fa il Tribunale di sorveglianza di Napoli.


Il 28 dicembre Contrada è trasferito al Cardarelli per nuove analisi. Ma riecco Lipera: "È un reparto da incubo, Contrada ha diritto a un ospedale degno del suo rango". Strano: il padiglione è nuovo di zecca, inaugurato a luglio. Contrada firma per uscire, i giudici l'accontentano. Lui, dal carcere, rivendica una "grande amicizia con Paolo Borsellino" (smentito da tutti) e pretende addirittura "un grazie dallo Stato". Chiude in bellezza l'ottimo Lipera, negando di aver mai chiesto la grazia. Ma allora di che s'è parlato per due settimane? A chi ha risposto Napolitano? E quanti avvocati ha Contrada, di grazia?

(11 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 17, 2008, 11:24:09 pm »

"Caro Beppe,

siamo tutti costernati e affranti per quanto sta accadendo al cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella e alla sua numerosa famiglia, nonché al suo partito, che poi è la stessa cosa.

Costernati, affranti, ma soprattutto increduli per la terribile sorte che sta toccando a tante brave persone. Infatti, oltre alla signora Sandra, presidente del Consiglio regionale della Campania, sono finiti agli arresti il consuocero Carlo Camilleri, già segretario provinciale Udeur; gli assessori regionali campani dell’Udeur Luigi Nocera (Ambiente) e Andrea Abbamonte (Personale); il sindaco di Benevento dell’Udeur, Fausto Pepe, e il capogruppo Udeur alla Regione, Fernando Errico, e il consigliere regionale dell’Udeur Nicola Ferraro e altri venti amministratori dell’Udeur. In pratica, hanno arrestato l’Udeur (un mese fa era finito ai domiciliari l’unico sottosegretario dell’Udeur, Marco Verzaschi, per lo scandalo delle Asl a Roma, mentre un altro consigliere regionale campano, Angelo Brancaccio, era finito in galera prima dell’estate quando era ancora nei Ds, ma appena uscito di galera era entrato nell’Udeur per meriti penali).

Mastella, ancora a piede libero, è indagato a Catanzaro nell’inchiesta "Why Not" avviata da Luigi De Magistris e avocata dal procuratore generale non appena aveva raggiunto Mastella, che intanto non solo non si era dimesso, ma aveva chiesto al Csm di levargli dai piedi De Magistris. S’è dimesso invece oggi, Mastella, ma per qualche minuto appena: poi Prodi gli ha respinto le dimissioni, lasciandolo al suo posto che – pare incredibile – ma è sempre quello di MINISTRO DELLA GIUSTIZIA. La sua signora, invece, non s’è dimessa (a Napoli, di questi tempi, c’è perfino il rischio che le dimissioni di un politico vengano accolte): dunque, par di capire, dirigerà il Consiglio regionale dai domiciliari, cioè dal salotto della villa di Ceppaloni.

Al momento nessuno sa nulla delle accuse che vengono mosse a lei e agli altri 29 arrestati. Ma l’intero Parlamento – con l’eccezione, mi pare, di Di Pietro e dei Comunisti Italiani – s’è stretto intorno al suo uomo più rappresentativo, tributandogli applausi scroscianti e standing ovation mentre insultava i giudici con parole eversive, che sarebbero parse eccessive anche a Craxi, ma non a Berlusconi: insomma la casta (sempre più simile a una cosca) ha già deciso che le accuse - che nessuno conosce - sono infondate e gli arrestati sono tutti innocenti. A prescindere. Un golpetto bianco, anzi nero, nerissimo, in diretta tv.

Nessuno, tranne Alfredo Mantovano di An, s’è domandato come facesse il ministro della Giustizia a sapere che sua moglie sarebbe stata arrestata e a presentarsi a metà mattina alla Camera con un bel discorso scritto, con tanto di citazioni di Fedro: insomma, com’è che gli arresti vengono annunciati ore prima di essere eseguiti? E perché gli arrestandi non sono stati prelevati all’alba, per evitare il rischio che qualcuno si desse alla fuga? Anche stavolta, la fuga di notizie è servita agli indagati, non ai magistrati. E, naturalmente, al cosiddetto ministro.

Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, anziché aprire una pratica a tutela dei giudici aggrediti dal ministro, ha subito assicurato "solidarietà umana" al ministro e ai suoi cari (dobbiamo prepararci al trasferimento dei procuratori e del gip di Santa Maria Capua Vetere, sulla scia di quanto sta accadendo per De Magistris e Forleo?). Il senatore ambidestro Lamberto Dini ha colto l’occasione per denunciare un "fatto sconvolgente: i magistrati se la prendono con le nostre mogli" (la sua, Donatella, avendo fatto fallimento con certe sue società, è stata addirittura condannata a 2 anni e mezzo per bancarotta fraudolenta, pena interamente indultata grazie anche a Mastella).

Insomma, è l’ennesimo attacco ai valori della famiglia tradizionale fondata sul matrimonio: dopo l'immunità parlamentare, occorre una bella immunità parentale.

Come fa osservare la signora Sandra Lonardo in Mastella dai domiciliari, "questo è l’amaro prezzo che, insieme a mio marito, stiamo pagando per la difesa dei valori cattolici in politica, dei principi di moderazione e tolleranza contro ogni fanatismo ed estremismo". Che aspettano a invitarli a parlare alla Sapienza?."

Marco Travaglio
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 18, 2008, 05:11:34 pm »

Più che mazzette, scambio di favori. È il bottino dei «corsari» campani

Marco Travaglio


Soltanto in un paese marcio e mitridatizzato dalle fondamenta qualcuno può accogliere l’ordinanza dei giudici di Santa Maria Capua Vetere su Mastella & famiglia con alzate di spalle, «Così fan tutti», «Embè, dove sta il reato?». Passi per Mastella e per la sua corte, passi per il suo avvocato il quale teorizza addirittura che il compito della politica è occupare tutto l’occupabile: imputati e difensori si difendono come possono, hanno persino (almeno in Italia) il diritto di mentire. Ma che pure persone non coinvolte nell’affare liquidino i fatti narrati nell’ordinanza come ordinaria amministrazione rientrante nella «discrezionalità della politica» senza che la magistratura possa mettervi becco, lascia di stucco.

È vero, il clamore suscitato dall’inchiesta faceva pensare a elementi ancor più gravi (in quel caso il gip avrebbe usato la galera, non i domiciliari): ma solo l’assuefazione al peggio può far dire che non c’è nulla di «penalmente rilevante». Mastella ripete di non aver «mai preso tangenti in vita mia», come se questo bastasse a metterlo al riparo dal codice penale.

In realtà esistono, nel codice, svariati reati che non richiedono passaggi di denaro. Le mazzette, nel «sistema» denunciato in Campania, sono superflue: è tutto uno scambio di favori «in natura». Io ti mando in quel posto e ti lascio licenza di rubare: un po’ come i corsari di sir Francis Drake, autorizzati dalla Regina a tenersi il bottino. Insomma un conto sono le esigenze cautelari, giudicate in un modo dal Gip e suscettibili di diversa analisi al Riesame e in Cassazione, un altro la rilevanza penale. L’ordinanza parla di «concorsi pubblici vinti non dai candidati meritevoli, ma esclusivamente da quelli sponsorizzati da Camilleri (Carlo, imprenditore, consuocero di Mastella e presidente dell’Autorità di bacino del Sele, ndr) e dal suo partito», con «falsificazione delle graduatorie». Se la cosa fosse provata, sarebbe abuso d’ufficio, il reato di chi viola leggi o regolamenti per procurare ad altri ingiusto danno o vantaggio.

Il gip parla di cause «aggiustate» al Tar e al Consiglio di Stato, tramite giudici compiacenti: pure questo, se provato, è reato. La giustizia, anche amministrativa, dev’essere uguale per tutti. Anche per i non-Udeur.

L’ordinanza racconta di primari «nominati dai direttori generali dell’Asl non in base a capacità professionali, ma di indicazioni fornite da esponenti Udeur» («noi non teniamo un ginecologo?», domanda il ministro quando viene nominato il fratello di un forzista). Idem per le nomine di 11 direttori dei parchi e di 5 collaboratori fissi dell’Arpac. Se è così, anche questi sono abusi d’ufficio: leggi e regolamenti stabiliscono che, per fare il primario (o altra funzione pubblica) occorrono requisiti precisi, cioè competenze professionali, dalle quali parrebbe esclusa la tessera dell’Udeur. Il direttore pressato dai Mastella, Luigi Annunziata, spiega che «l’ospedale già sta male e le persone che stanno intorno a Clemente sono tutti peggio di me» e lui non può abbassare ancora il livello dei primari sistemando il neurochirurgo della signora Mastella, «uno sconosciuto che tiene 56 anni».

A Cerreto Sannita, Mastella reclama l’assessorato ai lavori pubblici e, per far pressione sul sindaco, incarica – secondo l’accusa – i suoi uomini in Regione per chiudere il rubinetto dei finanziamenti al piano d’insediamento produttivo nel comune. Se è così, questa potrebbe essere concussione: il reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità o funzione per costringere o indurre qualcuno a dargli o promettergli «denaro o altra utilità» (un posto chiave, per esempio).

Ma c’è una complicazione, tutta italiana: la giurisprudenza nostrana ha stabilito che, se la contropartita ottenuta dal pubblico ufficiale con le sue minacce è un provvedimento votato in consiglio regionale, i consiglieri che l’han votato non sono punibili (come i parlamentari, immuni per i «voti dati»: una giurisprudenza «domestica» che contrasta con la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa, che punisce anche chi vota in un certo modo in cambio di soldi o di favori).

Se invece la contropartita non è frutto di un voto in Regione, ma di una normale azione amministrativa, allora il discorso cambia: se i finanziamenti a Cerreto erano fissati per legge e sono stati bloccati in attesa della nomina dell’assessore, chi li ha bloccati può aver commesso abuso d’ufficio, od omissione di atti d’ufficio, o concussione in caso di minacce.

Più arduo sarà dimostrare la concussione di Mastella ai danni di Bassolino: ti boicotto la giunta se non nomini chi voglio io allo Iacp di Benevento. Il boicottaggio della giunta sarebbe avvenuto tramite assessori e consiglieri che gli votavano contro o disertavano le sedute, cioè con attività che – almeno in Italia – sono ritenute insindacabili, cioè immuni. Se però fosse provato che, per premere, fu addirittura sciolto indebitamente l’Asi di Benevento per far designare a commissario un fan di Mastella, l’abuso e la concussione sarebbero teoricamente configurabili.



Ps. Tutto ciò avveniva nel Casertano, la provincia più avvelenata dall’emergenza rifiuti. Ma non risultano telefonate di Mastella & C. per minacciare qualcuno affinchè rimuovesse il pattume (eppure l’Udeur ha l’assessore regionale all’Ambiente). Tutto rientrava nella «discrezionalità della politica», tranne la monnezza.

Pubblicato il: 18.01.08
Modificato il: 18.01.08 alle ore 11.54   
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