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Autore Discussione: Marco TRAVAGLIO -  (Letto 117183 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Maggio 08, 2010, 02:53:31 pm »

Il Paese dei senza vergogna

di Marco Travaglio
 

Più che per i comportamenti indecenti della classe dirigente, la nostra epoca verrà ricordata per l'uso ancor più indecente delle parole usate per coprirli. Prendete Claudio Scajola: tirato in ballo da documenti ormai pubblici dei giudici di Perugia a proposito degli 80 assegni dell'impresario Diego Anemone che, secondo quattro testimoni, sarebbero serviti a pagargli un appartamento di 180 metri quadri con vista sul Colosseo, il ministro parla di "un mezzanino". Si dice "disgustato che il segreto istruttorio finisca sui giornali".

Poi aggiunge: "Non posso dire nulla sul merito per rispetto alla magistratura che sta lavorando". Come se un ministro accusato di rubare potesse difendersi dicendo: "È un segreto". E restare al suo posto perché, beninteso, "non mi lascio intimidire" (ma da chi?). Questa disinvoltura verbale che porta personaggi di primo piano a dire qualunque cosa, nell'assoluta certezza che non saranno mai chiamati a risponderne, contagia anche un'istituzione bimillenaria come la Chiesa.

In pieno scandalo dei preti pedofili, il portavoce vaticano padre Federico Lombardi ribatte che "ci sono pedofili anche fra i laici": il classico così fan tutti dei vari Craxi, Mastella e Moggi. Il premier, due volte sposato e due volte separato, fa la comunione a favore di telecamera ai funerali di Vianello? Monsignor Rino Fisichella si precipita a giustificarlo con queste parole: "Rimosso l'ostacolo di Veronica, il Berlusconi poteva prendere la comunione". Insigni teologi e prelati assicurano che, diritto canonico alla mano, le cose non stanno così, ma passi.

È molto più grave che un uomo di Chiesa degradi un essere umano, una moglie, una madre a "ostacolo" da "rimuovere", manco fosse un oggetto, un ingombro, un'escrescenza, un ferrovecchio. Dinanzi a tanto cinismo anticristiano nessuno, cattolico o ateo, ha avuto nulla da obiettare (a parte Peppino Caldarola sul 'Riformista'). Marco Belpoliti spiega bene le radici di questa deriva fin dal titolo del suo ultimo libro, 'Senza vergogna': la società dell'immagine inghiotte e digerisce parole e cose terribili senza neppure emettere un ruttino.

Due mesi fa il ministro Giulio Tremonti disse: "Quando incontri un assessore, non sai mai se è un assessore o un camorrista".
Si pensava che qualcuno delle migliaia di assessori sarebbe insorto, invece tutti zitti. Silenzio anche sulla denuncia del governatore siciliano Raffaele Lombardo appena indagato per mafia: "C'è un tavolo trasversale ai partiti dove si è progettato di eliminarmi fisicamente". Silenzio sulle parole del procuratore di Napoli, Giandomenico Lepore, all'Antimafia: "Un terzo dei politici campani sono collusi con la camorra".

Silenzio sulla confessione del ministro Roberto Maroni: "Scarico illegalmente musica da Internet". Parola del responsabile della polizia che, per legge, dovrebbe denunciare chi fa ciò che fa lui. Senza vergogna, appunto.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-paese-dei-senza-vergogna/2126500/18
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« Risposta #166 inserito:: Giugno 19, 2010, 02:47:03 pm »

Panebianco e Montalbano

di Marco Travaglio

L'attacco del politologo ed editorialista del 'Corriere della Sera' contro il personaggio di Camilleri è più demenziale di "Fracchia contro Dracula"

(18 giugno 2010)


Più travolgente di "Totò contro Maciste", più demenziale di "Fracchia contro Dracula", ecco a voi "Panebianco contro Montalbano". Panebianco Angelo è l'impettito politologo bolognese che scrive sul "Corriere della Sera". Montalbano Salvo è il commissario di polizia uscito dalla fantasia di Andrea Camilleri. La singolar tenzone comincia quando Panebianco, guardando un telefilm di Montalbano, lo scopre "intrattenere rapporti telefonici con un vecchio capo mafia" e addirittura "convocare i capi cosca in una località segreta e obbligarli a stipulare un accordo". Sgomento, s'interroga su "Sette": "Non ce n'è abbastanza per attirarsi addosso un "concorso esterno in associazione mafiosa", quel famoso reato che non esiste in nessun codice... ed è stato tuttavia alla base di tutti i processi per mafia a personaggi eccellenti (Andreotti, Contrada, Dell'Utri e altri)?".

Conclusione: "Montalbano (o Contrada?), quando si muove nelle questioni di mafia, opera inevitabilmente in una zona grigia dove il confine fra legalità e illegalità è sempre incerto". Ma l'importante sono "le intenzioni onestissime" di Montalbano e dei suoi presunti emuli Andreotti, Contrada e Dell'Utri. Dunque, se si assolve il commissario, si assolva almeno Dell'Utri (Contrada è stato già condannato e Andreotti, imputato non di concorso esterno ma di associazione interna a Cosa Nostra, prescritto fino al 1980). Naturalmente Panebianco parla di Montalbano perché Camilleri intenda: lo scrittore siciliano è reo di sostenere i giudici antimafia, dunque è un "giustizialista". Peccato mortale, agli occhi del professore "garantista". Camilleri risponde ironico su "l'Unità", dimostrando che il suo critico non solo non ha capito, ma non ha neppure letto la storia di cui si occupa (già Cesare Garboli, nel 2001, aveva liquidato un attacco del politologo con un definitivo "se Panebianco leggesse i libri di cui parla..."). Immediata la replica del prof sul "Corriere": Camilleri "non è un vero signore", ma un tipo "cupo e arrogante" e - aridaje - "giustizialista".

Ora, a parte il fatto che il primo ad applicare alla mafia il concorso esterno fu Falcone nel 1987, l'aspetto più comico di questa lezione di garantismo è che a impartirla sia Panebianco. A meno che non sia un omonimo del Panebianco che, sul "Corriere" del 13 agosto 2006, citando il sequestro Abu Omar da parte della Cia con l'aiuto del Sismi, attaccava i critici degli arresti illegali e delle torture in nome della "lotta al terrorismo"; irrideva all'"apologia della legalità" fatta da chi pensa che "cose come i diritti umani e lo Stato di diritto debbano sempre avere la precedenza su tutto"; definiva "feticcio" lo Stato di diritto perché "dalla guerra non ci si può difendere con mezzi legali ordinari"; e proponeva di legalizzare la "zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità, ove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi". Prossimo film: "Torquemada contro Cesare Beccaria".

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/panebianco-e-montalbano/2129193/18
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« Risposta #167 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:52:53 am »

Storici che ignorano la storia

di Marco Travaglio

(14 luglio 2010)

"I magistrati avrebbero dovuto rendersi conto che le loro azioni giudiziarie colpivano alcuni partiti più di altri: Tangentopoli sarebbe stata una decimazione, con quel tanto di casualità che una tale giustizia comporta. Ma tirarono dritto per la loro strada".

Così parlò l'ambasciatore Sergio Romano, invitato da Laterza, Comune di Milano e Fondazione Corriere della sera a tenere una lezione su Tangentopoli. Romano non spiega che avrebbe dovuto fare il pool Mani Pulite dinanzi alle confessioni di centinaia di imprenditori e politici coinvolti in un sistema di corruzione che (dati del Centro Einaudi) si mangiava 10-15 mila miliardi di lire l'anno. Voltarsi dall'altra parte? Cestinare le migliaia di notizie di reato giunte sui loro tavoli? Ignorare l'obbligatorietà dell'azione penale sancita dalla Costituzione? Il tutto perché sapeva di non poter incastrare tutti i corrotti e corruttori attivi in Italia? Oh bella: in ogni indagine per traffico di droga il magistrato sa che non riuscirà a scovare tutti i trafficanti, ma solo quelli che si son fatti scoprire.

Dovrebbe dunque lasciarli liberi per evitare di "colpirli più di altri" con una "decimazione", in attesa di acciuffare tutti quelli esistenti in natura? In ogni caso è falso che il Pool ignorasse la naturale selettività delle indagini, circoscritte inevitabilmente ai casi supportati da prove. Infatti prima Gherardo Colombo (su "Micromega", estate 1992) poi l'intero pool (proposta di Cernobbio, settembre '94) suggerirono una soluzione che facesse affiorare tutto il sommerso, liberando la politica dai ricatti incrociati: una clausola di non punibilità a chi confessava tutto, revocabile nel caso in cui si scoprisse che il tutto era solo una parte. Ma furono presi a male parole dall'intera Casta, terrorizzata dall'emersione dell'iceberg tangentizio.

Strano che lo storico Romano l'abbia dimenticato. Del resto, nella stessa lezione, l'ambasciatore sostiene che il decreto Conso del marzo '93 che depenalizzava il finanziamento illecito fu affossato dal "grave pronunciamento televisivo dei procuratori di Milano", roba da colpo di Stato.

In realtà è il decreto Biondi del '94 che fu ritirato per la retromarcia di Fini e Bossi dopo un comunicato letto in tv da Di Pietro circondato dal resto del pool. Il decreto Conso, un anno prima, fu respinto dal presidente Scalfaro perché interferiva col referendum sul finanziamento ai partiti fissato per il mese seguente: Borrelli si limitò a comunicare che, contrariamente a quanto detto dal premier Amato, il pool non aveva mai chiesto di depenalizzare i fondi neri. Romano conclude che anche oggi la magistratura "non fa il suo mestiere" perché fa "delle sue azioni giudiziarie contro Berlusconi la ragione della propria esistenza". Bella battuta: in Italia s'iniziano ogni anno tre milioni di nuovi processi penali e di questi solo tre (un milionesimo) riguardano il premier, peraltro bloccati da due anni (lodo Alfano e legittimo impedimento). La prossima volta, anziché di storia, potrebbero invitarlo per una lezione di satira.

   
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« Risposta #168 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:55:40 am »

Balle spaziali ma garantiste

di Marco Travaglio

(15 luglio 2010)

Ogni giorno un nuovo scandalo. Dell'Utri mafioso anche in appello. Vecchie P2 e nuove P3 in azione. Ma ecco un libello che fin dal titolo mette il dito sulla vera piaga d'Italia: "Il morbo giustizialista" (Marsilio). L'hanno scritto Giovanni Fasanella, giornalista di "Panorama", e Giovanni Pellegrino, avvocato, già senatore Ds, presidente della commissione Stragi e difensore di Previti: a loro avviso le anomalie italiane sarebbero i pm troppo indipendenti, il loro "indubbio accanimento" contro B. e una sinistra succube del "partito delle Procure" che, anziché separare le carriere come richiesto da Gelli, Craxi e B., si attarda in una "sterile" difesa della Costituzione. La parte più avvincente è quella che si addentra nella recente storia giudiziaria per avvalorare la tesi dei due Giovanni. Si parte dal "processo Mills in cui Berlusconi era imputato" (falso: è ancora imputato, congelato dal legittimo impedimento): "Qualsiasi persona dotata di un minimo di conoscenza della giustizia prevedeva che sarebbe andato in prescrizione" (falso: la prescrizione sarebbe scattata nel 2014, ma fu retrodatata al 2009 grazie alla legge ex Cirielli approvata dall'imputato B.). Altra rivelazione: "Nessuna iniziativa delle Procure contro Berlusconi è mai arrivata a una sentenza di condanna, nemmeno di primo grado" (falso: B. fu condannato in primo grado tre volte, nei processi Macherio, All Iberian e Guardia di Finanza).

Per far saltare la Bicamerale, il pm Gherardo Colombo l'avrebbe "paragonata sul "Corriere della Sera" addirittura al Piano di rinascita nazionale di Gelli" (falso: il Piano era di rinascita democratica e Colombo nell'intervista non vi accennò neppure). Ancora: il governatore abruzzese Del Turco e il sindaco pescarese D'Alfonso furono "arrestati, costretti alle dimissioni e abbandonati" dal Pd, poi si scoprì che per il primo "le accuse erano del tutto inconsistenti" e il secondo era "del tutto estraneo" (doppio falso: Del Turco e D'Alfonso sono imputati in udienza preliminare). Pura psichedelia la caduta del secondo governo Prodi: tutta colpa dell'inchiesta Why Not del pm De Magistris, "che notificò a Prodi un clamoroso avviso di garanzia". Falso pure questo: non ci fu avviso di garanzia, Prodi fu soltanto iscritto nel registro degl'indagati nel 2007; il suo governo cadde nel 2008 quando il ministro Mastella, appena indagato a Santa Maria Capua Vetere con la moglie arrestata, fece il ribaltone.

Ma, secondo i due fantasiosi autori, "De Magistris fece in modo di essere ascoltato 17 volte dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e di lì partì un avviso di garanzia per Mastella. Il quale si dimise, il governo andò in crisi, poi l'inchiesta finì in una bolla di sapone" (falso: De Magistris fu più volte sentito a Salerno, mentre l'inchiesta di Santa Maria sui Mastella & C. è in udienza preliminare a Napoli). E via delirando per 122 pagine. Ora, può darsi che i giustizialisti soffrano di un terribile morbo. Quel che è certo è che i garantisti stanno poco bene.


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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/balle-spaziali-ma-garantiste/2130883/18
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« Risposta #169 inserito:: Agosto 21, 2010, 06:18:48 pm »

Farepassato

di Marco Travaglio

Sarebbe facile maramaldeggiare sui finiani di Farefuturo che, a 16 anni e mezzo dalla cacciata di Montanelli dal Giornale che aveva fondato e non voleva trasformare in quel che è diventato, riabilitano il grande Indro. Facile irridere alla scoperta tardiva della vera natura del berlusconismo: un mix di “dossieraggio, ricatti, menzogna per distruggere l’avversario, propaganda stupida e intontita, slogan, signorsì e canzoncine ebeti”. Facile farsi beffe di chi, dal 1994 a oggi, ha scambiato B. per un potenziale “grande politico e statista”, un “leader atipico ma liberale”. Facile ricacciare questa parte della destra italiana nelle fogne del neofascismo da cui molti suoi esponenti provengono. Facile, ma anche ingiusto. Per diversi motivi.

1) Il brusco distacco, non solo politico ma anche culturale, dal Caimano e dalle sue putride paludi non è roba da voltagabbana a caccia di prebende e poltrone: anzi, se cercassero quelle, i finiani sarebbero rimasti con B., ben protetti dai suoi scudi giudiziari e mediatici, anziché offrire il petto ai suoi killer catodici e a mezzo stampa. Quando uno cambia idea, bisogna sempre controllargli la bottega e verificare se gli conviene o no. Ai finiani non conviene affatto, anzi conveniva restare dov’erano.

2) L’autocritica, almeno a giudicare dalle parole di Farefuturo, non è una disinvolta operazione di facciata, come quella di tanti che dall’oggi al domani cominciano a dire il contrario di quel che dicevano ieri, con l’aria spocchiosa dei maestri che hanno sempre ragione anche se hanno sempre avuto torto. Farefuturo riscrive il recente passato, confessa un “senso di colpa per non aver capito prima, per non aver saputo e voluto alzare la testa”, riconosce che “oggi che gli editti toccano da vicino, è fin troppo facile cambiare idea” e persino che “ha ragione chi dice: perché non ci avete pensato prima?”, infine ammette che “non c’è una risposta che non contempli un pizzico di vergogna. Un vergogna che, però, non prevede ora il silenzio, il ripetersi di un errore”. Chi parla così merita un’apertura di credito: cioè di essere giudicato non da quel che ha fatto ieri, ma da quel che farà domani (specie in tema di libertà d’informazione e legalità).

3) I finiani non si limitano a difendere Fini, ora che il killeraggio colpisce lui (troppo comodo), ma hanno il coraggio di ricordare il punto più basso del regime: “Il pensiero corre all’editto contro Biagi, Luttazzi e Santoro”. Citano cioè tre personaggi lontanissimi dal mondo della destra, che nel 2002 subirono insieme al loro pubblico l’affronto più sanguinoso: il divieto di lavorare in tv per averne fatto un “uso criminoso” (lesa maestà), divieto che per Luttazzi perdura tuttora.

4) L’autocritica non proviene dai killer, tutti rimasti per selezione naturale alla corte di B., ma da chi appunto ha taciuto per troppi anni sui killeraggi, senza osare “alzare la testa”, e ora che lo fa ne assaggia le prime conseguenze.

5) L’autocritica dei finiani, per quanto tardiva, è comunque in anticipo rispetto a tanti “intellettuali” sedicenti “liberali” e/o “terzisti” che da 16 anni tengono il sacco e fanno da palo a B. paraculeggiando e pompiereggiando con una finta indipendenza che è anche peggio del berlusconismo, perché non ci mette neppure la faccia. Per non parlare dei dirigenti e delle teste d’uovo del centrosinistra “riformista” e della sinistra “radicale” che hanno screditato il valore dell’antiberlusconismo come “demonizzazione” e “giustizialismo”, l’hanno sacrificato sull’altare delle bicamerali, del “dialogo” sulle “riforme condivise”, delle ospitate a Porta a Porta e dei libri Mondadori, non riuscendo o non volendo immaginare una destra diversa da quella abusiva di B. e garantendo lunga vita a B. Oggi dovrebbe vergognarsi e chiedere scusa una vasta e variopinta compagnia. I finiani, con tutte le loro magagne, lo stanno facendo mentre B. è vivo e potente. D’Alema & C. e il Pompiere della Sera aspettano il referto del medico legale.

http://ilfattoquotidiano.it/2010/08/20/sarebbe-facile-maramaldeggiare-sui-finiani-di/51612/
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« Risposta #170 inserito:: Settembre 04, 2010, 09:37:31 am »

Berlinguer, chi era costui?

di Marco Travaglio

(03 settembre 2010)

Come se non ci fosse abbastanza confusione sotto i cieli della politica, giunge a proposito la polemica di mezza estate intorno a Enrico Berlinguer. L'ha innescata quel diavolo di Tremonti, elogiando i suoi "scritti del 1977 sull'austerity". Tarantolata come il vampiro dinanzi all'aglio, la sempre equilibrata sottosegretaria Stefania Craxi ha versato litri di bile sul ministro dell'Economia del suo governo in una lettera al "Corriere della sera": "Berlinguer non credeva una parola (sic, ndr) di quello che scriveva", il suo "Pci ha sempre rappresentato il partito della spesa", poi fu "messo ko da Craxi" e allora "inventò l'austerità e il moralismo per nascondere l'isolamento in cui la sua fobia verso i socialisti aveva condotto il Pci". L'indomani Emanuele Macaluso le ha ricordato qualche data che, nella fretta, le era sfuggita: "Berlinguer pronunciò quel discorso il 16 gennaio 1977, quando Craxi era segretario del Psi da soli sei mesi" e nemmeno volendo avrebbe potuto metterlo ko. Intanto però un'altra autorevole vestale del socialismo, Fabrizio Cicchitto, aveva scritto alla "Stampa" per associarsi alla Craxi e dissociarsi da Tremonti.

A suo dire, Berlinguer "cavalcò la questione morale, poi tradotta dai suoi eredi in giustizialismo, malgrado il Pci fosse finanziato irregolarmente dal Pcus e altre fonti eterodosse" e "negli anni Settanta spingeva per forti aumenti di spesa pubblica".
Altro che austerity. Parola di un signore che, grazie alla tessera P2 numero 2232, di finanziamenti eterodossi dovrebbe intendersi un bel po'. Ma la leggenda nera di Berlinguer capo del "partito della spesa", antiquato e passatista, messo ko dal più "moderno" Craxi è molto diffusa anche a sinistra. Basti pensare alle corbellerie pro-Craxi e anti-Berlinguer pronunciate in questi anni da Fassino, D'Alema, Violante e Veltroni.

La storia insegna l'opposto: negli anni Settanta, compresi i due del compromesso storico, il debito pubblico era sotto controllo: 50-60% del Pil.

Fu negli anni Ottanta, col Caf al governo e il Pci all'opposizione, che balzò al 120: il maggior incremento lo registrò proprio nei quattro anni del governo Craxi (dal 70 al 92%). Il ko di Craxi a Berlinguer, poi, è pura barzelletta. Se l'ex Pci sopravvisse alla Prima Repubblica, lo deve essenzialmente al ricordo di Berlinguer, unico leader della sinistra rimasto nel cuore degli italiani. Intanto il Psi veniva annientato dalle ruberie craxiane. E ora quel poco che ne resta è annesso al Pdl, dove la signora Craxi siede comodamente in poltrona, scambiando Storace per Turati e la Santanchè e la Mussolini per la Kuliscioff. Significativamente il dibattito su Berlinguer è circoscritto entro i confini del Pdl. Il Pd ha altro da fare: perso per strada Tony Blair, faro dei "riformisti" nostrani (dopo i trionfi irakeni ed elettorali, ha appena fondato una banca per super-ricchi), si accapiglia intorno a un rovello epocale: invitare o no alla sua festa il leghista Cota? Vivo entusiasmo nella base.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/berlinguer-chi-era-costui/2133603/18
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« Risposta #171 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:10:06 pm »

Silvio, Fini e la Tulliani

di Marco Travaglio

(17 settembre 2010)

Non sono bastate 45 prime pagine de "Il Giornale" e altrettante di "Libero" per spiegare cosa diavolo dovrebbe spiegare Elisabetta Tulliani. Quale sarebbe la colpa, il reato, il peccato mortale o veniale che giustifica tante copertine di quotidiani, settimanali e tg di casa Berlusconi e adiacenze varie. Ha un fratello, Giancarlo, sgomitante e desaparecido? Si chieda al fratello. Ha una madre titolare di una società che lavora per la Rai? Si chieda alla madre e soprattutto alla Rai, dove gli appalti più lucrosi (vedi inchiesta sul penultimo "L'espresso") sono sempre legati a politici o parenti di politici, compreso Berlusconi che tramite Endemol vende format al "servizio pubblico" essendo il padrone della concorrenza. Ha litigato con l'ex fidanzato Luciano Gaucci per certe proprietà e una schedina dell'Enalotto? Affari suoi e di Gaucci. Lavorava come valletta alla Rai? Ha smesso prima di fidanzarsi con Fini.

Da allora, cioè da quando è diventata la compagna di un personaggio pubblico, non c'è nulla di opaco o di men che lecito che le si possa attribuire. E allora perché, come giustamente osserva Pigi Battista sul "Corriere", viene massacrata da due mesi anche per "il modo di fare, la seduzione, le ambizioni, le scalate sociali, persino le altre (supposte) relazioni" con un continuo "ammiccare all'immagine convenzionale della disinvolta e cinica femmina mangiauomini e sfasciafamiglie"? Le ministre del governo Berlusconi hanno negato la benché minima solidarietà alla "donna del nemico". E tacciono, a parte appunto Battista, i paladini della privacy in servizio permanente effettivo. Eppure basterebbe ripetere ciò che dissero Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri tre anni fa, quando "Striscia la notizia" trasmise un perfido filmatino sulla Tulliani e Gaucci avvinti come l'edera, con gli sberleffi di Ezio Greggio alla "timida e schiva principessa del foro". Confalonieri si affrettò a scomunicare "Striscia": "La derisione che diventa dileggio non è accettabile nei confronti di scelte sentimentali che non hanno alcuna attinenza con la vita pubblica".

Basta "eccessi giornalistici e satirici, anche in programmi Mediaset, che colpiscono la vita privata di Fini". Ma guai a insinuare che ci fosse lo zampino di Mister B: "Ipotesi del genere fanno un torto all'autonomia di Silvio Berlusconi e da Silvio Berlusconi. A volte semplicemente la polifonia editoriale che ha sempre contraddistinto il Gruppo rischia di trasformarsi in cacofonia. Sono i rischi della libertà". Durissimo anche il Cavaliere-editore: "Ho chiamato Fini per dirmi addolorato dal servizio di "Striscia". Sono cose che non si fanno". Tutto questo per un programma satirico. Ora che invece gli house organ della ditta fanno terribilmente sul serio, Silvio e Fidel hanno perduto di colpo la favella. Forse perché nel frattempo il fidanzato di Elisabetta ha rotto con il premier? Per carità: ipotesi del genere fanno un torto all'autonomia di Silvio Berlusconi e da Silvio Berlusconi.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/silvio-fini-e-la-tulliani/2134378/18
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« Risposta #172 inserito:: Ottobre 08, 2010, 12:59:00 pm »

Ghedini sull'orlo di una crisi d'identità

di Marco Travaglio

(08 ottobre 2010)

Che l'on. avv. Niccolò Ghedini avesse un concetto della verità piuttosto elastico, si era capito nel 2003 quando giurò al "Corriere" che "Berlusconi ha interesse a chiudere il processo Sme-Ariosto in tempi rapidi perché ne auspica una soluzione positiva": tre mesi dopo votò il lodo Schifani che sospendeva i processi al premier. E nel 2008, quando assicurò a "Repubblica": "Non c'è nessuna volontà di fermare il processo Mills: siamo alla fine, aspettiamo l'assoluzione, sospenderlo sarebbe un suicidio processuale": due mesi dopo votò il lodo Alfano che ricongelava i processi al premier. Che avesse un rapporto problematico con la logica aristotelica, lo si era intuito in agosto, quando sostenne che la sentenza di Cassazione su Mills corrotto da Berlusconi non significa che Berlusconi ha corrotto Mills: "Si potrebbero anche avere due sentenze confliggenti sullo stesso fatto".

Ora però sorge il dubbio che, non bastandone uno, di Ghedini ne esistano addirittura due. Il primo è quello che il 19 maggio, commentò sul "Corriere" le voci sull'uscita di Michele Santoro dalla Rai: "Santoro è un grande professionista, l'apprezzo, fa molto bene il suo mestiere. Sarà pure fazioso, ma lo fa con chiarezza. Non inganna il telespettatore. Era una battaglia faticosissima, ma bella. La preferivo a tante trasmissioni farisaiche". Il 2 agosto confermò alla "Stampa": "Sono stato ad "Annozero" una decina di volte. Santoro mi innervosisce perché combatte un mio amico. Ma apprezzo la sua professionalità. Vespa o Santoro? Da Santoro mi diverto di più". Il secondo Ghedini è quello che il 30 settembre s'è confessato con "Repubblica": "Non mi piace andare ad "Annozero" a rivestire quel ruolo, e non mi piace quel ring dove ti chiamano solo perché vogliono sbranarti. Ci vado, è un mio dovere, ma sento che soffia l'alito dell'odio". E chissà che alito soffiava a Cattolica nel 2000, quando l'avv. (non ancora on.) Ghedini, segretario dell'Unione Camere penali, esaltò "la nostra assoluta trasversalità e lontananza da qualsiasi partito", perché "l'Avvocatura penale è sempre stata scevra da qualsiasi condizionamento di natura politica o partitica" e spiegò "perché gli avvocati danno fastidio: perché non abbiamo colore politico" e "combattiamo tutti i giorni per una giustizia più equa al servizio della collettività".

Chissà che direbbe oggi il Ghedini-1 al Ghedini-2 che, per accentuare l'assoluta lontananza dai partiti, milita nel Pdl e, per regalare una giustizia più equa alla collettività, fabbrica leggi per uno solo. Se invece sono la stessa persona, c'è il rischio che soffra della sindrome del personaggio di Alberto Sordi nel film "Troppo forte" di Carlo Verdone: quello che ogni tanto si scordava di essere un avvocato e si credeva un ballerino. Nel qual caso, non vorremmo essere nei panni del premier: se riparte il processo Mills e l'on. avv. si scorda che il Cavaliere è innocente, è capace di chiedere la sua condanna al massimo della pena.

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« Risposta #173 inserito:: Novembre 12, 2010, 03:24:26 pm »

Il Codice dello zio Ostellino

di Marco Travaglio

Finché parlava di Moggi o del suo cane, l'ex direttore del Corriere sembrava solo un vecchio zio picchiatello. Adesso invece scrive di cose più grandi di lui, dimostrando di non saperne nulla


(29 ottobre 2010)

Per anni le rubriche di Piero Ostellino sul "Corriere" erano considerate come i borbottii del vecchio zio un po' bizzarro e picchiatello dei romanzi di Jerome, tipo "Lo zio Piero appende un quadro". Quello che attacca bottoni infiniti, ma in fondo, a piccole dosi, mette buonumore. Ultimamente però l'incontinente zio Piero ha preso a tracimare con editoriali e articolesse, in cui parla a nome del giornale ("noi del Corriere..."). E la faccenda s'è fatta terribilmente seria. Finchè difendeva Moggi e Ricucci, dedicava articoli luttuosi alla morte del suo cane, tuonava contro lo Stato illiberale ("il Leviatano oppressore") che perseguita i pirati della strada perché "il limite di velocità è diventato una forma di lotta di classe, le auto di grossa cilindrata sono il Palazzo d'Inverno da assaltare e l'autovelox l'incrociatore Aurora che dà il via alla rivoluzione egualitaria", si poteva assecondarlo con qualche sorriso imbarazzato.

Ma, da quando si crede il direttore del "Corriere", c'è poco da ridere. Un giorno chiede "le dimissioni di Fini da presidente della Camera in quanto incompatibile con la nuova veste di oppositore del governo", ma dimentica di specificare quando mai Fini si è opposto a un atto del governo e come mai noti oppositori come Pertini e la Jotti diventarono presidenti della Camera. Un'altra volta se la prende con l'inchiesta di "Report" sulle ville acquistate dal premier ad Antigua da una misteriosa offshore e sul suo conto corrente all'Arner Bank indagata per riciclaggio ("cattivo giornalismo", "propaganda politica"). E scrive ben tre pezzi per difendere il vicedirettore del "Giornale", Nicola Porro, indagato per le minacce alla Marcegaglia: a suo dire le intercettazioni sono illegali in quanto il di lei "portavoce Arpisella, non essendo inquisito, poteva essere intercettato solo se avesse contattato e/o venisse contattato da un inquisito". Forse non sa che il giudice può pure intercettare non indagati che parlano con altri non indagati, se depositari di notizie utili alle indagini (per esempio i familiari di un sequestrato).

Il pover'uomo parla di "indagine preventiva su un'inchiesta giornalistica di là da venire e già immaginata come reato". Forse gli sfugge che un'inchiesta giornalistica si scrive e si pubblica, non si tiene nel cassetto per minacciare di tirarla fuori quando l'interessato critica il governo. Altrimenti è un ricatto, cioè un reato. Nessuno dovrebbe saperlo meglio di Ostellino, che proprio un anno fa invocò giustamente le dimissioni di Marrazzo perchè "ha ceduto al ricatto e pagato i ricattatori. Il ricatto è un reato, al quale mai si deve sottostare, tanto meno un uomo pubblico". Ora, per il nostro codice, il ricatto è reato per chi lo commette, mentre chi lo subisce di solito è vittima di estorsione. Invece, per il Codice Ostellino, chi lo subisce deve dimettersi e chi lo fa è un paladino della "libera informazione che fa il proprio mestiere". Perché "a noi del Corriere non piace il giornalismo militarizzato". Ben detto, zio.

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« Risposta #174 inserito:: Novembre 19, 2010, 09:41:44 am »

L'opinione

Salvate il pensionato Silvio

di Marco Travaglio

(19 novembre 2010)
Bruno Tabacci Bruno TabacciNel 2006, dopo la risicata vittoria dell'Unione, qualche furbetto dalemiano (Latorre, Caldarola, Rondolino) propose di nominare senatore a vita Berlusconi, dato ormai per spacciato. Due anni dopo era già risorto. Ora ci risiamo. Il Cavaliere non se n'è ancora andato ("piuttosto la guerra civile", minaccia il leader dei "moderati") e già gli offrono un "salvacondotto" giudiziario per un'"uscita morbida" contro una "nuova piazzale Loreto". Il primo ad auspicare l'happy end è Giuliano Ferrara, passato armi e bagagli con Fini coi soldi della famiglia Berlusconi. Gli fa eco sul "Riformista" il professore finiano Alessandro Campi: Fli eviti l'"antiberlusconismo... malattia dello spirito, febbre infantile che alimenta le peggiori frustrazioni... già tomba della sinistra riformista". Campi non spiega quando mai la sinistra riformista avrebbe contratto l'"antiberlusconismo viscerale", ma se lo dice lui dev'essere vero. Un altro prof, Rocco Buttiglione, vuole "evitare a Berlusconi la fine di Craxi".

"Se il Cavaliere", spiega Roberto Rao, portavoce di Casini, "accettasse di fare un passo indietro, si potrebbe pensare a un salvacondotto per lui". Secondo "La Stampa", "in diversi ambienti - di maggioranza, di opposizione e fuori della politica - si studia un pacchetto che gli eviti un accanimento fuori misura: reintroduzione dell'immunità parlamentare o forme "aggiornate" di prescrizione". Secondo il rutelliano Bruno Tabacci, "questo è un Paese crudele, che per mondarsi delle proprie colpe, una volta che Berlusconi è caduto, è capace di accusarlo di nefandezze inaudite. Si può ragionare su una uscita senza vendette e senza equivoci". Ma gli equivoci sono tutti nelle scombiccherate giustificazioni al salvacondotto.

"Se Berlusconi accettasse di fare un passo indietro...": ma se il premier cade non è una gentile concessione da contraccambiare, è la conseguenza del venir meno della maggioranza. "Evitargli la fine di Craxi": ma Craxi non fu condannato per vendetta da un tribunale del popolo, bensì per reati comuni, corruzione e finanziamento illecito, in regolari processi normati dal codice voluto dal suo partito (lo scrisse il socialista Vassalli). "Paese crudele capace di accusarlo di nefandezze inaudite": ma il premier è già da tempo imputato per corruzione giudiziaria, frode fiscale, falso in bilancio, nonchè indagato a Palermo per mafia e riciclaggio e a Firenze per strage. Il salvacondotto non gli eviterebbe dunque le accuse né le relative indagini (già in corso), ma gli eventuali processi (che riprenderanno non appena lascerà Palazzo Chigi) e le possibili condanne. E come si potrebbe ottenere un simile risultato? L'immunità parlamentare lo coprirebbe solo dai procedimenti futuri, non certo da quelli già avviati. Ci vorrebbe una fantasmagorica riedizione del lodo Alfano: nato per lasciar lavorare il premier finchè è in carica, ora dovrebbe lasciarlo lavorare anche da pensionato, quando non lavorerà più. Parola d'ordine: "Lei non sa chi ero io".

   
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« Risposta #175 inserito:: Febbraio 18, 2011, 04:54:37 pm »

Casi a confronto: Marrazzo e B.

di Marco Travaglio

Quando scoppiò il caso del governatore, nessuno accusò i Pm di «spiare dal buco della serratura».
Nessuno disse che doveva restare al suo posto «in quanto eletto dal popolo».
Anzi, la stampa di destra urlò: «Dimissioni, sparire».

E lui non era neanche indagato...

(11 febbraio 2011)

"Un governatore sotto ricatto è politicamente dimezzato e azzoppato, impossibilitato a svolgere con serenità e responsabilità istituzionale le funzioni che vanno ben al di là delle sue privatissime vicende... Le istituzioni devono essere messe al riparo da ogni sospetto e interferenza... Marrazzo deve valutare se fare un passo indietro non sia l'unico gesto pieno di dignità...".

Così scriveva il 24 ottobre 2009 Pierluigi Battista nel suo editoriale sul "Corriere della sera". Tre giorni prima erano finiti in carcere tre carabinieri che il 3 luglio erano entrati illegalmente nell'alloggio del trans Natalì, in via Gradoli 96, filmando l'allora governatore del Lazio in un festino di sesso e coca per poi ricattarlo. Marrazzo non era indagato, eppure giustamente il "Corriere" chiese le sue dimissioni. Anche Renato Farina alias Betulla, sul "Giornale" allora di Vittorio Feltri, intimò: "Dimissioni, sparire. Se ci saranno processi, si vedrà, ma intanto abbandonare auto blu e doppiopetto, cambiare itinerario".

E Maurizio Belpietro, su "Libero", tuonò: "È evidente a chiunque che il governatore non può stare al suo posto un giorno di più... Le ragioni per rimuoverlo in fretta sono note: è stato colto in una situazione imbarazzante, ma in seguito il suo comportamento è stato tutt'altro che limpido... Ha cercato di confondere le acque fornendo versioni di comodo che non trovano riscontri e che ora gli inquirenti stanno cercando di verificare... È impresentabile. Il buon senso avrebbe suggerito di toglierlo di mezzo al più presto".

Marrazzo si dimise nel giro di tre giorni. Era la vigilia delle primarie del Pd per il candidato governatore e Marrazzo, senza lo scandalo, le avrebbe vinte a mani basse. Invece uscì di scena e, grazie allo scandalo, il Pd perse il Lazio, conquistato da Renata Polverini. Eppure nessuno strillò alla "giustizia a orologeria". Nessuno disse che Marrazzo doveva restare al suo posto in quanto "eletto dal popolo" (i governatori, diversamente dal premier, lo sono davvero). Nessuno accusò pm e giornalisti di "spiare" il pover'uomo "dal buco della serratura" violando la sua "privacy" (eppure, senza lo spionaggio dei tre carabinieri, nessuno avrebbe potuto ricattarlo).

Ora la domanda è semplice, quasi banale: perché ciò che valeva per Marrazzo, ricattato ma non indagato, non vale per Berlusconi, indagato e ricattato o ricattabile da decine di ragazze armate di foto e filmati sui festini in villa, molte delle quali hanno ricevuto soldi o promesse di denaro in cambio del loro silenzio? Che aspetta il "Giornale" a intimargli: "Dimissioni, sparire"? E Belpietro a spiegare che "è evidente a chiunque che ormai non può stare al suo posto un giorno di più"? E Battista a suggerire al Cavaliere "un passo indietro" giacché un premier "sotto ricatto è politicamente dimezzato e azzoppato"? Attendiamo fiduciosi: non vorremmo mai dover sospettare che il "Giornale", Belpietro e Battista non siano imparziali. O, addirittura, che abbiano un debole per Berlusconi.

   
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« Risposta #176 inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:51:27 pm »

Sulla giustizia profumo d'intesa

di Marco Travaglio

Tutte le controriforme minacciate da Berlusconi sono figlie legittime del centrosinistra.

E le sirene dell'immunità parlamentare hanno subito trovato udienza nei leader storici

(25 febbraio 2011)

Se non avesse portato in Parlamento due volte Totò Cuffaro, attualmente in carcere per favoreggiamento mafioso, verrebbe spontaneo applaudire Pierferdinando Casini. Che liquida così le nuove fregole di immunità parlamentare: "I politici non rubino e rispettino le leggi". Una frase di puro buonsenso, che però diventa quasi eversiva al confronto con i balbettii del Pd. Che parla, come al solito, una dozzina di lingue diverse, tutte peraltro incomprensibili alla gran parte dei suoi elettori. Con buona pace di Angelo Panebianco, che sul "Corriere della sera" dipinge il vertice piddino "ispirato da procure e giornali di riferimento", le sirene immunitarie hanno subito trovato udienza in leader storici come Franco Marini, oltrech? nel senatore ed ex portavoce di Prodi, Silvio Sircana. E lo stesso "Corriere" ricorda le "aperture di Violante, Ceccanti e Latorre".

Marini e Sircana si fanno scudo della "volontà dei padri costituenti" e in quello spirito difendono la proposta bipartisan presentata in Senato da Franca Chiaromonte (Pd) e Luigi Compagna (Pdl), firmata anche da Sircana, Morando e dall'Udc D'Alia, subito dopo la bocciatura del lodo Alfano. Infatti è un superlodo Alfano allargato dalle alte cariche dello Stato a tutti i membri del Parlamento: al termine delle indagini, per rinviare a giudizio un parlamentare, il giudice dovrebbe chiedere il permesso alla Camera di appartenenza, che avrebbe 90 giorni per bloccare il processo. Un privilegio medievale, che andrebbe ben oltre il sistema costituzionale abolito nel 1993. Fino ad allora, infatti, non è affatto vero che i padri costituenti avessero garantito l'immunità ai parlamentari: le Camere potevano negare l'autorizzazione a procedere solo in casi eccezionali, quelli in cui fosse provato il "fumus persecutionis" (nessuna notizia di reato, acclarata ostilità politica del magistrato inquirente).

Come emerge dai lavori preparatori della Costituente, il vecchio articolo 68 fu concepito per mettere al riparo esponenti dell'opposizione da accuse tipicamente "politiche": diffamazioni, comizi troppo accesi, scioperi, picchettaggi, occupazioni delle terre, blocchi stradali. Non certo per salvare parlamentari corrotti, mafiosi, grassatori, malversatori. Nel testo Chiaromonte-Compagna, invece, non si fa alcun cenno al fumus persecutionis: è tutto automatico. Ora, se c'è un tema (questo sì bipartisan) che manda il sangue agli occhi alla stragrande maggioranza degli italiani, è proprio l'impunità della Casta. Gli ultimi sondaggi sul tema danno gli italiani (compresi quelli di destra) contrari fra l'80 e il 90 per cento. Possibile che un'opposizione a caccia di voti (ed ex voti) rinunci a farne un cavallo di battaglia, anzi cincischi e inciuci? Sì.

Del resto tutte le controriforme della giustizia minacciate dal premier negli ultimi giorni sono figlie legittime del centrosinistra. Il bavaglio con galera per i giornalisti che pubblicano intercettazioni è plagiato dal ddl Mastella del 2007. La separazione del Csm e dunque delle carriere fra pm e giudici è copiata dalla bozza Boato della Bicamerale presieduta da D'Alema. L'idea di aumentare i membri politici del Csm e di far giudicare i magistrati da una sezione disciplinare esterna è di Violante. Tutti frutti avvelenati della ventennale sudditanza culturale del centrosinistra nei confronti del berlusconismo, dell'idea folle che Berlusconi si batta inseguendolo sul suo terreno.

Intanto uno studioso serio come Luca Ricolfi dimostra sulla "Stampa", dati alla mano, che "il berlusconismo è sempre stato un fenomeno marginale: fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre il 20 per cento e il sostegno esplicito al leader, espresso in un voto di preferenza, si aggira intorno al 6 per cento", mentre oggi "il Pdl attira circa il 18 per cento del corpo elettorale". Come diceva Montanelli, "Berlusconi è solo il sintomo". La malattia è tutto quel che c'è dall'altra parte. Anzi, non c'è.

   
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« Risposta #177 inserito:: Aprile 09, 2011, 03:06:03 pm »

Gheddafi mon amour

di Marco Travaglio

I potenti italiani hanno fatto a gara nello schierarsi a favore del colonnello libico che ora attaccano. Ecco una carrellata di dichiarazioni per rendersi conto che la nostra politica più che estera è estemporanea

(24 marzo 2011)


C'è qualcuno peggio di Gheddafi?

«Gheddafi è disponibile ad ascoltare, appassionato quando parla. signori, è da 33 anni alla guida del governo. Gliel'ho detto: lei è un vero professionista, io sono solo un dilettante...» (Silvio Berlusconi, 28 ottobre 2002).

«Gheddafi mi ha promesso la costruzione di una villa sulla costa libica. ho accettato volentieri, purché le spese siano a carico mio» (Silvio Berlusconi,10 febbraio 2004).

«Gheddafi è un grande amico mio e dell'Italia. è il leader della libertà, sono felice di essere qui» (Silvio Berlusconi a Tripoli, 7 ottobre 2004).

«Il ministro degli Esteri libico regala una piccola ma robusta verità: l'Italia avvertì la Libia dell'attacco deciso dagli americani contro Tripoli per "punire" Gheddafi dell'attentato alla discoteca La Belle di Berlino. Una decisione presa dal premier di allora, Bettino Craxi... Il 15 aprile dell'86 45 aerei avevano sganciato 232 bombe e 48 missili contro sei diversi obiettivi... Morti una decina di civili, tra i quali una figlia adottiva di Gheddafi. Ma il leader, avvertito dagli italiani, era riuscito a salvarsi. «Non credo di svelare un segreto», dice Mohammed Abdel- Rahman Shalgam alla Farnesina, «se annuncio che il 14 aprile 1986 l'Italia ci informò che ci sarebbe stata un'aggressione americana contro la Libia» ("Corriere della sera", 31 ottobre 2008).

«Mio padre era stato avvertito dal premier spagnolo Felipe González che gli aerei americani si erano levati in volo... Poi aveva subito fatto avvertire Gheddafi» (Bobo Craxi, ibidem).

«In tempo reale il nostro servizio segreto informò il governo libico dell'imminente attacco » (Francesco Cossiga, all'epoca presidente della Repubblica, ibidem).

«Io ritengo di sì, l'avvertimento ci fu. Del resto quella degli americani fu un'iniziativa improvvida» (Giulio Andreotti, all'epoca ministro degli Esteri, ibidem).

«Caro Muammar, siamo felici per il tuo arrivo in Italia al G-8 della Maddalena. Con l'ambasciatore siamo andati a cercare il posto migliore dove posizionare la tenda... � un onore per me essere stato invitato il prossimo anno in Libia il 30 agosto per la Giornata di amicizia tra popolo italiano e popolo libico, e sarò lieto di rimanere con voi per festeggiare il 40° anniversario della vostra grande Rivoluzione» (Silvio Berlusconi, 3 marzo 2009).

«A Gheddafi mi lega una vera e profonda amicizia, al leader riconosco grande saggezza» (Silvio Berlusconi, 10 giugno 2009).

«Non trovo affatto scandaloso che Gheddafi parli in Senato: è il leader dell'Unione africana e di un paese da cui dobbiamo farci perdonare qualcosa» (Massimo D'Alema, prima di ospitare Gheddafi alla fondazione Italianieuropei, 10 giugno 2009).

«Siamo di fronte a una svolta che ci condurrà a una intensa e strutturata collaborazione bilaterale» (Emma Marcegaglia, mano nella mano a Gheddafi, Roma, 12 giugno 2009).

«Credo si debbano sostenere con forza i governi di quei Paesi, dal Marocco all'Egitto, nei quali ci sono regimi laici tenendo alla larga il fondamentalismo... Faccio l'esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma dei "Congressi provinciali del popolo": distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader... Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta. Per me sono segnali positivi» (Franco Frattini, "Corriere della sera", 17 gennaio 2011).

«Non chiamo Gheddafi perché le cose sono ancora in corso, non lo voglio disturbare» (Silvio Berlusconi mentre Gheddafi inizia la repressione sui libici in rivolta, 19 febbraio 2011).

«Gheddafi ha ancora un rapporto solido con una parte della società libica e la crisi economica qui non ha colpito come in altri Paesi. La Libia ha pochi abitanti e un Pil pro capite elevato. Cosa può fare l'Italia? Incoraggiare Gheddafi a fare le riforme» (Massimo D'Alema, "Il Sole-24 ore", 20 febbraio 2011).

«L'Unione europea non deve interferire nei processi in corso in Libia» (Franco Frattini, 21 febbraio 2010). Sì, c'è.

 
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« Risposta #178 inserito:: Maggio 03, 2011, 11:07:19 am »

Il caso

Toni Negri strizza l'occhio a B.

di Marco Travaglio


(29 aprile 2011)

Gli psichiatri la chiamano "proiezione": il paziente attribuisce agli altri quel che sta facendo e pensando lui. Silvio Berlusconi ne è un caso di scuola. Soprattutto quando accusa i magistrati (non tutti, si capisce: solo quelli che indagano su di lui e sui suoi amici) di "brigatismo giudiziario". e quando telefona la sua affettuosa solidarietà al candidato milanese Roberto Lassini, strapazzato dal presidente Napolitano e dal sindaco Moratti per i manifesti "via le Br dalla procura", scaricato per forza e scandidato per finta dal pdl lombardo. In realtà furono proprio i terroristi i primi a non riconoscere la "giustizia borghese" dei tribunali della repubblica e a difendersi non nei processi, ma dai processi.

Lui si limita a copiarli, anche se lo fa non da un covo clandestino, ma dalla presidenza del Consiglio, e non con volantini ciclostilati, ma con comunicati ufficiali targati Palazzo Chigi e in comizi assortiti. Della prodigiosa analogia si era accorta per tempo una delle teste più fini dell'eversione rossa: Toni Negri, già leader dell'Autonomia a Padova, poi latitante in Francia, poi condannato per partecipazione a banda armata, poi finalmente rientrato in Italia e arrestato.

Il 3 maggio 2003, mentre il premier faceva il diavolo a quattro per sfuggire al processo Sme con leggi Cirami e lodi Schifani, Negri rilasciò illuminanti dichiarazioni a "L'Infedele" di Gad Lerner, riprese due giorni dopo da Alessandro Trocino sul "Corriere della sera". Anzitutto elogiò la buonanima di San Bettino perché «ero a Parigi e Craxi, allora presidente del Consiglio, mi fece sapere che i servizi stavano architettando qualcosa su di me, consigliandomi di essere cauto. Per questo ancora gli sono grato» (quel "qualcosa" che i servizi architettavano era il tentativo di assicurarlo alla giustizia italiana, a cui era sfuggito grazie all'elezione in Parlamento gentilmente offerta da Pannella).

Poi l'ex leader di Autonomia operaia tributò tutta la sua amorevole solidarietà al Cavaliere perseguitato dai giudici in processi per corruzione giudiziaria: «Pur essendo Berlusconi un mio avversario politico, io sono solidale con lui e con chiunque venga condannato ad anni di carcere da una magistratura come quella italiana che si è di volta in volta alleata con la destra e con la sinistra. Le operazioni giudiziarie, condotte contro di me e contro l'Autonomia negli anni Settanta con la complicità della sinistra, sono state una premessa alle successive cospirazioni giudiziarie contro i socialisti ieri e contro i berlusconiani oggi». Solidarietà non solo a Berlusconi, ma anche al compagno Cesare Previti, «perché io non auguro la galera a nessuno».

Sempre sul "Corriere", lo scrittore Claudio Magris commentò quelle tutt'altro che stupefacenti convergenze e invitò il premier a respingere al mittente quell'imbarazzante solidarietà: «Secondo Negri, leader di Autonomia operaia e condannato per partecipazione a banda armata, vi sarebbe una voluta e pianificata continuità tra le persecuzioni inflitte dalla magistratura italiana ai terroristi negli anni di piombo e le persecuzioni inflitte ora da essa a Berlusconi, al quale Negri ha espresso pubblicamente solidarietà e che evidentemente egli considera "vittima della giustizia borghese" come i condannati per la lotta armata, lotta che ha visto cadere assassinati tanti galantuomini. E' strano che un capo di governo non si senta offeso da tale accostamento e non senta il bisogno di respingerlo».

Ma, perfetto allievo del cattivo maestro, Berlusconi non raccolse l'invito di Magris.

Del resto, nemmeno nell'estate del 2009 provò alcun imbarazzo quando Negri tornò a solidarizzare con lui per lo scandalo D'Addario, la escort pugliese che dopo due notti a Palazzo Grazioli si era ritrovata candidata alle elezioni comunali di Bari in una lista fiancheggiatrice del Pdl sponsorizzata dal ministro Fitto. «Mi spiace per Berlusconi. Le persone che si dichiarano perseguitate mi sono simpatiche», disse Negri al "Riformista" il 27 luglio 2009. E anche quella volta il premier, tutt'altro che imbarazzato, incassò (poi, qualche mese dopo, finse di indignarsi perché il governo del Brasile non ci riconsegnava il pluriomicida latitante Cesare Battisti). Dio li fa poi li accoppia.

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« Risposta #179 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:20:02 am »

L'opinione

Chi sono i veri giustizialisti

di Marco Travaglio

1995: Berlusconi cerca di portare Di Pietro a processo a Brescia. 1997: tentano di far riaprire le indagini su Prodi per la Sme. 2006: viene organizzata la bufala su Telekom Serbia. 2011: Moratti si inventa una condanna di Pisapia. E poi accusano gli avversari di ricorrere ai tribunali per sbarazzarsi di loro

(20 maggio 2011)

Grattando un po' dietro il polverone delle false accuse della Moratti a Pisapia e dietro gli ammuffiti luoghi comuni sulla "macchina del fango", viene fuori uno dei più spettacolari ribaltamenti della realtà mai visti nella storia recente. Quello che da 17 anni costringe la sinistra sulla difensiva dall'accusa di «uso politico della giustizia». qualche anno fa berlusconi disse financo che «la sinistra è collusa con la giustizia». e la sinistra, anziché vantarsene o rammentargli che lui è colluso con mafiosi, piduisti,corrotti e corruttori, s'affrettò a smentire di aver nulla a che spartire con la giustizia. La storia insegna che, al contrario, sono sempre stati Berlusconi e i suoi cari a tentar di coinvolgere gli avversari in vicende giudiziarie. Mai viceversa. Il Cavaliere cominciò nel 1995 contro il più temibile rivale di allora: Di Pietro, che si affacciava sulla scena politica dopo aver rifiutato i ruoli di suo ministro e di suo vice in Forza Italia.

Il giustizialista di Arcore lo denunciò a Brescia per «attentato organo costituzionale» (il suo primo governo) e disse: «Un altro al posto suo sarebbe già in galera». Ad adiuvandum, spedì in omaggio ai pm bresciani due«testimoni» dei fantomatici reati commessi dal pool di Milano: i marescialli Strazzeri e Corticchia che furono arrestati per calunnia e patteggiarono la pena evitando ulteriori indagini su eventuali ricompense. Ma nel '97 Berlusconi ci riprovò, svelando alla Procura bresciana che il costruttore D'Adamo gli aveva parlato di una tangente di 4 miliardi e mezzo dal banchiere Pacini Battaglia «destinata a Di Pietro, pienamente consapevole e consenziente ».
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/chi-sono-i-veri-giustizialisti/2151923/18http://espresso.repubblica.it/dettaglio/chi-sono-i-veri-giustizialisti/2151923/18E fece produrre una bobina in cui D'Adamo avrebbe svelato il tutto: senonché si scoprì che era un taglia e cuci di parole in libertà e Di Pietro fu prosciolto. Ma da allora le denunce contro Di Pietro e gli altri pm milanesi e palermitani che si occupano del Cavaliere non si contano. Intanto Prodi si era rivelato l'unico politico in grado di batterlo: così il centrodestra fece di tutto per far riaprire le indagini sulla pretesa "svendita" della Sme quando il Professore era presidente dell'Iri, in barba al proscioglimento già deciso dai giudici di Roma nel '97. Ancora nel 2003, nelle dichiarazioni spontanee al processo Sme, il premier alluse a presunte tangenti finite alla sinistra Dc (cui apparteneva Prodi).

E, mentre i leader del centrosinistra sorvolavano sulle notizie di reato emerse via via a suo carico, anzi inseguivano inutili tavoli bipartisan e bicamerali assortite, lui seguitava imperterrito a tentare di mandarli in galera. Nel 2003 la commissione Telekom Serbia estraeva dal cilindro Igor Marini, "supertestimone" di fantasiose tangenti a Prodi, Fassino e Dini, e l'on. avv. Carlo Taormina chiedeva addirittura l'arresto dei tre leader. Nel 2006, alla vigilia delle elezioni che avrebbero riportato Prodi al governo, la commissione Mitrokhin lo dipingeva come un avamposto del Kgb in Italia e lo denunciava ai pm di Roma insieme a Dini e a D'Alema per aver manipolato l'omonimo dossier. Inchiesta, naturalmente, archiviata. L'estate scorsa tocca a Fini: Storace, appena rientrato all'ovile berlusconiano, lo denuncia in Procura per l'alloggio monegasco affittato al cognato. Ennesima archiviazione. Ora ci risiamo. Il premier annuncia una «commissione d'inchiesta sull'associazione a delinquere dei magistrati». Svela un «pactum sceleris tra Fini e l'Anm» confidatogli da un giudice di cui si scorda di fare il nome.

E plaude alla Moratti che ha trasformato in condanna l'assoluzione di Pisapia in un vecchio processo per storie di terrorismo. Intanto il Cavaliere ha quattro processi per falso in bilancio, appropriazione indebita, frode fiscale, corruzione, concussione, prostituzione minorile e un'indagine aperta a Firenze per strage, mentre il presidente del Senato è indagato per mafia, il coordinatore del Pdl campano Cosentino è imputato per camorra e in Parlamento siedono 20 pregiudicati e un centinaio fra imputati e indagati, quasi tutti nel Pdl. Ma la sinistra non ne parla. Sennò l'accusano di uso politico della giustizia.

     
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