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Autore Discussione: LIANA MILELLA  (Letto 67359 volte)
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« inserito:: Novembre 19, 2008, 06:11:50 pm »

Nel provvedimento del Guardasigilli la "messa in prova" per gli imputati.

Altolà del ministro Roberto Maroni

Nel ddl Alfano quasi un'amnistia per condanne fino a quattro anni

di LIANA MILELLA

 
ROMA - Il Guardasigilli Alfano critica da sempre l'indulto, ma mette mano a un ddl sulla certezza della pena con una mezza amnistia per i reati fino a quattro anni. Rispolvera l'istituto pensato dal predecessore Mastella, la "messa in prova", ma raddoppia la massima pena prevista. Chi rischia un processo, prima che cominci (fino al rinvio a giudizio), può chiedere al giudice "d'essere messo alla prova" in cambio di un lavoro socialmente utile. Che alla fine cancellerà tutto, il processo e pure il reato. Peggio dell'indulto dunque, che almeno lascia traccia del delitto sulla fedina penale.

Di Pietro, che litigò con Mastella in piena riunione dei ministri (e così gli anni retrocessero da tre a due), denuncia il nuovo "colpo di spugna", una norma che "salva tutti gli incensurati". Il ddl, previsto già oggi a palazzo Chigi, incappa però nelle ire del titolare del Viminale Maroni che pone un secco altolà. Lo ha detto chiaro, a Berlusconi e Ghedini, nella cena di lunedì sera ad Arcore. Al delfino di Bossi non basta il contentino che Alfano, in un empito di federalismo, dà agli enti locali, comuni in testa, nella gestione dei lavori sostitutivi al carcere. Maroni riflette sulla lunghissima lista di reati, dalla corruzione semplice (punita fino a tre anni), ai falsi in bilancio, che rischiano d'essere lavati via senza un giorno di cella, o solo con la potatura d'un albero. E pure quelli sull'immigrazione.

Per Maroni poi le drastiche misure del ddl sicurezza si sposano male con la manica larga della messa in prova. Una contraddizione che il popolo leghista non capirebbe. L'Anm, con il presidente Luca Palamara, è cauta: "Siamo favorevoli alle misure alternative al carcere, noi stessi ne avevamo parlato con Alfano, ma con un paletto ben fermo, al massimo reati fino a tre anni".

Provvedimento bifronte, quello del Guardasigilli. Venduto, pure nella relazione che accompagna gli otto articoli, come un testo che garantisce "una volta per tutti" la certezza della pena e lega la sospensione condizionale all'obbligo dei lavori utili, ma che al contempo apre alla messa in prova. Un cavallo di troia, fuori la mano dura contro i benefici, dentro il permissivismo per chi delinque fino a quattro anni. Quando Mastella portò in consiglio la soglia dei tre anni Di Pietro parlò di "colpo di spugna su reati edilizi, ambientali, fiscali, gli incidenti sul lavoro". Si calò tra tre a due anni, ora si raddoppia.

Processi evitati per reati odiosi come frodi in commercio, manovre speculative, ma pure per un attentato ad impianti di pubblica utilità, per furti non aggravati, danneggiamenti, usura impropria, appropriazione indebita, omissione di soccorso, per finire alle violenze private. E dire che, nella relazione, si citano "reati di criminalità medio-piccola" per cui "l'esito della messa in prova estingue il reato". Cos'è, se non un'amnistia? A leggere il dibattito post indulto, il centrodestra l'avrebbe chiamata così.

Con un mano Alfano allarga, con l'altra inasprisce. Ecco la riforma della sospensione condizionale della pena che, oggi, non fa andare in carcere chi è alla prima grana giudiziaria. Il ddl prevede che, per fruirne, "il condannato assicuri un parziale ristoro alla collettività". Riecco il lavoro socialmente utile. Che diventerà obbligatorio anche per ottenere affidamento in prova e libertà controllata.

Messa in soffitta la strada del "piano carceri" con braccialetti elettronici ed espulsioni, Alfano sfoga l'incubo delle carceri piene (a marzo 2009 oltre 62mila detenuti come prima dell'indulto) cercando di svuotarle. A sfruttare al meglio le misure sarà chi, grazie a un lavoro di prestigio o a mezzi economici, potrà pagarsi un famoso avvocato e ottenere da Comuni e Regioni i lavori migliori.


(19 novembre 2008)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 18, 2010, 04:45:23 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 04, 2009, 12:27:54 pm »

Il capo dello Stato convoca Alfano al Quirinale: senza modifiche niente firma

Il presidente preoccupato per i rischi di incostituzionalità. Esclusa la fiducia

Legge sulle intercettazioni arriva lo stop di Napolitano

di LIANA MILELLA

 
ROMA - Irragionevole, incostituzionale, gravemente dannosa per le indagini, foriera di scontri con una stampa già pronta allo sciopero del 13 luglio. La legge sulle intercettazioni, così com'è, non va. Napolitano poteva rinviarla alle Camere e dare uno schiaffo a Berlusconi. Ma fedele al motto che "gli strappi tra le istituzioni vanno sempre evitati" (almeno fin dove è possibile), il capo dello Stato l'ha fermata prima del suo ultimo passaggio al Senato.

Con un governo pronto a mettere la fiducia come aveva fatto alla Camera. Dopo un anno di ininterrotta moral suasion, dopo aver messo in allerta Fini e Schifani, il presidente della Repubblica ha compiuto il passo definitivo, ha chiamato al Quirinale il Guardasigilli Alfano. Che arriva lesto lesto.

Poco meno di un'ora di colloquio, accanto i suoi esperti giuridici, un esordio che non consente spiragli di trattativa: "Sono molto preoccupato e turbato per la tensione che si sta creando nel mondo della giustizia e della stampa su questa legge. I miei consiglieri mi spiegano che se dovesse passare così al Senato i vizi di palese incostituzionalità mi costringerebbero a fare un passo che di certo non vi sarebbe gradito". Il ministro della Giustizia, che si è sempre mostrato rispettoso del Colle, non tenta neppure una difesa. Alla fin fine sa che al premier questa legge non è mai piaciuta perché lui ne avrebbe voluta una molto più dura, con gli ascolti autorizzati solo per mafia e terrorismo. Nel rinviarla, soprattutto in ore in cui, per le voci su procure in azione, non vuole scontri con toghe, polizie, servizi, non soffrirà troppo. Napolitano prosegue: "È vero che avete intenzione di mettere la fiducia?".

Alfano si allarga in uno dei suoi sorrisi da bravo ragazzo: "Assolutamente no, presidente, il governo non pensa di farlo. Tutt'altro. Il testo non è blindato, siamo pronti a far tesoro del lavoro della commissione Giustizia. Certo, dopo che è rimasto un anno alla Camera, ci auguriamo che non succeda lo stesso al Senato". Il ghiaccio è rotto, si può pure ragionare dei dettagli e mettere sul tavolo i palesi dubbi di costituzionalità. Non uno, ma numerosi.

A cominciare da quella che il Quirinale considera una pessima, irragionevole, incostituzionale, norma transitoria, forse la buccia di banana più platealmente inaccettabile su cui scivola il ddl. "Le disposizioni della presente legge non si applicano ai procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore". Doveva servire, è servita, per far dire all'avvocato del premier Niccolò Ghedini (e ora anche presidente della Consulta del Pdl sulla giustizia, sempre per tenere ben vivo il conflitto d'interessi) che "questa non è una legge ad personam, visto che non si applica ai processi in corso". E in effetti è così, ma con il rischio di un tal guazzabuglio tra chi godrà di norme più favorevoli e chi no, di giornalisti in galera e altri fuori, di intercettazioni pubblicate ed altre censurate, che l'incostituzionalità è manifesta. Dunque la norma va cambiata. Ma non solo. Il Colle punta il dito sugli "evidenti indizi di colpevolezza" necessari per ottenere un ascolto. Che ne sarà delle indagini contro gli ignoti (autori anche di omicidi), di quelle sui reati che poi portano a scoprire la mafia (usura, racket, rapine e tanti altri)? Giusto nelle stesse ore in cui Alfano è seduto di fronte a Napolitano, al Csm protestano i più noti procuratori antimafia.

Alle orecchie di Alfano risuonano le tante insistenze di Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia della Camera e alter ego di Fini per la giustizia, che si è battuta nella sua maggioranza per "limitare i danni". Ma anche lei, di fronte ai falchi ghediniani e alfaniani che insistevano, ha dovuto piegare la testa sugli "evidenti indizi di colpevolezza" che adesso diventeranno "evidenti indizi di reato". E infine il capitolo sulla stampa, dal carcere (fino a un anno) per i giornalisti che pubblicano intercettazioni da distruggere e che fano protestare anche il Garante della privacy Pizzetti, alle supermulte contro gli editori, ai testi delle telefonate che non si potranno pubblicare neppure per riassunto, creando così una marchiana e irragionevole differenza tra una prova, gli ascolti, e un'altra, una lettera, un verbale d'interrogatorio che invece, quelli sì per riassunto, potranno essere pubblicati.

Non prende appunti Alfano, ma il terremoto che si abbatte sul suo ddl è intensissimo. Non di modifiche formali si tratta, ma di cambiamenti sostanziali. A Napolitano non era affatto piaciuto il grido dell'Anm, "sarà la morte della giustizia", ma i suoi rilievi sono la riprova che la legge stoppa indagini e cronaca giudiziaria. Il Guardasigilli se ne va tranquillizzando il presidente: "Non abbiamo fretta, seguiremo i lavori del Senato". Alfano sa che Berlusconi non vuole spingere l'acceleratore sulla giustizia. La decisione della Consulta sul lodo Alfano è alle viste, le procure incombono, il premier continua ad avere il dubbio che il Bari-gate sia esploso a ridosso del voto della Camera giusto sulle intercettazioni. Questo ddl e la famosa riforma costituzionale della giustizia possono aspettare. Alfano l'ha detto al presidente preoccupato di uno scontro estivo con le toghe: "I prossimi consigli dei ministri saranno dedicati all'economia. Io sono soddisfatto del mio lavoro. Domani (oggi, ndr.) entra in vigore la riforma del processo civile, in cui ho profondamente creduto ed è legge la sicurezza con le norme antimafia più forti da quando è morto Falcone. Che senso avrebbe una riforma costituzionale a metà luglio?". C'è tempo. Magari quando si saprà se la Consulta conferma o boccia il lodo Alfano.

(4 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 01, 2010, 11:55:47 am »

Su oltre 150 emendamenti le opposizioni potrebbero chiedere molti scrutini segreti

Alto il rischio franchi tiratori: il dissenso per la norma salva-Berlusconi all'interno del Pdl è forte

Sul legittimo impedimento il premier teme il voto segreto

di LIANA MILELLA


ROMA - Sono un incubo da giorni i voti segreti sul legittimo impedimento. Il capogruppo del Pdl Cicchitto se li sogna di notte e si prefigura le nefaste conseguenze di una possibile débacle se i franchi tiratori colpissero. Su oltre 150 emendamenti alla legge che, almeno per un po', dovrebbe mettere tranquillo Berlusconi e consentirgli di rinviare i processi, le opposizioni, se volessero, potrebbero chiedere moltissimi scrutini coperti perché il testo, riguardando le libertà personali, ricade tra quelli che possono eludere la consultazione palese. E lì, nelle pieghe di quei voti, potrebbe manifestarsi un duplice e pesante dissenso, tutto interno agli ex forzisti.
 
Il primo: lo scontento per una norma che, ancora una volta, riguarda Berlusconi, con il contentino dei "soli" ministri, perché la manovra di farci rientrare gli oltre 30 sottosegretari si è miseramente arenata sullo scoglio dell'incostituzionalità, come quella di infilare pure "i concorrenti nel reato". Il secondo: i mugugni diffusi per la partita delle prossime elezioni regionali che vede vincenti le richieste della Lega in Veneto e in Piemonte con Cota e Zaia e degli ex di An in Calabria e nel Lazio con Scopelliti e Polverini. La forte convinzione, che diventa dissenso, è che alla fin fine alla vecchia Forza Italia sia rimasto ben poco per via degli appetiti leghisti e aennini.

Come sfogarsi meglio se non colpendo una legge cui il premier tiene moltissimo? Lo temono capogruppo e vice, Cicchitto e Bocchino, che giovedì scorso spediscono una missiva ai deputati anziché il solito sms. Lo rivela e ne pubblica l'originale Antonio Di Pietro sul suo blog, e quella frase rivelatrice della paura di possibili sorprese diventa di pubblico dominio. Al "caro collega" i due scrivono che "non serve ricordare l'importanza che questo appuntamento ha per il Pdl, il presidente Berlusconi e il governo". Pertanto "senza eccezione alcuna" la presenza in aula deve essere "garantita" senza possibili giustificazioni.

Berlusconi è stato perentorio quando mercoledì scorso, dopo il vertice con coordinatori e capigruppo, è rimasto da solo con il Guardasigilli Alfano e ha buttato giù l'agenda dei provvedimenti cui tiene. Il legittimo impedimento in primis, le intercettazioni ormai "morte" al Senato, il processo breve. "Non voglio sorprese" è stato l'ordine. Il giorno dopo è partita la lettera, giusto mentre Pd e Idv cominciavano a esaminare il malloppo degli emendamenti e a far di calcolo su quanti voti segreti si potrebbero chiedere. Anche loro hanno un problema perché il recente episodio del Senato, quando sul processo breve la maggioranza ha avuto più voti del previsto durante l'appello riservato, li fa stare guardinghi.

Ma è pur vero che i due articoli del legittimo impedimento ben si prestano a una dura contestazione in aula. Basti pensare al nuovo compito assegnato alla "presidenza del consiglio dei ministri". Essa "attesta che l'impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni". Per cui "il giudice rinvia il processo ad udienza successiva al periodo indicato". Ciascun rinvio "non può essere superiore a sei mesi". Non uno, due, tre giorni, ma ben sei mesi. Il relatore Pdl Enrico Costa è convinto di aver fatto un'ottima proposta perché la frase appartiene al suo testo originario. La democratica Donatella Ferranti la trova inaccettabile perché "è peggio del lodo Alfano, è un congelamento bello e buono del processo". Per di più con un'assunzione di responsabilità anomala della presidenza del Consiglio che "certifica" la bontà dell'impedimento di un imputato e di fatto ne blocca il processo. Come scrive l'Idv nella sua pregiudiziale di costituzionalità "la dichiarazione di un funzionario dipendente dell'esecutivo non è sottoponibile ad alcuna valutazione critica. In tal modo c'è un'invasione dell'esecutivo nelle prerogative della magistratura, che perde la sua indipendenza dal governo". In barba all'articolo 101 della Costituzione ("I giudici sono soggetti solo alla legge") il giudice "dominus del processo, viene totalmente privato della possibilità di esercitare un qualsivoglia controllo dell'impedimento". Che dovrà tener conto pure "delle attività preparatorie e conseguenti". Un lodo in piena regola che Berlusconi vuole approvare per via non costituzionale nonostante le bocciature della Consulta per i lodi Schifani e Alfano. 

© Riproduzione riservata (01 febbraio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:49:48 am »

Innocenzi avrebbe chiesto pareri giuridici al componente dell'organismo

Imbarazzo tra gli altri membri. "Se vera, sarebbe una condotta intollerabile"

L'inchiesta Agcom apre un caso al Csm nelle intercettazioni citato il consigliere Ferri

di LIANA MILELLA


ROMA - Un interrogativo corre insistente, per tutta la domenica, nella mailing list dell'Anm. Questo: "Ma perché Cosimo Ferri non ha ancora smentito le indiscrezioni che trapelano su di lui dall'inchiesta di Trani?". E ancora: "Se quanto gli addebitano fosse vero, il suo sarebbe un nuovo, grave capitolo della questione morale nella magistratura dai risvolti inquietanti". Gli aggettivi si sprecano, sempre con un "se" davanti. "Se fosse vero", se veramente Cosimo Maria Ferri, quarantenne togato del Csm per Magistratura indipendente, figlio di Enrico, magistrato anche lui e ministro dei Lavori pubblici del Psdi (poi forzista) famoso per il limite dei 110 all'ora, avesse fatto parte della "cricca" del commissario Agcom Giancarlo Innocenzi fornendogli pareri giuridici per Berlusconi, ciò sarebbe "inquietante, avvilente, intollerabile, allucinante".

I messaggi rimbalzano sulle liste, da quella dell'Anm a quelle di ogni singolo gruppo, per finire sui computer del Csm. I cui consiglieri non nascondono "il profondo imbarazzo" per un comportamento che, "se fosse vero, decisamente non sarebbe bello". E che costringerebbe palazzo dei Marescialli a intervenire sulla seguente questione: "Verificare se un magistrato fuori ruolo, coperto da un'immunità para parlamentare che riguarda i suoi comportamenti come componente del Consiglio, può dare consigli tecnici per far sì che il Cavaliere si liberi delle trasmissioni scomode". In un simile caso, si chiedono al Csm, bisogna capire se il procuratore generale della Cassazione debba promuovere un'azione disciplinare.

Per tutta la domenica il cellulare di Cosimo Maria Ferri suona irrimediabilmente spento. Chi lo conosce, come la segretaria di Mi Antonietta Fiorillo, non se ne meraviglia, dice che fa così. Se ne sta rintanato a Pontremoli, il paese in cui vive, di cui suo padre fu sindaco per tre volte. Lui, a Massa, ha fatto il giudice di tribunale. Da lì ha lanciato la scalata al Csm. Dove adesso rischia di finire "sotto processo". L'articolo del Fatto che fornisce le prime indiscrezioni sull'inchiesta di Trani gira nelle liste. Lì è scritto che quando Innocenzi parlava con Berlusconi citava Ferri come il magistrato che gli forniva una consulenza per capire come stoppare i talk show anti-premier.

Qui sta il punto. Che cosa ha veramente fatto Ferri. Che, al Csm, definiscono un "recidivo" perché giusto prima di essere eletto con 553 voti finì nelle intercettazioni di Calciopoli. Componente della commissione vertenze economiche della Federazione gioco calcio, era amico del presidente della Lazio Claudio Lotito (militante romano del Psdi e già amico del padre) e del vice presidente della Figc Innocenzo Mazzini. Sapeva degli intrallazzi sugli arbitri, ma se n'era stato zitto. Imbarazzanti le intercettazioni. Ma il caso, al Csm, è stato archiviato, anche se ha gettato un'ombra sulla sua attività consiliare. Tutta improntata alla lotta contro le correnti anche se, chi lo conosce, dice di lui: "È il grande paradosso della sua vita. Non fa che parlare contro le correnti, ma è il più "correntista" di tutti, ha uno stile berlusconiano, si comporta come un politico, è il primo che chiama il collega dopo una promozione".

Questione di ore, e il caso Ferri esploderà al Csm. Il presidente della settima commissione, quella per l'organizzazione degli uffici giudiziari, dovrà spiegare ai colleghi di che cosa discuteva con Innocenzi e quali pareri gli forniva. Per capire se questo è compatibile con la funzione stessa che ricopre.

© Riproduzione riservata (15 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 07, 2010, 09:33:28 am »

Attesa per il legittimo impedimento

Alfano: "La sinistra non tiene in considerazione la privacy"

Intercettazioni, nuovo stop alla legge

Maggioranza pronta al dialogo

di LIANA MILELLA


ROMA - Doveva essere il fulcro d'esempio della fase post elezioni, la prima soddisfazione che il Cavaliere si voleva togliere subito dopo tante attese e rinvii. Una prova di forza e un'approvazione lampo. E invece ecco che sulla riforma delle intercettazioni, un testo che ormai attende il via libera dal 3 giugno 2008, c'è un nuovo colpo di freno. Il dibattito doveva riprendere oggi nella commissione Giustizia del Senato, era previsto che si aprisse la discussione generale sui 361 emendamenti finora presentati (17 Pdl, 41 Udc, 115 Idv, 143 Pd), tra i quali cinque dei finiani Mario Baldassarre ed Enrico Musso, per chiuderla in fretta e andare in aula. Ma ecco l'improvviso stop, "per cercare un dialogo con l'opposizione", del presidente della commissione, l'ex aennino e avvocato bolognese Filippo Berselli. Che rinvia tutto di una settimana e annuncia un ufficio di presidenza per "aprire un tavolo di confronto". Berselli sfida Pd e Udc: "Si comincerà a misurare la buona volontà dei rami più responsabili della minoranza". Una sorta di sfida anche per il Guardasigilli Angelino Alfano che rilancia la necessità di modificare la seconda parte della Costituzione, ma considera "fondanti" i valori della prima, su cui provoca il Pd: "La sinistra non tiene in considerazione l'articolo 15 che tutela la riservatezza delle comunicazioni". Quindi la privacy, danneggiata giusto dalla pubblicazione delle telefonate.

Le intercettazioni diventano il primo banco di prova di un possibile dialogo. Con un segnale lanciato a Napolitano alla vigilia della decisione sul legittimo impedimento. La maggioranza gli manda a dire: il Colle sappia che sugli ascolti, ddl segnalato dal Quirinale (a luglio 2009 dopo il voto di fiducia alla Camera) per le sue macroscopiche anomalie, il Pdl è pronto ad aprirsi per tentare una riforma condivisa. Messaggio distensivo che può valere anche per il legittimo impedimento. Qualora il presidente decidesse di non firmarlo rinviandolo alle Camere con la richiesta di qualche modifica, i berluscones sarebbero pronti a reagire all'insegna della collaborazione istituzionale come hanno fatto per la legge sul lavoro. Farebbero in fretta i cambiamenti e rinvierebbero il testo al Colle.

Il temporaneo stand by per le intercettazioni, che comunque il presidente Berselli vuole condurre in porto non oltre il 22 aprile, può servire ad aprire un varco per il legittimo impedimento che, se bocciato, avrebbe bisogno di una finestra tra Camera e Senato. Ora, almeno a palazzo Madama, lo spazio è stato creato. Come il canale di un possibile dialogo con Udc e Pd. Un segnale che però non ha ancora raggiunto i destinatari. Nell'Udc è del tutto all'oscuro Michele Vietti che da sempre sovrintende sulla giustizia. Idem nel Pd dove, fino a ieri, né il responsabile per le Riforme Luciano Violante, né quello per la Giustizia Andrea Orlando, avevano ricevuto segnali dai partiti di governo.

La partita è molto complessa. Separazione delle carriere dei giudici e dei pm, conseguente divisione in due del Csm con un'alta corte separata per i processi disciplinari contro le toghe, discrezionalità dell'azione penale (al posto dell'obbligatorietà), inappellabilità delle sentenze, eventuale responsabilità civile dei magistrati, subito la proroga del Csm e una nuova legge elettorale in chiave anti-correnti: questioni che contrappongono i poli e provocheranno un'alzata di scudi della magistratura. Anche se Napolitano raccomanda riforme condivise, con lo scontro elettorale appena chiuso alle spalle e il peso delle leggi ad personam (le stesse intercettazioni, il legittimo impedimento, lo scudo salva premier, il processo breve), è difficile ipotizzare una nuova Bicamerale. A partire dalla legge che di fatto azzera la possibilità per i pm di ascoltare le telefonate.

© Riproduzione riservata (07 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 07, 2010, 04:30:15 pm »

Attesa per il legittimo impedimento

Alfano: "La sinistra non tiene in considerazione la privacy"

Intercettazioni, nuovo stop alla legge

Maggioranza pronta al dialogo

di LIANA MILELLA


ROMA - Doveva essere il fulcro d'esempio della fase post elezioni, la prima soddisfazione che il Cavaliere si voleva togliere subito dopo tante attese e rinvii. Una prova di forza e un'approvazione lampo. E invece ecco che sulla riforma delle intercettazioni, un testo che ormai attende il via libera dal 3 giugno 2008, c'è un nuovo colpo di freno. Il dibattito doveva riprendere oggi nella commissione Giustizia del Senato, era previsto che si aprisse la discussione generale sui 361 emendamenti finora presentati (17 Pdl, 41 Udc, 115 Idv, 143 Pd), tra i quali cinque dei finiani Mario Baldassarre ed Enrico Musso, per chiuderla in fretta e andare in aula. Ma ecco l'improvviso stop, "per cercare un dialogo con l'opposizione", del presidente della commissione, l'ex aennino e avvocato bolognese Filippo Berselli. Che rinvia tutto di una settimana e annuncia un ufficio di presidenza per "aprire un tavolo di confronto". Berselli sfida Pd e Udc: "Si comincerà a misurare la buona volontà dei rami più responsabili della minoranza". Una sorta di sfida anche per il Guardasigilli Angelino Alfano che rilancia la necessità di modificare la seconda parte della Costituzione, ma considera "fondanti" i valori della prima, su cui provoca il Pd: "La sinistra non tiene in considerazione l'articolo 15 che tutela la riservatezza delle comunicazioni". Quindi la privacy, danneggiata giusto dalla pubblicazione delle telefonate.

Le intercettazioni diventano il primo banco di prova di un possibile dialogo. Con un segnale lanciato a Napolitano alla vigilia della decisione sul legittimo impedimento. La maggioranza gli manda a dire: il Colle sappia che sugli ascolti, ddl segnalato dal Quirinale (a luglio 2009 dopo il voto di fiducia alla Camera) per le sue macroscopiche anomalie, il Pdl è pronto ad aprirsi per tentare una riforma condivisa. Messaggio distensivo che può valere anche per il legittimo impedimento. Qualora il presidente decidesse di non firmarlo rinviandolo alle Camere con la richiesta di qualche modifica, i berluscones sarebbero pronti a reagire all'insegna della collaborazione istituzionale come hanno fatto per la legge sul lavoro. Farebbero in fretta i cambiamenti e rinvierebbero il testo al Colle.

Il temporaneo stand by per le intercettazioni, che comunque il presidente Berselli vuole condurre in porto non oltre il 22 aprile, può servire ad aprire un varco per il legittimo impedimento che, se bocciato, avrebbe bisogno di una finestra tra Camera e Senato. Ora, almeno a palazzo Madama, lo spazio è stato creato. Come il canale di un possibile dialogo con Udc e Pd. Un segnale che però non ha ancora raggiunto i destinatari. Nell'Udc è del tutto all'oscuro Michele Vietti che da sempre sovrintende sulla giustizia. Idem nel Pd dove, fino a ieri, né il responsabile per le Riforme Luciano Violante, né quello per la Giustizia Andrea Orlando, avevano ricevuto segnali dai partiti di governo.

La partita è molto complessa. Separazione delle carriere dei giudici e dei pm, conseguente divisione in due del Csm con un'alta corte separata per i processi disciplinari contro le toghe, discrezionalità dell'azione penale (al posto dell'obbligatorietà), inappellabilità delle sentenze, eventuale responsabilità civile dei magistrati, subito la proroga del Csm e una nuova legge elettorale in chiave anti-correnti: questioni che contrappongono i poli e provocheranno un'alzata di scudi della magistratura. Anche se Napolitano raccomanda riforme condivise, con lo scontro elettorale appena chiuso alle spalle e il peso delle leggi ad personam (le stesse intercettazioni, il legittimo impedimento, lo scudo salva premier, il processo breve), è difficile ipotizzare una nuova Bicamerale. A partire dalla legge che di fatto azzera la possibilità per i pm di ascoltare le telefonate.

© Riproduzione riservata (07 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 09, 2010, 04:27:45 pm »

Battaglia in commissione Giustizia della Camera sul disegno di legge che prevede la "messa in prova" per le pene fino a tre anni

Carceri, la Lega contro Alfano "Prepara un'amnistia mascherata"

di LIANA MILELLA


ROMA - Lega contro Alfano. Per via delle nuove norme che consentono di "mettere alla prova" con lavori socialmente utili chi è stato condannato a tre anni e di affidare ai domiciliari chi ha da scontare solo un anno di pena. Uno scontro all'insegna del nuovo clima politico frutto della vittoria elettorale che pone la Lega in modo protagonistico nella coalizione. Carroccio sulla stessa linea di Di Pietro contro "un indulto strisciante e un'amnistia mascherata". Pd schierato col Guardasigilli per alleggerire, anche se con molte cautele e distinguo, l'emergenza carceri. Il sottosegretario alla Giustizia, l'ormai ex magistrato Giacomo Caliendo in quota Pdl (è andato in pensione), costretto a dire a brutto muso al leghista Nicola Molteni "ehi tu stai calmo e modera i toni...". Il relatore Alfonso Papa, toga pure lui ed ex di via Arenula, sdrammatizza i contrasti ("Siamo solo all'inizio"). Ma la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, che condivide la ratio del ddl e cerca di mediare, è preoccupata per l'evidente tensione nella maggioranza e vede in pericolo la possibilità di approvare il testo prima di agosto, quando Alfano e il capo delle carceri Franco Ionta temono esplosioni di protesta per via di un sovraffollamento che non ha mai raggiunto picchi così alti (è giusto di ieri la "battitura" contro le inferriate, durata mezzora, in tre padiglioni di Poggioreale a Napoli).

Succede tutto in commissione Giustizia alla Camera dove s'avvia la discussione sui due istituti, messa alla prova e domiciliari per il residuo di un anno, che il ministro della Giustizia aveva portato in consiglio dei ministri il 12 gennaio. Allora il progetto era stato accolto dal gelo dei ministri leghisti Maroni e Calderoli. Ma ieri sono esplosi i distinguo. Molteni non ha nascosto le "forti perplessità", ha chiesto precise garanzie sull'impatto. Ha precisato che la ricetta della Lega, fedele al motto della "certezza della pena", è "costruire nuove carceri, senza svuotare quelle esistenti". Poi le parole forti, "indulto e amnistia mascherata" che fanno infuriare Caliendo. Il quale deve subire il fuoco amico dei pidiellini Francesco Paolo Sisto e Manlio Contento che contestano singoli aspetti tecnici.

La maggioranza si spacca. Ma pure l'opposizione è divisa. L'ex pm Antonio Di Pietro boccia severamente entrambe le misure perché la messa alla prova è "una scorciatoia di non punibilità che lascia impunita la microcriminalità". Mentre l'ultimo anno ai domiciliari "è una vera sconfitta dello Stato", in quanto non si capisce sulla base di quale criteri si dica "vabbè, ti abbuono un anno di carcere". L'asse Lega-Di Pietro si scontra con la posizione del Pd. Dove, dopo un'iniziale incertezza, viene dato il via libera alla cosiddetta "legislativa", la possibilità di approvare il testo in commissione senza passare dall'aula. Per questo si batte la radicale Rita Bernardini che, reduce con Marco Pannella da visite pasquali nei penitenziari dell'Ucciardone (Palermo) e di Poggioreale, minaccia di ricorrere a nuove forme di protesta non violenta (scioperi della fame).

La democratica Donatella Ferranti condivide lo spirito delle due proposte, ma chiede precise garanzie sull'impatto e soprattutto sulle misure economiche per sostenere il progetto che invece non sono affatto previste, in quanto il governo esclude di investire anche un solo euro, come recita l'esplicita "clausola di invarianza finanziaria". La Ferranti vuole anche capire come si potrà mettere ai domiciliari chi, come gli immigrati, una dimora non ce l'ha e rischia di finire diritto nei Cie. Mercoledì prossimo si riprende. Toccherà a Caliendo portare i numeri e mediare tra posizioni che appaiono inconciliabili.

© Riproduzione riservata (09 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 21, 2010, 06:47:58 pm »

IL RETROSCENA

Intercettazioni, linea dura del Pdl nella legge bavaglio per i giornalisti

Il nuovo testo sarà depositato oggi alle 14 in commissione Giustizia al Senato.

La durata degli ascolti sarà di 60 giorni, necessaria la prova che un reato è in corso.

Vietata la pubblicazione anche di un riassunto fino alla conclusione delle indagini preliminari.

La conferma di Schifani in un incontro con l'Anm 

di LIANA MILELLA


ROMA - Contro i giornalisti, e quindi contro gli editori, la maggioranza compatta non molla di un millimetro. Anzi, se potesse, inasprirebbe ancora di più la riforma delle intercettazioni. Resterà rigida la regola per cui delle telefonate sbobinate non si potrà più pubblicare una riga, neppure per riassunto, fino alla chiusura delle indagini preliminari. Cioè, magari, per anni. Addio diritto di cronaca su inchieste come quelle di Firenze, di Trani o di Calciopoli, solo per citare le ultime raccontate dai giornali. Sul resto il governo qualcosa è disposto a cedere, ma sul bavaglio alla stampa no.

La conferma arriva dal presidente del Senato Renato Schifani che incontra le toghe dell'Anm giusto mentre, in via Arenula, politici e tecnici mettono a punto le modifiche alla legge sugli ascolti. C'è il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, il relatore Roberto Centaro, il direttore dell'ufficio legislativo Augusta Iannini. Il Guardasigilli Angelino Alfano fa capolino. Il nuovo testo dovrà essere pronto per oggi alle 14 per essere depositato in commissione Giustizia a palazzo Madama. Da Schifani, come dalla riunione, ecco la netta conferma del pugno duro contro la stampa: niente telefonate sui giornali o recitate in tv, nemmeno per sintesi. Un totale black out.
Multe agli editori, fino a 500mila euro, se ne consentono la pubblicazione.

Almeno su questo Berlusconi ha imposto il divieto di trattative o cedimenti. Passi sugli "evidenti indizi di colpevolezza" che diventano "gravi indizi di reato", per via di Napolitano che minaccia di rimandare la legge alle Camere se il testo resta identico. Ma sulla pubblicazione degli ascolti il Cavaliere ha un "alleato" nello stesso presidente della Repubblica, cui le paginate di verbali non sono mai piaciute. E dunque avanti, multe più salate di oggi, fino a 10mila euro per una telefonata finita in pagina ("solo" 5mila per un altro atto del procedimento), carcere fino a un anno se si pubblicano ascolti destinati alla distruzione.

Sul resto il premier qualcosa molla. Il presidente dell'Anm Luca Palamara, fuori dallo studio di Schifani, parla di "apertura positiva".
Si riferisce ai "gravi indizi di reato", la formula già presente oggi nel codice di procedura penale, che per le toghe fa venir meno l'incubo degli "evidenti indizi di colpevolezza", formula che avrebbe bloccato qualsiasi indagine. Il presidente del Senato non anticipa di più, ma il resto delle modifiche non copre di certo la mole di critiche di giudici e giuristi alla riforma. A cominciare dai paletti rigidi che circonderanno i "gravi indizi di colpevolezza". Come la stretta sulle utenze che dovranno essere "intestate" agli indagati o comunque da essi "utilizzate" o dai limiti rigidi ad allargare, pur di poco, la sfera degli intercettati.

Per il resto le maglie si allargano di poco. Di certo si ampliano per i parlamentari, attuando subito un paio di recenti sentenze della Consulta (113 e 114): quando qualcuno di loro ricadrà per caso in un ascolto, il magistrato avrà il dovere di chiedere subito l'autorizzazione (e quindi mettere nel nulla l'ascolto medesimo visto che con la richiesta cade anche qualsiasi segreto). Ma su norma transitoria, durata, microspie, tabulati, autorizzazione del tribunale collegiale, le modifiche sono minimali. In alcuni casi inesistenti. Alla fine i falchi hanno vinto sulle colombe. Ad esempio la legge entrerà in vigore sì solo per i processi futuri, ma quelli attuali avranno solo tre mesi di tempo per mettersi in regola. La durata rimane di 60 giorni al massimo (salvo casi eccezionalissimi). Per mettere le microspie ci vorrà la prova che in quel luogo si sta commettendo un reato. La richiesta dei tabulati telefonici dovrà obbedire alle stesse regole delle telefonate. E toccherà a un tribunale di tre persone autorizzare quello che prima passava per le mani di un solo giudice.
Con quale dispendio di tempo e di energie si può immaginare fin d'ora.

Buonanotte, intercettazioni.

(20 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 25, 2010, 04:12:15 pm »

Ddl intercettazioni, il dubbio del Cavaliere "Così è inutile, meglio seppellirlo"

La minaccia dei finiani: contesteremo il ddl in aula a palazzo Madama

di LIANA MILELLA


ROMA - Tre fatti, e un antefatto, costituiscono la nuova puntata del fotoromanzo delle intercettazioni. Svoltasi ieri, fotogramma per fotogramma, tra Camera e Senato. Il primo fatto: la linea "durissima" di Fini. Che parla con Gianni Letta e conferma di essere "fermamente convinto" nel voler difendere fino allo stremo il diritto di cronaca, e quindi la necessità di modificare la legge sulle intercettazioni. L'emendamento Bongiorno sugli atti pubblicabili "almeno per riassunto deve assolutamente rientrare". Se non dovesse essere così la pattuglia dei dodici finiani del Senato è pronta ad alzarsi e ad andarsene dall'aula quando comincerà la discussione.

Il secondo fatto: la mediazione del presidente del Senato Renato Schifani che, politicamente, decide: "Non voglio veder uscire da questo palazzo una legge bavaglio". E per tutta la giornata, nella massima riservatezza, decide di diventare protagonista della possibile intesa. Con l'obiettivo di raggiungere "un accordo politico finale" che medi tra il testo chiuso in commissione e quello della Camera. E che ruota intorno a questo risultato: "A palazzo Madama dobbiamo riuscire a ottenere un definitivo punto di intesa che poi passi anche a Montecitorio". Quindi un articolato che tenga conto delle richieste dei finiani e della clausola salva-cronaca della Bongiorno. Schifani si spende in prima persona, sente i capigruppo di maggioranza e opposizione. Benedice l'incontro tra Gasparri, Quagliariello e Cicchitto.

Terzo fatto. Alle otto di sera Schifani convoca Angelino Alfano e parla con lui per un'ora. Il Guardasigilli è preoccupato per quella che i media già battezzano come una marcia indietro. Teme gli effetti negativi per la sua immagine e per il governo. Vuole gestirli per tentare di arginarli. Discutono in concreto di cosa cambiare: la salva-cronaca, le sanzioni per giornalisti ed editori, da abbassare entrambe. Anche oltre quello che prevedeva il testo di Montecitorio, dove c'era già la multa da 465mila euro. Alfano esce e va giù in commissione Giustizia dove tenta di stemperare il clima, rivendica "come del governo" il solo emendamento sui "gravi indizi di reato" al posto degli "evidenti indizi di colpevolezza", e scarica sul relatore Roberto Centaro ("Sono iniziative parlamentari") tutti gli altri, il salva-cronaca della Bongiorno soppresso, le multe più salate, il comma D'Addario. Ma di fatto dà all'opposizione quello che chiedeva: la promessa ufficiale del governo che il testo cambierà.

Detti i fatti nuovi, siamo all'antefatto. Il dubbio, che da alcuni giorni serpeggia nella mente del Cavaliere, se non sia il caso di mandare tutto all'aria. Chiudere il capitolo delle intercettazioni. Lasciar morire il ddl in un ramo del Parlamento com'è avvenuto per il processo breve. Quello doveva servirgli per bloccare i suoi dibattimenti, ma poi è arrivato il legittimo impedimento. Questa, la legge sugli ascolti, per usare le sue parole, "non serve più a nulla". Non fa che dirlo: "Per come l'avete scritta, non mi è mai piaciuta, ora è un compromesso al ribasso inaccettabile. L'avevo detto io: le intercettazioni si devono poter fare solo per mafia e terrorismo. E voi ci avete messo pure la corruzione. A questo punto a che serve?". Abbandonarla dunque, dopo il passaggio al Senato. Non dare a Fini quest'ultima soddisfazione di obbedire ai suoi diktat. E magari incassare un bonus pure dagli americani, visto che a quell'amministrazione questa legge non piace. Berlusconi la pensa così, ma molti tra i suoi lo tengono a freno, temono una brutta figura peggiore della retromarcia su singole modifiche, spingono per un compromesso. Per questo Schifani media. E Alfano obbedisce.
 

(25 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/25/news/ddl_intercettazioni_il_dubbio_del_cavaliere_cos_inutile_meglio_seppellirlo-4310990/?ref=HREA-1
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 28, 2010, 05:09:44 pm »

L'INTERVISTA

"Pm antimafia a rischio ricusazione ai boss basterà fare una denuncia"

Grasso: dopo il '92 Cosa Nostra cercò nuovi referenti politici.

Una banale fuga di notizie permetterà a Riina o a Provenzano di sbarazzarsi dei magistrati che stanno indagando su di loro

di LIANA MILELLA


ROMA - Se parli col procuratore nazionale antimafia Piero Grasso è d'obbligo, innanzitutto, chiedergli delle stragi di mafia e di quella "entità esterna" di cui si parla dal giorno dopo in cui avvennero. In tempi di stretta sulle intercettazioni urge capire se i magistrati avrebbero le mani libere per indagare ancora. Lui replica: "Anche se per la mafia non ci sono limitazioni, tuttavia un pm dovrebbe abbandonare un processo se un Riina o un Provenzano lo denunciano per una banale fuga di notizie". E le modalità dell'entrata in vigore della legge sembrano fatte apposta "per fermare talune inchieste in corso".
Cosa nostra da chi ricevette l'input per quegli attentati?
"Già nel '99, nel decreto di archiviazione sottoscritto da me assieme a Gabriele Chelazzi e ai magistrati di Firenze, erano venuti fuori una serie di elementi da cui si poteva dedurre che la mafia, dopo l'omicidio Lima nel marzo '92, aveva azzerato i rapporti con i referenti politici tradizionali, e comprensibilmente ne cercava di altri".
E ci sono segnali su dove si stava orientando?
"Nessuno preciso, ma nel corso delle indagini vennero fuori alcun movimenti come quello delle leghe del sud o di Sicilia libera che potevano rispondere alle esigenze di Cosa nostra".
Al punto da suggerire tre attentati fatti e uno, quello dell'Olimpico, fallito?
"Le stragi, secondo le ricostruzioni di allora, avevano da un lato la forma di un ricatto allo Stato per ottenere dei vantaggi, quelli indicati nel famoso papello (41 bis, abolizione di ergastolo e pentiti) e dall'altro le modalità tipiche del terrorismo mafioso lasciavano intravedere interessi di un aggregato economico imprenditoriale e politico che volesse conservare la situazione esistente".
Le stragi indicavano un percorso dopo l'esplosione di Mani pulite nel febbraio '92 e il crollo della Dc e del Psi?
"Teoricamente il vuoto che si era creato poteva essere colmato da qualsiasi formazione politica di destra o di sinistra. La strategia della tensione di quel '93 si può ricostruire anche attraverso una serie di fatti come l'autobomba in via dei Sabini, il black out a palazzo Chigi, le bombe nei treni a Firenze e a Roma, le rivendicazioni della Falange armata. Qui si collocano le stragi. Dietro c'era una regia che non poteva essere soltanto della mafia. Ma allo stato, non c'è ancora una prova giudiziaria dei contatti tra questa entità e Cosa nostra".
I mafiosi, lo dicono i pentiti, guardavano con attenzione alla nascita di Forza Italia. Con le stragi volevano agevolarla?
"Dobbiamo stare attenti alla cronologia. Non risulta che all'epoca delle stragi di Firenze, Roma e Milano fosse già nato quel partito politico".
E lei al momento se la sente di escludere che Cosa nostra già sapesse dell'intenzione di Berlusconi di fondarlo?
"Per qualsiasi responsabilità giudiziaria occorre dimostrare un'intesa preventiva funzionale all'attuazione della strategia stragista. È provato che Cosa nostra non aveva ottenuto alcun risultato dalle stragi compiute. La teoria del ricatto non aveva funzionato".
Se fosse stata in vigore la riforma delle intercettazioni sarebbe venuto un danno a queste inchieste?
"Certamente no, trattandosi di indagini sulla mafia. Tranne per il fatto che l'autorizzazione è demandata a un tribunale collegiale. Il che certamente provocherà gravi disagi nell'organizzazione degli uffici, soprattutto in quelli di piccole e medie dimensioni, ove l'incompatibilità dei magistrati a trattare più volte lo stesso fatto porterà a non avere più giudici per fare i processi. Senza contare che anche il sabato e la domenica ci dovrà essere sempre un tribunale pronto ad autorizzare un ascolto. Non parliamo poi della previsione assurda di obbligare il pm a inviare ogni volta tutti gli atti compiuti fino a quel momento. Le cancellerie scoppieranno di faldoni, affastellati pure nei corridoi, e i rischi di fughe di notizie aumenteranno".
Che succede, nel caso delle stragi, se un imputato denuncia un pm per una fuga di notizie? Per la legge dovrebbe lasciare il processo?
"È una norma molto grave perché collega automaticamente la sostituzione del pm o del suo capo al mero dato formale dell'iscrizione nel registro degli indagati. Si possono prevedere le conseguenze devastanti per i delicati equilibri delle procure di fronte a continue denunzie strumentali contro i magistrati".
Per capirci, se un Riina o un Provenzano denunciassero un pm antimafia, e questo fosse iscritto nel registro degli indagati, poi se ne dovrebbe andare?
"Sì, certamente".
Poter intercettare solo per 75 giorni per un'estorsione o un voto di scambio favorisce la mafia?
"Se dietro quei reati c'è un'organizzazione criminale certamente sarà più difficile scoprirla".
La regola per cui si possono mettere microspie solo nei luoghi dove c'è già la certezza che si sta commettendo un reato non impedirà molte indagini?
"Sì, ma non quelle di mafia. Per tutte le altre sarà più difficile scoprire i colpevoli anche a causa dei tempi limitati degli ascolti che sono inferiori ai termini previsti per indagare".
I tempi dell'entrata in vigore: è giusto che il limite dei 75 giorni per intercettare si applichi subito ai processi in corso compresi quindi anche quelli della cricca?
"Le norme procedurali di solito valgono per il futuro e non si applicano ai procedimenti pendenti. Se eccezione si è prevista, evidentemente è perché talune indagini vanno fermate al più presto".

(28 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/05/28/news/grasso_legge_intercettazioni-4394715/?ref=HREC1-4
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 01, 2010, 11:49:09 am »

IL RETROSCENA

L'ira del cavaliere su Gianfranco "E' scorretto, così fa saltare tutto"

La tensione torna alta fra il premier e il cofondatore.

I berlusconiani temono che Fini costringa a dirottare il ddl sulle intercettazioni su un binario morto

di LIANA MILELLA


ROMA - Se l'aspettavano l'uscita di Fini, ma non così. Erano convinti di trovarsi, nei giornali del weekend, un'intervista di Giulia Bongiorno con i dubbi sulla legge. E già erano pronti a una trattativa soft, per correggere il testo qui e là, prima del voto al Senato. Avevano fatto di tutto per veicolare una sorta di contro informazione, raccontando che i finiani avevano già sottoscritto l'accordo, che non avrebbero stracciato il patto. E quindi la sorpresa è stata grande. Con un effetto scenico sorprendente: il relatore Roberto Centaro sta leggendo la relazione, Schifani vende la mediazione e tiene a bada il Pd, ma ecco a sorpresa sulle agenzie la stroncatura di Fini. Ora la contrapposizione è sotto gli occhi di tutti. E riguarda ancora una volta i processi in corso. "Sempre la stessa storia, come per la blocca processi o il processo breve" chiosa una buona fonte del Pdl.

Da tenere dentro, o da tenere fuori, dalla legge sulle intercettazioni. L'alternativa è tutta qui. Solo di questo si discute nei corridoi. Furiosi per l'uscita di Fini, i berluscones ieri se lo confessavano tra loro, consci del cul de sac nel quale si sono cacciati con le loro stesse mani: "O pieghiamo la testa, e la legge lascerà indenni le indagini che si stanno svolgendo contro di noi, oppure mandiamo a mare tutto. E comunque, in un caso come nell'altro, Fini ci ha legato le mani". Usano anche parole più crude, ma la sostanza è questa. Roventi le telefonate con il Cavaliere. Adirato come non mai contro Fini. Al punto da ordinare una duplice offensiva. La prima: l'attacco, affidato a Schifani, sul piano istituzionale per quello che Berlusconi considera una esondazione di Fini rispetto al suo ruolo di terza carica dello Stato. Schifani svolge puntuale il compitino. La seconda: la contestazione nel merito. La polemica sui giorni concessi per intercettare, che erano 60 alla Camera e sono diventati 75 al Senato. Ci si esercitano tutti, Gasparri, Quagliariello, Cicchitto. "Come si permette Fini di criticare se la nostra durata è maggiore di quella che i suoi hanno pure votato?". Facendo finta di dimenticarsi, come sanno bene i finiani, che a Montecitorio la norma transitoria diceva che "la legge non si applica ai processi in corso", mentre quella del Senato invece applica a tutti e subito la durata breve, e quindi blocca tutte le intercettazioni e stronca tutte le inchieste in corso. Per questo l'ex pm Antonio Di Pietro parla di norme che "favoriscono la cricca".

Nella sua collera Berlusconi non fa sconti: "Basta. Se continuate ad ammorbidire questa legge io la blocco. Già non mi è mai piaciuta, con dentro la corruzione, ma se andate avanti nell'attenuarla faremo ridere dopo averla approvata. Ormai non serve più a niente". Con i suoi giudica la mossa di Fini con una sola parola, "scorretta". Vorrebbe rispondergli a tono, convoca capigruppo e coordinatori nonostante il 2 giugno sia festa. Come dice al Senato Gaetano Quagliariello "qui si è aperto un problema politico enorme". Che attiene, all'interno del partito, al potere di veto del co-fondatore.

Ma di mezzo ci sono le intercettazioni. E bisogna pure uscirne. E anche in fretta. In viaggio in Sudafrica il ministro della Giustizia Angelino Alfano, Niccolò Ghedini si impossessa della scena. Annusata la mala parata di Fini, innanzitutto piglia tempo e consiglia il rinvio in commissione. Adesso c'è una settimana di tempo per trovare un'intesa o rompere definitivamente. O ancora lasciare con un escamotage che il ddl finisca su un binario morto, visto che non piace al Cavaliere. Falchi e colombe si scontrano. Tenere duro, consigliano i primi, approvare così com'è il testo al Senato. E lasciare che lo scontro avvenga alla Camera, magari decidendo a quel punto di "sacrificare" una legge che tanto non realizza più lo scopo di fermare le inchieste sugli appalti. I secondi propongono un compromesso: accontentare Fini e tornare al testo della Camera, dove era scritto che la legge non si applicava ai processi in corso. E risolvere anche la querelle dei 75 giorni lasciando invariato il tetto, ma con una clausola di salvaguardia se, come dice Fini, all'ultimo giorno gli ascolti rivelano una notizia fondamentale.

Dovranno parlarsi, dopo un black out di oltre sei mesi, Ghedini e la Bongiorno. Ma ancora a ieri sera non c'era stato nessun contatto. Silenzio. Telefoni muti. Rapporti rotti proprio sulle intercettazioni. A luglio di un anno fa, quando il testo uscì da Montecitorio dopo un duro braccio di ferro. Disse allora la Bongiorno che si trattava di "un compromesso che poteva essere migliorato". Poi intervenne Napolitano. Consigliò ad Alfano di buttare via gli "evidenti indizi di colpevolezza". Lei sottolineò che "sarebbe stato saggio seguire quelle indicazioni". Poi sono esplose le inchieste sugli appalti. E al Senato l'ordine impartito è stato quello di utilizzare la legge sugli ascolti per renderle inoffensive. Con un duplice sistema: stop alle intercettazioni con i 75 giorni, via i pm scomodi con una denuncia per una fuga di notizie. Ma Fini e la Bongiorno si sono messi di traverso.

(01 giugno 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2010/06/01/news/ira_berlusconi-4482525/?ref=HRER2-1
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 11, 2010, 05:31:58 pm »

IL RETROSCENA

Fini rallenta il sì di Montecitorio "La priorità ora è solo la manovra"

Sulla legge sulle intercettazioni dubbi nel Pdl e anche nella Lega.

Pisanu: "Spero che la Camera migliori il testo"

di LIANA MILELLA


ROMA - È un brutto risveglio per Fini e i finiani. Invasi i blog, una pioggia di mail, telefonate su telefonate. I fans bocciano senza appello la nuova legge. Criticano un inciucio prematuro e inopportuno con Berlusconi siglato nell'ufficio di presidenza di martedì. Chiedono che alla Camera si faccia presto marcia indietro e si cambi il testo. Il dissenso nel gruppo man mano si allarga tra i fautori del compromesso e i duri e puri. E poi gli occhi puntati sul Quirinale il cui ostinato silenzio e il rinvio al giudizio finale viene interpretato come la manifestazione di un evidente malcontento sul provvedimento. Fa riflettere la notizia di un Napolitano che si rifiuta di ricevere informalmente il testo del maxi-emendamento dalle mani del Guardasigilli Alfano, perché non vuole essere coinvolto, né tantomeno rimanere impigliato nella trattativa sulle modifiche. Tutto ciò porta Fini a dire ai suoi: "Non potevamo far cadere il governo sulle intercettazioni alla vigilia della discussione sulla manovra, la gente non avrebbe capito. Ma forzare la mano e mettere la fiducia al Senato è stato un errore di Berlusconi perché ha impedito un ulteriore confronto, ha congelato il testo, ha bloccato altre e possibili migliorie".

È questo il tormentone dei finiani. Che s'intreccia con il gelido silenzio del Colle. Venti di guerra cattivi per il Cavaliere. Come quello dell'accordo tra Fini e Tremonti per anticipare la discussione sulla manovra alla Camera a discapito delle intercettazioni che finirebbero per slittare a fine luglio. Quando lo apprende il premier reagisce malissimo, lo interpreta come un atto di ostilità: "Come al solito Gianfranco non sta ai patti e vuol far saltare l'accordo". Magari con la speranza che nel frattempo escano sui giornali quelle che si preannunciano come succose intercettazioni dell'inchiesta sugli appalti di Perugia. Potrebbe saltare il governo e si aprirebbe la via per un esecutivo tecnico-istituzionale.

Mentre Berlusconi vede i fantasmi, Fini delinea una possibile strategia. Ricevere il testo del Senato, mandarlo in commissione Giustizia dove c'è Giulia Bongiorno, accogliere le richieste delle opposizioni che vogliono più tempo per discutere. Dibattere senza ipotizzare una nuova fiducia. Anche perché la prospettiva alla Camera, dove prima si vota la fiducia posta dal governo e poi di nuovo in segreto sull'intero ddl, ci sarebbero sorprese. Diceva ieri un finiano: "Il dissenso è molto forte. Molti voterebbero la fiducia per disciplina, ma si esprimerebbero contro il ddl che non condividono. Il governo ne uscirebbe malissimo".

Le perplessità non sono un segreto. Basta leggere Ffwebmagazine, il periodico online della fondazione finiana Farefuturo dove il direttore Filippo Rossi, a quanto pare ispirato dallo stesso Fini, scrive: "Tanto è cambiato, è vero, ma tanto forse poteva ancora cambiare. È inutile nasconderla questa delusione verso se stessi. Il ddl poteva limitare le esagerazioni di una pratica spiona, senza limitare la libertà d'informazione". Fabio Granata chiede che il testo cambi: "Auspico un percorso di revisione concordato e limitato ad ambientali e reati spia". Il presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu, la cui vicinanza a Fini non è un mistero, vota la fiducia al Senato, poi esce e dichiara: "Ben vengano le migliorie al testo. Come si fa a non augurarselo?".

Le brutture della legge sono lì, sono quelle che inquietano i tecnici del Colle. La censura sulle intercettazioni che non avranno lo stesso status di altre carte non più coperte da segreto ma pubblicabili. Il pasticcio della norma transitoria tra vecchi e nuovi processi. La durata breve e brevissima per intercettazioni e microspie. Granata e la Bongiorno riescono a leggere il testo del maxi-emendamento solo quando il Senato lo ha già votato. Esplode Granata: "C'è stata un'eccessiva accelerazione nel voler chiudere l'accordo politico. Anche tra di noi ha prevalso il partito della mediazione per la mediazione. O peggio quello dei teorici del mutuo che vogliono tranquillità e quieto vivere. Ma io posso vantare di aver sempre avuto ragione, su Cosentino, su Scajola, sui medici spia. Vincerò anche questa volta". Carmelo Briguglio disegna il possibile futuro: "C'è tutto il tempo per far maturare una nuova consapevolezza nel Pdl sul fatto che è necessario migliorare il testo. La moral suasion del Quirinale è maggiore proprio per via del silenzio imposto da Napolitano". Si cambi allora e si ritorni al Senato.

(11 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/11/news/retroscena_fini-4742967/?ref=HRER1-1
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 22, 2010, 09:43:26 am »

RETROSCENA

La mossa del Colle sorprende Berlusconi "Ora ci detta pure l'agenda parlamentare"

Il pressing del Quirinale per rinviare a settembre il ddl.

Per il Pdl l'uscita di Napolitano suona come la pietra tombale ad ogni possibile blitz.

Oggi e domani vertice del Pdl e incontri con i finiani sulle intercettazioni

di LIANA MILELLA


ROMA - Ai suoi, ai più fidi berluscones, ha dato l'ordine di tapparsi la bocca. Su Napolitano meglio evitare qualsiasi commento.
Lui, il Cavaliere, fortemente sorpreso, ha masticato amaro e con più d'uno ha chiosato: "Adesso pretende anche di dettare l'agenda parlamentare". Berlusconi non ha gradito affatto l'intervento del capo dello Stato che ha interpretato nell'unico modo in cui quelle parole potevano essere lette, un caldo invito, di quelli che non si possono rifiutare, a rinviare a settembre non solo il voto, ma tutta la discussione politica sulle intercettazioni.

Esattamente il contrario di quello che il premier avrebbe voluto fare e per cui lui e i suoi hanno lavorato in questi giorni: chiudere al più presto il provvedimento, fare il minor numero di modifiche per accontentare Fini (e lo stesso Quirinale), ma approvare comunque il ddl alla Camera, tentando anche, grazie al fido Schifani, il blitz al Senato. Giusto a realizzare il piano servivano gli appuntamenti politici della settimana, oggi una colazione con capigruppo e coordinatori del Pdl per preparare l'ufficio di presidenza di domani, e al contempo un vertice tra finiani e berlusconiani, a delegazioni ristrettissime, per intendersi su intercettazioni e manovra.

Ma ecco la zeppa del Colle. Messa in un modo che Berlusconi sa di non poterla contrastare. Tant'è che ha ragionato con i suoi: "Se Napolitano dice che la manovra va chiusa in fretta e in un clima sereno non posso mettermi contro di lui perché neppure la nostra gente, preoccupata com'è per la crisi economica, mi capirebbe". Il premier conosce gli orientamenti del suo elettorato e sa che è stanco di liti sulle intercettazioni. Tuttavia il suo progetto, che ora Napolitano ribalta, era di mandare avanti contemporaneamente manovra e ddl sugli ascolti, chiudendo la partita degli emendamenti. Ma Napolitano giusto su questo frena perché, come spiegano i suoi collaboratori, teme che il contrasto tra Berlusconi e Fini sugli ascolti si prolunghi per tutta la discussione sulla manovra, non garantendo la tranquillità necessaria per far quadrare i conti del Paese.

Dal salone degli specchi, dove parla Napolitano, arriva un duplice monito che il premier intende assai bene e che lo mette di pessimo umore per l'intera giornata. Innanzitutto, rispetto alle voci che i berluscones avevano fatto circolare nei giorni scorsi, di un accordo già chiuso col Colle su due-tre punti, il presidente fa capire che al contrario non ci sono state intese di alcun tipo e che è ancora tutto in alto mare. E conferma la linea intransigente di una presidenza che sulle intercettazioni non è disponibile a trattative sotto banco col governo, né tantomeno ad accordi preventivi. Poi il tema della "serenità" del dibattito, non solo sulla manovra, ma anche sugli ascolti.
A parere del Quirinale, nessuna delle due questioni può essere trattata in un clima conflittuale, né tantomeno il braccio di ferro sulle intercettazioni tra finiani e berlusconiani può scatenarsi mentre la Camera prima, e il Senato poi, cercano di condurre in porto la manovra. È quello che fa dire a Marco Reguzzoni, il capogruppo della Lega alla Camera: "Si apre la strada a quello che Bossi ha già detto, le intercettazioni si possono fare, ma solo a patto che non ci si divida e non si litighi. Se c'è un'intesa, si possono approvare anche prima dell'estate".

Solo di questo hanno ragionato ieri i berlusconiani chiedendosi tra loro se le parole di Napolitano ("La manovra non può non dominare l'agenda parlamentare nel breve tempo che separa le Camere dalla pausa estiva") tagliano la strada al voto entro agosto oppure se resta un possibile spiraglio. E giù a far di conto sui tempi, calcolando che tra il 9 e il 10 luglio a Montecitorio arriva la manovra approvata dal Senato e che ci vorranno due settimane per rimandarla indietro. Quindi restano "vuoti" in calendario gli ultimi giorni di luglio. In cui, volendo, il ddl può essere discusso e votato. Ma il rischio, secondo gli uomini del Cavaliere, sarebbe quello di contrariare ancora di più il presidente. Tant'è che Niccolò Ghedini, parlando con altri deputati delle possibili modifiche al ddl sugli ascolti da concordare con i finiani, ha detto: "In questo momento il nostro problema non sono loro, ma quello che vuole il Quirinale, con cui è necessario mantenere un equilibrio istituzionale e un rapporto sereno soprattutto durante la discussione della manovra".

Per questo l'uscita di Napolitano, alla fine, suona per quello che è; la pietra tombale su qualunque blitz o accelerazione possibili.

(22 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/22/news/napolitano_berlusconi-5043262/?ref=HREC1-1
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 26, 2010, 06:17:15 pm »

IL RETROSCENA

L'ira di Napolitano sulla "nomina-inganno"

Berlusconi: Fini e Bossi mi hanno lasciato solo

Dal Canada il premier trattiene le reazioni. "Non mi posso permettere una lite col Colle. Ho troppi fronti aperti".

E pensa di far dimettere il neoministro. "Non rimetto mano al governo dopo aver visto il comportamento della Lega"

di LIANA MILELLA


ROMA - "Non voglio litigare con il presidente" dice lapidario Berlusconi. E poi: "Ce l'ho con Bossi e con Fini. Mi hanno lasciato solo". Il Cavaliere sorprende tutti. Pensa alle dimissioni di Brancher e per certo non attacca Napolitano. Il quale ha taciuto per quasi ventiquattr'ore, tenendosi dentro la delusione e l'insofferenza crescenti per una fiducia istituzionale concessa e poi palesemente tradita. Ha cercato di tenere a freno lo sconcerto, che si è aggravato giorno per giorno nell'arco dell'ultima settimana, per una nomina presentata in un modo da Gianni Letta e poi diventata tutt'altro. Ma due comportamenti del neo ministro hanno convinto Napolitano che era necessario mettere da parte il fair play: quel primo atto di governo che si risolve nell'approfittare della legge sul legittimo impedimento e quel giustificare il passo con una motivazione palesemente inconsistente. Il capo dello Stato ha pesato i pro e i contro: su un piatto della bilancia l'ennesimo fronte che si apre con palazzo Chigi, un nuovo conflitto con Berlusconi, ma sull'altro la stridente anomalia di un ministro di fresca nomina che si sfila da un processo e utilizza una legge di fatto certificando il falso.

La profonda irritazione di Napolitano produce la lapidaria nota delle 18. Che spezza un equivoco, a voler usare un'espressione edulcorata, tutto giocato sulla vera natura dell'incarico di Brancher. Quando, dieci giorni fa, il sottosegretario Letta avverte Napolitano della nuova nomina e fissa l'appuntamento per la nomina e il decreto, il presidente
è convinto che il governo abbia risolto il problema del vuoto lasciato da Scajola allo Sviluppo economico. Un ministero con il portafoglio, e di rango, dunque. Ma poi, quando Berlusconi e Brancher arrivano al Quirinale per il giuramento, ecco la sorpresa, di un incarico per occuparsi di federalismo, quindi senza portafoglio, e che lascia ancora un vuoto nella compagine di governo. Letta previene le perplessità del presidente e motiva politicamente la scelta dell'uomo e il tipo di ministero affidatogli: "Ci serve per sciogliere i nodi politici all'interno della maggioranza e quindi per sbloccare la prossima indicazione di un nuovo ministro".

Non è soddisfatto Napolitano, né è del tutto convinto. Ragiona sull'ipotesi di bloccare la nomina, ma la posizione di Brancher, che ha sì un processo in corso, ma non una condanna, non giustifica uno stop. Con tanti fronti aperti, dalle intercettazioni alla manovra, prevale la scelta di seguire il principio della leale collaborazione istituzionale. Brancher diventa ministro, ma poi incespica sul legittimo impedimento. E qui Napolitano decide di intervenire.

"I fatti parlano da soli" commenta Fini con i suoi quando gli riferiscono l'accaduto. Ed è evidente che il suo giudizio non è certo negativo sul passo del capo dello Stato. Di tutt'altro tenore la reazione di Berlusconi, che è una furia contro Fini e contro Bossi, e lavora all'ipotesi di far dimettere Brancher. "Non posso andare allo scontro con il Colle" confida. E poi: "Ho troppi fronti aperti, non me ne posso permettere un altro ancora". I suoi mediano. Il neo ministro fa dichiarazioni concilianti sul processo, ma la sua posizione è in bilico.

Dall'altra parte del mondo, in uno sperduto paese sulle montagne del Canada, il Cavaliere attacca Bossi e Fini. Non dice quello che tutti i suoi invece dichiarano chiaramente, "Napolitano ha esagerato, è andato oltre le sue prerogative, è intervenuto da giudice e non da presidente". Con lui, stavolta, non vuole litigare. Invece ne ha per Bossi e Fini. A partire dal Senatur: "Brancher lo ha voluto lui e ora mi volta le spalle". Ricostruisce: "Io ne avevo parlato con Bossi, lui poi con Fini, e nessuno aveva manifestato delle perplessità. Adesso invece mi hanno lasciato solo e questo lo considero del tutto inaccettabile". Lo sfogo contro il leader della Lega raggiunge toni inusitati: "Umberto non può permettersi di fare queste giravolte nel giro di 24 ore. Sono costretto a ricordargli che siamo tutti nella stessa barca, io come Brancher, ma anche come Bossi e Fini". È il suo solito refrain, "se cado io cadono anche loro".

Per questo respinge adesso, quando il caso Brancher è apertissimo, l'ipotesi di fare un rimpasto a fine luglio, spedire il neo ministro all'Agricoltura e dare a Giancarlo Galan lo Sviluppo economico: "Io non rimetto mano alla squadra di governo, soprattutto dopo aver visto come s'è comportata la Lega. Non mi passa nemmeno per la testa di aprire una crisi a ridosso della manovra e delle intercettazioni". La sua preoccupazione adesso è tutt'altra, è il lodo Alfano costituzionale la cui strada politica in Parlamento è ormai "compromessa" dal caso Brancher. Il Cavaliere già s'immagina la levata di scudi contro lo scudo per i ministri, Pd e Udc che si sfilano, l'ipotesi di raggiungere il quorum dei due terzi sfumata. E con essa il rischio che la legge non arrivi in tempo e riprenda l'incubo di Milano con i processi Mills, Mediaset e Mediatrade. Con tanto di possibile condanna per corruzione. 

(26 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/26/news/l_ira_di_napolitano_sulla_nomina-inganno_berlusconi_fini_e_bossi_mi_hanno_lasciato_solo-5167311/
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 01, 2010, 12:08:52 pm »

INTERCETTAZIONI

Berlusconi sfida Fini e il Quirinale "Intesa subito o il testo non cambia"

Gli uomini del premier lanciano l'"assalto finale" al presidente della Camera: "O ci asseconda, o se ne va".

L'ex leader di An sorpreso dalla forzatura: "Ma quel testo non si può votare"

di LIANA MILELLA


ROMA - È il giorno della grande sfida. Di Berlusconi contro Fini. Contro il Quirinale. Contro la piazza. Per tacitare i forti dissensi interni. Per puntare, in un en plein, a portare a casa prima delle vacanze, le intercettazioni, il lodo Alfano, un nuovo vice presidente del Csm del centrodestra. Si parte con Fini, alle 9 di mattina, nella capigruppo. Si chiude col Quirinale, alle 9 di sera, nella consulta per la giustizia di Niccolò Ghedini. Con una provocazione per Napolitano raccontata così: "Gli abbiamo chiesto in tutti i modi di indicarci le modifiche. Ma lui non vuole segnalarcele. E allora noi andremo avanti con il testo così com'è, facendo al massimo qualche lieve modifica. E poi succeda quel che deve succedere". Il segnale arriva ai finiani che reagiscono nell'unico modo possibile: "Se le cose stanno davvero così noi voteremo sì alla fiducia, se la mettono, ma subito dopo bocceremo il ddl".

Da ieri si preparano un luglio e un agosto di fuoco. Con i berluscones all'attacco, decisi a chiudere i conti col presidente della Camera. "O dentro o fuori. O ci asseconda o se ne va. Tanto, elettoralmente, non pesa nulla". Lui non nasconde la sorpresa. Tant'è che ai suoi confida: "Ero convinto che avrebbero desistito dalla forzatura di voler mettere questo ddl a tutti i costi in calendario. C'è la manovra, c'è la crisi economica, si può andare a settembre". Percepisce il segnale ostile del Cavaliere, sente la voglia di sfida, reagisce "indignato". La sua squadra gli fa quadrato intorno. Ma Berlusconi, dicono i colonnelli, vuole "dargli una lezione" e chiudere sulle intercettazioni.

La road map disegnata dall'ala dura del Pdl prevede di portare all'apice la sfida. A partire dalle modifiche. Che potrebbero essere pochissime e tali da non mutare la natura del testo, già fin troppo edulcorato per il premier. Poi il tentativo del doppio voto, nella prima settimana di agosto, prima alla Camera e poi al Senato, con una doppia fiducia. A ridosso, palazzo Madama dovrebbe licenziare per la prima lettura il lodo Alfano costituzionale, su cui Roberto Centaro, che ne ha scritto la prima versione, ha scoperto un evidente errore che avrebbe comportato il rischio di escludere dall'applicazione i processi in corso per il premier. Lo scudo avrebbe coperto il capo dello Stato, poiché nel testo è scritto che vale "anche in relazione a fatti antecedenti all'assunzione della carica". Ma poiché la stessa frase non è ripetuta per premier e ministri c'era il rischio che Berlusconi restasse scoperto. Sarà il presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli, con un parere, a suggerire la correzione 1.

L'ansia nel correggere questo dettaglio dimostra la volontà dei falchi di andare fino in fondo. Contrastando chi, all'opposto, e non solo tra i finiani, considera la strategia del Guardasigilli Alfano e dell'avvocato Ghedini del tutto perdente. Diceva ieri un dissidente: "Stiamo sbagliando tutto e ci stiamo mettendo tutti contro, basta guardare la piazza di domani, giornalisti, magistrati, società civile, un disastro". Per questo bisogna chiudere al più presto. Incassando le intercettazioni e il lodo Alfano e spuntando un accordo sul Csm. Lungamente, in un divanetto del Transatlantico, ieri hanno parlato Ghedini e il centrista Michele Vietti, disposto ad entrare nella rosa per il Consiglio solo a patto di diventarne il vice. Ma per questo serve l'appoggio di Berlusconi. Il quale, in prima battuta, vorrebbe puntare su un uomo di sua stretta fiducia, Gaetano Pecorella o Peppino Gargani. Ma qualora, com'è peraltro scontato, i togati non li votassero, quella di Vietti potrebbe diventare una candidatura di compromesso, da spendere sul piatto di un ritrovato rapporto con Casini.

Ma prima di arrivare al Csm e agli otto laici che le Camere devono eleggere c'è lo scoglio degli emendamenti alle intercettazioni. Con l'incognita dei finiani e soprattutto della presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. "Che farà lei? Presenterà delle modifiche?" si chiedeva ieri il segretario della consulta Pdl Enrico Costa. Lì può cadere il piano del Cavaliere perché se la Bongiorno e i finiani correggono le storture della legge e l'opposizione vota a favore cambia la storia del ddl, ma anche dei rapporti tra Fini e Berlusconi. E il destino del governo e della legislatura.

(01 luglio 2010) © Riproduzione riservata
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