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Autore Discussione: Maria Teresa MELI  (Letto 51728 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:18:57 pm »

Il retroscena -
Palazzo Chigi e l’ipotesi referendum sulla riforma: sarebbe un plebiscito
Il premier verso la prova dell’Aula
Timori di alleanze tra civatiani e M5S
Ma il capo del governo ai suoi: comunque vada, non ho paura.
La «saldatura» mediatica tra i due mondi critici con la riforma potrebbe mettere in difficoltà Renzi

di Maria Teresa Meli

ROMA - «Non ho paura. Come va a finire va a finire, ma una sola cosa è certa: non ho paura di come finirà al Senato»: Matteo Renzi è convinto che, tra un tira e molla e l’altro, non ci sarà Grasso che tenga. E nemmeno la minoranza interna lo preoccupa.
«Nessuna paura», ripete il presidente del Consiglio. Spavalderia? O una sorta di mantra confortante e autoconsolatorio, che Matteo Renzi ama ripetere ai compagni di partito, ai colleghi di governo e ai giornalisti, per non sentirsi sulle spine per quello che avverrà di qui al 25 maggio a Palazzo Madama?

La verità é che sul serio il presidente del Consiglio non teme la prova dell’Aula che dovrà pronunciarsi sulla riforma del Senato. A Palazzo Madama lo sanno tutti. A cominciare dai pochi lettiani e bersaniani che puntano a una rivincita in Parlamento. Tant’è vero che alla Camera proprio gli ex lettiani e gli ex bersaniani si sono acconciati a dare vita a una corrente che ha come unico scopo il «prepensionamento» dei vecchi leader - a cominciare da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema - e la nascita di una nuova componente che interloquisca con il leader. Ci saranno dunque problemi al Senato? A sentire i parlamentari del Partito democratico no. «Fosse per me lo abolirei», dice Enzo Amendola. «Figuriamoci se questo è il problema», assicura Nico Stumpo. E si sta parlando di deputati che non hanno fatto di certo il tifo per Renzi. Anzi.

Insomma, per farla breve, dal Pd Renzi non ha problemi veri. Lo sapeva anche il presidente del Senato, che ha pubblicamente preso la parola per dire che il progetto del segretario del Pd non gli piaceva.
Pietro Grasso, qualche giorno fa, prima di fare la sua uscita pubblica, aveva detto quello che pensava anche al capogruppo del Pd Luigi Zanda: «Possibile che tu stia zitto? Non capisco perché pure tu non difenda il Senato di cui fai parte. Muoviti». E Zanda gli aveva spiegato che ormai persino Anna Finocchiaro, di rado d’accordo con il premier, aveva capito che non era più il caso di fare resistenza. Del resto, il presidente del Consiglio lo ha spiegato ai fedelissimi: «Se il disegno di legge non passasse con la maggioranza necessaria, per una riforma costituzionale, cioè con i due terzi, si andrebbe al referendum. E sapete che c’è? A quel punto il provvedimento passerebbe con un plebiscito popolare». Ed è questa la vera ultima strada del premier. La strada che nessuno vuole intraprendere perché sa che, alla fine della festa, sulla ruota della fortuna politica, Renzi può giocare la carta più pesante. È questo il motivo per cui Berlusconi, pur vedendo i sondaggi che danno Forza Italia in picchiata, alterna la frenata e l’accelerata. Già, il leader di Forza Italia teme che Renzi si giochi il tutto per tutto. Magari anche ventilando elezioni anticipate, dopo l’eventuale referendum confermativo.

A quel punto, e questa è l’opinione di Berlusconi, «Renzi avrebbe tutto per sé: le urne prima del tempo, per saldare la sua leadership, il referendum confermativo, per saldare il suo asse con il Paese e poi chissà che altro...».
Ma in realtà, l’uomo che continua a dire «non ho paura», anche se lo ha confessato a pochissimi, un timore lo ha. È un rovello che lo rode dentro. E non riguarda l’eventuale reazione della minoranza tradizionale, per intendersi quella degli ex Cuperlo, perché con quella parte del Pd il premier sta già regolando i conti, anche nel caso in cui questo equivalga a una distribuzione di posti, prebende e seggi che verranno. Riguarda piuttosto l’unica vera opposizione che esiste ormai dentro il Partito democratico: l’ala di Pippo Civati.

Ecco di che cosa ha paura il presidente del Consiglio: che la corrente civatiana conduca con il Movimento 5 Stelle la battaglia contro quella che sia Grillo che Civati definiscono «una finta riforma». La saldatura mediatica di questi due mondi potrebbe mettere in difficoltà persino il Renzi sulla cresta dell’onda.

2 aprile 2014 | 08:32
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_02/premier-la-prova-dell-aula-timori-alleanze-civatiani-m5s-071d8ac2-ba30-11e3-9050-e3afdc8ffa42.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Giugno 05, 2014, 09:23:55 am »

Il retroscena

Tangenti Mose, l’ira del premier: dare i poteri all’Anticorruzione
Renzi: «Lavoro come un pazzo per convincere gli investitori ma il passato sembra voler tornare»

Di Maria Teresa Meli

ROMA - Quando la notizia dello scandalo del Mose è giunta sulle agenzie di stampa Matteo Renzi non voleva credere ai suoi occhi. Il premier era a colloquio con Raffaele Cantone per definire il problema legato al ruolo del commissario anticorruzione nella vicenda delicatissima dell’Expo, ed ecco arrivare quest’altra tegola. «Sono cose raccapriccianti, che fanno malissimo all’immagine dell’Italia e mai come in questo momento questo è controproducente», è stato poi lo sfogo del presidente del Consiglio. E ancora: «Ma come, io sto lavorando come un pazzo per convincere gli investitori esteri a venire nel nostro Paese e finalmente c’è un interesse da questo punto di vista. Si vede muovere qualcosa, anzi più di qualcosa. Però ecco che il passato sembra voler tornare».

«Bisogna muoversi»
Non ci sta, l’inquilino di Palazzo Chigi, a sopportare oltre questo stato di cose. Si è trovato coinvolto suo malgrado nella vicenda dell’Expo, con i cantieri in ritardo, e poi gli arresti e gli avvisi di garanzia. Per cercare di risollevare la situazione ha dovuto «per l’ennesima volta» dire che ci metteva «la faccia», ed ecco arrivare una nuova cattiva novella. Ma ora è l’Expo l’urgenza: «Sarà la vetrina dell’Italia nel mondo: non possiamo sbagliare». Il che significa che non si possono nemmeno bloccare gli appalti delle aziende coinvolte nelle inchieste giudiziarie: vorrebbe dire rallentare tutto, e già la situazione va per le lunghe di per sé perché è partita tardi ben prima che Renzi andasse a Palazzo Chigi. Si potrebbe commissariarle.

«Bisogna muoversi», è l’imperativo del premier. Il che, tradotto in soldoni, significa dare attuazione ai poteri dell’autorità Anticorruzione. Il premier spera di riuscirci già nel Consiglio dei ministri di venerdì, ma non è affatto detto. Comunque su un punto il presidente del Consiglio è chiaro: non si può creare una super struttura nuova e super poteri che sconfinino da quelli previsti dalla legge che istituisce l’autorità Anticorruzione. Non è questa la strada. La via giusta, piuttosto, è quella di affidare a Cantone la supervisione della gestione dell’Expo, senza bisogno di creare attorno a lui nuovi organismi. Lo stesso Cantone, del resto, nell’incontro di ieri non ha chiesto questo. Il magistrato vuole però che venga data attuazione alla legge. Il che significa, ha spiegato al presidente del Consiglio, «che mi siano date le persone che dovrebbero affiancarmi nel mio lavoro, per esempio. Ma i quattro commissari che dovrebbero far parte con me dell’Anticorruzione non ci sono ancora. E poi dobbiamo aumentare i controlli». «Insomma - è stata la risposta di Renzi - sono tutte cose già previste dalla legge».

Il nuovo ddl anticorruzione
Vero, verissimo. Purché si facciano, è la raccomandazione di Cantone, che con Renzi sembra aver chiarito ogni problema, ma che non sembra fidarsi troppo della politica. «Bisogna stare attenti - è il succo del suo ragionamento - perché ormai quasi sempre dietro le grandi opere si cela la corruzione».
Ed è proprio per evitare che continui il dilagare di questo fenomeno - perché, ribadisce Renzi, «deve essere chiaro a tutti che questa ormai è una roba che appartiene al passato dell’Italia, il nostro Paese non sarà mai più quella cosa là» - che si sta pensando anche ad altro. Oltre a rendere operativa la legge Severino, in modo che si definiscano una volta per tutti i poteri di Cantone, il governo sta valutando l’opportunità di elaborare il testo di un nuovo ddl anticorruzione da presentare in Senato, anche questo come un segnale «forte» per «far capire che si sta facendo sul serio». Comunque, pure Cantone fa «sul serio» e prima che il provvedimento che lo riguarda arrivi in Consiglio dei ministri vorrebbe «vederlo» ed «essere consultato».

5 giugno 2014 | 07:30
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_05/ira-premier-dare-poteri-all-anticorruzione-68844bcc-ec6f-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Agosto 30, 2014, 09:33:33 am »

Il capo del governo tra sfide interne e preparazione al vertice Ue del 30 agosto.
Telefonata con Ban Ki-moon
Renzi vuole accelerare: l’Italia non fallirà
Piano di riforme strutturali entro l’anno. «Ce la possiamo fare senza paura»

Di Maria Teresa Meli

ROMA - «Anche stavolta sconfiggeremo i professionisti della gufata»: Matteo Renzi torna a Roma e si mette subito al lavoro. In ballo non ci sono solo i provvedimenti per il Consiglio dei ministri di venerdì prossimo - sblocca Italia, giustizia civile e scuola -, ma anche un «piano di riforme strutturali che approveremo entro l’anno». Quel che serve, come spiega lo stesso premier ai suoi, per «acquisire maggiore credibilità in Europa». «Credibilità» e, quindi, «flessibilità». «In questo modo - è il ritornello del presidente del Consiglio - avremo peso nella Ue». Già, la Ue. Immerso negli italici problemi, l’inquilino di Palazzo Chigi non dimentica che per lui il 30 agosto sarà il giorno della verità, non tanto per la questione flessibilità, perché la battaglia vera, su quel tema, sarà in autunno, quanto per la scelta dell’Alto rappresentante, anche se, per dirla sempre con il capo del governo, «le basi» di quella battaglia «vanno poste già adesso». Infatti Renzi sabato prossimo potrà dire di aver segnato un risultato se tutto il suo lavoro per ottenere il posto di Lady Pesc per la ministra degli Esteri Federica Mogherini andrà in porto. «Mogherini ha buone chance», continuano a ripetere i renziani. Ed effettivamente ottenere quella poltrona per il premier sarebbe molto importante: il segnale che l’Italia «conta in Europa», giacché Lady Pesc sarà anche la vice del presidente della Commissione europea, il che consentirà a Renzi di avere sulla sua scrivania tutti i dossier dell’Unione europea.

«Si cambia davvero», è la frase di incitamento che il presidente del Consiglio utilizza con il suo staff, strappato alle vacanze anzitempo. «Se qualcuno pensa che io abbia paura di quello che ci aspetta, sbaglia persona», ripete Renzi ai suoi interlocutori in questo lunedì in cui si è nuovamente buttato a capofitto nei problemi italiani. E non solo in quelli, dal momento che ha anche un colloquio con Ban Ki-moon.

Lo scenario internazionale è da brividi e Renzi, nel semestre di presidenza italiana della Ue, non vuole dare mostra di mancare all’appello. Anche perché la situazione lo preoccupa, soprattutto quella in Libia, Paese dove l’Italia ha corposi interessi.

Ma lo sguardo in questi giorni è - inevitabilmente - concentrato sull’Italia. Renzi è «soddisfatto» per la circolare Madia: «È il segnale - spiega - che stiamo facendo sul serio anche su questo fronte, che le nostre non sono chiacchiere, ma fatti». Però l’entusiasmo endemico non gli fa velo. Il presidente del Consiglio si rende perfettamente conto delle difficoltà che ha di fronte. «La situazione - ammette - è complicata e delicata e va gestita con grande responsabilità e serietà.

Ma l’Italia non fallirà. Anzi si incamminerà verso la ripresa». Sì, Renzi non cambia idea: «L’importante è cambiare il modello economico europeo basato tutto sul rigore e non sulla crescita».

Di qui il «piano dei mille giorni», «mille giorni non per perdere tempo», ma perché, «pur nelle difficoltà», «ce la possiamo fare senza paura di nessuno»: «Non vivo nel terrore dei mercati, perché sono convinto che l’Italia sia più forte delle paure».

Dunque, i mille giorni «servono per chiedere la flessibilità», oltre che per «risollevare l’Italia». Impresa ardua, ma il presidente del Consiglio è convinto che, delineando un piano di riforma a vasto raggio, riuscirà a convincere l’Europa. Per questa ragione sulla sua scrivania, ingombra di dossier di tutti i tipi (incluso quello sulla scuola che, di fatto, ha avocato a sé), c’è anche il Jobs act. Ma Renzi è convinto che non serva solo quel provvedimento: anche il tentativo di sbloccare la giustizia civile ha una sua (grande) importanza nella strategia del premier. “Più di cinque milioni di fascicoli sono bloccati», ripete il presidente del Consiglio, il quale sa che, se non risolve questo problema, non servirà a nulla il suo tentativo di «cercare aziende da portare in Italia». O, meglio, di «facilitare gli investimenti italiani e stranieri nel nostro Paese».

Solo in questo modo, a suo giudizio, «si possono risolvere le crisi industriali» e si possono «invertire i dati della disoccupazione».

26 agosto 2014 | 08:01
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_26/renzi-vuole-accelerare-l-italia-non-fallira-0c17d1a8-2ce6-11e4-b2cb-83c2802e5fb4.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 31, 2014, 11:54:37 am »

Bruxelles

La rivincita (e lo sfogo) di Renzi: ora qualcuno dovrebbe scusarsi
Dopo la nomina della Mogherini, il premier si toglie qualche sassolino.
E sul governo dice: «Mai esistiti piani B. Al momento esclusi rimpasti, solo il cambio agli Esteri».


di Maria Teresa Meli

DALLA NOSTRA INVIATA BRUXELLES - «Quanta gente in Italia dovrebbe chiedere scusa per quello che ha detto e scritto sull’operazione Mogherini, con la convinzione che non sarebbe andata in porto». Con i fedelissimi e i collaboratori Matteo Renzi si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Anche se ufficialmente sono solo sorrisi e abbracci per festeggiare una vittoria che ha cercato e voluto in tutti i modi. Ma dura un attimo, non di più, lo sfogo del premier. La gioia per la missione compiuta, per la contentezza di «non avere mai dubitato né cambiato idea» è troppo grande per indulgere in recriminazioni sul passato: «Io ero convinto di farcela. Nella mia testa non c’erano piani B, c’era solo Federica, come avevo spiegato a tutti i miei interlocutori, esteri e non. Il resto erano giochetti italiani per metterci in difficoltà. Le ipotesi Letta e D’Alema non sono mai esistite se non per i giornali italiani e per qualche politico. Il nostro provincialismo, alle volte, non ha confini».

E, sempre con i fedelissimi, il premier bolla con le stesse parole anche il gioco del totonomine sul successore di Mogherini, iniziato da giorni e destinato a proseguire fino a novembre, quando la titolare della Farnesina assumerà ufficialmente il suo incarico in Europa. Circolano diverse ipotesi ma la più accreditata al momento è quella che non prevede un rimpasto, piccolo o grande che sia. Nessun passaggio di ministri da una casella all’altra, bensì una semplice sostituzione di Mogherini. Con chi? Le voci che da Roma rimbalzano a Bruxelles indicano il favorito in Lapo Pistelli. Anche se chi conosce bene Renzi non esclude una sorpresa.

Del resto, di tempo per pensare alla questione il premier ne ha ancora un po’. Di tempo per recriminare ulteriormente su chi non scommetteva sul suo successo invece non ne ha più. Lo sfogo sulle polemiche passate si esaurisce presto, perché poi la natura dell’uomo prende il sopravvento. Va bene che da ora in poi Renzi ha deciso di procedere passo dopo passo, come un maratoneta e non come un centometrista, ma incassata la vittoria in una partita giocata con grande determinazione, il premier va oltre e pensa già al vertice europeo sulla crescita che si terrà il 7 ottobre prossimo. A Milano, probabilmente, ma la sede non è ancora stata decisa, benché sia certo che l’incontro si svolgerà nel nostro Paese, che ha fortissimamente voluto, chiesto e sollecitato l’appuntamento. In compenso l’evento e la data sono stati già stabiliti e il premier mira a questo vertice per dare ulteriore peso all’azione del suo governo nello scacchiere dell’Unione: «La vicenda di Federica è andata bene, ora lavoriamo a ottenere un nuovo risultato».

Questo il succo dei suoi ragionamenti: «Noi dobbiamo avere la forza di cambiare il modello di politica economica della Ue, basato tanto sul rigore e poco sulla crescita. Dobbiamo quindi mettere in campo tutti gli strumenti di flessibilità che ci sono». E ancora: «L’Europa deve cambiare strada e verso perché la risposta che ha dato finora alla crisi economica e finanziaria che ha investito tutto il continente non è stata sufficiente». Sono parole che il capo del governo va ripetendo fino allo sfinimento. Sì, perché da sempre Renzi è convinto che «sarebbe miope non coniugare il rigore con la crescita»: «Non chiediamo certo una mancia per l’Italia, non è di questo che si sta parlando, visto che non siamo certo un osservato speciale nella Ue. Stiamo piuttosto parlando di una strategia più ampia che serva anche all’Europa».

Non solo, il premier è convinto che occorra fare anche un’altra operazione. Ossia, quella di rendere la Ue meno distante dai «suoi cittadini». E anche meno invisa: «L’Europa deve stare accanto ai cittadini, non contro di loro». Il che non vuol dire, lo ha ribadito anche ieri con i suoi interlocutori degli altri Paesi della Ue, che pensi di ottenere questo risultato sforando il 3%: «Io non faccio il lobbista dell’Italia e posso assicurare che noi rispetteremo le regole, ma bisogna che l’Europa prenda atto che c’è bisogno di maggiori investimenti e che è più che mai necessario cambiare politica economica» .

31 agosto 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_31/rivincita-sfogo-renzi-ora-qualcuno-dovrebbe-scusarsi-35be0154-30d7-11e4-9629-425a3e33b602.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Settembre 21, 2014, 06:14:19 pm »

Retroscena
«Non si può perdere tempo»
Il premier Renzi ha pronto il decreto
Ai suoi spiega: non voglio uno sciopero, ma non lo temo Il duello
L’idea del segretario democratico: non è un duello tra destra e sinistra, ma tra conservatori e riformisti

Di Maria Teresa Meli

ROMA - «La partita in questo momento non è solo con i sindacati, ma anche con Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo. Per questa ragione ho voluto scrivere agli iscritti del Partito democratico, per far capire loro quale è la vera posta in gioco». Matteo Renzi fa Matteo Renzi. Ossia non mostra di voler arretrare sulla battaglia che riguarda il Jobs act. E non solo: «Noi non ci fermiamo su nulla: sulla giustizia, sul lavoro, sull’articolo 18, sulla Pubblica amministrazione». Deve essere chiaro anche agli elettori del Pd, perché la battaglia non è «come vorrebbe far credere Camusso» tra «destra e sinistra», ma «tra conservatori e riformisti». Ed è superfluo dire a quale categoria il presidente del Consiglio iscriva D’Alema, Bersani, Cuperlo e il segretario della Cgil.

Jobs Act
«Sarà finalmente chiaro a ognuno - si infervora il premier dopo aver scritto quella lettera aperta - che o si risolve tutto insieme o non si risolve nulla». Per questa ragione, e non per inseguire le elezioni, l’inquilino di Palazzo Chigi mette nel calderone delle riforme anche quella che riguarda la legge elettorale. Ma ora è il Jobs act l’oggetto del contendere, il provvedimento che sta accendendo lo scontro più aspro nel mondo del centrosinistra e tra il governo e i sindacati. Il decreto, di fatto, è già pronto. Perché Renzi non può consentirsi il lusso di mandare le cose troppo per le lunghe. Lo ha spiegato ai fedelissimi e agli alleati di governo a lui più vicini: «C’è un’unica cosa che non possiamo proprio fare: perdere tempo». Già, perché quella riforma «va fatta prima del Consiglio europeo». Perché è sempre la flessibilità quella che il presidente del Consiglio va cercando e la potrà ottenere soltanto così. «Sarà una grande operazione», assicura agli alleati. E aggiunge: «È chiaro che io non voglio lo sciopero generale e non lo auspico, però non mi preoccupa, io mi devo occupare di chi non è tutelato e non è garantito. Questa situazione non può più andare avanti, altrimenti i giovani non avranno un futuro».

Gli interrogativi sulla Camusso
Perciò se l’intenzione dei «conservatori» è quella di mantenere lo status quo, di mettere i bastoni tra le ruote, «io il decreto lo faccio». Da Camusso, a dire il vero, il premier si aspettava questa levata di scudi. Sa che il segretario della Cgil gliel’ha giurata e che non ha intenzione di fargli nessuno sconto. La sua, a giudizio dei renziani, è ormai una posizione pregiudiziale e difficilmente potrà cambiare. E, riflettendo ad alta voce con i collaboratori, Renzi si interroga se tra i motivi di tanto livore da parte di Camusso non vi sia anche il fatto che i «sindacati prendono per i patronati più di quattrocento milioni di euro che con la dichiarazione dei redditi precompilata varata dal governo per il prossimo anno potrebbero sparire».

L’atteggiamento delle minoranze interne
Ma è soprattutto l’atteggiamento che giudica pretestuoso della minoranza del suo partito che in questo momento infastidisce il premier. Il quale, essendo come si auto-definisce lui stesso, non un improvvisatore, ma uno «che studia con costanza», ricordava dichiarazioni assai diverse di coloro che adesso gli fanno la fronda. Le ricordavano bene anche alcuni parlamentari di più lungo corso rispetto alla nuovissima leva renziana. E le hanno ritrovate dopo una breve ricerca. Ne hanno ripescata una di Cesare Damiano, del 2005, entusiasta, dopo un viaggio in Danimarca, in cui sosteneva che la flexsecurity è «un modello funzionante». Ce ne è un’altra, di Pier Luigi Bersani, del 2009, che suona così: «Non va bene che ci sia una parte protetta e la metà senza tutele. Ci vuole una riforma del mercato del lavoro che superi questo dualismo. Questo doppio regime nel lavoro non funziona. E sono pronto alla battaglia con i sindacati perché pure loro si dimostrano miopi». E il presidente del Consiglio ricorda ancora un Massimo D’Alema entusiasta della proposta di contratto unico di Pietro Ichino, nel 2009, che, en passant, prevedeva l’eliminazione dell’articolo 18. E qualche senatore a lui vicino è andato a cercare la prima edizione del Codice semplificato del 2009, quello che riscrive integralmente lo Statuto dei lavoratori e, ovviamente, anche l’articolo 18. La prima firma è di Ichino. La terza è di Vannino Chiti.

21 settembre 2014 | 08:52
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_21/non-si-puo-perdere-tempo-premier-renzi-ha-pronto-decreto-2e184b58-4158-11e4-a55b-96aa9d987f34.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Settembre 30, 2014, 10:22:22 pm »

«La vecchia guardia è spianata»
Così il leader spacca i dissidenti
Dopo le scintille in direzione la vittoria a larga maggioranza sul lavoro, Matteo Renzi è su di giri. La sua frase si riferisce a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani

di Maria Teresa Meli

«Li ho spianati»: al termine della riunione della direzione, Matteo Renzi è su di giri. La sua frase si riferisce a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. È riuscito a staccare una buona parte della minoranza dalla «vecchia guardia». Non solo, è convinto che «ogni volta che Bersani e D’Alema si mettono insieme mi fanno un grande favore e un bello spot». «Massimo, in fondo - confida ai collaboratori - con tutto quel rancore ci sta dando una mano. Ve l’avevo detto che era ancora incavolato nero per la storia della nomina europea».

Il premier-segretario ha fatto una piccola concessione all’ala più moderata della minoranza (il licenziamento disciplinare da definire) che ha contribuito a dividere il fronte dei suoi oppositori. Operazione a cui ha contribuito un incontro conviviale ieri tra i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il capogruppo Roberto Speranza e il presidente del partito Matteo Orfini.

Bersani e D’Alema masticano amaro per le defezioni e, ostentatamente, mentre il segretario parla guardano i loro iPad. Versione normale quella del primo, un nuovissimo mini il tablet dell’ex ministro degli Esteri che, ogni tanto, interrompe la lettura per fare commenti sprezzanti che, poi, ripeterà sul palco. Ovviamente, non applaudono. Ma il presidente del Consiglio non sembra troppo preoccupato per le reazioni dei due, anzi. C’è solo una cosa che gli dà fastidio, come confida ad alcuni compagni di partito: «La strumentalizzazione di un tema importante come quello del lavoro per prendersi una rivincita. Siccome non sono riusciti loro a fare dei cambiamenti non vogliono che li faccia io. Però vedo che anche nella minoranza c’è tanta gente che capisce che bisogna tutelare i giovani e i lavoratori e non l’ideologia dell’articolo 18».

Ma c’è anche un’altra operazione che ieri Matteo Renzi ha fatto. Non riguarda il partito, bensì i sindacati. Invitandoli per la prima volta dopo mesi a un incontro a Palazzo Chigi proprio nel giorno in cui si è sancita la divisione tra la Cgil da una parte e la Cisl e la Uil dall’altra, spingerà ancora di più Susanna Camusso sulla strada dell’isolamento, mettendola in difficoltà, e tenterà nello stesso tempo di recuperare il rapporto con il leader della Fiom Maurizio Landini.

Certo, la partita non è finita. Ora si sposta al Senato, dove i numeri sono ben diversi da quelli della direzione. Lì i parlamentari sono quelli scelti da Bersani nelle elezioni del 2013. «Le decisioni si devono rispettare, come facevo io quando ero in minoranza», dice Renzi. E comunque non è la prima volta che il segretario-premier forza la mano e ottiene risultati, anche se pure stavolta ha seguito i consigli di Napolitano che lo ha invitato a smussare asperità e contrasti.


«La musica è cambiata», continua a dire il premier. Che vorrebbe togliere una volta per tutte al suo partito quella che definisce «la coperta di Linus» del passato ideologico della sinistra. Insomma, non vorrebbe più sentire Massimo D’Alema pronunciare la parola padrone quando si parla di un «imprenditore che si spacca

la schiena per aprire l’azienda» e che magari «deve mandare a casa dieci persone non perché è cattivo» ma perché è costretto e «sta allo Stato farsene carico». Quello che stupisce Renzi (e stupisce anche i suoi) è che proprio nello stesso momento ci sia una parte dell’establishment e della minoranza del Pd che «vogliono farmi fuori». Il presidente del Consiglio ha già detto di credere alle coincidenze. Però si è anche convinto che questo «gruppo non unito» ce l’abbia con lui perché fa le cose «senza chiedere il permesso». Insomma, senza farsi condizionare. Ma su questo il premier non cambierà idea: «Non scenderò a patti con quella parte di establishment che si sente spodestata e rivuole il potere per condizionare la politica. Sia chiaro: o noi o loro».

E sia chiara anche un’altra cosa, fa sapere a fine giornata il presidente del Consiglio: «Non è finita qui». Nelle intenzioni dell’inquilino di Palazzo Chigi la «rivoluzione soft» (ma si può definirla ancora veramente tale?) continua.

30 settembre 2014 | 07:53
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_30/vecchia-guardia-spianata-cosi-leader-spacca-dissidenti-fcbed7fc-4864-11e4-a045-76c292c97dcc.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:38:00 pm »

Renzi ha più alleati e rilancia la politica contro i tecnocrati
Il premier è pronto ad andare a Bruxelles e a scontrarsi anche con la Germania.
Il suo scatto d’orgoglio: «il Pd ha più voti della Cdu»

Di Maria Teresa Meli

«Oggi sono stato tutto il giorno a occuparmi della legge di Stabilità, punto. Noi manterremo il vincolo del 3 per cento. Il 23 ottobre al Consiglio europeo di Bruxelles mi presenterò con le carte a posto, ma non perché avrò fatto i compiti a casa che chissà chi mi chiede, ma perché avrò fatto le riforme che gli elettori mi hanno chiesto nelle urne delle Europee»: Renzi non vuole farsi trovare impreparato, ma non vuole neanche soggiacere ai diktat dei «rigoristi» europei.

Il premier è pronto ad andare a Bruxelles e a scontrarsi anche con la Germania pur di portare a casa il risultato. «Io stimo la Merkel», continua a dire. Ma è anche vero che la situazione è cambiata. David Cameron, da cui sarà oggi, e che pure non fa parte dell’euro, si tiene lontano dalla politica austera inaugurata nella Ue, Hollande ha annunciato che sforerà senza se e senza ma. Insomma, ormai il premier, che pure non oltrepasserà la fatidica soglia del 3 per cento, qualche alleato in più ce l’ha. Senza contare che, come ha rivendicato anche l’altra sera, nella Direzione del suo partito, il Pd ha preso più voti della Cdu. E questo sul tavolo della Ue qualcosa dovrà pur contare.

Certo, visto dall’Europa e dal mondo il Pd di fronte alla Cdu è piccola cosa, ma nel consesso europeo quei voti in più valgono. «Il mondo - dice Renzi - chiede politica, non bastano l’economia e la tecnica. Occorre la buona politica». Un richiamo, nemmeno tanto implicito, alle politiche ultrarigoriste che la Germania ha imposto all’Europa. «Torna l’Italia», avverte il premier. Come a dire, scordatevi dei governi tecnici o simil tecnici a cui vi siete abituati finora, perché adesso è la politica che «conta e i tecnocrati non contano più».

Ma ciò nonostante, al contrario della Francia, l’Italia «manterrà il vincolo del tre per cento»: «da quel dato non ci muoveremo». Ovvio. Perché è ciò che gli serve per condurre lo scontro con Bruxelles al prossimo consiglio europeo. Anche perché, per decisione sua e di Padoan, comunicata a Napolitano già da una ventina di giorni, la legge di stabilità non punterà a rispettare il pareggio di bilancio calcolato al netto delle fluttuazioni dell’economia. È da tempo che sia il premier che il ministro dell’Economia hanno deciso di non ridurre il deficit e di non far scendere il debito. Perché punteranno tutti i soldi della legge di Stabilità sulla crescita. E non si sta parlando solo del bonus di 80 euro. Ma punteranno anche sulla riduzione del costo del lavoro che è l’altro punto su cui Renzi si gioca la partita della vita.

«La battaglia per la flessibilità ci permette di stare per tre anni alle nostre condizioni e ci consente di scambiare flessibilità con riforme, facilitando il piano europeo di investimenti da trecento miliardi». E siccome di Europa si parla, e di Italia vincente in Europa, era inevitabile la telefonata di congratulazioni a capitan Totti: «Sei un grande». E su questo non ci sono altri commenti da fare.

2 ottobre 2014 | 07:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_02/renzi-ha-piu-alleati-rilancia-politica-contro-tecnocrati-a5cbbdd8-49f0-11e4-9fe4-a545a65e6beb.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:47:04 pm »

Il retroscena
Pd, gli «irriducibili» nell’angolo ma un pezzo potrebbe staccarsi
I democratici spaccati tra maggioranza e tre fronti d’opposizione sabato l’incontro di Area riformista. Cuperlo non ci sarà: non mi hanno invitato
Di Maria Teresa Meli

ROMA Da ieri, ufficialmente, non c’è più un Pd, ma ce ne sono almeno quattro. Di cui un pezzo, forse, si staccherà, per navigare nelle acque della sinistra insieme a Sel e ad altri compagni di traversata.

C’è il Pd di Renzi, quello che conta almeno un 40 per cento di consensi, quando non sono di più in taluni sondaggi che spingono certi sostenitori del premier a sognare le elezioni anticipate. Poi ci sono tre minoranze. Che ogni tanto dialogano tra di loro ma che da mercoledì, e ancor di più dal giorno appresso, stanno allontanandosi.

La minoranza più corposa fa capo a Roberto Speranza. Per abitudine si dice che il leader sia Bersani, ma in realtà in quell’area si è compiuto una sorta di Midas di craxiana memoria e le nuove generazioni hanno preso le redini della situazione: con Speranza ci sono il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, Nico Stumpo ed Enzo Amendola. Raccontano che anche il governatore del Lazio Zingaretti non abbia più voglia di incrociare la spada con il segretario. Alcuni di questi esponenti della cosiddetta «area riformista» si vedranno domani a Milano. Dove invece non ci sarà l’ultras dalemiano Gianni Cuperlo, che confessa candidamente: «Non mi hanno invitato».

Lì lanceranno la loro corrente. Il cui motto è stato forgiato da Bersani in puro bersanese, per l’appunto: «O si va a messa o si sta a casa». Potrebbe essere tradotto così: non si possono vagheggiare scissioni e nuovi partiti, o si lascia la politica o si lavora per la ditta...e anche un po’ per logorare e condizionare il segretario. I «riformisti» non vogliono rompere, né tanto meno traslocare altrove. Il loro sogno è riprendersi il partito. Magari non ci riusciranno, però restano dentro. E sono disposti a siglare compromessi con il premier. Come sul Jobs act. La mediazione è stata decisa mercoledì notte, dopo la riunione della direzione Pd dallo stesso Renzi, in un incontro al quale hanno partecipato tra gli altri il presidente del Pd Orfini, i capigruppo parlamentari, la ministra Boschi, il vice segretario Guerini e il responsabile economico Filippo Taddei: «Se mi garantite che i tempi non si dilatano ma restano gli stessi si può cambiare qualcosina», ha annunciato il premier.

Mossa abile, che ha contribuito a spaccare ulteriormente le minoranze. L’ «area riformista», alla quale, oltre agli esponenti già nominati, si aggiungono il presidente della Commissione lavoro Cesare Damiano, gran tessitore di accordi, l’ex segretario Guglielmo Epifani e Vasco Errani, brinda all’accordo. Glissando sul fatto che tanto la fiducia verrà messa ugualmente per sbrigarsi. Gli altri masticano amaro.

Alcuni aspettano la linea da D’Alema che con Renzi è sempre più feroce: «Lui è uno che dice una cosa e poi ne fa un’altra, e infatti Berlusconi lo ha scelto come suo erede, Renzi è un episodio nella cronaca politica italiana e con la sua riforma elettorale andrà a finire che porterà Salvini al governo». Perciò Cuperlo non esulta per l’accordo e dice che c’è «ancora un eccesso di delega al governo». Ma ribadisce di voler restare dentro il Pd. Anche se è proprio su D’Alema che si appuntano i sospetti di chi, nel partito, paventa una scissione.

La terza minoranza è quella di Civati che ieri sera, insieme a Stefano Fassina, ha partecipato con Vendola a una manifestazione di Sel. Lui è sempre dato in uscita. Dentro Sinistra ecologia e libertà qualcuno ci spera: «Basterebbe che venisse lui con noi per dare un segnale che siamo capaci di attrarre i voti in uscita dal Pd. Per Sel sarebbe molto importante», spiegava ieri Nicola Fratoiannni a un compagno di partito.

Infine ci sono i cosiddetti «cani sciolti». Fassina, che ancora non ha deciso come voterà sul Jobs act riveduto e corretto: «Leggo gli emendamenti e decido». E Rosy Bindi, che pronuncia le stesse parole. Non si muovono insieme, ma spesso fanno e dicono le stesse cose perché li unisce una grande antipatia per Renzi e una smodata passione per Susanna Camusso.

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14 novembre 2014 | 08:03

Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_14/gli-irriducibili-nell-angolo-ma-pezzo-potrebbe-staccarsi-c66477f4-6bcb-11e4-ab58-281778515f3d.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:50:10 pm »

Il retroscena

Renzi: «Silvio ci seguirà, vuole stare al tavolo nella partita del Colle»
Il premier: «Ognuno ha messo i suoi ingredienti. Ora tutti spingono il carrello».
«Come al supermarket, abbiamo nel carrello il 3% per Ncd e i nomi bloccati per gli azzurri»

Di Maria Teresa Meli

A sera, dopo l’incontro con la delegazione di Forza Italia capeggiata da Silvio Berlusconi, Matteo Renzi ha il tempo di rilassarsi un poco con i suoi, prima di prepararsi ad affrontare la riunione della Direzione del suo partito.

Nello staff del presidente del Consiglio circola questa battuta, piuttosto cruda, ma che spiega con una certa efficacia la situazione: «È come se fossimo in un supermercato con il nostro carrello. Ci abbiamo messo il 3 per cento per Alfano, i capilista bloccati per Berlusconi e adesso tutti spingono quel carrello. E questo era quello che ci interessava». Detta così, forse, suona un po’ brutale, ma piuttosto realistica. Perché se è vero che l’ex Cavaliere ieri ha detto «no» al 3 per cento e al premio di lista, è anche vero, come ha spiegato ai collaboratori e ai fedelissimi il premier, che «ci ha assicurato che non farà imboscate e che garantirà che i tempi vengano rispettati».

«Del resto - ha aggiunto Renzi - nessuno si aspettava che ci dicesse di sì, non poteva farlo, dopo aver ricompattato il suo partito, altrimenti Forza Italia si sarebbe nuovamente divisa e Fitto sarebbe tornato alla carica. Insomma, immaginare che Berlusconi fosse disponibile a darci di più era francamente impossibile, ma va bene così». Il presidente del Consiglio è soddisfatto, non dispera di ottenere qualcosina di più durante l’iter parlamentare, ma anche se ciò non dovesse accadere, pazienza. È riuscito a fare un accordo con la sua maggioranza di governo sul premio alla lista (cosa a cui teneva sopra ogni altra cosa, perché è il bipartitismo, in realtà, l’obiettivo finale a cui tende Renzi) e nel contempo non ha provocato la rottura del patto del Nazareno, anche se quell’intesa si è andata modificando nel tempo.
   
«Non dimentichiamoci - ha spiegato ancora ai suoi il premier - che Berlusconi ci ha anche promesso che andrà avanti con noi sulla riforma del Senato, che non si sfilerà e pure questo è un punto molto importante». Dunque «si può procedere celermente, secondo i tempi stabiliti, senza rinvii e stoppando qualsiasi tattica dilatoria, cosa che era il nostro primo obiettivo».

Per il resto, il premier non è preoccupato per il fatto che Fi voterà a favore solo di determinati punti della riforma elettorale. Sa che sulla soglia del 3 per cento i voti saranno molti di più di quelli dello stretto confine della maggioranza di governo. Per esempio, perché Sel e Fratelli d’Italia dovrebbero dire «no» a uno sbarramento che consente a queste due forze politiche di presentarsi da sole? Quanto al premio di lista, il premier ritiene di non avere problemi nemmeno su quel fronte. È convinto che su quel punto il suo partito sarà compatto e che qualche apporto potrebbe venire anche dai banchi dell’opposizione.

Per farla breve, il premier è convinto che la riforma elettorale «verrà approvata entro la fine dell’anno al Senato ed entro febbraio del 2015 alla Camera». Ma non ostenta un po’ troppa sicurezza il presidente del Consiglio? Una fetta della minoranza del Partito democratico potrebbe dargli del filo da torcere al Senato: «Già, ma questa volta - ha spiegato ai più stretti collaboratori - dovranno farlo con il voto palese, mettendoci la faccia e assumendosi le loro responsabilità». Inclusa quella di far fallire una delle riforme che Giorgio Napolitano aveva posto come condizione per accettare il suo secondo mandato.

Renzi, che non è certo un ingenuo, sa bene che sia nel Pd che dentro Forza Italia c’era e c’è chi vuole mandare all’aria tutto e le mosse del vertice di maggioranza di lunedì e dell’incontro di ieri con comunicato incorporato sono servite proprio a sventare queste manovre. Come sa, perché l’ex Cavaliere glielo ha confermato ieri, che Berlusconi vuole stare al tavolo in cui si deciderà la successione a Napolitano: «Lui - ha spiegato ai suoi - mi ha detto di avere tutto l’interesse a essere dentro questa partita». Nei corridoi di Montecitorio, dopo quell’incontro, circola voce che questo sia l’assillo di Berlusconi. Motivo in più perché il leader di Fi non rompa il patto. Motivo in più perché Renzi si senta sufficientemente tranquillo.

13 novembre 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_13/renzi-silvio-ci-seguira-vuole-stare-tavolo-partita-colle-e55276ec-6aff-11e4-8c60-d3608edf065a.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:43:03 pm »

Il retroscena
Renzi e l’occasione per prendere la Capitale, roccaforte ancora ostile
Il Pd romano, una delle sacche più forti di resistenza al «renzismo», era uno degli avamposti della vecchia «ditta» ex Ds ed ex Dc

Di Maria Teresa Meli

ROMA Certo non gli ha fatto piacere. Anzi. Finché si trattava del numero degli astenuti in Emilia-Romagna, è riuscito a tenere botta bene, perché in fondo, in quella tornata, nonostante il calo dell’affluenza alle urne, ha confermato una regione al Pd e un’altra - la Calabria - l’ha strappata al centrodestra. Ma il caso di «Mafia Capitale» lo ha digerito assai peggio. Primo, perché, come ha spiegato «ha oscurato l’approvazione del Jobs «act e la chiusura della vertenza Ast». E questo gli ha dato non poco fastidio, visto che «fatti» del genere, insieme agli altri che seguiranno (la riforma elettorale al Senato e quella sul bicameralismo alla Camera) gli serviranno a dimostrare che «non sono malato di annuncite», ma passo «dalle parole ai fatti» e le mie «non sono chiacchiere», come qualcuno «racconta».

Il pd romano una delle sacche più forti di resistenza al renzismo
Ma alla fine Renzi sta cercando di risolvere anche questa brutta storia a modo suo. Ossia, cercando di trarre del «buono» dal «cattivo» che è toccato in sorte. L’uomo è pragmatico. E non ha mai fatto mistero di «non essere quel politico improvvisato che qualcuno si immagina», ma «uno che legge i dossier, si prepara e poi, dopo aver studiato bene la situazione, decide». Per questa ragione, prima di trovare la soluzione per la questione romana, ha impiegato qualche ora di tempo. Quel tanto che gli serviva per capire che c’era del «marcio», che Marino andava «salvaguardato», e che il Partito democratico capitolino doveva essere decapitato. L’ultima tappa, in fondo, non gli è dispiaciuta poi troppo, perché il pd romano era una delle sacche più forti di resistenza al renzismo, anche se formalmente tutti o quasi, si erano convertiti al nuovo corso. La Capitale, come altre città italiane, del resto, era uno degli avamposti della vecchia «ditta» (intendendo per tale, in questo caso, non solo quella costituita dai ds ma anche quella proveniente dalla fu Dc) che cercava di «cambiare verso» a modo suo.

Il commissariamento affidato al presidente Matteo Orfini
Perciò la prima mossa è stata quella di chiedere a Lionello Cosentino di farsi da parte. Si è detto e raccontato che è stato lo stesso segretario della federazione romana a decidere di fare un passo indietro. In realtà le cose sono andate diversamente. Cosentino, che alle primarie non si era schierato con Renzi, sperava di assumere lui il ruolo di commissario. E invece gli è stato spiegato che doveva andare via. Lui ha fatto resistenza. Al Nazareno sono volate parole grosse e per i corridoi della sede del Pd si sono sentite voci alterate. Ma alla fine, la linea Renzi è uscita vincente. A quel punto il premier si è trovato di fronte a due scelte: affidare il commissariamento al vicesegretario Lorenzo Guerini o al presidente Matteo Orfini.

Non volendo scontentare più di tanto la minoranza, che non vuole umiliare, perché gli serve nel grande risiko del Quirinale, il segretario ha proceduto a una consultazione lampo, sentendo le diverse anime del partito. Ha chiesto a chi conta nella Capitale quale fosse il nome preferito. «L’unico che non ha consultato è stato Nicola Zingaretti» si lamentano però gli uomini del presidente della regione Lazio, i quali temono che in questa partita una delle vittime sarà il loro leader. Che rappresenta una delle sacche di resistenza del Pd al renzismo imperante. Non a caso, ogni tanto si parla di lui, come del possibile competitor di area ds all’ex sindaco di Firenze. Alla fine la scelta è caduta su Orfini. Uno che prende molto sul serio il suo lavoro, che conosce Roma, e che non è tipo da fare passi indietro, tant’è vero che ha già annunciato ai segretari dei circoli: «Sono pronto a chiamare uno a uno tutti gli ottomila iscritti al partito, voglio sapere chi sono, perché hanno aderito, da dove vengono...». In parole povere, anche nella Capitale, che con la consueta pratica della resistenza passiva era riuscita a tenere a bada il renzismo, si sta facendo strada il nuovo corso.

Il caso di Micaela Campana, coinvolta nella vicenda per un sms a Buzzi
Certo, le polemiche non sono finite. E nemmeno i timori di nuovi sviluppi. Ma per ora su Micaela Campana, coinvolta nella vicenda per un sms a Buzzi, il Pd ha deciso di non muoversi. «Non facciamo di tutta l’erba un fascio» è il ritornello del premier.

La deputata del Pd, bersaniana di ferro, non è indagata, quindi non si autosospenderà dalla segreteria. Né il premier, finora almeno, glielo ha chiesto. Forse, per ragioni di opportunità, le verranno cambiate le deleghe (al Welfare e al terzo settore) che ha nell’organismo dirigente del partito. Per il resto, c’è la minoranza, Rosy Bindi in testa, che continua a tentare di mettere in difficoltà Renzi su questa vicenda, ma lui con i fedelissimi fa spallucce e dice: «Ci sono strumentalizzazioni e provocazioni alle quali non vale neanche la pena replicare».

7 dicembre 2014 | 09:27
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_07/renzi-l-occasione-prendere-capitale-roccaforte-ancora-ostile-71407144-7de9-11e4-9639-7f4a30c624ee.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Dicembre 14, 2014, 05:56:43 pm »

IL PREMIER

Renzi: D’Alema vuole mandarci a casa
L’ira di Renzi, ora la conta all’assemblea pd.
L’idea di pubblicare le spese delle segreterie Bersani e Epifani Colpo di coda della vecchia guardia Vogliono un altro esecutivo

Di Maria Teresa Meli

ROMA Una cosa per Matteo Renzi è chiara: «Siamo di fronte al colpo di coda della vecchia guardia contro di me. E per questa ragione cerca di frenare la riforma del Senato e l’Italicum».

A capo di questo schieramento c’è sempre lui, secondo il premier: Massimo D’Alema, che «guida il fronte trasversale dei conservatori che comprende anche Forza Italia». Ma non c’è solo l’ex ministro degli Esteri nel mirino del segretario. L’impressione è che anche Bindi, Bersani e Finocchiaro «stiano cercando il colpo finale per salvare loro stessi e la vecchia classe dirigente e affossare me».

Con quale obiettivo finale? È su questo che lo stesso Renzi e i suoi fedelissimi non hanno le idee chiare. «Forse - ragiona ad alta voce il premier con i suoi - ormai è passata la linea D’Alema: pur di distruggere me, distruggiamo pure l’Italia, il che vuol dire cercare di mandare a casa questo governo e metterne un altro, senza passare dalle elezioni, agli ordini della troika e della Commissione europea. Sennò qual è la strategia? Quella di condizionare l’elezione del presidente della Repubblica? O siamo alle richieste inconfessabili: avere delle liste bloccate che garantiscano i loro candidati che altrimenti alle elezioni non verrebbero mai eletti?».

Gli interrogativi sulla strategia o sulla mancanza della stessa si accavallano nella mente di Renzi, ma sulle risposte da dare non ci sono dubbi. Lo spettro delle elezioni resta lì sullo sfondo. Però, visto che non spaventa abbastanza, ci sono soluzioni operative più immediate da mettere in atto che potrebbero fare assai male alla minoranza, anche a quell’area riformista capeggiata da Roberto Speranza, che però non ha battuto un colpo in favore del segretario nel momento del bisogno.

«Se lo scontro all’interno del partito si fa sempre più duro, bisognerà comportarsi di conseguenza», avverte Renzi. Primo segnale: l’assemblea regionale toscana che avrebbe dovuto incoronare Enrico Rossi come candidato alla regione è stata posticipata e ora i renziani fanno sapere che potrebbero spuntare nuove candidature alle primarie. A livello nazionale la risposta potrebbe essere altrettanto dura: sono in bilico in segreteria nazionale i posti di Micaela Campana e Andrea De Maria, rispettivamente componenti dell’area Speranza e Cuperlo. La prima è legatissima a Bersani ed è la ex moglie del pd Daniele Ozzimo, dimessosi da assessore comunale di Roma perché coinvolto nella vicenda di «Mafia Capitale». Il secondo è uomo di Cuperlo, il quale, secondo i renziani, sta portando avanti il progetto dalemiano senza se e senza ma. Ciò potrebbe significare la fine della gestione unitaria adottata finora nel Pd.

Dunque, come ha spiegato il premier ai suoi, «potrebbero esserci ripercussioni molto forti sia a livello locale che nazionale». Da quest’ultimo punto di vista, domenica, all’assemblea nazionale, potrebbe esserci una sgradita sorpresa per molti: il tesoriere Francesco Bonifazi potrebbe mettere on line i dati del bilancio delle segreterie Bersani, Epifani e Renzi, con relative spese e stipendi degli staff.

Insomma, per dirla con il segretario, sarà l’assemblea nazionale «il momento della verità»: «Sto preparando un documento molto esplicito e impegnativo sulle riforme su cui chiederò il voto».

Basterà a ridurre a più miti consigli la minoranza e, soprattutto, a sedare i renziani che invocano le elezioni? Certo nemmeno questa prospettiva basta per ora a trattenere il premier, che non ha accettato l’attacco di D’Alema a Delrio: «Graziano è un mite e non ha mai minacciato nessuno, Massimo può dire altrettanto?». Domanda retorica, ovviamente.

12 dicembre 2014 | 10:40
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_12/renzi-d-alema-vuole-mandarci-casa-b521f8c8-81e1-11e4-bed6-46aba69bf220.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:24:11 pm »

Il doppio ultimatum di Renzi e l’arma del voto a maggio
Messaggio a sinistra pd e Berlusconi: state giocando con il fuoco Tensione
La rabbia dei renziani: «Altro che ditta, hanno violato i patti, agguato studiato a tavolino»

Di Maria Teresa Meli

ROMA Matteo Renzi si è stufato di aspettare Berlusconi che temporeggia sulla riforma elettorale e di subire gli agguati della minoranza pd. All’uno e agli altri il premier invia segnali ben chiari, che hanno il sapore dell’ultimatum.

Quello rivolto al leader di Forza Italia è un messaggio inequivocabile: «Se lui molla l’accordo, noi andiamo dritti sulla nostra strada con il Mattarellum e ci presenteremo da soli alle elezioni, visto che il Pd è un partito maggioritario, con quel sistema». Il che significa non solo rompere con Berlusconi, con tutto quel che ne consegue (per esempio, che il numero uno di FI non toccherà palla sull’elezione del capo dello Stato), ma prefigurare un voto politico ravvicinato, quando il Mattarellum verrà approvato dalle Camere. Tant’è che si ipotizza già un possibile «election day» a maggio con Regionali, Comunali ed elezioni politiche.

Ma questa, al momento almeno, è più che altro un’arma di pressione, perché lo scioglimento anticipato della legislatura non è l’obiettivo prioritario di Renzi, il quale, peraltro, è convinto che, alla fine, «Berlusconi non romperà».

Però, è chiaro, che di incidente in incidente, di problema in problema, si potrebbe comunque scivolare verso il voto anticipato. Anche perché tra i renziani cresce la tentazione di andare alle elezioni. Soprattutto dopo che il governo è andato sotto in Commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Sul banco degli imputati soprattutto Lauricella, Cuperlo e Bindi. Ma anche altri. L’insofferenza dei renziani è alle stelle. In Commissione Marco Meloni vota contro e Francesco Sanna esce, il che avvalora in loro l’ipotesi che di mezzo ci sia pure «un complotto dei lettiani». Insomma, sono imbufaliti con le minoranze: «Questa non la mandiamo giù. Stiamo prendendo il fango per tutti loro, vedi Roma, e questo è il ringraziamento? Uno sgambetto? Altro che ditta, hanno violato un accordo con un agguato studiato a tavolino, che mette a rischio tutto».

I fedelissimi del premier, il cerchio più ristretto, in una riunione informale propongono: «Variamo il Mattarellum, facciamo le liste noi e poi vediamo». Persino il mite Guerini perde la pazienza: «Io sono buono e caro, ma violare un patto di lealtà è un vulnus». Già, perché l’accordo preso era questo: mai votare contro il capogruppo del Pd in Commissione. Impegno preso a nome di tutti e siglato da Guerini, Speranza, Rosato, Fiano e Boschi con D’Attorre, Sanna, Giorgis e Pollastrini. Il presidente del Consiglio per ora frena, anche se la sua irritazione è palpabile: «Pensano di intimidirci, hanno tradito un vincolo, ma non mi conoscono. Si divertono a mandarci sotto per far vedere che esistono, persino a costo di votare con Grillo e Salvini. Questo è il loro livello. Non hanno tenuto fede alla parola data. Però non vale la pena arrabbiarsi. Andranno sotto in aula. E quindi andiamo avanti. Piuttosto, pensate a difendere Napolitano dai nuovi attacchi di Grillo».
Una parte dei fedelissimi insiste. Vuole le elezioni. «Calma - replica Renzi -. Quelli vogliono solo far deragliare le riforme. Ma se falliamo noi, che cosa ottengono? Di fare arrivare la troika. Avete letto quello che ha detto Juncker? Bel risultato che ottengono i conservatori e i frenatori pur di far vedere che sono ancora vivi».

«Comunque all’assemblea di domenica - è la conclusione - ci sarà la resa dei conti. Si chiarirà bene la linea e il fatto che nel Pd ci sta chi ci vuole stare. Faremo in modo che tutti capiscano che la minoranza sta giocando con il fuoco». Sì, annuisce Debora Serracchiani: «Stanno proprio scherzando col fuoco». Con il fuoco delle elezioni, pensa più d’uno in quella stanza.

11 dicembre 2014 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_11/doppio-ultimatum-renzi-l-arma-voto-maggio-b8b86566-80fc-11e4-98b8-fc3cd6b38980.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:07:59 am »

L’elezione del capo dello stato
La strategia di Renzi sul Quirinale: sul mio nome non potranno dire no
Il premier punta a ritrovare l’unità: se saranno contro, vuol dire che giocano allo sfascio. Bersani si candida a fare il mediatore. D’Alema confida a tanti di tifare per Tsipras

Di Maria Teresa Meli

ROMA - Manca solo una manciata di giorni al grande appuntamento, eppure Matteo Renzi continua a giocare a carte coperte. Difficile per il premier fare altrimenti, dal momento che ormai tutti i fucili sono puntati su di lui.

I fucili degli avversari, come i grillini, che il presidente del Consiglio è pronto a incontrare per discutere del Quirinale, a patto che «loro accettino di venire nella sede del Partito democratico, al Nazareno», senza fare sceneggiate. E anche (o soprattutto?) quelli della minoranza interna. La quale minoranza, ieri sera, ha voluto mandare al premier un altro segnale, annunciando che non voterà a Palazzo Madama un emendamento presentato da Anna Finocchiaro. Come a dire: non credere che se candidi lei al Colle noi diciamo di sì e tutto viene risolto.

Una mossa, questa, che era già stata anticipata dal senatore dissidente Corradino Mineo, nel corso della trasmissione di La7 L’aria che tira: «Io personalmente non voterei la Finocchiaro, se venisse candidata al Quirinale, e penso proprio che Bersani farà lo stesso».

L’incontro con l’ex segretario
Già, Pier Luigi Bersani. Un secondo incontro con l’ex segretario - dopo il primo, andato a vuoto - è stato messo in agenda ed è imminente. Ma il presidente del Consiglio non sa se sarà risolutivo, anche se assicura ai suoi che alla fine verrà proposto un candidato «a cui la minoranza non potrà dire di no», a meno che «non si voglia giocare allo sfascio, e io non lo penso».

Renzi fa mostra di credere alla buona fede dell’ex segretario che dice «non faremo i franchi tiratori». Ma la verità è che il premier non ha compreso bene dove veramente vogliano andare a parare gli esponenti della minoranza: «Non si capisce - dice ai suoi - dove vogliano andare, non hanno una strategia comune».

Sin qui la cosa non ha provocato delle difficoltà all’inquilino di Palazzo Chigi: «A me finora è andata bene così, perché abbiamo portato a casa il risultato che ci premeva, cioè quello di una legge elettorale che stabilirà chi vince senza ambiguità. Il che, grazie anche alla riforma del Senato, consentirà a chi governa di poterlo fare veramente».

I numeri contro

Ma in un futuro nient’affatto remoto, bensì molto prossimo, Renzi dovrà fare i conti con una fetta del «suo» partito che non risponde alle direttive della segreteria. Non saranno 140, perché, come confessava Corradino Mineo, all’assemblea della minoranza, l’altro ieri, «erano forse un centinaio», però rappresentano comunque un numero che pesa. Non tanto e non solo in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, perché, per come si sono messe le cose, il presidente del Consiglio può concedersi anche il lusso di 101 franchi tiratori. È il prosieguo della legislatura che, a questo punto, è in gioco. Sì, perché nel campo del Pd sono in molti a puntare a un ridimensionamento di Renzi.

Un’altra sinistra
E l’elezione dell’uomo del Colle è un tassello di questa operazione. Basta vedere i posizionamenti. Bersani, in attesa del desiderato (da lui) incontro con il premier, fa intendere a Renzi che potrebbe indossare i panni del mediatore, ma poi lascia andare avanti Miguel Gotor e gli altri al Senato. Massimo D’Alema, invece, non fa nemmeno quella parte e confida a destra e a manca di tifare per la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, quasi prefigurando un’altra sinistra al di là del Partito democratico.

«C’è chi spera di farmi fuori o, quanto meno, con i ricatti, di condizionarmi, ma è una speranza vana, io vado avanti perché sono convinto che questo Paese abbia bisogno di grandi cambiamenti», dice il presidente del Consiglio. Che, come si è detto, non cercherà certo la rottura sul Quirinale: «Alla quarta votazione dobbiamo avere un presidente, perché ci sono molti professionisti della politica autocandidati che sperano di entrare in gioco dalla quinta in poi». Quindi il nome su cui alla fine convergerà Renzi non sarà un nome che gli potrà portare l’ostilità dei suoi avversari interni.

La scadenza
Il premier si è dato come limite il 2 febbraio, anche se spera di chiudere prima la vicenda. Per il resto sa che il cammino non sarà facile, comunque si chiuda la partita del Quirinale. Non basterà una soluzione che vada più o meno bene a tutti a sanare le ferite interne. Ma Renzi è convinto che, quale che sia l’esito finale di quella vicenda, archiviata la pratica, il governo non subirà contraccolpi pesanti: «È da tempo, ormai, che mi mettono i bastoni tra le ruote e che cercano di ostacolare i nostri provvedimenti, eppure stiamo andando avanti lo stesso», spiega. E aggiunge: «Vedrete che non dureremo molto, ma moltissimo. Molleranno prima quelli che stanno cercando di ostacolarci, perché io non mollo mica».

23 gennaio 2015 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/strategia-leader-quirinale-mio-nome-non-potranno-dire-no-46876cc4-a2c8-11e4-9709-8a33da129a5e.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Gennaio 30, 2015, 04:46:17 pm »

Il retroscena
Elezione Presidente della Repubblica
Il premier Renzi: Silvio non romperà
Il capo del governo alle prese con tre maggioranze

di Maria Teresa Meli e Francesco Verderami

Grazie a un ex dc, Renzi fa pace con gli ex pci, blinda la «ditta», si prepara ad accompagnare il suo prescelto al Colle e si ritrova con tutte le carte del mazzo in mano. Comprese le elezioni anticipate. Non era mai accaduto che un presidente del Consiglio diventasse il capo di tre diverse maggioranze: quella di governo, quella del patto del Nazareno e quella del Quirinale. Certo, Mattarella non è stato ancora eletto, ma è inevitabile che da giovedì il leader del Pd debba guardare oltre l’elezione del capo dello Stato. Il premier d’ora in avanti si troverà a coltivare i nuovi rapporti che ha costruito (con Sel) e a gestire quelli che si sono logorati con l’alleato di governo (Alfano) e con l’alleato di opposizione (Berlusconi). Il modo in cui ha cambiato schema di gioco ha spiazzato i suoi interlocutori, e la conversazione con Berlusconi non dev’essere stata amabile. Tuttavia Renzi ritiene che il rapporto con il leader di Forza Italia non si sia rotto, «mi ha detto che comunque l’intesa sulle riforme rimane valida. Ora - ha spiegato ai dirigenti del partito - si prenderà qualche giorno per smaltire la rabbia. Dopo si ripartirà». Una conferma rispetto a quello che aveva preventivato, e cioè che il Cavaliere non si sarebbe posto sulle barricate per la scelta di Mattarella, che si sarebbe «limitato a marcare il dissenso con la scheda bianca».

Se per questo, il leader di Forza Italia - che non accetta mai la sconfitta - giovedì mattina sembrava tentennare, come fosse addirittura intenzionato a votare a favore del candidato di Renzi: un moto dell’anima o una reazione istintiva? Per non sbagliarsi, i dirigenti azzurri hanno fatto pressing su di lui: «Non possiamo votarlo», gli ha detto più volte Ghedini. Il prezzo politico che Berlusconi sta pagando è molto alto: tra Fitto che chiede l’azzeramento dei vertici di Forza Italia e la Lega che lo irride e avoca a sé il primato nel centrodestra, gli è rimasta solo l’intesa con Alfano, che ha tenuto fede al «patto sul Quirinale» stretto tra le forze che si rifanno al Ppe. È il primo embrione del progetto di ricostruzione dell’area moderata che si rifà all’Ump francese.

Anche con il ministro dell’Interno Renzi è ai ferri corti. Immaginava che Ncd alla fine avrebbe votato a favore di Mattarella, «e secondo me Alfano sbaglia se vota scheda bianca. Per certi versi mi dispiace, perché con la posizione che ha assunto rischia di perdere consensi». Il segretario del Pd, dopo averci provato di persona, gli ha inviato numerosi ambasciatori che hanno tentato di fargli cambiare idea. E nei loro ragionamenti non è mai mancato un cenno al «rischio di una crisi di governo»...

Ma il leader del raggruppamento di Area Popolare contesta al premier il cambiamento di schema, e alla riunione con i grandi elettori ha spiegato il suo «no a logiche ancillari»: «Non siamo cadetti di Berlusconi, figurarsi se diventiamo cadetti di Renzi». La scheda bianca permette ad Alfano di presidiare un’area che va ancora ricostruita, e mette nel conto la possibilità che si incrini l’asse con Renzi. Il punto è che la situazione si fa complicata nell’esecutivo, e come se non bastasse il Cavaliere giovedì - per uscire dalle secche - lo ha messo in difficoltà con le sue dichiarazioni che anticipavano addirittura l’apertura della crisi da parte di Ncd. «Berlusconi non ha titolo per parlare di questioni di governo», ha detto il responsabile del Viminale per parare il colpo: «E il patto di governo non è in discussione. Piuttosto toccherà al premier fare il vigile urbano, per evitare incidenti agli incroci».

Sono gli «incroci» delle tre maggioranze distinte e distanti che il segretario del Pd ha costituito e che oggi lo rendono il dominus nel Palazzo. «Ma se Renzi pensa di andare avanti con le tre maggioranze va a sbattere», dice il bersaniano Gotor. Sarà, intanto il primo obiettivo del leader democrat - quello fondamentale - è di concludere l’operazione Quirinale portandosi dietro tutto il suo partito. E su questo è ottimista: «Ho ricompattato il Pd, anche se nessuno lo credeva possibile. Persino Fassina è con noi. Fino ad ora è stato un capolavoro». Poi, ripetendolo quasi come un mantra, Renzi dice di credere nel «senso di responsabilità di tutti i parlamentari democratici».

Ma ora lo attende la prova del voto a scrutinio segreto, «ora si va alla prova di forza in Aula e dobbiamo stare attenti, controllare quante saranno le schede bianche e quelle disperse, perché non possiamo permetterci nessun errore». E infatti, dopo la prima chiama, è stato analizzato il risultato. I voti andati dispersi sono stati un po’ troppi, e bisogna verificare se si tratta di una sorta di «libera uscita» momentanea o se dietro c’è dell’altro. In fondo, questo rimane pur sempre il «Parlamento dei 101» .

In più, c’è da considerare la possibile reazione di tutti quei quirinabili che speravano di essere «il prescelto» e che invece vedono sfumare le loro aspettative. La dote di voti di Renzi è elevatissima, ma va capito se tutti i suoi avversari riuscirebbero a diventare una «massa critica» capace di far saltare l’elezione del capo dello Stato al quarto scrutinio. Sarebbe un evento tanto clamoroso quanto improbabile. Per cautelarsi dai franchi tiratori il premier si sta muovendo su due fronti. Il primo è mediatico: quando la Boschi dice che «altri si preparano a votare Mattarella», si tentano di dissuadere i malintenzionati. Il secondo è politico: al Nazareno sono convinti che «nel segreto dell’urna qualcuno di Forza Italia voterà con noi. O Berlusconi o Fitto»...

30 gennaio 2015 | 07:21
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/quirinale-premier-renzi-fine-silvio-non-rompera-8cba223a-a846-11e4-9642-12dc4405020e.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Febbraio 06, 2015, 11:17:43 am »

Il retroscena
Il contrattacco di Renzi: lasciare non gli conviene, noi abbiamo i numeri
Ai suoi dice: stiamo distruggendo il gruppo di FI al Senato.
Dopo Mattarella i sondaggi sul tavolo del leader dicono che la fiducia nel governo è salita di quattro punti

Di Maria Teresa Meli

ROMA «Non si è rotto il patto del Nazareno: si è rotta Forza Italia». Matteo Renzi non ha nemmeno un’esitazione, un accorgimento diplomatico o un rigurgito di prudenza.

Il presidente del Consiglio è netto e non parla il linguaggio politico del «dico e non dico». Non è nel suo stile. Tanto meno in un momento come questo: «Stiamo distruggendo il gruppo di Forza Italia al Senato. E abbiamo i numeri comunque, anche senza quelli che i giornalisti chiamano cespugli, ma vedrete che loro li riprenderemo, non hanno nessun interesse ad andarsene. Sul Nuovo centrodestra sono tranquillo. Rientrerà. Non ci sarà nessuno sconquasso, i ministri del Ncd resteranno al loro posto. E non si tratta di fare verifiche, la mia porta a Palazzo Chigi è sempre aperta e io con Alfano discuto sempre». I fatti sembrano dar ragione al premier, perché il ministro dell’Interno, intervistato dal Tg3 spiega di volersi tenere ben stretto all’alleanza con Renzi. Del resto, come dicono nello staff del premier se il leader del Ncd provasse a uscire dal governo «perderebbe i quattro quinti dei suoi parlamentari...».

«Vado dritto, con o senza di lui»
Diverso è il discorso che riguarda FI. «Lì - è la spiegazione del premier - c’è una divisione profondissima e ci sono molti cattivi consiglieri che indirizzano Berlusconi nella direzione sbagliata. Io penso che al di là delle invettive e dei proclami di guerra di questi giorni sia tutta convenienza loro recuperare sulle riforme. Se non lo vogliono fare, pazienza, significa che intendono farsi del male da soli». Anche perché a quel punto chi garantirebbe a Berlusconi che il Pd non cambi idea sui capilista bloccati da lui così fortemente voluti? È vero che Renzi ha detto e ridetto che «la legge elettorale non si tocca», però se uno dei contraenti il patto viene meno alla parola data tutto può succedere...
Ma si tratta, in realtà, solo di ragionamenti astratti perché è «sempre stato Berlusconi a volere l’intesa, però se qualche cattivo consigliere gli ha fatto balenare l’idea che avrebbe usato le riforme come arma di scambio con me, allora è cascato male. Io vado dritto, con lui o senza di lui e non accetto tentativi di condizionamento».

Forza Italia cala all’11,5%
Comunque, secondo il premier non conviene a nessuno esasperare la situazione. Non ad Alfano. E nemmeno a Berlusconi «che pure ha delle difficoltà a gestire i gruppi di FI». Mettersi su una china che può far scivolare tutti verso le elezioni anticipate non sarebbe un buon affare né per Forza Italia né per il Ncd. L’ultimo sondaggio di Piepoli sulla scrivania del premier parla chiaro. Dopo l’operazione Mattarella la fiducia nel governo è salita di 4 punti e ora l’esecutivo si è attestato sul 51 per cento. Nel borsino dei leader il premier è in testa con il 50 per cento (+1), Berlusconi è al 19 (-2), Grillo al 14 (-2), Salvini al 26 (-3). Tra i partiti, sempre stando a questo sondaggio arrivato sul tavolo del premier a Palazzo Chigi, l’unico in crescita è il Pd che è al 36 per cento e guadagna quindi un punto. Forza Italia cala all’11,5 per cento (-1), il Movimento 5 Stelle al 18, la Lega al 15,5, Sel al 4,5 e il Nuovo centrodestra al 5.

Se questi sono i dati, una situazione di caos e il rischio di un incidente che porti alle elezioni anticipate non convengono certo a Forza Italia e nemmeno a Ncd. E comunque il comportamento ondivago di queste due forze politiche, stando almeno a questo sondaggio non le ha premiate. Anche per questa ragione Matteo Renzi spinge ancora di più l’acceleratore sulle riforme, certo com’è che «i cittadini italiani non staranno mai dalla parte della conservazione».

Ma, come si diceva, il premier è convinto che, alla fine, sull’Italicum Berlusconi tornerà indietro e cercherà di rientrare nel gioco.

«Basta cose complicate»
Piuttosto nell’entourage renziano c’è maggiore preoccupazione per quello che riguarda la riforma del Senato e del titolo quinto della Costituzione. L’impressione è che Forza Italia stia iniziando le manovre per sfilarsi da quella riforma dopo la prima lettura. Un’ipotesi del genere complicherebbe non poco le cose al Partito democratico perché se rimanesse il bicameralismo perfetto l’Italicum resterebbe a metà: varrebbe per la Camera ma non per il Senato, dove resterebbe in vigore il sistema elettorale proporzionale. Ciò significherebbe per il Pd la prospettiva di una vittoria monca che gli consentirebbe di guadagnare il premio di maggioranza a Montecitorio, ma lo costringerebbe ad allearsi con altri partiti a Palazzo Madama. Esattamente ciò che Renzi non vuole, come ha spiegato bene l’altro ieri a «Porta a Porta»: «Il primo partito vince e governa, basta coalizioni, pentapartiti e altre cose complicate».

5 febbraio 2015 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_05/contrattacco-renzi-lasciare-non-conviene-noi-abbiamo-numeri-a11f0e84-ad05-11e4-8190-e92306347b1b.shtml
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