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Autore Discussione: Sergio Luzzatto Pio XI e quel razzismo d'Africa  (Letto 2448 volte)
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« inserito:: Novembre 05, 2008, 11:33:30 am »

Archivi Nuovi documenti provano le compiacenze della Santa Sede verso la politica di Mussolini in Etiopia

Pio XI e quel razzismo d'Africa

Nel '37 appoggiò la legge che vietava i rapporti fra italiani e «faccette nere»


La «Giornata della Fede» è rimasta a lungo iscritta non soltanto nelle memorie, ma anche sui corpi (sulle mani) degli italiani. Il 18 dicembre 1935, in risposta alle sanzioni decretate contro il regime di Mussolini dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Etiopia, le coppie d'Italia furono chiamate a sostenere lo sforzo bellico del fascismo donando «oro alla patria»: contribuendo alle spese di guerra attraverso l'offerta degli anelli nuziali. Fu un gigantesco rituale di massa, celebrato a Roma come nel più minuscolo comune del Regno. Nella sola capitale, oltre centomila fedi d'oro vennero deposte sull'Altare della Patria da brave donne italiane — per prime, la regina Elena e donna Rachele — che orgogliosamente si misero al dito, in cambio, fedi d'acciaio. La Chiesa cattolica collaborò attivamente alla raccolta dell'oro. Con lettere pastorali, omelie, fogli diocesani, gran parte del clero fece propri gli slogan della pubblicistica di regime. Già il 4 dicembre, con due settimane di anticipo sulla Giornata della Fede, Mussolini poté ordinare ai prefetti di esprimere ai vescovi di ogni provincia la piena soddisfazione del governo fascista.

Il sostegno della Chiesa riuscì allora tanto più utile al regime in quanto la vera nuziale, per la maggioranza degli italiani, era anzitutto un segnacolo religioso: valeva da promemoria del patto matrimoniale stretto dalla coppia presso un altare, era il materico simbolo di un sacramento. Se il mondo cattolico poté aderire massicciamente alla guerra di Mussolini in Africa, fu anche perché l'impresa d'Etiopia traduceva il mito fascista della romanità nei codici di una cultura missionaria. I soldati del Littorio promettevano di consegnare la fede romana a popoli semibarbari: la «crociata» in Abissinia veniva combattuta affinché trionfassero, insieme, le ragioni imperiali del fascismo e quelle universali del cattolicesimo. Nondimeno, gli storici più avvertiti hanno iniziato da qualche tempo — sulla scorta dei documenti d'archivio relativi al papato di Pio XI, accessibili dal 2006 — a sfumare l'immagine troppo nitida e netta di una Chiesa compattamente schierata dietro le legioni del Duce. In particolare gli studi di Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all'università di Roma Tor Vergata, hanno documentato sforzi notevoli della Santa Sede, e di Pio XI in persona, per fermare la macchina bellica di Mussolini. Alla vigilia della dichiarazione di guerra, Pio XI aveva preparato una lettera privata per il Duce dove gli chiedeva, in sostanza, di rinunciare all'invasione dell'Etiopia.

Papa Ratti aveva poi deciso di non inoltrare la missiva, ma fino all'ultimo aveva fatto pressioni su Mussolini «per non mettere l'Italia in stato di peccato mortale». Né le gerarchie vaticane tacquero del tutto a mobilitazione avvenuta, dopo il fatidico discorso mussoliniano del 2 ottobre 1935. Estensore materiale della bozza di lettera di Pio XI al Duce, monsignor Domenico Tardini affidò a un documento riservato per il papa l'espressione del proprio disgusto nei confronti del «clero esaltato e guerrafondaio». Mentre la Segreteria di Stato diffuse, il 30 novembre, precise istruzioni «da impartire verbalmente ai vescovi d'Italia»: durante la Giornata della Fede, si limitassero i vescovi al campo della preghiera, badando di «non esprimere giudizi sul diritto e la giustizia dell'impresa abissina». Ora che conosciamo meglio il travaglio della Chiesa di Pio XI a fronte dell'avventura imperiale di Mussolini, a maggior ragione restiamo colpiti da nuovi documenti inediti che Lucia Ceci ha rinvenuto nell'Archivio segreto vaticano e che saranno da lei presentati, in questi giorni, a un convegno della Fondazione Salvatorelli.

Sono materiali più tardi, relativi all'estate del 1937: quando ormai da un anno si è consumata la presa militare di Addis Abeba, ed è stato proclamato un impero del quale Pio XI (a dispetto delle tormentate sue iniziative diplomatiche del '35) ha creduto bene di rallegrarsi pubblicamente. Dopo il disordine della guerra, in Africa orientale italiana è venuto il momento di fare ordine. Ed è venuto il momento di farlo a partire dalle alcove, dove troppi soldati e troppi coloni si consolano della distanza da casa fra le braccia amorevoli di qualche «faccetta nera». In Africa orientale italiana è suonata, insomma, l'ora di una legislazione sulla razza. Dietro impulso del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, il regime ha appena introdotto la «legge sul madamato», che punisce con la reclusione da uno a cinque anni il concubinato di un cittadino italiano con «una persona suddita dell'Africa orientale». Adesso — siamo ai primi d'agosto del '37 — il ministro Lessona sta chiedendo al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini Duca, un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare il rischio concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti, «disgraziatamente», i figli nati dall'amplesso di uomini bianchi con donne nere «portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze».

Perciò l'Italia fascista invoca il contributo della Chiesa cattolica nel «dissuadere unioni tra persone di diversa razza»: «appunto per evitare le nascite dei mulatti, che sono dei degenerati». Risalendo per via gerarchica, la richiesta di Lessona approda sulla scrivania di Pio XI, che sollecita un avviso del cardinale Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei sacramenti. E il 24 agosto 1937, il cardinale Jorio mette per iscritto, all'attenzione di Papa Ratti, un parere sconcertante rispetto al senso comune della morale cattolica. Sì, «a mezzo dei Missionari», la Chiesa avrebbe effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare — «nei giusti limiti» del diritto canonico — alla campagna per la «sanità della razza». Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi igienico-sociali intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro», e «le accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Segue l'approvazione papale del documento firmato dal cardinale Jorio, trasmesso alla nunziatura d'Italia già il 31 agosto di quel 1937: per la gioia del ministro Lessona, «lieto delle sagge disposizioni della Santa Sede». Spolverata dagli archivi vaticani grazie alle fondamentali ricerche di Lucia Ceci, questa non è che una pagina fra le tante, nell'alterna vicenda del rapporto fra il Vaticano degli anni Trenta e i regimi razzisti. Ma è una pagina che avremmo preferito non leggere.

Sergio Luzzatto
05 novembre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 11:38:13 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 05, 2008, 11:53:52 am »

Intervista La scrittrice premio Nobel ricorda gli anni della divisione razziale

«Non siamo più balie, cuoche e facchini»

Toni Morrison: «Con Obama il bianco e il nero non contano: reclamiamo uniti la nostra America»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

 
 
NEW YORK - Il premio Nobel Toni Morrison, 78 anni il prossimo 18 febbraio, ricorda ancora l’America razzista e segregata in cui i neri erano obbligati a bere dalle fontane pubbliche «for colored only», stipandosi sul retro degli autobus e vivendo in un universo parallelo e separato che s’intersecava con quello dei bianchi solo in circostanze di totale subordinazione. «Eravamo showmen al soldo dei ricchi bianchi», spiega l’autrice di Sula, Jazz e L’occhio più azzurro (editi in Italia da Frassinelli). «Eravamo balie, cuoche, facchini, mezzadri. E invece oggi alcune delle persone più potenti d’America sono afro-americane: prima di Obama, Colin Powell, Condi Rice, Tiger Woods, e il numero uno di Time Warner, Richard Parson. Chi l’avrebbe mai potuto immaginare? È stata una strada lunga e tortuosa».

Che ricordi ha dell’America razzista e segregata della sua gioventù?
«Uno mi è rimasto particolarmente impresso. Avrò avuto 21 anni emi trovavo con un’amica a Houston, in Texas. Era una tiepida giornata come ce ne sono poche nel Sud emi sentivo felice e in pace col mondo quando sorpassammo un’auto con un’adorabile bimba bionda di 4, 5 anni seduta sulla cappotta abbassata. Quando aprii il finestrino per guardarla meglio la piccola esclamò "Ciao negraccia". Era una bambinetta ma aveva già imparato quella parola».

Cosa ricorda della sua infanzia in Ohio?
«L’Ohio degli attuali tg non è più il mio. Io sono cresciuta nell’area industriale intorno al lago Erie. Un mondo liberal e working class di emigranti cechi, polacchi, italiani e messicani dove l’unico liceo era per tutti. Ho deciso di andare all’università proprio perché volevo stare tra intellettuali afro-americani».

Un’esperienza di integrazione rara per quei tempi.
«Allora quella parola non esisteva neppure. Mia madre aveva imparato a cucinare i cavoli dalla donna ucraina che abitava di fronte a casa nostra. Eravamo tutti uniti dalla povertà, avevamo tutti l’orto e la capra nel cortile. I coetanei spesso mi insultavano e un giorno un ragazzo mi chiamò Etiope ma francamente né io né lui sapevamo cosa significasse».

È rimasta stupita dai toni spesso razzisti assunti dalla campagna presidenziale?
«È meglio che il bubbone esploda, per far uscire fuori la spazzatura. E comunque tutti i presidenti americani della storia sono stati costretti ad affermare le proprie credenziali di bianchi. Incluso Bill Clinton, obbligato a denunciare la cantante Hip Hop Sister Souljah in quanto razzista anti-bianchi ».

Obama non l’ha dovuto fare.
«Lui è diverso. Dopo essere stato allevato, amato e coccolato da una madre e da nonni bianchi non può improvvisamente rinnegarli: quella è la sua storia. Nella sua autobiografia affronta questo tema in maniera molto profonda ed è chiaro che preferisce essere nero, tanto da aver fatto un pellegrinaggio in Kenya sulle orme del padre. Alla fine ha sposato un’afroamericana mentre moltissimi politici neri conservatori di razza mista hanno preferito mogli bianche».

Com’è visto dalla black America il fatto che sia stato allevato da bianchi?
«Il problema non è quello: siamo tutti mescolati e in ognuno di noi corre sangue bianco. La vera esitazione dei neri americani riguardava il fatto che Obama non discende da schiavi. E la generazione di attivisti che hanno fatto la galera e sono stati picchiati per le loro idee gli rimproveravano di essere troppo giovane per aver partecipato alla lotta per i diritti civili».

Alla fine però è stato completamente accettato?
«Non solo, ha anche dimostrato di essere meglio di noi. I neri hanno sempre votato candidati bianchi ma nessuno aveva mai visto prima d’ora una campagna tanto saggia e visionaria. Obama ha creato la sensazione palpabile che bianco e nero non contano più perché siamo tutti uniti nel reclamare la nostra America. Una grande storia americana».

In che senso?
«La mia storia e quella di Obama non sarebbero mai possibili in Francia o in Italia, non perché l’Europa è più razzista dell’America, ma perché è estremamente più protezionista sul mercato del lavoro. In Europa Obama sarebbe ancora in attesa della cittadinanza».



Alessandra Farkas
05 novembre 2008


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