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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112784 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Luglio 21, 2009, 11:18:07 pm »

Reportage.

Due settimane dopo la più cruenta repressione etnico-religiosa mai vista da 40 anni nella Repubblica popolare cinese

Ecco la città proibita di Urumqi

Viaggio nella trincea dello Xinjiang

La propaganda si scaglia contro la leader uigura in esilio

Rebiya Kadeer e la stampa estera "faziosa e anti-cinese"

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI


 URUMQI - A ogni crocevia i soldati cinesi sono disposti "a testuggine" come gli antichi romani. Quadrilateri di scudi per proteggersi da un attacco nemico che può arrivare da ogni lato, all'improvviso. Sono centurioni ad alta tecnologia: giubbe antiproiettile, scudi di plexiglas, fucili automatici puntati in faccia alla gente che passa. Due settimane dopo la rivolta degli uiguri che ha fatto duecento morti (bilancio ufficiale), la capitale dello Xinjiang vive sotto la morsa di un'occupazione militare. Accentuata da un impenetrabile black-out delle comunicazioni. Un test di accecamento elettronico che segna un nuovo progresso nelle tecniche di repressione.

Teatro della più cruenta protesta etnico-religiosa mai vista da quarant'anni nella Repubblica Popolare, oggi Urumqi è tagliata in due. Nella zona moderna dove gli immigrati cinesi (han) sono la schiacciante maggioranza, la vita è tornata quasi alla normalità: ingorghi di auto e supermercati pieni, un paesaggio di neon e pubblicità sfavillanti come in tutte le metropoli della Cina. Ma una trincea di paura separa il centro storico, il ghetto dove i musulmani sono in stato d'assedio. Le vie d'accesso alla città vecchia sono vuote di automobili. Sfilano regolari solo le colonne di autocarri dell'esercito: segnalano l'inizio della "no man's land" dove i cinesi han non si avventurano più. Negli edifici pubblici requisiti dalle forze armate si vedono marce e si sentono inni patriottici a tutte le ore. La presenza militare deve essere esibita, ben visibile giorno e notte.

Vaste macchie nere - le divise dei reparti speciali di polizia antisommossa - si alternano con chiazze verde-marrone - le tute mimetiche dei soldati - e colorano in modo sinistro il paesaggio urbano. Una volta attraversati i posti di blocco si penetra nella casbah islamica: diroccata, in disfacimento, con bambini che scorazzano a piedi nudi nella sporcizia, vicoli che puzzano di fogna e trasudano miseria, dove i grattacieli della città cinese sembrano appartenere a un mondo lontano. Anche lì è tornata una sorta di normalità, le bancarelle con ciambelle calde e pane "nan" schiacciato, spiedini di agnello alla griglia, profumi di spezie, donne velate, bazaar di sete, un pezzo di Medio Oriente finito a viva forza dentro la Repubblica Popolare. Quella che non ritorna, invece, è la finzione che le due città cinese e turcomanna possano convivere tranquillamente, sotto lo sguardo paterno delle autorità di Pechino.

La trincea armata che separa le due Urumqi, la zona libera e i territori occupati, evoca l'altro isolamento soffocante. Su tutto lo Xinjiang - un'area vasta cinque volte l'Italia - è calato un impressionante silenzio elettronico che blocca le comunicazioni con l'esterno. Non esiste più Internet; il manager olandese dello Sheraton a cinque stelle allarga le braccia sconsolato: da due settimane non arrivano né partono email. E' impossibile telefonare all'estero, le linee internazionali sono mute, anche i cellulari sono limitati alle chiamate locali. Per sei lunghissimi giorni sono tagliato fuori dal mondo. L'implacabile macchina della censura cinese ha chiuso gli accessi, ha il controllo totale sull'informazione. Non escono notizie dall'interno dello Xinjiang. L'occupazione militare è la stessa che avevo visto un anno fa a Lhasa, dopo la rivolta del Tibet. E' nuovo il black-out tecnologico. E' un salto di efficienza che dà i risultati previsti. La tragedia degli uiguri è presto dimenticata, nonostante l'escalation nel bilancio delle vittime e degli arresti in massa dopo la strage del 5 luglio.

Questa operazione hi-tech porta la firma di Wang Lequan, 64 anni, numero uno del partito comunista nello Xinjiang e fedelissimo del presidente Hu Jintao. Preso alla sprovvista nelle prime 48 ore di guerriglia urbana, che costrinse Hu a disertare il G8 dell'Aquila per rientrare precipitosamente a Pechino, in seguito Wang si è rifatto una credibilità studiando il caso Tibet. Alle tradizionali tecniche anti-insurrezionali, basate sul dispiegamento di una schiacciante forza militare, il boss del partito comunista ha aggiunto lo spregiudicato blitz tecnologico per accecare le comunicazioni. Il controllo sull'informazione consente al regime di lasciar filtrare una sola versione: il terrore del 5 luglio fu una fiammata di violenza a senso unico, gli uiguri si sono scatenati con una furia selvaggia contro gli han, mentre la polizia è intervenuta con misura. Può esserci una parte di verità in questa ricostruzione. Ma nessun osservatore indipendente ha avuto accesso agli ospedali e agli obitori. Nessuno ha potuto verificare il conteggio etnico che nella versione governativa assegna un numero preponderante di morti alla comunità han. I mass media di Stato alimentano una virulenta campagna nazionalista, con un'immensa eco in tutta la Cina. Due i bersagli: Rebiya Kadeer, la leader uigura in esilio accusata di avere istigato la rivolta a scopi secessionisti; la stampa estera bollata come faziosa, bugiarda, anti-cinese.

Il controllo capillare di Wang Lequan mi insegue anche nella tappa successiva del mio viaggio, a Kashgar: la roccaforte musulmana dove gli uiguri sono ancora maggioranza. La punta estrema dello Xinjiang nel cuore dell'Asia centrale. Non passano 15 minuti dalla mia registrazione all'hotel e già una voce ostile urla al telefono della mia camera, mi convoca nel salone d'ingresso. E' un commissario di polizia in borghese, mi fa capire il personale dell'hotel. Lui non si qualifica, non mi dirà mai il suo nome. Io in piedi, lui sprofondato in una poltrona della reception con l'aria minacciosa e onnipotente, mi fa un interrogatorio in piena regola. Non ci sono turisti occidentali in albergo. Ad altri colleghi il visto da giornalista sul passaporto è valso un'espulsione immediata (e illegale). "Qui le interviste le organizzo io", mi avverte. Gli incontri con lui saranno frequenti, fino alla mia partenza. La sua presenza deve essere ben visibile ad altri, anche quando non lo vedo io: il pedinamento dei giornalisti da parte della polizia intimidisce gli uiguri, cuce le bocche dei testimoni. Davanti al mio albergo, nella Piazza del Popolo dominata dalla gigantesca statua in granito di Mao Zedong, un grande schermo proietta a ripetizione le immagini maledette del 5 luglio a Urumqi. E' un film horror offerto gratis a tutta la cittadinanza. Sono riprese selezionate, appaiono solo cinesi han dai volti sfigurati di botte e coperti di sangue. In questa roccaforte musulmana le immagini potrebbero avere quasi un effetto di incitamento alla rivolta. Ma il messaggio è completato dal via vai incessante di camion militari. Procedono a gruppi di tre autocarri. I soldati hanno i mitra spianati, e sacchetti di sabbia anti-esplosivi. Dai camion i megafoni urlano alla cittadinanza appelli all'ordine. Nel venerdì di preghiera il piazzale davanti alla moschea grande (Idh Kah) si riempie di truppe.

La mia visita "turistica" dentro il luogo di culto avviene proprio in parallelo con un'ispezione di sicurezza. Mancano poche ore all'afflusso dei fedeli, un piccolo gruppo misto di ufficiali dell'esercito e funzionari di polizia perlustra l'interno della moschea. Li dirige un giovane in borghese molto curato, con i capelli cortissimi, giacca di lino e jeans chiari aderenti in foggia Armani. Un esemplare di tecnocrate che potrebbe lavorare in una merchant bank di Shanghai. A me riservano poche occhiate di sbieco, hanno ben altro da fare. Studiano con cura la disposizione dei luoghi, gesticolano per indicare le vie d'uscita. Poco dopo vedrò installare i metal detector all'ingresso della moschea. E al centro del piazzale un minaccioso camion bianco con antenna satellitare, più varie telecamere puntate sulla gente che entra.

Da Kashgar prendo la strada che porta ai confini con Pakistan, Tajikistan e Afghanistan. Sono luoghi maestosi, dove il deserto Taklimakan finisce alle falde dei monti Kunlun. Paesaggi solitari e magnifici, come il lago Karakul dominato dalla cima innevata del Monte di Giada, 7.600 metri di altitudine. Le montagne desertiche sono solcate dall'autostrada nuova fiammante a quattro corsie; spuntano miniere a cielo aperto, dove le scavatrici frugano questa terra ricca di risorse. Si spinge fino a queste alture semidesertiche la potenza economica cinese, segnalata dai Tir e dalle centrali fotovoltaiche. E' la porta d'accesso ai vicini dell'Asia centrale. Ma i camionisti uiguri e kazakhi sono fermati regolarmente ai posti di blocco. Vedi i loro volti turcomanni incupirsi davanti ai poliziotti cinesi. Intuisci l'onta della loro sottomissione. Qui la potenza imperiale di Pechino lambisce il suo fronte caldo con l'Islam. Da qui la solidarietà con la causa degli uiguri viaggia verso l'Asia musulmana, provoca i raid dei talebani contro le imprese cinesi in Afghanistan, arriva fino a creare una crisi politica con il governo di Ankara.

Sono appena otto milioni gli uiguri dello Xinjiang, più quattro milioni di emigrati per cercare lavoro nel resto della Repubblica Popolare: come i due uiguri uccisi in una fabbrica di Canton, la scintilla dei moti del 5 luglio. Sono un'inezia, come le altre 56 minoranze etniche, soverchiati da oltre un miliardo di han. Ma visti dalle frontiere dell'Asia centrale sono una spina nel fianco della Cina, un disturbo per la penetrazione economica in altre nazioni islamiche. In Occidente è ben più popolare la causa del popolo tibetano. Contro gli uiguri Pechino ha saputo usare l'argomento dell'anti-terrorismo, dopo che alcuni militanti sono stati catturati dagli americani in Afghanistan, e detenuti per anni a Guantanamo. L'Amministrazione Usa e i governi europei non vogliono schierarsi con movimenti secessionisti dello Xinjiang accusati di avere legami con al Qaeda. E' nel mondo islamico che la questione uigura assume un altro aspetto. Proietta l'immagine di una Cina efficiente e ricca ma spietata; un'impero multietnico che piega tutte le razze al ritmo della sua modernizzazione ma non le integra.

Nell'ondata nazionalista con cui il paese ha reagito alla rivolta di Urumqi, molti cinesi hanno gettato la maschera della "società armoniosa" esaltata da Hu Jintao. Nei commenti sui giornali, nei blog e nei forum online, si è scatenato un fiume di accuse contro gli uiguri. Ladri e mafiosi. Parassiti. Privilegiati dalle facilitazioni per le minoranze. Un lungo elenco di recriminazioni si è levato dal ventre della Cina profonda, contro le forme di "affirmative action" elargite per placare le etnìe non-han. Sconvolti dalle immagini della tv di Stato sui linciaggi degli han a Urumqi, a Pechino Shanghai e Canton molti hanno ricordato che gli uiguri non sono sottoposti al controllo delle nascite, possono avere tutti i figli che vogliono. Ricevono "punti" supplementari nei concorsi di ammissione alle università. Facilitazioni che non hanno impedito un crescente divario socio-economico. E non cancellano altre umiliazioni. Come quella che cerca di nascondermi pudicamente la mia guida, che chiamerò Mohammed, quando gli chiedo se è mai stato in pellegrinaggio alla Mecca. "Non ho fretta - mi risponde - prima devo sistemare i figli. Il Corano dice che ci sono altre priorità". Una penosa bugìa. Agli uiguri il viaggio alla Mecca è proibito dal 2001. In un paese dove la libertà di andare all'estero è ormai un diritto di massa, per gli uiguri è difficile ottenere il passaporto. Sono ridotti a sentirsi prigionieri, in una terra che consideravano tutta loro.

(21 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Agosto 26, 2009, 04:45:31 pm »

Primo dossier per il neo ambasciatore.

Brown furioso per l'accoglienza a Megrahi

Gheddafi a New York il 24 settembre

Le famiglie delle vittime di Lockerbie pronte alla protesta

Il premier a Tripoli i dubbi della Casa Bianca dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - La visita di Berlusconi da Gheddafi è il primo dossier delicato che attende il nuovo ambasciatore americano in Italia. Il 64enne David Thorne pochi giorni fa ha concluso la "cerimonia del giuramento" a Boston, sotto lo sguardo affettuoso del suo sponsor politico più importante: il cognato John Kerry, ex candidato presidenziale e presidente della commissione Esteri al Senato, che ha convinto Obama a sceglierlo come rappresentante a Roma.

Imprenditore di successo, grande conoscitore del nostro paese dove visse dall'età di 8 anni (suo padre amministrava gli aiuti del Piano Marshall nel dopoguerra), Thorne parla correntemente l'italiano: gli sarà utile per trasmettere con precisione le perplessità e i timori di Washington sulla questione libica. Un tema diventato scottante dopo l'accoglienza trionfale organizzata a Tripoli per Abdel Basset Ali al-Megrahi, il terrorista colpevole della strage di Lockerbie in cui undici anni fa morirono 189 americani. Condannato all'ergastolo, al-Megrahi è stato rilasciato dalla Scozia per ragioni umanitarie, perché sarebbe malato di cancro. Oltre a "deplorare" la decisione scozzese, Obama aveva subito ammonito la Libia: "Che al suo arrivo non sia trattato da eroe". Come è puntualmente accaduto, suscitando orrore in America. Le famiglie delle vittime di Lockerbie preparano manifestazioni di protesta per il 24 settembre, quando Gheddafi verrà a New York all'assemblea dell'Onu. E la Casa Bianca non può sottovalutare il loro dolore.

Ieri il premier britannico Gordon Brown si è allineato con Washington, si è detto "furioso" e "disgustato". Era il primo commento fatto da Brown, ed è chiaro che le sue parole erano soppesate per tamponare lo sdegno degli Stati Uniti. Il premier ha spiegato che a luglio aveva detto a Gheddafi che il governo britannico non poteva avere alcun ruolo nella liberazione di al-Megrahi, decisione presa dall'esecutivo scozzese. "Sono arrabbiato e provo repulsione per l'accoglienza ricevuta al suo ritorno in Libia da un attentatore colpevole di un enorme crimine terroristico", ha detto Brown. Il premier ha aggiunto che l'impegno della Gran Bretagna contro il terrorismo resta "assoluto", e ha negato che la vicenda possa danneggiare i rapporti con gli Usa.

Brown ha sentito il bisogno di una condanna così netta dopo che la Libia era riuscita a coinvolgere Londra, ringraziando per il presunto ruolo della famiglie reale ed altre connessioni altolocate che avrebbero facilitato la liberazione. Altrettante ragioni di irritazione a Washington, dove adesso si guarda con apprensione agli "usi" politici che Gheddafi potrà fare della visita di Berlusconi. Non che la squadra di Obama voglia ripudiare il disgelo iniziato nel 2003 tra l'Amministrazione Bush e la Libia. Ma Gheddafi viene considerato poco affidabile. Mantenere i patti non è il suo forte, soprattutto se i patti includono clausole di riservatezza. Così al G8 dell'Aquila il portavoce di Obama sentì il bisogno di precisare che l'abbandono del programma nucleare libico fu "una decisione assolutamente volontaria". Per sgomberare il campo da "rivelazioni" su presunte contropartite. Dell'Italia, Washington teme la fragilità strutturale, legata all'eccessiva dipendenza energetica da poche fonti, geopoliticamente ad alto rischio. E nessuno dimentica che a Roma a giugno Gheddafi definì l'America "terrorista come Bin Laden". Cosa potrà accadere con Berlusconi a Tripoli? Più delle Frecce Tricolori si temono scivoloni di sostanza, come accadde un anno fa quando il Trattato di pace Italia-Libia parve contenere una clausola di protezione per Tripoli contro l'uso delle basi Nato. Casa Bianca e Dipartimento di Stato non vogliono rilasciare dichiarazioni, anche per non pregiudicare i primi passi del neo-ambasciatore. Ma che il viaggio di Berlusconi giunga in un momento inopportuno, se lo lasciano strappare.

(26 agosto 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 11, 2009, 11:16:04 am »

In un atteso discorso alle Camere, il presidente ritrova i toni della campagna elettorale

"Non sono il primo a provarci, ma voglio essere l'ultimo. Il tempo dei giochi politici è finito"

Ultimatum di Obama al Congresso "Sanità per tutti gli americani"


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - "Non sono il primo presidente a provarci - dice - ma voglio essere l'ultimo". Barack Obama lancia il suo ultimatum al Congresso: la "sua" riforma sanitaria va fatta, e va chiusa entro quest'anno. Il presidente ritrova i toni ispirati della campagna elettorale, denuncia lo scandalo di un sistema di assistenza medica che "esclude perfino molti appartenenti al ceto medio". Fustiga il suo Paese con rara violenza: "L'America è l'unica democrazia avanzata, è l'unica nazione ricca, che si trova in condizioni così penose. Dove le assicurazioni ti possono revocare ogni assistenza col pretesto di una malattia pre-esistente; o perché hai perso il lavoro". Racconta storie tragiche, come quella di una donna abbandonata dall'assicurazione nel bel mezzo della chemioterapia per il tumore al seno.

"Dobbiamo offrire un'assistenza sanitaria alla portata dei 46 milioni di americani che non ce l'hanno. Nessuno dovrebbe finire in bancarotta solo perché si è ammalato. Siamo a un punto di rottura, il tempo dei giochi politici è finito". Obama annuncia la sua controffensiva sulla riforma sanitaria, un test decisivo. Lo fa in un attesissimo discorso davanti alle Camere riunite e alla nazione, in diretta alle otto di sera locali su tutti i network tv. E' la sfida su cui si gioca la sua presidenza.

Dopo un'estate in affanno, messo in difficoltà dagli attacchi dell'opposizione e con indici di popolarità in declino (il 52% dei cittadini lo boccia sulla sanità), il presidente scende in campo e si gioca la sua autorevolezza. Capisce di aver sbagliato a lasciare la briglia sciolta al Congresso. "Non perderò più il mio tempo", minaccia: è un ultimatum contro chi vuole solo sabotare la riforma. Annuncia per la prima volta dei principi non negoziabili, i contenuti che devono essere nella nuova legge, senza i quali opporrà il veto.

Il primo rassicura i moderati: "Non un centesimo di deficit pubblico in più". Questa riforma da 900 miliardi di dollari "deve autofinanziarsi", attraverso risparmi, tasse sulle assicurazioni private e i contribuenti ricchi. Ma ricorda che il costo di questa riforma è molto inferiore a quello delle guerre in Iraq e in Afghanistan, o agli sgravi fiscali per i ricchi varati da George Bush.

Il secondo principio: "Migliorare l'assistenza per chi l'ha già; offrirla a quelli che finora non possono permettersela". E' un dosaggio di giustizia sociale per affrontare una delle piaghe più gravi dell'America e di stabilità. Guai a spaventare gli americani che lavorano nelle grandi aziende, hanno polizze assicurative soddisfacenti, e perciò temono "la mutua di Stato". Su questo punto controverso - il varo di un'assicurazione pubblica - Obama resta prudente e non pone pregiudiziali. Non è vera riforma, dice, senza "un'autentica possibilità di scegliere, una concorrenza che offra agli americani diverse opzioni". Oggi la sanità lasciata alle forze di mercato non funziona, ricorda il presidente. Le compagnie assicurative si riservano di negare le polizze ai soggetti a rischio, e perfino di cancellarle per chi viene colpito da malattie gravi. Questo "sarà vietato per legge".

Il costo delle polizze oggi è alle stelle, è proibitivo per piccole aziende, autonomi, disoccupati. La folle "inflazione medica" costringe gli Usa a spendere il 16% del Pil per la sanità, molto più degli altri Paesi sviluppati e con risultati inferiori. Offrire un'assicurazione pubblica in concorrenza con le private, secondo Obama "aiuterebbe a migliorare la qualità delle cure e a ridurre i costi".

Il presidente fa un gesto gradito alla sinistra del suo partito, che vuole l'opzione pubblica come garanzia di equità. Sul fronte opposto c'è la furiosa resistenza dei repubblicani e delle lobby del capitalismo sanitario. Obama non si spinge fino alle estreme conseguenze. Non minaccia il veto presidenziale se la riforma non conterrà l'opzione pubblica. Può accettare una fase transitoria in cui si sperimenta la creazione di cooperative per far concorrenza alle assicurazioni private.

Preannuncia una "Borsa delle polizze" in cui cittadini e datori di lavoro possano selezionare le offerte più competitive. "Sono aperto a idee nuove, non ho rigidità ideologiche", insiste il presidente. Condanna la campagna di calunnie organizzata dalla destra repubblicana durante l'estate, con l'appoggio della lobby assicurativa: la riforma sanitaria è stata accusata perfino di imporre l'eutanasìa obbligatoria, negando le cure agli anziani per ridurre le spese. Smentisce anche l'accusa di voler estendere gratis l'assistenza agli immigrati clandestini. "La Casa Bianca ha cercato di mantenere un tono civile. Gli avversari hanno usato tattiche del terrore. Spero che il partito repubblicano riscopra la voce della ragione.
Troveranno un partner disponibile". Riserva strali acuminati alle compagnie assicurative, che "guardano solo ai profitti da esibire a Wall Street, e strapagano i loro top manager".

"Sull'80% delle misure c'è ormai un accordo", dice, ma nonostante l'ottimismo Obama non ha fatto breccia nell'opposizione. Il partito repubblicano è convinto che sulla sanità potrà affondare questo presidente, come fece con Bill Clinton nel 1993. Questa legge è uno snodo decisivo: se Obama non la porta a casa entro l'anno, tutta l'agenda delle riforme è a rischio. Ma se sui repubblicani non ci sono più illusioni, le aperture al dialogo di Obama in realtà hanno altri obiettivi. Vuole ricompattare il suo partito democratico, divaricato tra l'ala progressista che vuole una riforma audace, e i moderati che temono un'ulteriore esplosione di spesa pubblica. Soprattutto Obama si rivolge alla nazione, per spazzare via miti e leggende sul "socialismo sanitario" che hanno seminato l'ansia. Quattro dei cinque disegni di legge in esame al Congresso soddisfano i suoi "principi essenziali": assicurazione obbligatoria per tutti, sussidi pubblici per chi non può permettersela, controlli sulle tariffe assicurative, e divieto di escludere i pazienti.

Il presidente tira fuori, nel finale a sorpresa, una lettera che Ted Kennedy gli scrisse prima di morire. E' il momento più alto del suo discorso. "Siamo di fronte a una sfida morale, che riguarda i principi fondamentali di giustizia sociale. E' in gioco il carattere stesso della nostra nazione. Non possiamo accettare rinvii, non possiamo fallire questo appuntamento con la storia".

(10 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:33:18 am »

ECONOMIA     

Dopo la crisi i padroni della finanza hanno ricominciato a colpire

Il nuovo capo di Aig ha uno stipendio 13 volte superiore a quello di Obama

Bonus e speculazioni sono già tornati


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - Per festeggiare l'anniversario del crac che fece tremare il mondo, la top manager della banca Wells Fargo, Cheronda Guyton, ha avuto un'idea originale. Ha organizzato un party sontuoso dentro una villa di Malibu da 12 milioni di dollari. Pignorata a un cliente rovinato dal truffatore Bernie Madoff.

Il nuovo amministratore delegato del colosso assicurativo Aig, il cui salvataggio pubblico è costato al contribuente americano 182 miliardi di dollari, si è assegnato di recente uno stipendio da 7 milioni l'anno: 13 volte quello del presidente degli Stati Uniti. Un anno dopo la bancarotta della Lehman Brothers, i padroni della finanza sono tornati a colpire. Impuniti e arroganti come prima.

Il 15 settembre 2008 è una data che Wall Street non può dimenticare. E' una di quelle giornate impresse nella memoria in modo così indelebile che ciascuno ricorda cosa stava facendo, dov'era, in quale compagnia: come l'11 settembre 2001, o il giorno dello sbarco sulla luna. Il tracollo della celebre banca d'investimento ebbe effetti a catena sui mercati mondiali. Provocò il panico non solo tra i risparmiatori mai ai vertici dell'alta finanza, una crisi di sfiducia tale che le banche smisero di prestarsi fondi tra loro. Fu la paralisi completa del credito, un collasso sistemico. Nei giorni terribili che seguirono, mentre le banche centrali e i governi tentavano ogni manovra d'emergenza per rianimare il capitalismo, fu detto: il mondo non sarà mai più come prima. Oggi quella profezia si è realizzata solo in parte.

Certo, la grande recessione ha lasciato ferite profonde nel tessuto sociale. I consumatori hanno scoperto comportamenti "frugali". Il ruolo dello Stato nell'economia si è allargato in tutti i paesi. Ma è proprio nell'epicentro originario della crisi, il mondo della finanza, che la spinta per il cambiamento si è già esaurita. Lo constata con sgomento perfino il quotidiano più letto da quei signori, il Wall Street Journal: "La catastrofe Lehman ha lasciato immutate molte cose. Lo sforzo di riformare le regole dei mercati è stato sconfitto dalla resistenza dei banchieri. I superstipendi sono di ritorno. Le speculazioni ad alto rischio pure. Tornano a circolare prodotti finanziari esotici molto simili a quelli che nell'autunno scorso trascinarono i mercati e l'economia globale nel precipizio".

La velocità con cui Wall Street è tornata a praticare i vecchi vizi, è sconcertante. Dopotutto, le scosse dello "sciame postsismico" sono ancora percettibili. Sono fallite 100 aziende di credito, ma la Federal Insurance Deposit prevede che ne moriranno altre 200 entro i prossimi 12 mesi. Il segretario al Tesoro Tim Geithner sta concludendo solo in questi giorni le operazioni di soccorso straordinario che hanno pompato 2.500 miliardi di dollari di liquidità per garantire le banche. E decine di migliaia di dipendenti bancari hanno perso il lavoro.

Ma per chi è rimasto al suo posto, la Bengodi ricomincia. Le cinque maggiori banche di Wall Street hanno già riservato 61 miliardi di dollari per le gratifiche ai propri manager e trader, solo nel primo semestre di quest'anno. E' un po' meno che nel 2007 - l'ultimo anno della bolla speculativa prima del tracollo - ma oggi il bottino si spartisce tra un numero minore di banchieri. Individualmente, tornano a guadagnare ancora più dei livelli precrisi. E come hanno fatto ad aggirare le regole "tassative" varate dall'Amministrazione Obama e dal Congresso per evitare quegli eccessi? Semplice: la legge limita i bonus, cioè i premi di fine anno, quindi loro si sono aumentati gli stipendi mensili. Il numero uno della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, a una conferenza in Germania mercoledì ha espresso "comprensione" per gli attacchi ai superstipendi dei banchieri. Ma la Goldman nel frattempo ha già accantonato 11,4 miliardi da elargire ai dipendenti solo nella prima metà del 2009.

In parallelo con l'ingordigia dei top manager, tra loro è tornata anche la febbre della speculazione. L'insieme dei titoli derivati - ad alto rischio - detenuti dalle banche americane ha raggiunto 14.600 miliardi di dollari: quasi il triplo rispetto al 2006. Dietro la corsa al rialzo della Borsa - il Dow Jones ha guadagnato il 54% da marzo - e dietro altri fenomeni sconcertanti come l'oro a 1.000 dollari l'oncia, o l'euro che sfiora un dollaro e mezzo, c'è una constatazione disarmante: nel Casinò della finanza sono ricominciate le puntate spericolate, i giochi d'azzardo. Wall Street ha ripreso a fabbricare perfino i famigerati "titoli tossici", le cosiddette obbligazioni strutturate che furono il detonatore iniziale della grande crisi: nel 2007 ci trituravano e impacchettavano dentro i debiti dei mutui subprime, oggi il gioco si fa con le polizze vita degli anziani. La grande assente è la riforma generale delle regole. Invocata da tutti i G20 degli ultimi dodici mesi, il 24 settembre farà di nuovo la sua apparizione al summit di Pittsburgh. Nel ruolo di un fantasma che non fa più paura a nessuno.

(12 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 10, 2009, 09:29:06 am »

Federico Rampini


Vola il Dow Jones vola


10.170 è l’ultima quota raggiunta dall’indice azionario Dow Jones pochi minuti fa. Un nuovo massimo da oltre un anno.

A nulla servono quindi gli avvertimenti di esperti autorevoli che mettono in guardia contro questa nuova euforìa, primo fra tutti l’economista Nouriel Roubini.

Roubini fu uno dei pochi a prevedere in modo preciso la grande crisi del 2007-2008.
Pochi giorni fa ha lanciato l’allarme sulla nuova bolla speculativa, secondo lui alimentata dalla politica del credito facile perseguita dalle banche centrali.

La Federal Reserve americana mantiene i tassi direttivi a quota zero e di recente ha ribadito che non ha l’intenzione di cambiare strategia né a breve né a medio termine.

Il credito a buon mercato e la liquidità abbondante alimentano ogni sorta di speculazione. Una delle più pericolose secondo Roubini è il “carry trade”: consiste nell’indebitarsi in dollari (visto che costa poco) e poi investire in altre monete dai rendimenti maggiori (per esempio il dollaro australiano).

L’oro alle stelle, i futures del petrolio in risalita, le Borse dei paesi emergenti che macinano rialzi spettacolari, lo stesso Dow Jones in impennata: tutto sembra ”déjà vu”.

I quotidiani che dovrebbero fare opinione tra gli investitori – dal Financial Times all’Economist – trasudano pessimismo su questa bolla.
Gordon Brown ha provato a proporre una tassa sulle transazioni finanziarie ma la sua idea è stata bocciata.

Sembra di rivedere il gioco del cerino acceso che andò avanti fino all’inizio del 2008.
Quando ormai erano chiari i segnali di una grande crisi, ma banchieri e gestori di fondi esitavano a tirarsi fuori.

C’è una logica terribile nel mondo della finanza. Vendere troppo presto è un peccato imperdonabile: significa rinunciare a un guadagno facile e cospicuo.
Vendere quando crolla tutto invece è un errore veniale: perché il banchiere incauto può sempre dire che i suoi colleghi hanno fatto come lui.


da rampini.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 19, 2009, 02:38:21 pm »

L’America è delusa dal G2.


Federico Rampini


Barack Obama è arrivato all’ultima tappa della tournée asiatica. A Seul oggi affronta da vicino la minaccia nucleare nordcoreana.

Ma in patria si fa già un bilancio critico di questa tournée.

I giudizi sono impietosi. “La Cina è stata irremovibile – osserva il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti”.

Ancora più duro il Washington Post: “Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti”.

Obama ha concesso molto ai suoi interlocutori. Ha cominciato con l’inchino un po’ troppo ossequioso all’imperatore giapponese, erede della dinastia che porta la responsabilità storica dell’attacco su Pearl Harbor.

A Pechino, a differenza dei suoi predecessori, per non irritare i padroni di casa Obama non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato.

Non ha fatto il gesto di andare a messa, che George Bush fece per sollevare il tema della libertà religiosa.

La Casa Bianca stavolta non ha ottenuto neppure la diretta televisiva per il dialogo tra Obama e gli studenti di Shanghai. Ha dato fin troppo e in cambio di cosa?, si chiedono in America.

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« Risposta #36 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:39:51 pm »

Situazione sbloccata dopo il Partito democratico trova un accordo per estendere "Medicare", l'assistenza pubblica per i pensionati ai 55enni

Usa, compromesso al Senato svolta per la riforma sanitaria di Obama


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Un compromesso raggiunto ieri sera al Senato di Washington potrebbe spianare la strada per l'approvazione della riforma sanitaria voluta da Barack Obama. Al centro dell'intesa c'è la controversa "opzione pubblica", cioè l'introduzione di una forma di assicurazione sanitaria offerta dallo Stato, in concorrenza con le assicurazioni private.

Finora questo nodo sembrava finora insormontabile, non solo per la decisa opposizione dei repubblicani ma anche per le divisioni in seno alla maggioranza democratica. La componente più moderata del partito democratico - sensibile anche alle pressioni della lobby assicurativa - è contraria a quella che viene demonizzata come una "statalizzazione" del sistema sanitario.

Ieri sera il capogruppo democratico al Senato, Harry Reid, ha annunciato che è stato raggiunto "un ampio accordo" in seno al partito di maggioranza per risolvere la disputa sul ruolo dello Stato. I dettagli dell'accordo non erano ancora noti ieri sera, ma secondo le prime indiscrezioni un punto centrale sarebbe questo: l'estensione del Medicare, un'assistenza sanitaria già oggi gestita dallo Stato e riservata agli ultra-65enni. Il progetto di riforma potrebbe offrire già a partire dall'età di 55 anni la possibilità di aderire al Medicare.

Il compromesso offrirebbe diversi vantaggi. Il Medicare, pur essendo sotto l'ombrello pubblico, è un sistema flessibile che consente il ricorso a medici e ospedali privati. Ha generalmente una buona reputazione fra i pensionati che già ne usufruiscono. Estenderlo ai 55enni darebbe di fatto l'opzione pubblica a una consistente fascia di "baby-boomers".
Potrebbe essere un test iniziale, il primo passo verso un'estensione ad altre categorie di età. Non è però quell'opzione pubblica generalizzata, che vorrebbe la sinistra democratica per calmierare l'iperinflazione dei costi medici e delle tariffe assicurative.

Ieri intanto, sempre al Senato, un altro passaggio importante è stato la bocciatura (54 voti contro 45) di un emendamento repubblicano che puntava a vietare il rimborso delle spese di aborto nelle nuove regole assicurative previste dalla riforma. Una sorta di "cavallo di Troia" con cui il partito anti-abortista tentava di usare la riforma sanitaria per impedire l'interruzione di gravidanza alle donne più povere.

Se fosse passato l'emendamento infatti, solo le donne che chiedono il sussidio pubblico per assicurarsi, si sarebbero viste negare il diritto all'aborto. "Una maggioranza - ha detto la senatrice Dianne Feinstein, democratica della California - ha deciso che non è giusto vietare l'aborto a una donna solo perché la sua polizza sanitaria riceve un sussidio dal governo".

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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 17, 2010, 04:19:08 pm »

Martedì si vota in Massachusetts per il seggio lasciato vacante alla morte di Ted

Un feudo democratico messo in pericolo dai repubblicani e dal nuovo movimento Tea Party

Vacilla il trono Kennedy e Obama vola a Boston

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI


BOSTON - "Se viene a Boston oggi lo accuseranno di trascurare la tragedia di Haiti. Se non viene rischia di perdere un voto locale da cui dipende tutta la sua presidenza". È il dilemma di Barack Obama, secondo l'esperto elettorale del Partito democratico Peter Fenn. Ma la Casa Bianca ha deciso. Ad Haiti è stata mandata Hillary Clinton, il presidente oggi accorre a Boston a fare campagna. È il segnale di massima allerta. "Democratici sull'orlo del panico", li descrive il Boston Globe. Tutto per una banale elezione suppletiva che fino a poche settimane fa era considerata un non-evento. Martedì qui nel Massachusetts si vota per il seggio di senatore rimasto vacante nell'agosto scorso con la morte di Ted Kennedy.

Monopolio democratico, feudo di Ted per 47 anni, il Massachusetts è l'angolo d'America più progressista che si possa immaginare. Qui per molto tempo hanno convissuto, rafforzandosi a vicenda, i diversi pilastri del kennedysmo: la vecchia sinistra sindacale dei colletti blu, l'immigrazione operaia irlandese e italiana, e l'intellighenzia liberal che affolla le migliori università del pianeta, tutte concentrate sulla sponda del Charles River dirimpetto a Boston: Harvard, Brandeis, il Massachusetts Institute of Technology. Qui il blocco sociale progressista nell'ottobre 2008 garantì a Obama un trionfo: il 62% dei voti. E ora potrebbe squagliarsi. Fino a far deragliare la sua presidenza.

L'allarme è suonato all'improvviso. Ancora tre settimane fa un sondaggio del Boston Globe dava alla candidata democratica Martha Coakley un comodo vantaggio di 17 punti. Venerdì scorso, nell'ultima indagine fatta dalla Suffolk University, il suo rivale repubblicano Scott Brown l'ha sorpassata: 4 punti di vantaggio. L'inverosimile può accadere. Un uomo di destra nel seggio dal quale Ted Kennedy lanciò per mezzo secolo le sue battaglie sui diritti civili e le riforme sociali? Oltre allo shock simbolico, una disfatta qui avrebbe gravi ripercussioni nazionali. A Washington i democratici scenderebbero sotto la fatidica soglia dei 60 senatori, cioè quella maggioranza qualificata che impedisce all'opposizione di destra di paralizzare l'agenda legislativa con l'ostruzionismo. Salterebbe quasi sicuramente la riforma della sanità; con un effetto-domino finirebbero impantanate le nuove leggi sull'ambiente, sui mercati finanziari, sull'immigrazione.

Obama lo riconosce esplicitamente nel messaggio su YouTube che ha rivolto agli elettori di Boston alla vigilia del suo arrivo qui: "Tutti i miei progetti di cambiamento possono dipendere da un solo voto al Senato". Poi ci sarebbe lo shock psicologico, che secondo la politologa di destra Peggy Noonan è destinato a condizionare le elezioni di mid-term a novembre. "Già preoccupati dalle sconfitte di due mesi fa in Virginia e New Jersey - ricorda la Noonan -, nei collegi a rischio alcuni democratici hanno ritirato le loro candidature per novembre".
Se la destra espugna il Massachusetts, avrà speranze di infliggere una batosta a Obama tra dieci mesi, forse addirittura mettendolo in minoranza al Congresso.
Sembra incredibile che a provocare tutto questo sia stato lui, Scott Brown. Per trovare qualcosa nella biografia di questo avvocato di 50 anni i mass media locali hanno dovuto scavare fino agli anni dell'università: quando vinse una gara per lo studente più sexy del suo ateneo. Come premio finale, una foto in cui appare nudo su Cosmopolitan (dopo averla vista alcune elettrici si sono candidate per fargli da bodyguard nei comizi). All'inizio le sue chances erano così limitate da scoraggiare i finanziatori. "Per mesi ho usato solo email, Facebook e Twitter - racconta - perché non avevo i soldi neppure per comprare francobolli e spedire i volantini". Girando con il suo camioncino, Brown ha fatto una campagna all'antica. Umilmente. Una cittadina alla volta, ha stretto migliaia di mani, ha partecipato a riunioni di quartiere o di caseggiato.

Tutto il contrario della candidata democratica. Preparata, autorevole, la 57enne Martha Coakley è un volto noto per i cittadini: è l'attorney general (procuratore capo) del Massachusetts. La certezza di stravincere l'ha resa arrogante. Poco disponibile a incontrare i semplici cittadini, si è accontentata di garantirsi le alleanze con i "signori dei voti", i notabili del partito, l'establishment sindacale, le lobby professionali. Fino a farsi una fama pericolosa. "È una persona fredda, distante, ignora i problemi quotidiani della gente", la incalza Brown negli spot televisivi. "Le linee d'attacco di Brown - osserva lo studioso elettorale Stuart Rothenberg - colgono i punti deboli non solo della Coakley ma dei democratici e dello stesso Obama. La sanità, per esempio. La maggioranza degli americani o non condivide questa riforma, oppure non capisce perché abbia monopolizzato l'attenzione. La disoccupazione è ben più importante".

La campagna di Brown ha assunto vigore grazie al Tea Party Movement, la nuova rivolta anti-tasse. Battezzata così in omaggio a un evento storico che avvenne proprio a Boston, culla dell'indipendenza: qui nel 1773 gli americani si ribellarono al dominio coloniale inglese buttando in mare tonnellate di tè (fonte di gettito fiscale per Londra). Il nuovo Tea Party è una mobilitazione dal basso contro la riforma sanitaria e tutti i progetti di Obama che la destra definisce statalisti o addirittura "socialisti". Coglie un'ansia diffusa: il timore che dopo la grande recessione arrivino le stangate fiscali, a stremare un ceto medio già in difficoltà. "Con questo messaggio - osserva lo stratega della destra Whit Ayres - Brown ha spostato tanti elettori indecisi e indipendenti perfino nella roccaforte liberal del Massachusetts. Figurarsi il successo che può avere su scala nazionale. Se questa strategia vince qui, sarà il nostro modello per la riscossa di novembre".

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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 15, 2010, 11:06:05 pm »

Inchiesta del New Yor Times sul ruolo giocato da Goldman e JP Morgan.

Ombre anche sull'Italia

"Wall Street ha aiutato Atene a truccare i conti pubblici"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - La Grecia ha truccato i conti pubblici e ha ingannato per anni l'Europa con l'aiuto dei "soliti noti": Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street. Lo rivela il New York Times in un'ampia inchiesta che getta nuove ombre sulla credibilità della Grecia, proprio mentre l'Eurozona è alle prese con i piani per il suo salvataggio. L'inchiesta dimostra che gli stessi metodi usati da Wall Street per creare la bolla speculativa dei mutui subprime sono stati replicati con le finanze pubbliche della Grecia e di altri paesi europei, Italia inclusa.

Grecia e Italia vengono citate fra quei Paesi i cui governi hanno fatto ricorso alla consulenza delle grandi banche americane (Goldman Sachs e JP Morgan Chase) per delle operazioni di "chirurgia estetica" che hanno dissimulato la vera entità dei deficit pubblici. Un ruolo perverso spetta ai titoli derivati: quanto hanno nascosto, e quanto nascondono tuttora, dell'indebitamento di alcuni Stati sovrani? Il caso greco domina le rivelazioni, creando un serio imbarazzo al governo di Georgios Papandreou ma anche ai suoi interlocutori di Bruxelles, Berlino e Parigi alle prese col rischio di crac sovrano di uno Stato membro dell'Eurozona. Decine di interviste documentano un inganno andato avanti a lungo, "dieci anni di menzogne della Grecia" che hanno gettato fumo negli occhi della Commissione europea e hanno consentito ad Atene di aggirare il Patto di stabilità. Uno dei "montaggi finanziari" escogitati da Goldman Sachs "ha nascosto alle autorità di Bruxelles miliardi di debiti". Fino all'ultimo, poco prima che le convulsioni della crisi greca esplodessero alla luce del sole, sull'asse Atene-Wall Street si è tentato di barare.

A novembre una delegazione di altro livello della banca americana è arrivata ad Atene per discutere una nuova possibilità di guadagnare tempo. La missione era guidata da Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs. I maghi della finanza avevano in mente un nuovo dispositivo per far scivolare i costi attuali della sanità pubblica greca "sui bilanci di anni molto lontani". Un po' come, in America, le banche rifilavano dei nuovi mutui ai proprietari di case sommersi dai debiti. Il trucco aveva funzionato in precedenza. Nel 2001, subito dopo l'ammissione della Grecia nell'Unione monetaria, la stessa Goldman Sachs aveva assistito il governo di Atene nel reperire miliardi sui mercati. Quel finanziamento del debito pubblico fu nascosto nei bilanci, grazie a un montaggio che la trasformava in un'operazione sui cambi anziché un prestito. Nel novembre 2009 il tentativo fallì: troppo tardi, forse. L'attenzione dei mercati e della Commissione europea deve aver sconsigliato l'ennesimo trucco. Il New York Times specifica che i derivati hanno svolto un ruolo chiave in questa vicenda. Scrive che "gli strumenti finanziari elaborati da Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre banche, hanno consentito ai leader politici di mascherare l'indebitamento aggiuntivo in Grecia". E con "l'aiuto della JP Morgan l'Italia ha fatto di più. Nonostante persistenti alti deficit, un derivato del 1996 ha aiutato l'Italia a portare il bilancio in linea".

In decine di montaggi finanziari, rivela l'inchiesta, "le banche fornivano liquidità immediata ai governi in cambio di rimborsi futuri, e questi debiti venivano omessi dai bilanci pubblici". Un esempio: la Grecia rinunciò ai proventi della lotteria nazionale e delle tasse aeroportuali per anni a venire, in cambio di una liquidità immediata. Questo genere di operazioni non sono state contabilizzate come dei prestiti. Ingannando così sia le autorità di Bruxelles, sia gli investitori in titoli del debito pubblico greco, che ignoravano la vera dimensione dell'indebitamento e quindi il rischio d'insolvenza. Come un tocco di ironia alcuni dei montaggi finanziari furono battezzati coi nomi di dèi dell'Olimpo, come Eolo. Secondo l'economista Gikas Hardouvelic "i politici vogliono passare la patata bollente a qualcuno, se un banchiere gli dimostra come farlo, lo fanno". Sulla stessa lunghezza d'onda Garry Schinasi, esperto della task force di vigilanza sui mercati all'Fmi: "Se un governo vuole imbrogliare, ci riuscirà". Le banche hanno fornito il know how, e si sono fatte compensare: per il montaggio del 2001 Goldman Sachs ricevette una commissione di 200 milioni di dollari dalla Grecia. Quell'operazione fu un "swap sui tassi d'interesse": uno strumento che può servire a coprirsi da un rischio di variazione dei tassi, ma può anche essere usata a fini speculativi.

Essa consente a un investitore o a uno Stato di convertire un debito a tasso variabile in uno a tasso fisso, o viceversa. Analogo è lo "swap di valute" che serve a proteggersi contro una variazione nei tassi di cambio, oppure a speculare su futuri scossoni tra le monete. Infine la "chirurgia estetica" sui conti greci ha ipotecato aeroporti e autostrade, mettendo i loro proventi nelle mani dei creditori per molti anni futuri. Il problema che emerge dalle rivelazioni del New York Times riguarda i danni alla trasparenza dei bilanci pubblici. "Il peccato originale dell'Unione monetaria  -  conclude l'inchiesta  -  è che Italia e Grecia vi entrarono con deficit superiori ai livelli consentiti dal Trattato di Maastricht. Anziché ridurre la spesa, però, i governi tagliarono artificialmente i deficit con l'uso di derivati. E i derivati, in quanto non appaiono ufficialmente nei bilanci, creano un'ulteriore incertezza". I campanelli d'allarme non sono mancati. Già nel 2008 Eurostat, l'istituto statistico di Bruxelles, aveva attirato l'attenzione sulle operazioni di "cartolarizzazione" dei debiti pubblici "montate ad arte per ottenere un certo risultato sui conti pubblici". Ancora prima, nel 2005, l'allora ministro delle Finanze greco Georgios Alogoskoufis, avvertì che l'operazione fatta con l'assistenza di Goldman Sachs avrebbe "appesantito i conti pubblici con pagamenti fino al 2019". In un giro perverso di transazioni, alcuni di quei titoli sono stati perfino usati dalla Grecia come "garanzie" in deposito alla Bce. Per il contribuente tedesco, che adesso dovrebbe finanziare il salvataggio, la diffidenza è più giustificata che mai.

© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010)
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 18, 2010, 02:54:40 pm »

L'America scopre di temere la rincorsa cinese.

Dall'economia alle tecnologie dai trasporti all'energia Pechino guadagna sempre più terreno

Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI


WASHINGTON - Quando oggi Barack Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far pagare, per punire quell'omaggio al Tibet che considera un'interferenza nella propria sovranità nazionale. È un America nervosa perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l'industria e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la cultura, il "soft power" su cui si costruisce un'egemonia globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte naturalmente dall'economia. Proprio alla vigilia dell'arrivo del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha "liquidato" una parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro degli Stati Uniti.
Commentando la vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari (ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia se sia "un segnale di sfiducia verso l'America". Che umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa cautelativa. Il premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che l'alto debito americano rilanci l'inflazione, e che Washington rimborsi i cinesi con carta straccia. Perciò Pechino diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per ora di minoranza. C'è il meglio del capitalismo americano: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson.

Un altro segnale enigmatico, alla vigilia dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama, è il nulla osta del governo cinese per l'attracco a Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane, guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville Schell, il direttore dell'Asia Society e l'esperto di Cina più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: "Pechino sta imparando a usare con l'America il bastone e la carota, tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie".

Per una singolare coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione s'inaugura al China Institute di New York una grande mostra su Confucio. È il filosofo dell'ottavo secolo avanti Cristo di cui il regime cinese si "appropria" il pensiero rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno paternalismo autoritario. La mostra su Confucio, così come tutto il China Institute, è un'iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare. "Confucius: his Life and Legacy" costa meno di una partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo fronte della penetrazione cinese che si è aperto. L'offensiva culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida l'Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino (con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono apparse lettere di protesta dei genitori.

"È inaccettabile - ha scritto un padre allarmato - che la politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un governo straniero". E quale governo. Certo non suscitano lo stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio del francese all'estero. La promozione della civiltà cinese non viene percepita dall'Occidente come un fenomeno puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise da "insormontabili differenze in termini di valori, sistemi politici, visione dell'ordine internazionale, e interessi geopolitici". Quasi per un crudele scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole americane proprio quando gli Stati Usa sull'orlo della bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle lezioni. Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un libro-shock che vuole aprire gli occhi all'America ("When China Rules the World": quando la Cina dominerà il mondo) sostiene che questo è proprio uno degli effetti più dirompenti della crisi economica dell'Occidente: "La Cina è un modello di Stato che funziona. D'ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle società moderne non potrà più prescindere dall'esempio cinese". Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che "di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali, il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine a noi".

Non passa giorno senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi federali per avviare il progetto dell'alta velocità in California e in Florida. Per il presidente doveva essere un fiore all'occhiello, una di quelle grandi opere infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo insediamento. Ma la Tav di Obama è stata così liquidata l'indomani da un giornale "amico", il New York Times: "Se tutto va bene, il primo treno ad alta velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando, una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664 miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina sarà collegata". Un raffronto amaro. Tanto più se viene fatto quando Washington è reduce da una "chiusura per neve" di una settimana. La capitale federale della nazione più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è l'America che si ritrova in serie B.

Forse nessuno più di Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo paese, come John Kennedy fece per la gara con l'Unione sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso dello Sputnik. Usando la Cina come "benchmark", come punto di riferimento, Obama spera di rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la leadership. Avverte che "la Cina ci sta dando dei punti anche sul terreno della Green Economy, produce più pannelli solari e pale eoliche di noi". Gli esperti energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non troppo lontano, l'America potrebbe scoprirsi due volte dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre più made in China.

Ma l'establishment e il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi, incapaci di reagire alle frustate del presidente. Dall'energia all'ambiente le riforme languono, bloccate da veti politici e resistenze lobbistiche. Di fronte all'autoritarismo cinese la democrazia americana arranca. Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica, penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle università americane comincia un riflusso di talenti, numerosi cervelli asiatici  -  cinesi e anche indiani  -  tornano in patria attirati da nuove opportunità.
La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli europei. Non è un caso se l'avvertimento più severo agli americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al contrario che la diversità cinese è profonda, radicata, irriducibile. La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo attraverso regimi autoritari. E l'egemonia cinese - espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla cultura - può riproporre in forma moderna quella che fu l'antica relazione tra l'Impero Celeste e i suoi vicini: un "sistema tributario" di Stati vassalli, satelliti ossequiosi.

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« Risposta #40 inserito:: Marzo 30, 2010, 11:08:52 am »

Il quotidiano nel mirino della Chiesa: "Punta a coinvolgere il Santo Padre in persona"

I vaticanisti del giornale puntano il dito contro l'omertà delle autorità vaticane

Il vescovo di New York contro il Times. Il giornale: "Niente complotti solo notizie"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Perfino l'arcivescovo "progressista" di New York, Timothy Dolan, è indignato contro il New York Times. Perché sbatte lo scandalo dei pedofili ogni giorno in prima pagina? Cosa c'è dietro? Forse, come sostengono senza troppe parafrasi alcuni ambienti cattolici, è all'opera la "lobby ebraica" newyorchese? "Ciò che accresce la nostra tristezza - dice Dolan - sono le insistenti insinuazioni contro il Santo Padre in persona. C'è una voglia frenetica di coinvolgerlo in persona". La teoria del complotto allude alla proprietà del New York Times: la famiglia Sulzberger figura tra le dinastie ebraiche della città, anche se il giornale non esita ad attaccare Israele.

Nel grattacielo di Renzo Piano sull'Ottava Avenue, dove ha sede la redazione, le bordate del Vaticano sono considerate come un tentativo di distogliere l'attenzione dalle vere responsabilità dello scandalo. Certo, la serie di reportage è uscita con un ritmo martellante: lo scoop sui 200 bambini sordi molestati per anni da un sacerdote americano mai punito dal Vaticano; poi le inchieste sul passato di papa Ratzinger in Germania; infine altre rivelazioni dall'Irlanda e dagli Stati Uniti. "Le nostre inchieste - ci dice Diane McNulty, direttrice esecutiva del quotidiano per le relazioni esterne - sono basate sulla meticolosa raccolta di notizie e documenti. La Chiesa non smentisce neppure un dettaglio di quello che abbiamo pubblicato. Le accuse di abusi sessuali sono un tema serio e lo stesso Vaticano lo riconosce. Anche il ruolo svolto dal Papa nel reagire a quelle accuse è un aspetto centrale della vicenda".

La deontologia del giornalismo americano, il rispetto delle notizie, l'interesse del lettore, è la linea di difesa della "Signora in Grigio", come viene chiamato l'austero e rigoroso quotidiano. Ma dietro lo scontro tra il New York Times e la Santa Sede c'è anche una profonda incompatibilità di valori. Lo rivela l'editorialista Maureen Dowd, una delle grandi firme del quotidiano: Dowd ricorda che negli anni in cui il cardinal Ratzinger dirigeva la Congregazione della dottrina della fede, era "così ossessionato dai costumi sessuali della nostra società - interveniva costantemente contro la pillola e l'aborto - che non aveva tempo di reprimere gli abusi sessuali dei preti sui bambini". La Dowd sottolinea come l'ossessione del clero continua tuttora, fino a schierare la conferenza episcopale americana contro la riforma sanitaria di Barack Obama. È evidente la distanza che separa le gerarchie cattoliche dai valori della società americana più "liberal", impregnata della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, di cui il New York Times è un'espressione.

Un'altra grande firma del quotidiano, l'ex vaticanista Frank Bruni (autore di un libro sui preti pedofili), punta l'indice contro l'omertà della Chiesa e la sua estraneità allo Stato di diritto. Bruni ricorda che sia il cardinale irlandese Sean Brady, sia l'arcivescovo americano Rembert Weakland, di fronte alle denunce dei bambini molestati sessualmente, ebbero una preoccupazione dominante: "Evitare lo scandalo, proteggere la Chiesa dalla pubblicità negativa". Trattata come un peccato, la pedofilia può essere oggetto di confessione, pentimento e penitenza, aggirando la giustizia umana. "Lo stesso Ratzinger - sottolinea Bruni - non esortò i suoi sottoposti a denunciare i colpevoli dei crimini alla polizia". Questo è intollerabile per un giornale ancorato nei valori della Costituzione americana, nella tradizione della liberaldemocrazia. Per l'editorialista Ross Douthat la Chiesa è prigioniera di una "gerarchia conservatrice con una mentalità da bunker", una psicosi di stato d'assedio che le impedisce di "capire la dimensione dello scandalo". Bruni conclude: quando un'istituzione è tutta impegnata a difendersi da una presunta minaccia esterna, rischia di non rispondere alla vera minaccia che è al suo interno.

© Riproduzione riservata (30 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Aprile 14, 2010, 12:53:34 pm »

LO SCENARIO

Petrolio del Golfo in cambio di sanzioni e sull'Iran Barack incrina il muro cinese

Le manovre americane per ottenere l'appoggio di Pechino alle nuove misure contro Teheran.

Un altro serio pericolo resta il Pakistan dove una parte dei servizi fa il doppio gioco con i Taliban

FEDERICO RAMPINI

Petrolio del Golfo in cambio di sanzioni e sull'Iran Barack incrina il muro cinese
WASHINGTON - "Per una crudele ironia della storia  -  dice Barack Obama  -  vent'anni dopo la fine della guerra fredda il rischio di un attacco nucleare è aumentato".

Se al Qaeda dovesse mettere le mani sull'atomica - conclude Obama - sarebbe una catastrofe mondiale". Non è un allarme teorico, quello che ha spinto il presidente a ospitare il più grande vertice mai organizzato dagli Stati Uniti dopo la creazione dell'Onu nel 1945. I terroristi ci hanno già provato, e forse sono arrivati vicini a procurarsi materiale nucleare. Una cellula di Al Qaeda in Arabia saudita ha tentato di comprare atomiche russe sul mercato nero, con la benedizione di esponenti islamici radicali che giustificano l'uso di armi di distruzioni di massa contro gli "infedeli". Un episodio misterioso è accaduto in Sudafrica: un commando armato è arrivato quasi a impadronirsi di un deposito nucleare.

Nell'America che non ha dimenticato l'11 settembre, inevitabilmente queste notizie vengono collegate anche con gli arresti recenti per una tentata strage nel metrò di New York. L'allarme non riguarda solo gli Stati Uniti. Obama ha ricordato che tutto il mondo è in pericolo: al Qaeda o i suoi alleati hanno già colpito anche Londra e Madrid, Mumbai e Bali.

Con il summit di Washington, il presidente ha alzato il livello di consapevolezza internazionale su questo pericolo. Ha ottenuto sulla carta dai 49 leader mondiali un impegno a migliorare le difese dei depositi nucleari esistenti. Lo ha fatto anche per rafforzare la propria credibilità all'interno degli Stati Uniti.

La sicurezza nazionale è un terreno dove tradizionalmente i presidenti democratici sono considerati più "deboli". Ha scelto ancora una volta una decisa rottura con il metodo di George Bush: puntando su un'azione multilaterale, concordata. Ha dimostrato fiducia nella legalità internazionale dei trattati, che il suo predecessore considerava come fastidiosi vincoli. Come spiega Ben Rhodes, del National Security Council, per questa Casa Bianca "arrivare a un potenziamento del trattato di non proliferazione è essenziale, perché le nazioni che non lo rispettano come l'Iran siano tenute a pagarne un prezzo".

Dietro le conclusioni positive di questo vertice, quanto incisivi saranno i risultati nelle aree più critiche del pianeta? Obama è partito con un'eredità pesante. Decenni di politica estera americana, di una realpolitik contraddittoria, oggi gli presentano il conto. Un esempio drammatico è nel subcontinente asiatico. Il Pakistan fu usato dall'America per foraggiare al Qaeda ai tempi in cui era l'Unione sovietica a combattere i taliban in Afghanistan.

Ora il Pakistan è un paese instabile, con un'opinione pubblica sempre più anti-occidentale, una polveriera atomica che potrebbe finire nelle mani di un governo fondamentalista. I suoi servizi segreti continuano a fare il doppio gioco con i taliban. Lì per i terroristi non è impensabile trovare la "pista" giusta per procurarsi l'atomica.
Anche se l'Iran non era nell'agenda del summit, se n'è parlato molto, soprattutto fra americani e cinesi. La "bomba atomica sciita" rischia di essere la prima prova drammatica della politica estera di Obama. La tenacia con cui il presidente oggi persegue le sanzioni, gli serve a dimostrare che la sua offerta originaria di dialogo con il governo iraniano non era un sintomo di debolezza.

Ma quanto potranno essere efficaci le sanzioni, per indebolire il regime o dissuaderlo dai suoi piani nucleari? "Non sono la bacchetta magica", ha ammesso ieri Obama. In passato le misure di embargo già attivate si sono rivelate un colabrodo perfino negli Stati Uniti: sono recenti le rivelazioni sulle vendite di apparecchiature militari made in Usa a Teheran.

Nell'immediato le sanzioni "forti e dure entro la primavera", che promette Obama, servono a fermare un'azione militare preventiva da parte di Israele per colpire i siti nucleari del grande nemico. Basterebbe questa funzione - impedire la deflagrazione di un conflitto incontrollabile in Medio Oriente - per giustificarle. Ai margini del vertice Obama ha fatto progressi per ottenere l'appoggio della Cina, indispensabile all'Onu. "La Cina è preoccupata delle conseguenze economiche", ha detto ieri sera Obama. L'America ha dovuto mobilitare i suoi alleati del Golfo Persico per mettere in campo contropartite robuste. I sauditi e gli emirati garantiscono che forniranno alla Cina tutto il petrolio di cui ha sete la sua economia, se l'Iran non fosse più in grado di farlo. Non basta.

Pechino vuole preservare anche il valore dei suoi investimenti colossali nell'industria energetica del Medio Oriente. Se dovesse perderci in Iran in conseguenza alle sanzioni, l'Arabia saudita le concederà addirittura dei diritti di estrazione, con la benedizione americana. La cooperazione cinese non è gratis. Ma in questo come in altri casi, l'entourage di Obama adotta il "teorema dell'industria della salsiccia": anche in politica, è meglio gustarsi il prodotto finito, senza vedere tutto ciò che ci viene messo dentro.

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« Risposta #42 inserito:: Aprile 20, 2010, 09:24:58 am »

USA

Una "lady di ferro" in campo contro i padroni della Borsa

Mary Schapiro, da un anno alla guida della Sec: "Si è fatto finta di non vedere, ora basta".

"Il solo fatto di attaccare Goldman Sachs è il segno che la Commissione è molto sicura di sé"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Barack Obama verrà di persona a Wall Street, a sostenere l'offensiva contro Goldman Sachs e la degenerazione della finanza. Dopo l'affondo della Securities and Exchange Commission (Sec), che venerdì ha imputato alla Goldman una grave frode contro i clienti, sarà il presidente giovedì a scendere nella "tana del leone". "L'ultima crisi  -  ha detto ieri Obama  -  ha distrutto 8 milioni di posti di lavoro e migliaia di miliardi di risparmi delle famiglie. Questa è la posta in gioco, se non cambiamo le regole e non riformiamo Wall Street". Con una manovra di accerchiamento i democratici accelerano i tempi della riforma legislativa sui mercati. Commentando lo scandalo Goldman, ieri il presidente della commissione Finanze del Senato Chris Dodd ha detto: "Per mettere fine a comportamenti come questi e per proteggere la nostra economia da un altro disastro, dobbiamo agire subito".

L'appoggio della Casa Bianca è totale verso Mary Schapiro, la dama di ferro che da poco più di un anno è al timone della Sec, l'organo di vigilanza sulla Borsa. Questa giurista di 53 anni, con una lunga esperienza nella regolazione dei mercati, è la protagonista di una vera rivoluzione. "Ma chi si crede di essere, la guardiana della finanza?" era il commento ironico di Newsweek ieri. In effetti l'America aveva dimenticato che proprio questo è il compito della Sec. L'organo di controllo che la Schapiro ereditò al suo insediamento il 20 gennaio 2009, era ridotto all'ombra di se stesso. Sotto i suoi tre predecessori nominati da George Bush (Harvey Pitt, William Donaldson e Christopher Cox) la Sec era diventata "la volpe a guardia del pollaio", secondo la caustica definizione data perfino da un repubblicano: John McCain. Tutti i peggiori scandali dell'ultimo decennio le erano passati sotto il naso: i crac della Enron e della Worldcom, più ovviamente la gigantesca bolla dei mutui subprime, dei titoli strutturati e dei credit default swap che causarono la bancarotta di Lehman Brothers e sono al centro della frode Goldman. Lo smacco più umiliante fu la truffa di Bernard Madoff. Un'inchiesta dello stesso ispettore generale della Sec ha concluso che l'organo di controllo fallì miseramente nel suo compito. Fin dal 2002 aveva ricevuto denunce su Madoff. Se fosse intervenuta avrebbe salvato le vittime del "buco" da 7 miliardi.

Ma l'inettitudine della Sec nell'ultimo decennio non era casuale. Mary Schapiro la spiega con lucidità: "L'America fu catturata dall'idea che i mercati possono correggersi da soli, e che gli esperti di Wall Street possono proteggere il nostro sistema finanziario meglio dei controllori. La Sec è stata traviata da quella filosofia". I suoi predecessori non erano ciechi, avevano l'ordine di non vedere. Ma in un discorso dell'ottobre scorso, che è interessante rileggere dopo lo scandalo Goldman, la Schapiro fece capire che l'andazzo era cambiato: "Il risparmiatore, l'investitore possono accettare che una bolla speculativa sulle nuove tecnologie o una recessione fanno parte del gioco dell'economia di mercato. Quello che non possono accettare è un sistema inaffidabile, ingannevole".

E' proprio questo il significato della bomba che la Schapiro ha lanciato contro Goldman con l'accusa di frode. E' la fiducia alla base del funzionamento dei mercati, quella che la Goldman ha distrutto con il suo comportamento. Quando all'inizio del 2007 il gestore di hedge fund John Paulson andò da Goldman spiegando che voleva scommettere sul crollo dei mutui subprime, gli fecero confezionare un portafoglio di titoli "tossici" su misura. Poi Goldman rifilò i titoli a grossi clienti tra cui la banca olandese Abn Amro e la tedesca Ikb, nascondendo il ruolo di Paulson. "Questa ricostruzione è terribile per la reputazione di Goldman Sachs  -  osserva il giurista Marcel Kahan della New York University  -  perché non c'è nulla di peggio agli occhi del mercato. L'accusa alla Goldman di aver truffato i propri grandi clienti può creare un danno alla sua immagine che sarà un multiplo delle multe inflitte dalla Sec".

Questo lo sa bene Mary Schapiro. Nell'armamentario a sua disposizione, il poliziotto dei mercati non ha soltanto le sanzioni amministrative. L'azione della Sec spesso è solo un inizio. Se vince, dopo la sua multa può muoversi la magistratura con processi penali; entrano in campo le vittime con le richieste di indennizzi in sede civile; infine c'è il danno di immagine che può essere irreparabile. Inesorabile, la Schapiro non si muove solo contro le banche. Le sue inchieste si moltiplicano a tutto campo, la settimana scorsa ne ha aperte contro General Electric e Hewlett-Packard. Ma di certo la grande banca d'investimento che domina Wall Street da decenni è il bersaglio più importante, l'avversario più potente. "Il solo fatto di attaccare Goldman Sachs  -  osserva il giurista Donald Langevoort della Georgetown University  -  è il segno che la Sec oggi è molto sicura di sé. Un tempo non ne avrebbe avuto le risorse. Perché contro Goldman Sachs sarà vera guerra".

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« Risposta #43 inserito:: Maggio 09, 2010, 06:01:10 pm »

Caccia allo speculatore: è un diversivo dai problemi veri

Federico Rampini

Ora la caccia allo speculatore è in cima alle preoccupazioni dei governi dell’Eurozona. Questo purtroppo conferma la debolezza della risposta europea a questa crisi. Quando s’invocano le oscure forze del capitale è un brutto segno.

La speculazione esiste, ha mezzi consistenti, io stesso ho raccontato le “cene segrete” di Wall Street tra gli hedge fund, sulle quali la magistratura e la Sec hanno aperto un’indagine per capire se ci fu collusione nell’organizzare gli attacchi all’euro.

Ma prendersela con la speculazione è come voler rompere il termometro perché ci dice che abbiamo la febbre alta.

Ricordiamo l’attacco guidato da George Soros nel 1992 contro lira e sterlina: fu possibile per l’altissimo debito pubblico dei due paesi, e l’insostenibilità della loro appartenenza al regime dei cambi quasi-fissi (allora lo Sme).

Soros precipitò il crollo della lira, l’uscita dallo Sme, ma così facendo costrinse l’Italia ad accettare un risanamento dei conti pubblici (Amato) che era necessario in quanto tale: eravamo avviati su una china distruttiva, per comportamenti irresponsabili delle nostre classi dirigenti.

Oggi la situazione non è diversa: dalla corruzione dei passati governi greci, all’ostinazione della Germania nel rifiutare un governo europeo dell’economia, ogni nazione è messa di fronte al conto degli errori accumulati in molti anni.

La speculazione ci si arricchisce sopra. Ma nessuno denunciava la speculazione quando era di segno opposto: rafforzava l’euro, consentiva alle banche europee di rimpinguarsi i bilanci con finanziamenti a tasso zero. C

‘è un’attenzione asimmetrica ai danni degli speculatori. Li si scopre malvagi e distruttivi solo quando le loro scommesse disturbano uno status quo consolidato.

L’ultima grande crisi che ebbe come suo epicentro l’Asia, quella del 1997, fu l’occasione anche là di alte grida contro il complotto della finanza occidentale. Il premier malese Mahatir divenne famoso per le sue denunce contro le congiure degli speculatori angloamericani.

Da allora però l’Asia, più che prendersela con gli speculatori, ha imparato una lezione diversa. Oggi le nazioni orientali hanno le finanze pubbliche più in ordine del mondo, i conti con l’estero in attivo, ricche riserve valutarie per consentire alle banche centrali di difendere le rispettive monete. E dietro tutto questo, ci sono delle economie reali con i “fondamentali” in ordine: a cominciare dalla competitività.

Questo andrebbe ricordato, perché se l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sulla “caccia all’untore”, è un comodo diversivo per i nostri governi e banchieri centrali, ma è pseudo-economia.

http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog
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« Risposta #44 inserito:: Maggio 26, 2010, 03:33:02 pm »

VALUTE

I vantaggi dell'euro debole

di FEDERICO RAMPINI

Un leader storico della sinistra e un europeista come Giorgio Napolitano era proprio l'interlocutore di cui Barack Obama aveva bisogno ieri. Il presidente americano non ha nascosto la sua preoccupazione perché "l'Europa risponda unita alla crisi". E non avvitandosi in politiche economiche iper-restrittive. La stessa manovra da 24 miliardi varata ieri a Roma contribuisce all'inquietudine degli Stati Uniti. Obama ne sta spingendo una di segno diametralmente opposto: chiede al Congresso 200 miliardi di dollari in più da iniettare nell'economia per evitare che ricada in recessione. L'allarme della Casa Bianca cresce via via che l'America si scopre vulnerabile al contagio del male europeo.

L'esperienza di Napolitano aiuta a prendere le distanze dalle convulsioni quotidiane dei mercati e a guardarle in una prospettiva storica. Dopotutto l'euro valeva appena 82 centesimi di dollari nell'ottobre del 2000: quando Napolitano era europarlamentare a Strasburgo, George Bush non aveva ancora "rubato" l'elezione ad Al Gore, e Obama era un giovane docente di diritto costituzionale alla University of Chicago. Anche con lo scivolone a quota 1,22 l'euro è ridisceso appena a metà strada tra il suo massimo storico (1,60) e gli abissi di dieci anni fa. Ma l'America del 2000 era un altro mondo: con la piena occupazione, una crescita che scoppiava (fin troppo) di salute, al termine della prodigiosa galoppata della New Economy.

Oggi Obama vede la sua ripresa, ancora fragile, investita in pieno dalla tempesta europea. Per questo, come ha ricordato a Napolitano, lo stesso presidente americano è intervenuto ripetutamente nei giorni scorsi su Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e José Luis Zapatero per sollecitare una risposta forte. Ma ancora ieri, mentre Obama e Napolitano s'intrattenevano alla Casa Bianca, dai mercati arrivava la conferma che il piano salva-euro traballa paurosamente. Per l'America le minacce sono molteplici. C'è un freno immediato alla sua crescita: l'euro debole penalizza le esportazioni made in Usa e fa calare i profitti realizzati nel Vecchio continente dalle multinazionali americane. Questo si traduce già in una perdita secca fra i 30 e i 60 miliardi di dollari, secondo J. P. Morgan Chase. A cui bisogna aggiungere oltre 1.000 miliardi di dollari di ricchezza americana distrutta negli ultimi cali delle Borse mondiali. Poi c'è il contagio della sfiducia, il più insidioso. L'Amministrazione Obama segue con apprensione quel che accade nelle banche europee: il salvataggio statale di un istituto spagnolo ricorda eventi simili che accaddero qui nel 2008. Dal debito sovrano degli Stati dell'area mediterranea, l'instabilità può estendersi alle banche tedesche inglesi e francesi. E per l'interconnessione di tutta la finanza mondiale, Wall Street non è al riparo. Perciò Obama ha inviato il segretario al Tesoro Tim Geithner in Germania, a parlare con il governo tedesco e i vertici della Bce. Vuole convincere gli europei a fare degli "stress-test" alle sue banche: sono simulazioni di situazioni estreme, come gli elettrocardiogrammi fatti sotto sforzo, per capire lo stato di salute reale del credito.

L'altro messaggio che Obama invia agli europei tramite il suo segretario al Tesoro è in netta controtendenza rispetto a quanto sta succedendo: "Aumentare il sostegno alla crescita". Parlando con Napolitano il presidente americano ha auspicato "un più efficace coordinamento delle politiche fiscali europee", che è il contrario di una corsa scomposta verso i tagli di spesa, unidirezionali, di segno pericolosamente restrittivo. Per Geithner, che fu funzionario del Fondo monetario internazionale in Asia, il rischio è che l'Europa diventi un altro Giappone. Sbagliando terapia dopo una recessione, ci si può condannare a un decennio di paralisi.

C'è voluto un 48enne presidente degli Stati Uniti per confermare a Napolitano la vitalità del pensiero keynesiano. Le grandi crisi economiche richiedono audacia, terapie anticonvenzionali, a costo di sfidare l'ortodossia. Perciò Obama progetta una manovra bis non fatta di tagli, ma di aumenti di spesa. Il suo principale consigliere economico, Larry Summers, spiega al Congresso quel che occorre per risollevare l'economia "dall'abisso profondo" in cui era caduta. Prestiti alle piccole imprese, prolungamento delle indennità di disoccupazione, trasferimenti alla finanza locale per evitare tagli ai servizi sociali. 200 miliardi in più per la crescita, un "allungo" del 25% rispetto alla manovra di quasi 800 miliardi varata nel gennaio 2009. Obama sa che l'opposizione lo accuserà di rafforzare il suo "socialismo" in America. Sa che il linguaggio rigorista della Merkel non è molto diverso da quello della destra americana. Sa che da quella parte sta soffiando il vento: con i conservatori inglesi, e la probabile rimonta repubblicana in America a novembre. Appena salutato Napolitano, si è dovuto imbarcare sull'Air Force One e volare a San Francisco. Per fare campagna in favore di una senatrice democratica che rischia di perdere il suo seggio, nel collegio più progressista d'America.

© Riproduzione riservata (26 maggio 2010)
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