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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 166111 volte)
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« inserito:: Luglio 17, 2007, 04:21:14 pm »

LA NOTA

Una corrente cattolica circondata dai dubbi

La subalternità alla sinistra e i limiti culturali della Margherita 

 
La «corrente cattolica» del partito democratico continua ad aleggiare come un'ambizione destinata ad essere frustrata. E non tanto per un qualche boicottaggio da parte degli alleati. Più banalmente, il progetto deve fare i conti con una realtà mutata. Il microcosmo cattolico è frantumato dai personalismi; incapace di offrire leader alternativi. Ed è guardato con immutata diffidenza dalle gerarchie ecclesiastiche. L'incontro che sarebbe avvenuto giorni fa tra Dario Franceschini, vice di Veltroni nel Pd, il ministro Giuseppe Fioroni e il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, non ha cambiato di molto le cose.

In questa fase, agli occhi dei vescovi appare più affidabile il ministro della Giustizia, Clemente Mastella. La «mescolanza delle identità» che viene proposta come cifra del Pd, produce una perplessità di fondo. Non sono in discussione il concetto in sé, né le buone intenzioni dei singoli. Ma le gerarchie contestano ai cattolici del futuro Pd mediazioni culturali che, a loro avviso, spesso soddisfano solo la cultura altrui.

La durezza con la quale è stata accolta la variante della legge sui Dico, i cosiddetti Cus (contratti di unione solidale), lascia poco spazio a mediazioni. Fra l'altro, non è chiaro se per capire le possibili reazioni della Chiesa, i proponenti diessini dei Cus si siano rivolti direttamente all'episcopato: come se la tendenza all'arroccamento, che esponenti come Fioroni cercano goffamente di negare, delegittimasse la Margherita. Non a caso, uno degli intellettuali più accreditati in Vaticano, Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant'Egidio, definisce i cattolici del Pd «una minoranza che rischia di ridursi a pura testimonianza».

Riccardi arriva a dire che Walter Veltroni è meno autoreferenziale e più moderno come interlocutore di un certo mondo; e già vede la calamita berlusconiana risucchiare un pezzo di elettorato cattolico moderato. Pazienza se all'opposizione «declinano il linguaggio dei cattolici come una lingua straniera», aggiunge caustico Riccardi, intervistato di recente dall'Indipendente. Per il leader di Sant'Egidio, il bilancio del governo di Romano Prodi è fortemente deficitario. Non bastasse, si assiste alla competizione virtuale e alle polemiche vistose per la vice- leadership fra almeno cinque candidati della Margherita.

Queste tensioni sono vissute come l'emblema della divisione e della subalternità alla sinistra. Lo conferma lo scontro fra prodiani ed ex popolari sull'opportunità di dare vita alla «corrente cattolica». Si tratta di uno spettacolo litigioso che suona imbarazzante di fronte alla compattezza, seppure solo di facciata, offerta dai Ds intorno a Veltroni. Dietro si indovina un ritardo culturale, se non una vera inadeguatezza, che precede gli aspetti politici. E deriva dalla pretesa di rappresentare una realtà che non si riconosce né accetta di rientrare in schemi vecchi.

Massimo Franco
14 luglio 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 24, 2008, 05:16:01 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 02, 2008, 08:49:38 pm »

LA NOTa

Già si parla di un ritorno di Prodi

Marini aspetta le ultime risposte ma se fallisce si sciolgono le Camere.

Data prevista: mercoledì


L’insistenza sul «piccolo margine» di riuscita è doverosa, anche se suona quasi d’ufficio. Franco Marini finirà le sue consultazioni lunedì, e poi riferirà al capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ma le ultime ore confermano che il compito del presidente del Senato è tanto tenace quanto disperato: al punto che si parla di scioglimento delle Camere mercoledì. Lo stesso Marini gela chi sarebbe pronto a tutto pur di evitare le elezioni. Andrà avanti, perché bisogna accertare ogni possibilità prima di rinunciare; e verificare chi alla fine dirà no al suo tentativo. Ma il «lavoro non sarà lungo», assicura. E «non ci sono né scorciatoie, né sotterfugi né furbizie». Si tratta di un doppio messaggio: ad una parte dell’ex Unione, perché si rassegni ad un percorso lineare; e all’opposizione, affinché smetta di diffidare. Rimangono gli incontri più importanti, con Pd e FI. Ritenere che arrivino sorprese da Silvio Berlusconi, però, proiettato verso il voto anticipato e ieri al capezzale della madre, sarebbe da ingenui: e Marini non lo è.

Il presidente del Senato sa che la pressione di An e Lega sul Cavaliere accentua la sua determinazione a volere le elezioni. Per questo, l’attenzione si proietta sulla prossima settimana. L’ipotesi che il presidente del Senato formi un governo che va alle Camere e si fa bocciare, a questo punto appare inverosimile. Napolitano e Marini si sono mossi in modo istituzionalmente perfetto. Dunque, è da escludersi uno scarto rispetto a questa scelta di dialogo con il centrodestra, destinato a prolungarsi nella prossima legislatura: almeno nelle loro intenzioni. È la conferma di un compito che la seconda carica dello Stato sta conducendo senza sbavature; e smentendo la tesi secondo la quale mirerebbe solo a prendere tempo. Resta da capire chi porterà il Paese alle urne. Nel silenzio significativo e quasi totale dell’ex Unione, il fronte berlusconiano insiste perché sia Romano Prodi.

 La motivazione è insieme corretta e interessata. Il premier dimissionario è quello indicato dagli elettori dell’Unione nel 2006, ha ricordato Berlusconi. In più, il centrodestra fa notare che Prodi è presidente del Pd: prescindere dal suo governo, per gli alleati, risulterebbe complicato. Nel ragionamento si indovina il calcolo di poter usare contro l’ex Unione l’impopolarità cresciuta intorno a palazzo Chigi; e la litigiosità che ha portato alla crisi. Va aggiunto il potenziale dualismo con il Professore, che i vertici del Pd temono. Ma l’ipotesi Prodi ha il vantaggio di apparire fisiologica. E non sgradita all’opposizione, anzi. «Nessuno avrebbe difficoltà» ad accettare che sia l’ex premier a portare l’Italia fino al voto, ha spiegato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini. «Che rimanga Prodi è la cosa più logica». Sembra farlo capire anche Walter Veltroni. Il segretario del Pd adesso loda il premier. Lo presenta come vittima dei ministri dell’estrema sinistra che sono andati in piazza. «Più il governo faceva cose buone, più aumentava la confusione, e l'opinione pubblica non percepiva quanto di buono veniva realizzato», accusa Veltroni. È la conferma di un asse forse più obbligato che cercato; ma senza alternative, se Marini fallisce e il Quirinale è costretto a prendere atto che bisogna sciogliere le Camere.

Massimo Franco
01 febbraio 2008(ultima modifica: 02 febbraio 2008)

da corriere.it
« Ultima modifica: Settembre 09, 2013, 11:03:08 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 05, 2008, 09:10:51 am »

La nota

Il Polo parte favorito

Ma c'è l'ipoteca della frammentazione


Si è chiuso lo spiraglio intravisto testardamente per giorni da Franco Marini. E di rimbalzo sta per finire la legislatura. Il presidente del Senato ieri sera ha rinunciato al proprio incarico, consegnando al Quirinale la presa d'atto che non si può andare avanti: non c'è spazio per altri governi degni di questo nome. Domani Giorgio Napolitano scioglierà le Camere. Il premier dimissionario Romano Prodi quasi certamente rimarrà a Palazzo Chigi per portare il Paese alle urne. E il referendum elettorale che doveva tenersi in primavera sarà indetto oggi e celebrato fra un anno, perché il voto lo farà slittare. Ormai, i timori del centrodestra su un governo aggrappato alla speranza di un rinvio si sono rivelati infondati. Né Napolitano né Marini hanno offerto sponde al centrosinistra. Lo stesso tentativo del Pd di arrivare a giugno, adesso appare in tutta la sua dimensione tattica: serviva a fare emergere la responsabilità finale della rottura, e a sottolineare negativamente la fretta berlusconiana. Il «no» del Cavaliere è arrivato alla fine della consultazione di ieri a palazzo Madama. La sensazione diffusa, però, è che i margini in realtà si fossero quasi azzerati nel momento in cui Prodi aveva deciso di farsi sfiduciare dal Senato. Quanto è accaduto dopo, è stato uno sforzo generoso e inutile di allontanare un epilogo inevitabile. Può darsi che la caduta del governo per il ritiro dell'Udeur di Clemente Mastella non permettesse soluzioni diverse. Il presidente del Consiglio, tuttavia, ha bruciato in anticipo qualunque subordinata.

Al momento, il centrodestra risulta in netto vantaggio: tanto che la discussione al suo interno riguarda non soltanto le elezioni, ma addirittura il governo che Silvio Berlusconi potrà formare dopo il voto, fissato probabilmente per il 13 aprile. È la conferma di una campagna elettorale che la Cdl considera già vinta. La rapidità con la quale alleati come Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno abbandonato qualunque distinguo rispetto al Cavaliere, nasce dalla consapevolezza di non avere più margini; e di non poter riproporre dualismi nel momento in cui la rivincita sembra a portata di mano. Ma l'incognita su quanto accadrà nelle prossime settimane e dopo il voto non è da sottovalutare. I contrasti che hanno minato il centrodestra alla fine della scorsa legislatura e nel primo anno e mezzo dell'attuale, ora sono diplomatizzati; ma rimangono. E il centrodestra promette di presentarsi più frammentato di prima, come l'Unione del 2006. La determinazione di Berlusconi ad andare al voto anticipato quanto prima nasce dalla volontà di incassare politicamente la delusione dell'elettorato nei confronti del governo Prodi; ma anche di evitare manovre che possano dividere di nuovo i propri alleati. Le miniscissioni che si registrano in queste ore mostrano un'opposizione compatta sulle urne, eppure non ancora stabilizzata e amalgamata. Il passaggio di esponenti di FI nell'Udc, e viceversa, non prelude ad uno scambio concordato ma a nuove tensioni. Il partito di Casini avverte fin d'ora: «Saremo comunque determinanti, alla Camera e al Senato», evocando un braccio di ferro con i compagni di strada. L'ammissione di un'alleanza «dettata dalla legge elettorale», evoca una scelta obbligata, ma non agognata. Ed implica l'azzardo di far coesistere almeno otto formazioni, molte di piccole dimensioni. Vedendo la fine che ha fatto il governo Prodi per il deragliamento degli alleati minori, la stabilità rimane una scommessa anche per Berlusconi. I calcoli che girano in questi giorni assegnano alla Cdl un vantaggio sulle sinistre fra i dodici e i venti parlamentari in Senato. Potrebbero essere molti, o molto pochi. E poi, la campagna elettorale è lunga.

Il centrosinistra non ha ancora svelato con quale tipo di aggregazione si presenterà. Ma l'insistenza del Pd veltroniano sulla coerenza dei programmi sembra fatta apposta per mostrare le contraddizioni del centrodestra. Non è scontato che l'operazione riesca. Ma la volontà del Cavaliere di tenere aperto il dialogo istituzionale dopo il voto risponde ad una scelta calcolata. Berlusconi non esclude un governo di unità nazionale, negoziato da posizioni di forza. In più, sa che fra due mesi e mezzo potrebbe essere obbligato a tendere la mano all'opposizione: sperando di avere ancora di fronte interlocutori non indeboliti da un'eventuale sconfitta.

Massimo Franco
05 febbraio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 09:50:53 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 26, 2008, 04:27:39 pm »

IL commento

La cordata del silenzio

Il caso Alitalia


Per giorni, la lente del centrodestra ha ingrandito la vicenda Alitalia come l’ennesimo fallimento annunciato del governo di Romano Prodi. Voleva mostrare un Walter Veltroni nell’angolo, esaltando il suo imbarazzo e le sue distanze dal premier.

Ma l’esito dell’offensiva adesso non è così scontato. Il fatto che ieri il segretario del Pd abbia mostrato di «scegliere» Air France lascia capire che un accordo, seppure difficile, alla fine potrebbe spuntare. E il silenzio improvviso di Silvio Berlusconi, teorico di una fantomatica «cordata italiana », si abbina all’esaltazione che il centrodestra fa delle proprie pressioni, decisive per riaprire la trattativa.

Sulla vendita dell’Alitalia, Silvio Berlusconi e la Sinistra Arcobaleno, Fausto Bertinotti in testa, hanno interessi comuni. Non economici, naturalmente: ad avvicinarli sono obiettivi puramente elettorali. Per motivi diversi, il candidato a Palazzo Chigi del centrodestra e l’ex presidente della Camera spargono scetticismo sulla soluzione Air France. Additano le responsabilità di Romano Prodi. Ed evocano quotidianamente il premier dimissionario.

Farlo, significa insieme «oscurare » il segretario del Pd, e costringerlo sulla difensiva. Veltroni si sgola contro «l’uso elettorale » della vicenda Alitalia. Tutto inutile: quella trattativa in bilico è una manna per un Pdl deciso a risucchiarlo nell’orbita prodiana; a cancellare la discontinuità che l’ex sindaco di Roma ha cercato di sottolineare fin dall’inizio; e a mettergli contro il nord. Quanto a Bertinotti ed al suo partito, ricordare che «nei Paesi europei i governi aiutano le compagnie di bandiera», serve a schiacciare il Pd su un profilo liberista; a presentarsi come unica sinistra senza aggettivi; ed a creare una tenaglia con la Cgil contro Prodi e, di rimbalzo, Veltroni.

Ieri Bertinotti ha definito «stupidaggini » le accuse di un asse con Berlusconi. E in effetti, se qualcuno pensasse che si tratti di una regìa concordata, andrebbe fuori strada. La convergenza è oggettiva. Per questo, si avverte una sintonia fra il vicepresidente di FI, Giulio Tremonti che vede nell’atteggiamento verso Alitalia «un Prodi al terzo mandato all’Iri», e gli attacchi del Prc. Ma non è una sintonia esclusiva. Basta registrare la posizione del ministro Antonio Di Pietro, che pure è alleato del Pd, o dei sindacati. Si tratta di uno schieramento nel quale i calcoli elettorali si incrociano e si mescolano con una virata anche in termini di cultura economica.

È quella che fa scrivere al «Wall Street Journal»: Berlusconi è «un corporativo avverso alla libera concorrenza di mercato». Il contrario, secondo il quotidiano newyorchese del magnate australiano Rupert Murdoch, di «un liberale economico che intende fare quello di cui l'Italia ha bisogno per rilanciare l'economia barcollante ». Ma sul versante italiano, a condizionare la scelta sono le urne ed il rischio di licenziamenti. Esiste la prospettiva concreta di un fallimento, che però «a Berlusconi non interessa», accusa il vicepremier, Massimo D’Alema. Ma il centrodestra è aiutato dalla riapertura della trattativa fra AF-Klm e sindacato. Gli permette di accusare Prodi di voler «svendere» Alitalia.

È un modo per difendersi dalla critica di immobilismo che il Pd fa a Berlusconi, riferendosi ai cinque anni in cui governava. Anche allora - fra 2001 e 2006 - Alitalia perdeva, ma il Cavaliere non si impegnò a venderla: gliel’ha ricordato il leader centrista Pier Ferdinando Casini. La replica, affidata a Gianfranco Fini, è che «il centrodestra non mise sul mercato Alitalia, perché il mercato era fermo dopo gli attentati dell'11 settembre 2001: l'avremmo svenduta». Il fronte berlusconiano chiama a testimone delle proprie ragioni, di nuovo, il sindacato. «Il governo Prodi», dice Fini, «ha condotto le trattative in modo tale da far dire persino a Cgil, Cisl e Uil (e sottolineo Cgil): 'vergognatevi’... ».

Di nuovo, Prodi viene messo in primo piano. E pensare che qualcuno si illudeva che Veltroni sarebbe riuscito a farlo scomparire, e perfino dimenticare all’elettorato.

Massimo Franco
26 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 10, 2008, 04:05:30 pm »

IL COMMENTO

Una logica sbagliata


Infiocchettata come «ipotesi di scuola», è arrivata la seconda puntura berlusconiana nei confronti del Quirinale. Come quella dei giorni scorsi, nasce da una polemica con l’Unione e non con Giorgio Napolitano; e sarebbe curioso se fosse il contrario.

Ma il modo ruvido, per usare un eufemismo, col quale il Cavaliere la affronta, finisce per alimentare la tensione con la presidenza della Repubblica. La sostanza è prosaica: se vince, Silvio Berlusconi non vuole dare la presidenza di una Camera all’opposizione, «quando tutte le cariche sono nelle mani della sinistra». Solo se «per ipotesi fosse eletto un altro capo dello Stato della nostra parte politica », ha detto, «riterrei un dovere dare la guida del Senato» agli avversari.

La questione non può essere liquidata come una semplice provocazione o una gaffe. In linea di principio, i vertici delle istituzioni dovrebbero riflettere un equilibrio fra maggioranza e opposizione, e non essere considerate solo la protesi delle coalizioni di governo. Il modo in cui l’Unione decise di presidiarle dopo le elezioni del 2006, irritò il centrodestra: sebbene si trattasse della replica di quanto aveva fatto nel 2001 la Cdl nei confronti dell’Ulivo. I veleni di questi giorni sono insomma il risultato di un avvitamento progressivo che però lambisce per la prima volta anche il Quirinale. Ed evoca il fantasma di manovre che Berlusconi non riesce a cancellare del tutto giurando subito dopo l’attacco: «Lunga vita a Napolitano ».

Pesa l’elezione del presidente della Repubblica con un numero di voti che rifletteva più o meno la consistenza del centrosinistra: un margine risicato come non avveniva da molti anni. Nell’ottica berlusconiana, sembra passare in secondo piano il fatto che il centrodestra si è rifiutato di appoggiare Napolitano; e che finora il capo dello Stato ha tenuto un comportamento di ineccepibile garanzia per tutti: basti pensare al modo in cui ha gestito l’approdo alle elezioni anticipate dopo la crisi del governo di Romano Prodi. Ma soprattutto, proprio mentre la afferma, il Cavaliere finisce per smentire la regola condivisibile di slegare gli equilibri istituzionali da quelli governativi.

Il modo in cui accenna «per ipotesi di scuola» ad un baratto Quirinale-Palazzo Madama ripropone proprio la logica che Berlusconi imputa, con qualche ragione, al centrosinistra. E sembra non rendersi conto che un’istituzione di garanzia come la presidenza della Repubblica non può essere valutata comunque con gli stessi criteri delle altre cariche dello Stato: non a caso dura sette e non cinque anni. Per questo i suoi attacchi ad intermittenza, per quanto destinati ai grandi elettori di Napolitano, e non al capo dello Stato, rischiano di apparire l’inizio di un conflitto deciso a tavolino; e mirato a destabilizzare il Quirinale come simbolo e apice di quell’«occupazione delle istituzioni» alla quale il candidato del Pdl a palazzo Chigi allude da mesi.

È possibile che l’argomento riemerga come concessione ad una platea elettorale e ad un centrodestra che sentono acutamente la questione. E che venga evocato anche per il timore inconfessato di ritrovarsi al Senato con una maggioranza tutt’altro che consolidata, come è successo a Prodi: magari più abbondante numericamente, ma politicamente altrettanto infida. Sarebbe a dir poco discutibile, tuttavia, la tentazione di scaricare sul Quirinale i difetti di una legge elettorale dolosamente macchinosa; e le conseguenze di un voto che anche i candidati alla vittoria sembrano ritenere almeno in parte imprevedibili. Significherebbe un pessimo inizio di legislatura: un’avventura nella quale sarebbe difficile intravedere un lieto fine.

Massimo Franco
10 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 10, 2008, 10:57:33 pm »

«No comment». L’ira fredda del Quirinale

Vincenzo Vasile


Non una parola. L’ira fredda del presidente scende come una coltre sull’ultimo delirio di onnipotenza di Silvio Berlusconi. Schiocca come uno schiaffo il rigoroso «no comment» di Giorgio Napolitano all’assalto del leader del Pdl di fine campagna elettorale. Ma non è solo per evitare interventi in questa fase di incandescente calore politico che Napolitano stavolta ha scelto di tacere. Si può intuire che con il silenzio più gelido si voglia anche in qualche modo sottolineare l’insussistenza e la povertà delle argomentazioni addotte: «... avendo loro il Quirinale... », è già questa premessa di Berlusconi - prima ancora dell’ipotesi che Napolitano si dimetta - che ha fatto saltare la mosca al naso del presidente, inducendolo a rispondere con un altero silenzio.

Un cambio di passo considerevole, rispetto al precedente rapporto tra Colle e Berlusconi, che sinora era apparso generalmente improntato - per volontà di Napolitano - a scongiurare pericoli di rotture e a ricondurre eventuali polemiche nell’alveo delle sottigliezze diplomatiche e dei distinguo. Il senso è che il presidente della Repubblica non degna, insomma, di una sillaba l’ex premier che pretenderebbe di farlo sloggiare dal palazzo più alto della Repubblica in nome di una concezione proprietaria e privatistica delle istituzioni. Quel che doveva essere detto è stato, infatti, già detto, e messo nero su bianco. Anche recentemente. Quando in un forum con la redazione del Tempo Berlusconi si era già lasciato andare a questa tiritera della presidenza appannaggio «dell’altra parte» e al pronostico della condanna conseguente del suo eventuale prossimo governo alle «forche caudine», c’erano state - era il primo aprile - tre-righe-tre di algida e sferzante replica quirinalizia: «La Presidenza della Repubblica - chiunque ne fosse il titolare - ha sempre esercitato una funzione di garanzia nell’ambito delle competenze attribuitele dalla Costituzione senza mai sottoporre a interferenze improprie le decisioni di alcun governo, e considera grave che le si possano attribuire pregiudizi ostili nei confronti di qualsiasi parte politica».

Detto per il passato (in difesa di Ciampi, su cui la solita precisazione di Berlusconi aveva addensato il grosso delle critiche), per il presente, e preventivamente per il futuro. Per chi voglia ripassare il pensiero di Napolitano sulle istituzioni, c’è un testo, anch’esso recente, di riferimento: la nuova prefazione alla sua autobiografia politica ripubblicata da Laterza. Con una certa amarezza, ma prospettando la possibilità di una ritrovata convergenza, Giorgio Napolitano qui rivendica l’iniziale confluenza bipartisan sulla sua candidatura al Quirinale, e rivive il voltafaccia finale del centrodestra: c’era stato - rievoca - un «affidamento» quasi corale sul suo nome, che non si concretizzò nel voto unitario dei due schieramenti, ma che conferma come la sua elezione al Quirinale non sia stata politicamente e istituzionalmente uno strappo. Il 10 maggio 2006 al quarto scrutinio le Camere lo elessero, infatti, presidente della Repubblica, un voto che divise il Parlamento in due parti. Napolitano fu il primo ex pci ad assumere questa carica, ma non ebbe un’investitura unanime. Al primo scrutinio aveva avuto un classico risultato da outsider: 8 voti su 984, al secondo 15 su 973, al terzo 16 su 976, al quarto prevalse con 543 su 990. Eppure il cruccio di una mancata indicazione bipartisan rimane. Anche perché - nel retroscena - la candidatura aveva trovato un appoggio impegnativo dal centrodestra, in particolare con pubbliche dichiarazioni di Fini e di Casini. Eppure all’ultimo momento Berlusconi tolse il timbro della Cdl.

La nuova introduzione del libro riconferma, dunque, la vocazione super partes del capo dello Stato: infatti, Napolitano vi sostiene che sarebbe ben grave l’assenza di un «supremo moderatore e garante di una corretta dialettica istituzionale», eletto dal Parlamento. E l’assimilazione del Capo dello Stato al leader di una maggioranza politica, «investito col voto popolare da una parte del paese in contrapposizione all’altra», finirebbe per «alimentare tensioni incontrollabili nel tessuto istituzionale e nella compagine nazionale». No, non si può, non si deve sostenere che il presidente - anzi la presidenza come la intende napolitano - stia «dall’altra parte». In quel testo il capo dello Stato si diffonde «sull’ardua difficoltà nel perseguire il superamento del clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune, instauratosi nei due schieramenti in gara per la guida del paese». E riconferma di avere «la serena coscienza di aver agito secondo lo spirito e la lettera della Costituzione, senza pregiudizi di favore o di sfavore verso chicchessia, senza ombre o tentazioni di faziosità». Per Napolitano «la collocazione del Presidente della Repubblica al di sopra delle parti, al di fuori della contesa politica e delle competenze di governo, comporta naturalmente una sostanziale limitazione dei poteri del Capo dello Stato». Anzi: «È peraltro importante - scrive - che il richiamo all’interesse generale e al comune quadro di riferimento costituzionale si cali nel vivo di quel rapporto con la società che il Capo dello Stato deve saper coltivare: un rapporto di ascolto e di dialogo con la società intesa non solo nelle sue espressioni politiche, ma anche nella così variegata molteplicità delle sue componenti, delle sue forze, delle sue dimensioni. È così che ogni azione di persuasione può aver ragione di molte sordità e risultare efficace».


Pubblicato il: 10.04.08
Modificato il: 10.04.08 alle ore 8.24   
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 15, 2008, 04:10:50 pm »

La grande occasione

di Massimo Franco


In neppure due anni, Silvio Berlusconi e il centrodestra si sono ripresi il governo del Paese. E con una nettezza che ha, se non smentito, certo dimostrato esagerate le previsioni diffuse di un testa a testa. Messo di fronte alla responsabilità di una scelta, l’elettorato ha risposto consegnando le chiavi del potere all’uomo che dal 1994 ha plasmato il fronte moderato e la stessa opposizione. È vero che il numero dei votanti è calato. Ma il fatto che non sia sprofondato sotto il muro dell’80 per cento conta non solo simbolicamente.

Si conferma il malessere nei confronti della classe politica, senza tuttavia renderlo allarmante. E per Berlusconi si tratta di un successo doppio. Non si assiste soltanto al suo ritorno prevedibile a Palazzo Chigi. La novità è che la reinvestitura avviene dopo una campagna elettorale nella quale non ha promesso miracoli; né lasciato intravedere soluzioni indolori in economia. Seppure fra le solite battute e battutacce, si è presentato nella veste dell’imprenditore chiamato a fronteggiare un periodo di grave crisi.

Il suo miracolo è stato quello di farsi accettare anche nella nuova veste di premier senza bacchetta magica; e di interpretare una voglia prepotente di sicurezza. L’affermazione vistosa della Lega la riflette, senza tuttavia averne l’esclusiva. Ma la metamorfosi del Cavaliere ha avuto successo per i suoi meriti e, in buona parte, grazie ai limiti degli avversari. Per il Pd la sconfitta è netta quanto la vittoria berlusconiana. Walter Veltroni ha svuotato l’estrema sinistra; ma non è riuscito a sottrarre consensi al centro, mancando la scommessa di conquistare i voti moderati.

La rimonta, che c’è stata, finisce così per sottolineare la misera base di partenza del centrosinistra. Per questo, già si intravede la domanda drammatica e forse lacerante che da oggi aleggerà nella nuova opposizione: ha perso Romano Prodi o Veltroni? Certamente, il segretario del Pd non è riuscito a far dimenticare del tutto il governo dell’Unione. Ma questo rinvia a Prodi. La sua autoesclusione dalla sfida non è bastata a cancellare i danni accumulati giorno dopo giorno per una lettura sbagliata del risultato del 2006, per le scelte economiche e per le liti nella sua coalizione. Il saldo è un radicale riflesso d’ordine, che il berlusconismo è riuscito ad intercettare, come nel 1994 e nel 2001.

Ma stavolta il centrodestra non avrà alibi, né potrà regalare illusioni; e lo sa. La maggioranza che gli italiani gli consegnano è a prova di ribaltoni, pasticci e scaricabarile. Il problema è di legittimarla con provvedimenti seri ed incisivi. Con una consapevolezza in più: non solo l’elettorato ma la comunità internazionale osservano l’Italia tornata berlusconiana con una miscela di scetticismo, allarme e attesa. Ed i primi due, finora, hanno prevalso.

15 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 29, 2008, 05:18:53 pm »

La vittoria di Alemanno

Non solo Roma


di Massimo Franco


Il significato storico della vittoria di un esponente della destra ex missina nella capitale d’Italia non va sottovalutato. Gianni Alemanno sindaco di Roma rappresenta uno spartiacque che legittima pienamente l’arco costituzionale della Seconda Repubblica: postfascista, più che antifascista; almeno non nel senso un po’ ossificato e molto strumentale nel quale una parte della sinistra ha continuato a rappresentare e svilire un valore fondante come l’antifascismo. Ma proprio per questo, accreditare una continuità fra il Gianfranco Fini avversario perdente di Francesco Rutelli nel 1993, e l’Alemanno vincente di ieri, può risultare fuorviante. Si tratta di una continuità indubbia e insieme parziale.

Alemanno non ha vinto solo in quanto uomo con un marcato profilo di destra, ma come candidato di una coalizione capace di parlare insieme alle periferie capitoline ed al ceto medio; e di riscuotere consensi al Nord come al Centro e al Sud. In questo senso, riequilibra l’impronta «nordista» e leghista del voto politico. Forse, a spiegare meglio la conquista del Campidoglio da parte del Pdl è il fatto che il centrosinistra abbia presentato lo stesso volto del 1993: un ex sindaco che pure in passato aveva fatto bene. Ma che evidentemente appariva «vecchio », espressione di un modello amministrativo datato. Per questo è stato ritenuto incapace di captare i cambiamenti avvenuti non solo nel Paese ma nella stessa capitale, governata ininterrottamente prima da lui e poi da Walter Veltroni.

Il Pd sperava di arginare la marea berlusconiana del 13 e 14 aprile proprio nel ballottaggio a Roma. L’onda, invece, è diventata ancora più potente e distruttiva. La voglia di ordine, sicurezza e cambiamento da parte dell’elettorato ha spazzato via l’equilibrio impossibile di una capitale in bilico fra magìe cinematografiche e periferie abbandonate a se stesse. Si può anche ammettere che sul voto ad Alemanno abbiano pesato la paura e l’indignazione per i recenti stupri di donne. Ma questa è un’aggravante, non un’attenuante per l’amministrazione uscente. La verità è che il Pd e la sinistra in generale non sono riusciti ad opporre alla candidatura del nuovo sindaco nulla che non fosse già sentito e, alla fine, stantìo: le foto in bianco e nero di Alemanno «picchiatore» negli anni Settanta; l’indignazione per l’incontro fra Silvio Berlusconi ed il senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico, «fascista non pentito », proprio il 25 aprile; l’evocazione dello spettro leghista e antiromano. E via di questo passo. Il risultato paradossale è stato quello di dilatare la sensazione del vuoto strategico del centrosinistra; di mostrare in bianco e nero non il Pdl ed il suo «uomo senza qualità», ma un Pd che invece pretendeva di presentarsi nuovo di zecca, ed invincibile nella sua roccaforte capitolina.

A questo punto, il problema non è più soltanto l’eredità governativa di Romano Prodi. Di fatto, il risultato del ballottaggio per il Campidoglio lesiona la leadership veltroniana e di tutto il «gruppo romano» che ha costruito il Pd e la sua strategia solitaria. Ma soprattutto, lascia indovinare una crepa in quel «partito dei municipi » che ha sempre rappresentato il cuore duro del potere del centrosinistra in Italia; e che sembrava al riparo da qualunque sconvolgimento nazionale. È come se di colpo il gruppo dirigente si svegliasse da un lungo sonno. E scoprisse che la realtà, dispettosamente, non ha assecondato le loro convinzioni. Si tratta di una sorta di «sindrome di Ecce bombo» collettiva: la stessa di quei ragazzi di sinistra immortalati nel 1978 dal regista Nanni Moretti nel film omonimo. Raccontava la storia di un gruppo di amici che erano andati a dormire sulla spiaggia aspettando l’alba; e che alla fine si accorgevano che il sole era spuntato non dove credevano, ma alle loro spalle: una metafora degli abbagli culturali, prima che politici, della sinistra. L’immagine di un Pd convinto di tenere Roma, il quale assiste invece al trionfo di Alemanno ed ai caroselli selvaggiamente gioiosi dei tassisti, fa impressione più che se fosse diventato sindaco Umberto Bossi. In fondo, il leader dei lumbard poteva essere considerato un invasore. Alemanno, invece, incarna la rivolta delle viscere della capitale contro chi l’ha governata negli ultimi anni: e neppure così male. È un monito per gli sconfitti, e per i vincitori.

29 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 01, 2008, 04:05:33 pm »

Scontro frontale


di Massimo Franco


Sta prendendo forma una nuova fase. Vede una maggioranza compatta in un'offensiva di ridimensionamento del potere giudiziario; ed il Quirinale chiamato ad una mediazione delicata. Oggi si riunisce il Consiglio superiore della magistratura con gli occhi del governo puntati addosso. Il centrodestra ritiene che il Csm sia andato oltre le sue funzioni denunciando l'incostituzionalità della norma del governo che sospende alcuni processi, fra cui quello al premier. Giorgio Napolitano, che del Consiglio è presidente, non ci sarà. Ma indirettamente verrà investito di una questione che per Silvio Berlusconi sta diventando vitale.
La virulenza delle polemiche sulla giustizia lascia indovinare scenari gonfi di incognite. Anche perché di fronte alla determinazione a regolare i conti con quella che il premier chiama «magistratura politicizzata» c'è un'opposizione divisa; di più, risucchiata dal radicalismo di Antonio Di Pietro. Il Pd veltroniano prova disperatamente a sottrarsi all'abbraccio. Eppure rischia di subirlo, perché l'istinto antiberlusconiano del suo elettorato viene messo a nudo e stimolato dall'aggressività del Cavaliere.

Il risultato è che Di Pietro tenta di accreditarsi come unico vero avversario. E inasprisce lo scontro, in modo simmetrico ed opposto a Berlusconi. Calamita il plauso della sinistra antagonista, spingendo il fronte nel recinto dei movimenti extraparlamentari. E non nasconde di voler creare una sorta di «Lega dei valori », versione moralista e ambigua della Lega di Umberto Bossi, chiamata a usare la giustizia come spartiacque. Insomma, sta plasmando un contenitore funzionale alla sua cultura, prima che alle sue ambizioni; ma, per paradosso, utile anche ai piani del capo del governo.
In questo schema manicheo, buoni contro cattivi, prevedere un rafforzamento di Berlusconi non è azzardato. Il centrodestra avverte che la debolezza del Pd è solo il riflesso di quella di altri centri di potere. E li incalza, a partire dalla magistratura, convinto che possa essere la volta buona per piegarli ad una normalità che a molti appare una normalizzazione. Ma, per quanto discutibile, il modo in cui il premier addita gli sconfinamenti dell'ordine giudiziario poggia su un malessere diffuso, alimentato anche da errori.
Non stiamo assistendo al ritorno di un vecchio conflitto. È in atto uno scontro che Berlusconi oggi ritiene di poter affrontare da posizioni di forza: per questo ha fretta di chiuderlo. Lo drammatizza scommettendo sull'estremismo di avversari che gareggiano con lui in eccessi verbali, riuscendo perfino a batterlo. Nella loro furia polemica, gli antiberlusconiani alla Di Pietro promettono di colpire chiunque non appaia abbastanza nemico del Cavaliere. Nessuno si meraviglierebbe se alla fine scaricassero la loro frustrazione politicamente suicida perfino sul Quirinale.


01 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:38:37 pm »

LA NOTA

Il Cavaliere sta vincendo

L’obiettivo finale è piegare i magistrati



Il miracolo di equilibrio compiuto da Giorgio Napolitano forse non basterà.

Il capo dello Stato è riuscito a mettere d’accordo quasi tutti, con una lettera calibratissima inviata ieri al Csm poco prima dell’inizio della seduta. Ma Silvio Berlusconi si prepara ad andare in tv domani sera per dire «pacatamente e serenamente» che «la giustizia è una vera emergenza».

E, con parole quasi offensive, ha ridotto l’iniziativa del Quirinale ad un sì alle pressioni dei presidenti di Senato e Camera. Risultato: Napolitano ha dovuto precisare che si è mosso in autonomia; ed il fronte rimane apertissimo, perché la gaffe istituzionale rivela la strategia berlusconiana di marcare il confine fra potere politico e sistema giudiziario. Si tratta di segnali che fanno prevedere tensioni crescenti. Il presidente della Repubblica ha fatto molto per arginarle. Gli è arrivato il plauso del Pdl per avere «invitato il Csm a non esprimersi sulla costituzionalità delle leggi», riconosce il ministro della Giustizia, Angelo Alfano. Walter Veltroni ha avallato «le parole e lo spirito della sua lettera», nonostante l’imbarazzo del Pd. L’unico a masticare amaro è sembrato Antonio Di Pietro, convinto che Napolitano non dovrebbe firmare la legge con cui si sospendono alcuni processi. «Ma», concede, «rispetterò qualunque sua decisione». Sono parole un po’ d’ufficio: anche perché fra Di Pietro e il Pd si è aperto il fronte della manifestazione dell’8 luglio, bollata da Veltroni come «un regalo al premier». La loro alleanza è visibilmente in crisi. Ma il vero contrasto, seppure larvato, si delinea fra palazzo Chigi e Quirinale.

Le parole di Berlusconi sull’accoglimento da parte di Napolitano delle richieste fattegli lunedì da Renato Schifani e Gianfranco Fini, tendono a mostrare un capo dello Stato accerchiato. È come se le alte cariche parlamentari adesso si muovessero apertamente come portavoci della maggioranza.
E nella sua conferenza stampa ad Acerra per l’emergenza dei rifiuti, Berlusconi ieri ha accreditato le pressioni sul capo dello Stato. Ci sarebbe stato una sorta di «avvertimento» sulle conseguenze di un parere di incostituzionalità da parte del Csm: sia sul decreto che sospende alcuni processi, compreso quello che vede imputato il premier; sia sulla norma che vieta la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche: l’argomento che Berlusconi vuole affrontare domani in tv. Per di più, il Cavaliere ipotizza un decreto da fare entrare in vigore subito: ipotesi che per il Pd è una provocazione, ma porta acqua al mulino di Di Pietro, secondo il quale il Cavaliere ha fretta perché conosce il contenuto di alcune telefonate. Così, il Csm accoglie quasi all’unanimità i suggerimenti di Napolitano; e in serata boccia il cosiddetto «blocca-processi» come «irrazionale», senza pronunciarsi sulla sua costituzionalità. Ma il conflitto lievita ugualmente. Il sospetto fondato è che Berlusconi non voglia chiuderlo: almeno fino a quando non riterrà di avere vinto la resa dei conti.

Massimo Franco
02 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 03, 2008, 07:23:13 pm »

Il bavaglio ai giornali

Vittorio Emiliani


Editori e giornalisti insieme per protestare con forza, con la massima forza pacifica possibile, e con creatività, contro il bavaglio che Silvio Berlusconi, ossessionato dalla pubblicazione di nuovi colloqui telefonici hard, vuole ora imporre, in tutta fretta, per decreto legge, all’intero pianeta dell’informazione e alla magistratura in materia di intercettazioni. Anche a costo di mettere in ginocchio, con sanzioni pecuniarie inusitatamente pesanti, le stesse aziende editoriali. Non accadeva da non so quanto tempo e sembrava improbabile che accadesse fra due categorie, editori e giornalisti, fra due sindacati, Fieg e Fnsi, che da oltre tre anni non riescono a trovare - grazie alla ostinazione degna di miglior causa di alcuni grandi editori di giornali - una linea di intesa per il nuovo contratto degli operatori dell’informazione. Contratto che metta al riparo dal precariato, dall’insicurezza e quindi dalla perdita di autonomia i giornalisti italiani, i più giovani in specie.

Evidentemente anche gli editori avvertono che il clima si va facendo nel nostro Paese particolarmente duro e illiberale, un clima da leggi speciali, da criminalizzazione dell'informazione non allineata, con la concomitante caduta di garanzie che sono state finora il fondamento stesso della Costituzione. Non era successo neppure negli anni più bui del terrorismo di destra e di sinistra che tante e così strategiche garanzie venissero depotenziate e, di fatto, sterilizzate. Per decreto, per giunta. All’epoca i tentativi posti in essere furono contrastati da un'opinione pubblica attenta e presente, dalle forze garantiste che la interpretavano. Quando l’allora direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, poi finito nelle liste P2 (dove figurava pure Silvio Berlusconi, uno dei rari imprenditori privati in verità), propose pubblicamente il “black-out” sulle notizie riguardanti il terrorismo, ricevette assai pochi consensi (quello di Gianni Letta allora direttore del Tempo) e molti dissensi radicali: noi avremmo continuato a dare tutte le notizie su fatti e fenomeni terroristici evitando rigorosamente di enfatizzarne i personaggi e le forme di espressione con una forma seria di autodisciplina (pure oggi, va sottolineato, necessaria). Il “black-out” venne dunque respinto dalla grande maggioranza dei direttori e dei giornalisti italiani i quali temevano, giustamente, che dietro quel silenzio passassero degenerazione e svuotamento della democrazia.

Oggi il sindacato dei giornalisti e quello degli editori trovano dunque un punto strategico di convergenza, del resto anticipato il 9 giugno scorso da Boris Biancheri, presidente della Fieg: «Limitare le intercettazioni alle indagini relative a reati di terrorismo e criminalità organizzata non mi sembra affatto una buona idea. Un sequestro di persona o la corruzione di pubblico ufficiale che non hanno connessioni con mafia e camorra non sono meno gravi per questo». Vedremo quanti fra i maggiori giornali e quanti fra i telegiornali coglieranno davvero il valore strategico di questa intesa e l'appoggeranno condividendola a fondo. Trovo ben pensata la proposta avanzata dal segretario della Federstampa, Franco Siddi: fare cioè, inizialmente, una sorta di sciopero “a rovescio”, informando di più (finalmente!) i lettori, e uscire con pagine a scacchiera, quelle libere e quelle nei fatti imbavagliate. Dopo, si potrà, probabilmente si dovrà andare, insieme, in piazza avendo cercato di formare una opinione pubblica più avvertita.

In queste ore è fin troppo scoperto il tentativo di ridurre la mole delle intercettazioni giudiziarie ad un fiume di pettegolezzi, a volte di sapore pecoreccio o boccaccesco (peraltro espressivi del malcostume di chi fa certe inqualificabili telefonate). In realtà anche la frenetica attività del presidente Berlusconi nel telefonare in Rai al direttore della fiction Agostino Saccà per raccomandare, nel modo più pressante e imbarazzante, questa o quella show-girl o stellina (magari appannata), ha ribadito alcuni dati di fatto: nell’azienda pubblica vi sono quadri berlusconiani pronti e proni a ricevere dal capo raccomandazioni e magari ordini di servizio; la Rai viene considerata da Berlusconi e pure da Confalonieri del tutto subalterna, una sorta di succursale di Mediaset. Altro che gossip. Qui ci sono di mezzo il ruolo strategico del servizio pubblico, il grado di concorrenza effettiva fra le due emittenti, il pluralismo stesso dell’informazione, la meritocrazia nelle scelte artistiche, sopraffatta da un clientelismo peloso e penoso. Valori essenziali sporcati e travolti, spesso, da questa fiumana fangosa di telefonate e di trame, per esempio contro l'attuale direttore generale della Rai, Claudio Cappon, manager pubblico di indubbia moralità e trasparenza. Adesso, ad esempio, capiamo meglio perché e percome, subito dopo la vittoria elettorale del Cavaliere, vi fu chi dall’interno di Viale Mazzini chiese la pronta, anzi immediata “riabilitazione” di Saccà: avevano messo in piedi la trama per un nuovo direttore generale. Adesso capiamo meglio perché si avanzano nomi per i nuovi possibili componenti del CdA etichettati quali “bipartisan”, in realtà berlusconiani di ritorno che il Pd farà bene a non avallare se non vorrà alienarsi altre simpatie fra i suoi sostenitori più decisi, e quindi più utili, anche fra i giornalisti che fanno opinione e che dai vari governi Berlusconi hanno patito emarginazioni gravi tenendo, loro, la schiena diritta.

Inoltre, conviene ripetere fino alla noia che le intercettazioni hanno consentito la cattura di Riina, di Provenzano, di Lo Piccolo, di Busca. Obiezione immediata: quelle saranno ancora possibili. Già, ma non ci saranno intercettazioni per i reati-satellite, per le estorsioni, le richieste di “pizzo”, lo sfruttamento della prostituzione, la bancarotta fraudolenta, ecc. «Talvolta si arriva ad una indagine di mafia proprio partendo da un reato minore. Non sarà più possibile farlo». Così Antonio Ingroia, pm antimafia a Palermo. Tutti reati che - per effetto dell’altro devastante provvedimento berlusconiano, il blocca-processi - finiranno in una sorta di limbo per un anno, da aggiungere ai tanti anni di attesa per la giustizia ordinaria che ordinaria non è più nella sua inaccettabile lentezza. Su questo terreno - che ci ha visti più volte messi in mora dall’Unione Europea - l’Associazione Nazionale Magistrati aveva avanzato proposte costruttive al presidente del Consiglio. Messe da lui seccamente da parte, come ogni forma di possibile dialogo sulle riforme, per porre tutta la politica, tutta l’attività parlamentare, già palesemente ingolfata, al servizio dei suoi personali casi e interessi. Anche a colpi di decreto. La nostra Costituzione, per ora, dice: «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Fino a quando?

Pubblicato il: 03.07.08
Modificato il: 03.07.08 alle ore 8.31   
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 01, 2008, 12:09:54 pm »

Editoriali

I CONTRASTI CON L’ITALIA


In difesa dell'Europa


di Massimo Franco


Un tempo si diceva che gli italiani erano europeisti ma non europei. Adesso, sembrerebbe che il nostro amore per il Vecchio Continente si stia progressivamente raffreddando; e che le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, alle quali si guardava come fonte di sostegno e perfino di identità, siano diventate distanti e ostili: il sospetto dichiarato del governo è che stiano congiurando contro il Bel Paese berlusconiano. Il risultato è una sorta di braccio di ferro permanente fra Roma e Ue. Si tratti di Parlamento, Commissione o Consiglio d’Europa, che pure non ha legami istituzionali con i primi due e si occupa di diritti umani, lo scontro è garantito.

Da quando il centrodestra è tornato al potere in Italia, sta calando una coltre di diffidenza reciproca alimentata dai primi provvedimenti in materia di immigrazione e di sicurezza. In passato, anche con la coalizione di Romano Prodi, i contrasti si consumavano in prevalenza sui temi economici. Ora si registrano su un piano più delicato e scivoloso perché mettono in discussione il livello di democrazia del nostro Paese. A volte, le critiche riflettono un buon tasso di pregiudizio. Vengono suggerite e gonfiate da alcuni settori della sinistra, che brandiscono l’antiberlusconismo come una bandiera della libertà. Ma liquidare il problema così sarebbe miope. Anche perché le reazioni indignate del governo italiano alla reprimenda del Consiglio d’Europa sul trattamento riservato ai rom si sono indirizzate subito ai «burocrati di Bruxelles». Che si tratti della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Commissione o del Parlamento, evidentemente basta la parola «Europa» a far scattare nella maggioranza una reazione che finisce per risultare pregiudiziale almeno quanto alcune delle critiche rivolte al governo di Roma.

È come se l’Italia fosse convinta di essere diventata una sorta di capro espiatorio continentale. Forse nelle file dell’opposizione qualcuno vede in questo pericoloso avvitamento una prospettiva da incoraggiare: la quarantena italiana sarebbe la conferma del «male» rappresentato dal Cavaliere. E chissà, magari un calcolo simile viene fatto anche in settori della maggioranza: si pensa che fomentare l’ostilità contro l’Europa serva a costruire un’identità conflittuale con un potere sovranazionale ritenuto incombente e impopolare. Ma di tensione in tensione, si perde la dimensione europea dei problemi. Si pratica un’autarchia legislativa che ha come unico referente e giudice il consenso elettorale. Il risultato è che lo status di Paese «sorvegliato speciale» viene alimentato proprio dal modo sbrigativo col quale è rifiutato dal governo italiano. Pochi sembrano consapevoli che uno scontro del genere può delegittimare l’Europa; ma indebolisce soprattutto l’Italia, non riducendo ma dilatando la percezione di una nostra «anomalia». Per questo, conviene ancorarsi all’Ue nonostante le difficoltà vistose; e tentare di ricucire strappi politici e insieme culturali, figli di stereotipi inaccettabili ma anche di scelte discutibili che non si possono difendere solo con l’idea del complotto antiitaliano. Altrimenti, si risponde ad un’immagine falsata dell’Italia con luoghi comuni speculari.

31 luglio 2008


da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 01, 2008, 11:40:45 am »

LA NOTA

Si è consumata ogni prospettiva di intesa

Giustizia, si rafforza l’ipoteca di Di Pietro sulla politica del Pd



L’ipotesi di un accordo in Parlamento sulle intercettazioni, da ieri è ancora più illusoria.
Le telefonate di Romano Prodi pubblicate dal settimanale Panorama hanno rafforzato i settori del centrosinistra più ostili a qualunque intesa col governo. La solidarietà offerta da Silvio Berlusconi all’ex premier dell’Unione è stata considerata dagli avversari troppo tempestiva per non apparire un gesto strumentale: «evidentemente falso», lo ha bollato il segretario del Pd, Walter Veltroni.

L’opposizione tende a vedere nella vicenda soltanto un tranello ordito dal presidente del Consiglio. L’obiettivo berlusconiano sarebbe quello di piegare le resistenze dell’opposizione contro la legge. Che la tesi sia fondata o no, conta relativamente. Pesa di più la risposta scelta in modo piuttosto compatto dal Pd, in piena sintonia con l’alleato Antonio Di Pietro; e favorita dal rifiuto prodiano alla proposta del Cavaliere di approvare «subito» il provvedimento. «Non vorrei », ha detto il Professore, «che l’artificiale creazione di questo caso politico alimentasse il tentativo di dare vita nel tempo più breve possibile a una legge sulle intercettazioni».

Il rischio, a suo avviso, potrebbe essere quello di «sottrarre alla magistratura uno strumento che, in molti casi, si è dimostrato indispensabile...». Traspare un’irritazione profonda, per un ritorno intossicato dai veleni, dopo la sconfitta elettorale ed un’estate di distacco ostentato dal «suo» Pd. Ma il no procura a Prodi il plauso del partito; e soprattutto l’approvazione di Di Pietro. È il leader dell’Italia dei Valori ad apprezzare dalla «Festa democratica » di Firenze il fatto che il fondatore dell’Ulivo non sia «caduto nel trabocchetto della solidarietà di Berlusconi». Ma Di Pietro va oltre. Coglie al volo l’episodio per rafforzare l’ipoteca negativa su qualunque dialogo col governo. Bacchetta il Pd per non avere appoggiato i suoi referendum sulla giustizia.

Evoca i fantasmi della P2 di Licio Gelli, definendo Berlusconi l’esecutore del suo progetto contro la magistratura. Mostrando una fiducia assai limitata nelle capacità negoziali alleate, aggiunge che se l’opposizione trattasse col premier, farebbe come «l’agnello che si siede a tavola col lupo». Sono le premesse di uno scontro che scomunica qualunque confronto con la maggioranza di governo. E può risucchiare il centrosinistra in un bunker antiberlusconiano rassicurante ma anche senza via d’uscita. La difesa dei giudici contro quelli che vengono visti solo come progetti di normalizzazione, finisce per apparire un obiettivo limitato, quasi di ripiego: soprattutto nel momento in cui vicende come Alitalia mostrano la capacità del governo di calamitare pezzi importanti del mondo imprenditoriale.

Il Pd sembra irretito da un centrodestra capace di decisioni magari controverse sul piano economico, ma paganti su quello politico e del consenso. Per Rosy Bindi, «Berlusconi ha conquistato mente, cuore degli italiani, e quindi si deve fare un lavoro culturale di lungo periodo». Ma per il momento non ce n’è traccia. Il centrosinistra tende a ripiegarsi su se stesso, coltivando i pregiudizi più logori contro il premier. Il risultato è di aggravare la subalternità non solo al berlusconismo, ma ad un Di Pietro che incalza e alza la posta: una deriva culturale destinata a trascinare l’opposizione su terreni sempre più impervi e minoritari; e foriera di ulteriori ritardi e di nuove delusioni.

Massimo Franco
30 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 09, 2008, 10:12:12 am »

Crepe di governo


di Massimo Franco


Probabilmente è tutta colpa del « vento del Nord». Ha soffiato troppo forte, alle elezioni del 13 e 14 aprile. Ha gonfiato le bandiere verdi della Lega in un modo così vistoso da mettere in tensione i rapporti fra Silvio Berlusconi ed il partito di Umberto Bossi. La «luna di miele» del premier con l’Italia fa concorrenza a quella che il capo dei lumbard vuole perpetuare con la «sua» Padania. Il risultato è un braccio di ferro a intermittenza, che finisce per trasmettere l’immagine di una coalizione senza avversari esterni, eppure litigiosa; percorsa da nervosismi che si proiettano su tutto il centrodestra.

Non ci sono segnali di rottura, ma di confusione sì. Qualcuno prevede che possano sparire d’incanto entro qualche giorno: quando palazzo Chigi, si dice, licenzierà il provvedimento sul federalismo fiscale che sta a cuore a Bossi ed ai suoi amministratori locali. A quel punto, forse, finiranno le critiche leghiste al ministro berlusconiano dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini, ricambiate duramente. Si chiariranno del tutto i malintesi sul «braccialetto » per i detenuti. E magari la Padania smetterà di evocare un Carroccio costretto a «mettere pace fra i duellanti» Roberto Formigoni, Letizia Moratti e Giulio Tremonti sull’Expo del 2015 a Milano.

Ma nel cuore geografico del potere berlusconiano, lungo l’asse lombardo- veneto che ha rappresentato l’avanguardia anche culturale del primato del centrodestra, gli equilibri stanno cambiando. Anzi, col suo atteggiamento aggressivo la Lega sembra dire che si sono già modificati a proprio favore. Dietro gli scarti di Bossi, dietro un’insoddisfazione ora trattenuta, ora esagerata, si intravede il calcolo di affermare non tanto la propria identità, ma il proprio potere contrattuale; e di vederlo riflesso nelle decisioni del Parlamento. È una sfida formalmente a «Roma», in realtà ad un presidente del Consiglio che dal 1994 si è affermato come una sorta di «leghista nazionale»: alleato e insieme garante di un movimento che aveva bisogno di Berlusconi non solo per prendere voti ma per farli pesare.

La sensazione, però, è che ormai la Lega si senta abbastanza forte e radicata nel suo territorio da rivendicare una visibilità che si legittima da sola. Bossi sembra ritenere di non avere più bisogno di garanti. La sua insistenza sulle «mani libere» ha senz’altro un risvolto tattico: vuole piegare le resistenze alleate. Ma riflette anche un’inquietudine verso il governo, che non si placherà facilmente perché tocca interessi finora convergenti; e oggi, invece, per la prima volta in larvata competizione. Sono significativi i commenti provenienti dal versante berlusconiano, che pongono il problema del «partito- guida» del centrodestra nel Nord del Paese. Senza volerlo, offrono una traccia che permette di risalire ai motivi veri del contrasto: anche se non è detto che l’elettorato li riconosca come tali; e soprattutto che li apprezzi.

09 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:27:09 am »

COMMENTO

La vittoria del «tanto peggio tanto meglio»



Un presidente del Consiglio che si dichiara «sorpreso». Un capo dell’opposizione che, casualmente, si trova negli Stati Uniti mentre Alitalia affonda.
I dipendenti della compagnia aerea in agonia che plaudono alla notizia della rottura della trattativa; e Cgil e piloti, tetragoni avversari dell’accordo, lesti a scaricare le responsabilità sul governo.

Se si cercava una sequenza in grado di fotografare il difetto di leadership del Paese ed il trionfo del «tanto peggio tanto meglio», quella appena descritta forse è la più calzante. Ma si tratta solo dei contraccolpi immediati, a caldo, di un disastro che sembra tuttora troppo annunciato per essere possibile; e troppo devastante per non far sperare in un qualche rimedio in extremis. Se il fallimento di Alitalia ci sarà davvero, l’«effetto domino» promette di essere più profondo e duraturo. Potrebbe esserlo per Silvio Berlusconi, che ha investito il proprio prestigio sul successo della cordata di imprenditori italiani; ed ha legittimamente alimentato le speranze di un accordo presentato come una sorta di «secondo tempo» virtuoso del decisionismo di palazzo Chigi, dopo l’emergenza dei rifiuti a Napoli.

Adesso che l’intesa sfugge, la sua scommessa gli viene imputata come un azzardo. L’attuale presidente del Consiglio può elencare molte attenuanti: a cominciare da quella che non solo lui ma anche gli altri sindacati additano come irresponsabilità della Cgil e della corporazione dei piloti. Sono loro, si dice, i primi colpevoli del disastro. Lo stupore berlusconiano di ieri pomeriggio, tuttavia, mostra anche un calcolo troppo ottimistico delle probabilità di successo del negoziato. Senza una soluzione di ricambio, o un problematico cambio di strategia, la maggioranza rischia di dare ragione a quella che viene definita «la maledizione di Romano Prodi».

Ai tempi del negoziato controverso e poi abortito con Air France, l’allora premier aveva scolpito: o questo, o il fallimento di Alitalia. Berlusconi ha fatto di tutto per smentirlo; e sembrava esserci riuscito mettendo in piedi un’alleanza di sedici imprenditori pronti a investire sul salvataggio: un risultato insperato. Ma ora che la cordata si è rotta, il dito puntato contro chi ha tirato troppo la corda risolve poco. Lascia intatto il problema dei ventimila dipendenti, senza contare quelli dell’indotto, che rischiano di ritrovarsi presto senza lavoro. E non cancella altre due potenziali conseguenze del «domino», insieme sociali e politiche. Intanto, si profila una frattura sindacale foriera di tensioni crescenti, e frutto di nuovo di leader in balìa delle minoranze.

E prende corpo uno scenario di disoccupazione che proietta una luce sinistra sulla realtà di città come Milano e Roma, ma non solo. L’allarme e gli scambi di accuse risuonati ieri in Campidoglio già lasciano intravedere il dramma di giunte appena elette, chiamate forse a gestire la perdita di migliaia di posti di lavoro. Probabilmente, però, l’«effetto domino» più inquietante è quello che colpisce il sistema ed il Paese nel suo insieme: anche perché regala spazio a chi ha sperato nel fallimento, pronto a costruire il proprio successo sulle macerie.

Massimo Franco
19 settembre 2008

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