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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 167106 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 09, 2009, 06:12:30 pm »

LA NOTA


Il voto locale offre la vera dimensione dei rapporti di forza


Per una manciata di ore, la battuta d’arresto del Pdl ha velato la sconfitta del centrosinistra alle europee. Le attese di un’affermazione clamorosa del governo, alimentate da Silvio Berlusconi, hanno permesso al partito di Dario Franceschini di additare lo scarto fra quelle ambizioni e la realtà. La soglia psicologica del 40 per cento dei voti, mancata ampiamente dal presidente del Consiglio, ha nascosto quella che sotto voce il Pd si era riproposto di raggiungere: fra il 27 ed il 28, comunque ben sotto il 33,2 del 2008. Non solo: il panorama di macerie offerto da gran parte della sinistra europea ha contribuito al sollievo del Pd, deciso ad accreditarsi come uno dei grandi superstiti del 6 e 7 giugno. E da questo punto di vista lo è. Ma il calo dei suoi consensi, non compensato del tutto dal successo dell’Idv di Antonio Di Pietro, sta emergendo nelle sue dimensioni reali. A renderlo vistoso è la geografia politica che lentamente affiora dalle amministrative celebrate insieme alle europee: un quadro a dir poco in chiaroscuro, tale da ridimensionare gli entusiasmi sulla tenuta del progetto del Pd. I primi risultati trasmettono l’immagine di una ragnatela di interessi e nomenklature locali, nella quale non esistono più rendite di posizione: per il fronte berlusconiano, ma soprattutto per i suoi avversari che detenevano da decenni il potere in alcune zone del Paese. Oltre tutto, il centrosinistra partiva da posizioni di forza, che dopo cinque anni appaiono intaccate; ed accentuano la sensazione di uno smottamento progressivo nelle giunte. Alcuni dei feudi governati storicamente dall’Unione prodiana mostrano smagliature.

Il richiamo di quello che la Lega ha definito «laburismo padano» spiega come mai il centrodestra si infiltri in Emilia Romagna e Toscana, conquistando consensi in classi sociali finora monopolio della sinistra. In realtà come l’Umbria, regione di «giunte rosse», il Pdl fa registrare un successo imprevisto. E i dati diffusi ieri dall’«Istituto Carlo Cattaneo» di Bologna offrono uno spaccato impietoso dei nuovi rapporti di forza. Dicono che alle europee il Pd ha perso oltre 2,1 milioni di voti rispetto al 2004 (-21 per cento), e 4,1 milioni nel confronto con le politiche dell’anno scorso. Il partito di Franceschini risponde ricordando che non contano solo i numeri, ma la tentazione berlusconiana di trasformare la consultazione in un referendum su di sé: un’operazione risoltasi in «una musata», secondo l’espressione colorita di Piero Fassino. Si aggiunge che lo stesso Pdl perde circa 3 milioni di voti sulle politiche; e si fa presente che nel 2008 c’erano in lista col Pd anche alcuni esponenti radicali. Ma lo scambio di accuse fra i due maggiori partiti tende ad interpretare con lenti bipolari una situazione dalla quale il bipolarismo esce un po’ indebolito. La vittoria parallela della Lega e dell’Idv rende il problema delle alleanze particolarmente acuto. Bossi è fondamentale per la strategia berlusconiana: tanto più in vista delle regionali del prossimo anno. Il fatto che il ministro Roberto Calderoli dica che i voti leghisti «si pesano e non si contano» anticipa la trattativa per la presidenza di alcune regioni del nord: sebbene riveli l’ammissione del mancato sorpasso sul Pdl in Veneto. Per il Pd, in parallelo, non solo rimane cruciale l’intesa con Di Pietro. Si ripropone anche il rompicapo di un collegamento con l’estrema sinistra. Per tutti, rimane l’incognita del ruolo dell’Udc centrista di Pier Ferdinando Casini, per ora paga di avere aumentato i voti su una linea difficile. Eppure, i due schieramenti non sembrano sul punto di rompersi: al massimo, rifaranno i conti al proprio interno.

Massimo Franco
09 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:51:10 pm »

LA NOTA

Un patto nero su bianco per ufficializzare il duopolio Pdl-Carroccio


Affidare ad una nota di Palazzo Chigi i canoni dell’accordo fra Pdl e Lega è inusuale. Lo è ancora di più il dettaglio di un annuncio fatto a poche ore dalle elezioni europee ed amministrative, e da una cena fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Ma la logica delle parole pronunciate ieri è ferrea. Riflette fedelmente, quasi brutalmente i nuovi rapporti di forza sanciti nel centrodestra dall’esito del voto. Il governo ha tenuto, e la Lega vinto. E il premier ora ritiene «non opportuno» sostenere il referendum del 21 giugno, boicottato dalla Lega perché prefigura il bipartitismo. In cambio, Bossi appoggia i ballottaggi.

È un «do ut des» senza veli. E sembra ufficializzato e solennizzato perché tutti, nella maggioranza, aggiornino la strategia nata dal duopolio Pdl-Lega; e sappiano che va considerata la polizza di assicurazione per la stabilità. Si tratta di un contraccolpo probabilmente inevitabile dopo quanto è avvenuto il 6 ed il 7 giugno. Conferma l’impressione di un patto di potere ricontrattato sullo sfondo del successo leghista e del ridimensionamento del partito del presidente del Consiglio: almeno rispetto alle ambizioni dichiarate; e la conferma di un’alleanza a due.

È consolidata da tempo. Ma ora si rivela più obbligata di prima, visto il peso specifico che il Carroccio ha assunto. Con le percentuali di oggi, anche l’apertura di un dialogo con l’Udc non ha più il segno del passato. Berlusconi cerca l’alleanza con Pier Ferdinando Casini con intenti che Bossi condivide solo in parte. L’intesa con l’Udc dovrebbe garantire un allargamento del centrodestra alle Regionali del 2010; e un raccordo si potrebbe tentare fin dal 21 giugno.

Ma riassorbire quella che al Pdl appare l’anomalia centrista richiede tempo. I toni ruvidi di alcuni berlusconiani hanno provocato la reazione dura di una Udc capace finora di resistere al bipolarismo e di crescere. E comunque, nell’immediato il problema per il presidente del Consiglio è di far digerire un primato a mezzadria con la Lega ad una parte del Pdl. Il riferimento non è soltanto a governatori e sindaci preoccupati di diventare l’agnello sacrificale del patto Berlusconi-Bossi. La vera resistenza a prendere atto delle conseguenze del voto europeo riemerge nel presidente della Camera, Gianfranco Fini. Intanto, l’ex leader di An è un referendario convinto. Ed ha annunciato che andrà alle urne nonostante le indicazioni del premier e le minacce di Bossi. Ma soprattutto, Fini conta sui malumori creati nel Pdl dall’ipoteca leghista sull’agenda del governo: una tendenza destinata ad accentuarsi. La strategia che Bossi accarezza per marcare ulteriormente la diversità fra Nord e Sud può diventare un terreno di scontro naturale con un berlusconismo radicato elettoralmente anche lì. Su questo sfondo, il contrasto sul referendum sarà soltanto il primo di molti che Berlusconi dovrà cercare di mediare e sedare.


Massimo Franco
10 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 23, 2009, 10:15:03 am »

Le radici del Pdl e il peso di Bossi


Il fatto che la Lega gridi alla vittoria per il fallimento storico del referendum elettorale può apparire esagerato: è difficile attribuire al partito di Umberto Bossi il merito o la colpa principali del mancato raggiungimento del quorum. Ma la soddisfazione del Carroccio va analizzata con un occhio ai rapporti di forza nel centrodestra. Il risultato fa lievitare il ruolo leghista nel governo. Accentua un potere già cresciuto con le europee del 6 e 7 giugno. Consegna ai lumbard un ruolo decisivo come alleati del Pdl in vista delle regionali del 2010 e oltre.

Lo scandalismo che aleggia intorno a Silvio Berlusconi e che può scheggiarne l’immagine, presenta Bossi come un baluardo a difesa di Palazzo Chigi. E rende verosimile la tesi secondo la quale i consensi leghisti oggi non solo si contano, ma si pesano. Presentare il non voto come un successo del Carroccio risponde in parte alla realtà; in parte serve a puntellare la «verità politica» di una forza capace di interpretare gli umori del Paese: capacità che gli altri, alleati compresi, avrebbero in misura minore.

Non a caso la Lega ricorda che Bossi è stato il primo avversario della consultazione; e demolisce la teoria di un referendario come il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che vede nell’astensione da record solo un gesto di sfiducia nella politica. Piuttosto, sembra un segnale contro l’abuso di uno strumento di democrazia diretta in affanno da tempo: forse anche perché la classe politica è meno delegittimata del 1995, quando l’ultimo referendum raggiunse il quorum.

Il vertice dei lumbard l’ha capito. E con determinazione ora chiede che il governo si riunisca per definire il programma dei prossimi 12 mesi. Bossi sa che il suo potere contrattuale nei confronti di Berlusconi si è gonfiato; e che può usarlo per consolidare un profilo centrale, da vero perno, sia per la continuazione dell’alleanza, sia per sviluppi oggi imprevedibili. La conferma è offerta dal modo curioso in cui saluta il risultato delle provinciali aMilano. Per il ministro leghista, si tratta di una sfida che nessuno ha perso; e insieme di una vittoria condivisa con il premier. Il successo di misura compensa risultati che nei ballottaggi sono stati meno clamorosi del previsto. Il centrosinistra mantiene i suoi baluardi tradizionali; ma il Pdl conquista posizioni radicandosi nel territorio. E la scelta dell’Udc di Pier Ferdinando Casini, alleato ora col Pdl ora col Pd, è stata premiata dagli elettori, nonostante attacchi feroci. Merito di coerenza o di abilità manovriera, l’Udc dimostra una capacità di sopravvivenza, nella morsa del bipolarismo, sulla quale pochi scommettevano.

Massimo Franco
23 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Giugno 25, 2009, 11:12:11 am »

LA NOTA

Alleanze rimescolate ma con il rischio del regolamento di conti


Il rischio palpabile è quello di osservare i candidati alla segreteria del Pd come controfigure dei leader fuori gioco: parafulmini dei loro odii reciproci ed irriducibili. Il modo in cui Dario Franceschini ha deciso di rifarsi avanti è stato visto dagli avversari come un gesto «veltroniano». Si sono insospettiti per la sua volontà dichiarata di non «riconsegnare il partito a quelli che c’erano prima di me, molto prima di me». Allusione non a Walter Veltroni, dimessosi pochi mesi fa, ma probabilmente a Massimo D’Alema. E la reazione stizzita dei sostenitori di Pierluigi Bersani ha evocato proprio l’irritazione dell’ex ministro degli Esteri di Romano Prodi.

In realtà, nonostante la riunione dei suoi convocata il 2 luglio a Roma, Veltroni sembra meno coinvolto di D’Alema nei giochi congressuali. E la sfida sia di Franceschini, ufficializzata ieri, sia di Bersani è sostenuta da schieramenti interni che non riflettono la divisione fra ex ds ed ex Margherita; né le alleanze e le cordate del passato. È una novità da registrare come un fatto positivo. Dimostra che in teoria dovrebbero essere più difficili accordi cementati dall’ambiguità; e condannati a saltare non appena le cose vanno male, o il segretario di turno prova a liberarsi dall’ipoteca dei capicorrente. La parabola veltroniana è rivelatrice.

Le stesse primarie, si ammette adesso, sono state plasmate e pilotate seguendo uno schema unanimistico e reticente: tanto che non appena il leader si è appellato a quei consensi per puntellarsi internamente, è stato travolto. Si trattava infatti di una mobilitazione in buona misura guidata dall’alto. Sarà interessante vedere se quel meccanismo reggerà o verrà archiviato. Franceschini ha il vantaggio di riemergere da un risultato elettorale europeo molto negativo, ma paradossalmente meno disastroso delle attese: anche se si ricandida dopo avere detto di essere a tempo.

Ma il suo problema è un altro. L’idea di un Pd teso a non ricontrattare i cartelli elettorali che hanno portato alla vittoria dimezzata del 2006 e poi alla caduta di Prodi nel 2008 e alla sconfitta, lacera il partito. E infatti Bersani sembra puntare alla riedizione di un centrosinistra che guarda in parallelo alle frange comuniste e all’Udc di Pier Ferdinando Casini. L’alleanza somiglia ad un aggiornamento dell’Unione, sperimentata con qualche successo alle ultime Amministrative; ed appoggiata a distanza dallo stesso Prodi. Ma una disponibilità di Casini a schierarsi col Pd è tutta da vedere: tanto più in una fase di evoluzione dei rapporti nel centrodestra.

Rimane poi un limite comune ai due candidati alla segreteria. Non riguarda tanto le persone, quanto le filiere che le sostengono. Sia dietro Franceschini, sia dietro Bersani si intravedono profili contraddittori. La sensazione è che dal punto di vista del programma e della concezione del partito, qualcuno si sarebbe indovinato sul fronte opposto rispetto a quello in cui è. Può darsi sia la conferma di un rimescolamento virtuoso, o di un mutamento di opinioni. Tuttavia, non si può scansare il dubbio di un congresso ridotto a regolamento di conti. Sarebbe un’occasione perduta, per il Pd; ed un messaggio di tregua involontaria, per il governo.

Massimo Franco
25 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Luglio 09, 2009, 12:15:23 pm »

LA NOTA


E Barack dissolve il fantasma dell’assedio

Il colloquio sembrava destinato ad avere un’importanza laterale sul palcoscenico del G8. Invece, la visita di cortesia di Obama a Napolitano è diventata uno snodo decisivo del vertice. Il riconoscimento non rituale, perfino caloroso verso il capo dello Stato da parte del presidente statunitense si è proiettato sullo stesso governo. E le parole di amicizia e di stima reciproca hanno permesso a Silvio Berlusconi di ricevere i suoi ospiti preceduto dai complimenti di Obama sulla forte leadership italiana: un aiuto prezioso per ridimensionare le polemiche della stampa britannica e americana, soprattutto; e per esorcizzare i fantasmi di un accerchiamento internazionale.

E pensare che l’incontro non era neppure dovuto. In teoria, i tempi stretti e gli spostamenti all’Aquila avrebbero consentito di saltare il faccia a faccia senza imbarazzi reciproci. Ma averlo voluto sembra essersi rivelato una scelta felice per entrambi. I due presidenti sono riemersi dai quarantacinque minuti insieme con dichiarazioni stringate ma assai poco formali. E la sottolineatura della «straordinaria reputazione» di cui, ha detto Obama, il capo dello Stato gode presso il popolo italiano è stata rafforzata da espressioni più lusinghiere. Napolitano è «un grande leader e rappresenta al meglio il vostro Paese»; e non solo per il suo profilo politico ma per la sua «integrità e finezza».

In una fase in cui gli alleati si mostrano avari di riconoscimenti all’Italia, le parole sono apparse ancora più sentite. E il richiamo all’integrità del capo dello Stato ha provocato un’eco particolare. Ma l’attestato al governo Berlusconi per il modo in cui ha preparato il G8 all’Aquila, è servito a dissolvere l’imbarazzo creatosi nelle ultime ore: un nervosismo alimentato dalle voci di una Casa Bianca spazientita per una presunta confusione nell’organizzazione dei lavori; e pronta a prenderne le redini. Per paradosso, le critiche liquidatorie arrivate da oltre Atlantico hanno finito per rendere vistoso e quasi obbligato lo smarcamento di Obama. È possibile che nei suoi giudizi, ribaditi all’Aquila da altri capi di Stato e di governo, abbiano pesato anche i doveri diplomatici nei confronti del Paese ospitante; e la gratitudine per gli impegni che Berlusconi ha assunto nella sua visita recente a Washington sull’Afghanistan e sul trasferimento in Italia di alcuni detenuti per terrorismo nel carcere Usa di Guantanamo, a Cuba.

L’effetto delle dichiarazioni congiunte al Quirinale ha permesso comunque a palazzo Chigi di rintuzzare le accuse piovute sul governo; e di puntare il dito contro quelli che sono stati definiti «guastatori mediatici». È il segno di un sollievo, dopo una vigilia vissuta in modo a dir poco teso. Ma l’insistenza nella polemica con alcuni quotidiani dice anche che il capitolo non è chiuso.

La giornata di ieri è stata utile per riequilibrare un’immagine dell’Italia sbilanciata in modo negativo ed esagerato; e le prime intese sull’economia e il clima mettono fra parentesi l’impressione diffusa di un G8 prigioniero di limiti di rappresentatività. Le incognite, tuttavia, rimangono; e così i rischi che le vicende private del premier italiano si riaffaccino, a prescindere dall’andamento dei lavori all’Aquila. È una prospettiva che palazzo Chigi e il Quirinale vogliono contrastare: Berlusconi come capo di un governo che rivendica i progressi fatti dopo il terremoto; e Napolitano offrendo il proprio ruolo di garante, e se necessario quasi di «supplente»

Massimo Franco
09 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 11, 2009, 04:08:48 pm »

LA NOTA

Ritornano gli insulti fra gli schieramenti

La tregua in pericolo

Il premier parte all’attacco anticipando l’offensiva di Pd e Idv


E’riemerso più che indenne da un G8 che poteva destabilizzarlo. Per paradosso, lo conferma l’appello di Antonio Di Pietro alla stampa estera perché tenga i riflettori accesi su Silvio Berlusconi: come se sapesse che l’odiato avversario è riuscito a sottrarsi al tracollo. Sul piano internazionale, il più esposto, il presidente del Consiglio ha in qualche modo riequilibrato la propria immagine appannata dalle frequentazioni femminili.

Ieri ha negato di avere goduto di una tregua: quella chiesta a stampa e opposizione, e di fatto ottenuta dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano: una reazione di orgoglio e di autosufficienza forse eccessiva, da parte del Cavaliere. Berlusconi probabilmente è consapevole della copertura preziosa che gli ha offerto il Quirinale, nell’interesse del Paese.

Ma si sente, e sa di essere meno debole, dopo il summit dell’Aquila; legittimato dal successo dell’organizzazione, dai risultati conseguiti e dai rapporti instaurati con alcuni dei leader, a cominciare da Barack Obama. E’ arrivato a dichiarare con una certa disinvoltura in conferenza stampa di avere discusso col presidente degli Stati uniti anche delle rispettive vite private.

Eppure, Berlusconi sembra aspettarsi una ripresa dell’offensiva che tende e può logorarlo; e si prepara a combatterla, protetto dalla corazza dei riconoscimenti all’Italia e al governo, arrivati nelle ultime quarantotto ore. Il centrosinistra ha già avvertito che da oggi dirà chiaramente che cosa pensa del premier e del G8 appena finito. Ma Berlusconi sta già anticipando l’offensiva. Gioca d’attacco mettendo nello stesso mazzo stampa estera e nemici interni. Senza concedere nulla.

Sostiene che gli avversari non sono interlocutori; che il loro modo di criticarlo in alcuni casi va ben oltre. A sentire il premier, le polemiche potranno finire solo «se cambierà l’opposizione». E’ la conferma che sta per ricominciare una fase di tensione e di veleni: accentuata dalla competizione congressuale nel Pd e dalla concorrenza che gli fa Di Pietro. La pagina acquistata sull’International Herald Tribune per gridare alla dittatura incipiente è un assaggio di quello che sta arrivando.

Il tentativo è quello di tenere aperto un fronte internazionale. Franceschini teme un premier di nuovo in guerra con i giornali, oltre che con il centrosinistra; e destinato ad entrare in rotta di collisione anche con una parte delle istituzioni, e non solo italiane. E’ vistosa la distanza fra la lettura encomiastica che il Pdl ma anche la Lega fanno del G8 e del ruolo berlusconiano; e le polemiche dell’Idv contro un premier «venditore di fumo». La tregua non è solo finita, ma quasi dimenticata. E rispunta l’incognita non solo di nuove tensioni, ma di altre ondate di fango.

Massimo Franco
11 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #51 inserito:: Luglio 13, 2009, 09:24:47 am »

I DESTINATARI DEL MESSAGGIO DEL COLLE

La pedagogia della normalità


Proiettare «lo spirito dell'Aquila» sul Paese significa tentare di cancellare l'eccezionalità della tregua interna siglata tacitamente per il G8. Quei pochi giorni di astensione dalla dose di veleni reciproci hanno prodotto un successo che Giorgio Napolitano chiede di non considerare una parentesi. E non perché il principale regista sia stato lui, ma perché in quel limbo sono stati sconfitti molti fantasmi. E alla fine ha vinto l'Italia: su se stessa, in primo luogo. E' questa prevalenza, seppure congiunturale, dell'interesse comune che ieri sulle colonne del Corriere ha fatto chiedere al presidente della Repubblica un approccio più civile. Non una pace fra gli schieramenti, che sarebbe impossibile ed apparirebbe sospetta. Il Quirinale pensa a qualcosa di meno, perché sa che rappresenterebbe comunque un di più rispetto al passato: la trasformazione della tregua da sacrificio «una tantum» in opportunità. Quella che Napolitano addita è una sorta di pedagogia della normalità come esercizio e sforzo quotidiani. Si tratta di una proposta insidiosa, per chi ha sognato la spallata contro il governo, magari sulle macerie del summit abruzzese.

E soprattutto per quanti, nell'opposizione, ritengono che il crollo di Silvio Berlusconi sia una prospettiva non solo da auspicare ma da provocare con ogni mezzo: anche dopo essersi dovuti rendere conto che l'Italia rimane nel G8, ed è uscita puntellata nel suo sistema di alleanze; e nonostante il pericolo di un vuoto di potere in caso di crisi.
Il «no» arrivato da Antonio Di Pietro e dall'estrema sinistra con una puntualità fin troppo prevedibile, conferma la fretta di bloccare l'operazione sul nascere; di impedire che avanzi e faccia proseliti nel centrosinistra, primo destinatario di un'offerta a ben guardare non di resa ma di salvezza. Respingere una pacificazione mentale, prima che politica, mira a condizionare i giochi congressuali di un Pd che plaude a Napolitano ma è guardingo; ed a far capire che chiunque dirà sì al capo dello Stato si ritroverà nel mirino di Di Pietro. Su questo sfondo, diventa chiaro l'obiettivo di chi vuole archiviare rapidamente lo «spirito dell'Aquila». Formalmente, rimane Berlusconi. In realtà è Napolitano.

È lui, infatti, il promotore di una strategia che toglierebbe capacità di attrazione a chi sembra perseguire una politica che porta allo sfascio; e con il suo radicalismo legittima le reazioni più sbrigative del centrodestra, eludendo gli appelli autorevoli a tradurre il consenso in riforme. Per questo, nel «no» di Di Pietro si intravede l'altolà al Pd; ma anche un ammiccamento a chi nel governo preferisce il muro contro muro, ed un centrosinistra confinato in un recinto estremista e minoritario. Ma sono atteggiamenti simmetrici nella loro miopia, che Napolitano invita implicitamente a sconfiggere: soprattutto perché perpetuano conflitti ed incognite artificiosi quanto frustranti per il Paese.

di Massimo Franco
13 luglio 2009

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« Risposta #52 inserito:: Luglio 14, 2009, 11:31:24 pm »

LA NOTA

Una provocazione che smaschera disagi e tensioni

Un sintomo dell’ostilità a Di Pietro e delle perplessità sulle primarie


L’aspetto provocatorio, ed anche quello grottesco, sono fuori discussione. Rappresentano anche il lato più vistoso della candidatura del comico- predicatore Beppe Grillo alla segreteria del Pd. Eppure, per paradosso, l’episodio finisce per legittimare il partito guidato oggi da Dario Franceschini come lo snodo strategico di qualunque opposizione. Grillo, sostenitore e sodale di Antonio Di Pietro, che lo ha subito appoggiato, non si è neppure sognato di correre per la leadership dell’Idv. Il suo tentativo è quello di creare nel Pd una sponda dipietrista che soddisfi l’antiberlusconismo «di pancia» della sinistra; e diffonda il contagio di un’opposizione tanto radicale quanto, finora, minoritaria.

Nonostante le critiche, alcune giustificate, ad un partito disorientato e diviso, sarà la nuova leadership del Pd a dettare l’agenda del centrosinistra e le sue alleanze.

Per questo, dietro l’autocandidatura provocatoria di Grillo si intravedono questa oscura consapevolezza, ed i timori di un’archiviazione progressiva dell’alleanza con l’Idv. L’imbarazzo ed il nervosismo dei vertici democratici sono speculari. Evidenziano la contraddizione di primarie gestite finora in base ad accordi oligarchici; fatte su misura prima per lanciare la candidatura a palazzo Chigi di Romano Prodi, poi di Walter Veltroni. E infatti, lo schema va in crisi quando si tratta di eleggere «solo» un segretario.

È probabile che alla fine l’adesione di Grillo al Pd venga respinta in base ad obiezioni tecniche, usate per puntellare resistenze politiche. Si insinua il sospetto che il comico sia un «ca vallo di Troia» dell’alleato-coltello Di Pietro. Di nuovo, si tratta di fantasmi che fanno paura non in sé, ma per le condizioni di debolezza del Pd, per le sue incertezze strategiche. Il problema non è dunque l’atteggiamento storicamente ostile di un giullare incattivito contro la forza che vorrebbe guidare. A far saltare i nervi al Pd è un’iniziativa che scopre la difficoltà di pilotare elezioni primarie in passato sempre addomesticate, nel momento in cui evocano uno scontro interno vero.

La sensazione è che il «no» nasca dalla consapevolezza di una situazione senza rete; e segnali la paura di incursioni ed inquinamenti dall’esterno. Si tratta di un incubo di cui Grillo è soltanto la caricatura. Non a caso Filippo Penati, coordinatore della candidatura di Pier Luigi Bersani, spiega quanto sta accadendo come il risultato di «regole contraddittorie e confuse»: sebbene non arrivi ad ammettere che finora le primarie sono state pilotate dall’alto per benedire col voto del «popolo del Pd» i pretendenti del centrosinistra a palazzo Chigi. Ma l’obiezione di Penati fa capire che il congresso rimetterà in discussione anche la procedura di investitura del leader.

Per questo il «no» risulta tutt’altro che unanime. Rivela non diversi gradi di idiosincrasia verso un personaggio detestato da gran parte del corpo del Pd. Semmai, segnala ed anticipa una concezione diversa del partito. E misura la determinazione a respingere il richiamo del dipietrismo: anche se nel 2008, ed anche alle ultime Amministrative, l’Idv è stato l’unico alleato ufficiale del Pd. Dire «no» a Grillo e continuare a dire «sì» a Di Pietro sarà un equilibrismo difficile: significherà tirarsi addosso le critiche di entrambi. A meno che non maturi un’altra strategia, in grado di ridimensionare e riassorbire fenomeni che sono solo sintomi chiassosi ed estremi del malessere del Pd.

Massimo Franco
14 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:44:05 am »

Le ragioni del Colle


La promulgazione delle norme sulla sicurezza era abbastanza scontata; un po’ meno la lunga lettera spedita dal Quirinale al governo e ai presidenti delle Camere con una serie di obiezioni di fondo. Le «perplessità e preoccupazioni» espresse da Giorgio Napolitano danno voce alle critiche dell’opposizione, e non solo. Ma il capo dello Stato non vuole bloccare un disegno di legge che prevede anche un indurimento del carcere per i mafiosi; e contrasta le loro infiltrazioni nelle gare d’appalto.

L’obiettivo è piuttosto quello di mediare fra la volontà «ampiamente condivisa» della maggioranza parlamentare; e l’esigenza di impedire distorsioni e pasticci in nome della legge. D’altronde, per settimane si è discusso con asprezza sull’opportunità di definire l’immigrazione clandestina come reato; e sull’istituzione di «ronde» chiamate di fatto ad un compito di supplenza rispetto alle forze dell’ordine: provvedimenti invocati da gran parte dell’opinione pubblica, e voluti fortemente dalla Lega per il loro significato anche simbolico. Ma il modo sbrigativo con il quale sono stati perseguiti ha impedito di valutare fino in fondo gli effetti paradossali che possono avere.

Il risultato sono «norme fra loro eterogenee» e «di dubbia coerenza»: un modo garbato ma netto per far capire che, una volta applicate, potrebbero provocare una gran confusione. L’analisi puntigliosa di Napolitano non riguarda tanto i profili costituzionali, ma gli effetti pratici della legge. Il presidente della Repubblica vede in alcune disposizioni un arretramento nel contrasto all’immigrazione clandestina: contraddizioni che potrebbero peggiorare il problema, invece di risolverlo. Sono indicativi il sollievo ed il rispetto con i quali il governo ha accolto il sì del Quirinale ed accettato i suoi rilievi. Palazzo Chigi fa sapere di essere soddisfatto della promulgazione; e che terrà conto delle «notazioni e dei suggerimenti» del capo dello Stato.

Si indovina la disponibilità a correggere una legge che Napolitano considera difficile anche solo da interpretare. Nelle stesse file del Pdl gli uomini vicini al presidente della Camera, Gianfranco Fini, annunciano di condividere da tempo le obiezioni del Colle. Fra l’altro, su questo continua il braccio di ferro fra alcune istituzioni europee e delle Nazioni unite, ed il governo italiano. E, seppure in modo tormentato, la Chiesa cattolica ha tentato di smarcarsi dalla legislazione sugli immigrati clandestini e le «ronde». La lettera rappresenta un richiamo esplicito e duro a riflettere sui suoi «effetti imprevedibili». Solo Antonio Di Pietro la considera una dimostrazione di «titubanza». Il leader dell’Idv sostiene che Napolitano non avrebbe dovuto firmare la legge, dal momento che la critica: quasi non capisse che i rilievi possono essere radicali proprio perché preceduti da un «sì».

Di Pietro vuole «il tanto peggio tanto meglio», lo bacchetta il Pd per attacchi ritenuti stucchevoli nella loro ripetitività. Si ostina a trasmettere l’immagine di un capo dello Stato subalterno al governo anche quando, come in questo caso, gli rivolge rilievi severi: al punto da far dire a qualcuno del Pdl che ha esagerato. Il ministro della Giustizia, Angelo Alfano, però, non esclude modifiche: benché tutti sappiano che le decisioni della maggioranza dipenderanno soprattutto dalla volontà della Lega.

Massimo Franco
16 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #54 inserito:: Luglio 24, 2009, 11:19:16 pm »

Il premier torni a fare il premier

I rumori di fondo ri­mangono. Ma appaio­no un po’ indeboliti dall’assuefazione alla vita privata assai poco san­ta del presidente del Consi­glio; e soprattutto bilancia­ti e sovrastati da problemi politici ed economici me­no vistosi e più seri per il futuro del governo. Per Sil­vio Berlusconi le tensioni possono venire da lì. Si comprende la sua tesi se­condo la quale il resto gli scivola addosso come ac­qua. La crisi, però, promet­te di rimanergli attaccata e di logorarlo, se non la af­fronta con dedizione anco­ra maggiore.

Finora, il premier ha da­to l’impressione di occu­parsene con uno sguardo distratto dall’esigenza di difendersi sul piano perso­nale e a livello internazio­nale. Ma può diventare un’ubiquità impossibile. L’opinione pubblica si aspetta una concentrazio­ne sulle emergenze vere e un impegno costante, pa­ziente, fattivo: una presen­za anche fisica del pre­mier che privilegi simboli­camente più palazzo Chigi e meno palazzo Grazioli, a Roma; e più L’Aquila e le zone terremotate e meno le ville da sogno e da gos­sip in Sardegna. È probabi­le che Berlusconi ritenga di fare già il massimo.

Il richiamo reiterato a quelli che chiama i «mira­coli » del governo riflette un’autopercezione quasi religiosa della propria lea­dership .

Il controllo sulla maggioranza, tuttavia, è intermittente. Un centro­destra tagliato su misura per lui, tende a smagliarsi e ad entrare in sofferenza appena Berlusconi ha la te­sta altrove o comunque non è presente. Le frizioni fra governo e presidenza della Camera sui decreti d’urgenza e sulla fiducia, il conflitto fra palazzo Chi­gi e spinte localiste, e il nervosismo fra ministri sono indizi di una pulsio­ne centrifuga.

Si tratta di fenomeni cir­coscritti quando prevalgo­no le capacità berlusconia­ne di amalgamare interes­si contrastanti; sull’orlo dello strappo politico, in­vece, se vengono lasciati lievitare senza mediazio­ne. Il risultato è un senso di precarietà attribuibile per intero alla maggioran­za; e giustificato ma non compensato dalla debolez­za che l’opposizione dimo­stra in questa fase. L’assen­za di alternative provoca una sicurezza a doppio ta­glio. Accentua l’illusione di poter procedere senza veri pericoli di caduta. E trascura il rischio del logo­ramento, perfino più insi­dioso.

Forse, archiviare con nettezza una stagione e iniziarne un’altra con me­no miracoli e distrazioni, e maggiore assiduità nel lavoro governativo, non sarebbe male. Può darsi non basti a invertire una parabola discendente che gli avversari sembrano da­re per inevitabile, e alcuni alleati di Berlusconi intra­vedono e temono. Servi­rebbe però a rassicurare il Paese sulla volontà di fare il possibile per aggredire la crisi economica e argi­narne i probabili contrac­colpi autunnali: magari co­minciando proprio con un «piccolo summit» del governo in Abruzzo, luo­go- simbolo delle promes­se da mantenere e da non deludere.


Massimo Franco
24 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #55 inserito:: Luglio 29, 2009, 05:11:52 pm »

IL COMMENTO

Il Pdl e l'inizio della deriva localista

Convergenza oggettiva fra le pulsioni localiste di pezzi di Nord e di Sud per regolare i conti con Roma



Probabilmente non siamo alla vigilia della crisi del centrodestra. Ma certo sta entrando in tensione «un» centrodestra: quello che riusciva a tenere insieme tutto. In apparenza sembra la metafora della coperta troppo corta, o di un’Italia troppo lunga per accontentare ogni sua porzione. Ma gli interessi sono sempre stati contrastanti.

La vera novità è che il governo di Silvio Berlusconi non si mostra più in grado di conciliarli come ha fatto in passato. L’ipoteca della Lega nord sulla maggioranza sta assumendo un peso schiacciante. L’ipotesi di un ritiro italiano dall’Afghanistan, la polemica contro il Pd, gli esami di dialetto per gli insegnanti sono pezzi della stessa strategia. Anzi, suonano come anticipi della campagna elettorale per le regionali del 2010. Si tratta di un braccio di ferro a tavolino con gli alleati del Pdl, prima che col centrosinistra. Ed ha come trofeo le presidenze di Veneto, o Lombardia, o di entrambe.

Il partito di Umberto Bossi osserva con freddezza le difficoltà berlusconiane; e ne trae le conseguenze. La sua spregiudicatezza è simmetrica a quella dei teorici del «partito del Sud», che hanno costretto palazzo Chigi a scendere a patti; e additato polemicamente l’«asse del Nord» fra Lega e ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il risultato, per il momento, sono la paralisi decisionale ed un’immagine deprimente della maggioranza.

In parte, probabilmente, è una spia della crisi di leadership di Berlusconi, della quale le vicende private sono il sintomo più che la causa. È bastato che il premier garantisse soldi alla Sicilia, perché il Carroccio riaprisse quasi di rimbalzo una serie di fronti conflittuali «padani»; ed il premier non ha saputo fare argine. Ma in questa difficoltà personale si intravedono implicazioni più di fondo: un cambio di fase, e la conferma che la vera insidia per la maggioranza viene dalla crisi economica. Nel momento in cui gli spazi di mediazione ed i finanziamenti si inaridiscono, rischia di scheggiarsi il blocco sociale che ha rispedito Berlusconi a palazzo Chigi nel 2008. È come se di colpo fosse saltato l’armistizio nazionale stipulato appena un anno fa tra leghismo nordista ed autonomismo siciliano all’ombra del Cavaliere. Al suo posto rimangono le rivendicazioni corporative e territoriali; e di riflesso una difficoltà crescente a legiferare. Si indovina una sorta di «si salvi chi può» che in realtà promette solo di mandare un po’ più a fondo il Paese, e soprattutto le sue aree più deboli. E in questo scenario inquietante, la Lega è decisa a far valere il suo potere contrattuale. Non vuole perdere il controllo dell’agenda governativa. Ed è intenzionata a monetizzare politicamente un ruolo crescente, consacrato dal voto europeo di giugno.

Le conseguenze sono paradossali e assai poco incoraggianti. Un’Italia che ritiene, magari con qualche ragione, di potere affrontare la crisi meglio di altri Paesi, mostra il volto della precarietà: nonostante i numeri parlamentari mettano in teoria la coalizione al riparo da qualunque pericolo. Ma, paradosso nel paradosso, un modello di centrodestra entra in crisi anche perché non ha avversari in grado di proporsi come alternativa: non per ora, almeno. Così, riemergono gli istinti di una Lega «di lotta e di governo», come è stato detto; e simmetricamente di una Sicilia conquistata e dominata dal Pdl, ma pronta ad andare all’opposizione di palazzo Chigi per avere più soldi. C’è da chiedersi chi possa fermare questo inizio di deriva, e come. Per ora, l’impressione è che prevalgano quelli che la vogliono non bloccare ma sfruttare per i propri calcoli di potere. Si indovina una convergenza oggettiva fra le pulsioni localiste, quasi isolazioniste di pezzi di nord e di sud per regolare i conti con «Roma»; per svuotarne stavolta dall’interno la legittimità di luogo del governo e dell’unità nazionale, per quanto contestati. Si tratta di una manovra in incubazione, della quale è bene essere consapevoli

Massimo Franco
29 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #56 inserito:: Agosto 28, 2009, 11:19:31 am »

L'ANALISI

Fini e la scelta di un percorso ai margini del Pdl

Le reazioni del centrodestra alle parole di Fini materializzano la terra bruciata



La schiettezza e l’eterodossia di Gianfranco Fini lo stanno facendo diventare un’icona davvero trasversale. Gli applausi del centrosinistra al presidente della Camera, durante la festa del Pd a Genova dell’altro ieri, erano sinceri. E le sue critiche alle rudezze xenofobe e antivaticane di alcuni esponenti della Lega, in teoria potevano ricevere il consenso di gran parte del Pdl. Ma l’ex leader di An sta assumendo un ruolo da battitore così libero da sorprendere tutti e da correre il rischio dell’isolamento.

In bilico fra ruolo istituzionale e convinzioni politiche, Fini sembra disposto ad accettare anche l’eventualità di un progressivo distacco dalla maggioranza che lo ha eletto ai vertici di Montecitorio.

Probabilmente, se le sue durezze si fossero limitate al partito di Umberto Bossi, Fini avrebbe riscosso applausi da gran parte del Pdl. Ma il di più polemico riservato ad una subalternità del governo alla Lega sull’immigrazione, e l’ennesima stoccata al Vaticano hanno dilatato la sensazione di un percorso coraggiosamente solitario. E, almeno agli occhi degli alleati, rischiano di inchiodarlo al cliché del bastian contrario: il potenziale destabilizzatore di una coalizione forte ma anche nervosa, in questa fase. Si tratta di un profilo che finisce per depotenziare l’impatto delle sue critiche. Il modo in cui il centrodestra ha accolto l’ultima esternazione materializza la terra bruciata.

Le parole sarcastiche con le quali ieri i vertici parlamentari del Pdl al Senato hanno respinto la «lezione di laicità» di Fini sono un indizio; e non il solo. La Chiesa si sta affidando ad un gelo che rivela una punta di delusione verso un leader osservato a lungo come interlocutore e referente. E l’incontro fra Silvio Berlusconi ed il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ieri si è concluso con una nota che ribadisce in modo perfino sospetto la solidità dei rapporti con la Lega. Di fatto, rappresenta la smentita di palazzo Chigi alle tesi finiane e tende a sottolinearne la solitudine.

D’altronde, è un braccio di ferro in atto da mesi, e che riflette una percezione diversa della coalizione.

L’idea del presidente della Camera di un centrodestra «plurale» racchiude quella, rivelatasi finora infondata, di un premier avviato ad un rapido logoramento; e dunque incapace di rappresentare tutta la maggioranza. Può darsi che fra qualche anno l’approccio di Fini si riveli quasi profetico. Per il momento, però, può dare l’impressione, vera o sbagliata che sia, di una figura istituzionale a metà strada fra rigore e impazienza. E, se pure è difficile ignorare alcune sue considerazioni sulla politica governativa verso gli immigrati, l’accoglienza entusiastica che riceve nel Pd lo sovraespone; ed aumenta i sospetti della coalizione.

Le conseguenze sono paradossali. Un Fini trasversale e pronto a rivendicare il proprio ruolo non fazioso, rispettoso delle ragioni del Parlamento e degli avversari, viene percepito come uomo di parte sui temi etici; e come avversario se non del governo, dell’asse fra Pdl e Lega che riflette fedelmente i rapporti di forza interni. E si tira addosso gli strali non solo degli alleati, ma di un’Udc pronta ad imputargli una sintonia col Pd ed i radicali sul biotestamento: un’irritazione che dà voce alle preoccupazioni vaticane. Eppure, difficilmente Fini tornerà indietro. Per quanto scomoda e tale da ridurre il suo peso politico, la silhouette che si è scelto sembra piacergli. Non è chiaro dove lo porterà. Per ora, lo colloca ai confini, se non ai margini di un centrodestra col quale si identifica sempre più ad intermittenza.

Massimo Franco
28 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 29, 2009, 10:33:55 pm »

Il colpo a sorpresa di un dialogo difficile


Se esisteva un tentativo di ricucitura con il Vaticano, almeno per ora si è dovuto fermare. La cena in programma ieri sera all’Aquila fra Silvio Berlusconi ed il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, è stata diplomaticamente annullata: dalla Santa Sede, non da Palazzo Chigi.

Il premier ha deciso di farsi rappresenta­re dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. «Per evitare stru­mentalizzazioni », ha precisato il governo con una punta di imbarazzo. L’articolo del Giornale contro il direttore di Avvenire , Di­no Boffo, evoca un braccio di ferro violen­to; cercato strumentalmente e voluto, seb­bene possa trasformarsi in un boomerang per tutti. Nell’immediato, promette di complicare una strategia che puntava a calmare le ac­que dopo le critiche cattoliche alla vita priva­ta di Berlusconi. E indebolisce proprio il fronte che all’interno della Santa Sede cerca di ridimensionare le proteste contro il capo del governo: si tratti di questioni personali o di immigrazione. La decisione presa ieri mattina lo conferma.

Bertone, uno dei soste­nitori più tenaci della politica della mano te­sa, non ha potuto far altro che rinunciare ad un incontro che sembrava preludere alla tre­gua. Insomma, l’impressione è che Berlusco­ni sia al centro di un’operazione con riper­cussioni politiche non ancora prevedibili. La sua dissociazione dal Giornale «per una questione di principio» ha il sapore di uno smarcamento solo d’ufficio; e dunque non sembra destinata a colmare il fossato creatosi nelle ultime ore con i vescovi italia­ni e le gerarchie vaticane. La Cei ha diffuso una nota di totale solidarietà con Boffo, lo­dandone fra l’altro «la prudenza»: come di­re che, secondo l’episcopato, Avvenire non ha mai calcato i toni quando ha affrontato il tema del governo e di Berlusconi. D’altron­de, nelle scorse settimane era stato accusa­to da alcuni lettori proprio del contrario: di usare un’eccessiva cautela con il leader del centrodestra. Ma la vicenda minaccia di ave­re implicazioni più durature. Non c’è soltanto la solidarietà al giornale della Cei di esponenti della stessa Pdl, oltre che di alcuni settori del Pd e dell’Udc. L’epi­sodio finisce involontariamente per accen­tuare l’impressione di un Berlusconi nervo­so; e deciso a reagire agli attacchi con ogni mezzo, al punto da confondere gli avversa­ri. Ma se le incomprensioni con Vaticano e Cei dovessero continuare o addirittura ag­gravarsi, si incrinerebbe una sintonia costru­ita inizialmente fra mille difficoltà; e conso­lidatasi negli anni. Sarebbe un segnale che la rete delle alleanze berlusconiane comin­cia a smagliarsi dentro la maggioranza e nel­le sue ramificazioni esterne.

Le frizioni fra Lega e Vaticano sull’immi­grazione; gli attacchi di Gianfranco Fini al­la Santa Sede sulle questioni bioetiche; le traversie politiche e non del premier: sono altrettanti frammenti di un centrodestra agitato dalla competizione interna; e che su alcuni temi finisce per scontrarsi con la Chiesa cattolica, sotto gli occhi di un’oppo­sizione ridotta per ora al ruolo di spettatri­ce. È una situazione confusa ed in bilico, che vede una Santa Sede indecisa fra l’ab­braccio e la denuncia; e mostra più di una discrepanza fra l’approccio della Segreteria di Stato, più istituzionale e «governativa», e quello della Cei. L’impressione è che Berlusconi abbia messo nel conto anche questo; e che dun­que, nonostante tutto, i rapporti con il Vati­cano si manterranno su un piano di cordiali­tà e di collaborazione. Basta leggere le paro­le con le quali l’Osservatore Romano difen­de l’incontro, poi saltato, fra il premier e Ber­tone; e rifiuta le «polemiche contingenti». La presenza di Gianni Letta ieri sera all’Aqui­la rappresenta, in sé, un segnale distensivo. Ma il Cavaliere si illude, se pensa di rinsalda­re l’intesa imponendo un appoggio incondi­zionato e silenzioso. Perfino se volesse, l’epi­scopato non potrebbe farlo: perderebbe pez­zi del proprio mondo. E probabilmente li perderebbe lo stesso Berlusconi.

Massimo Franco
29 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 30, 2009, 10:32:19 pm »

LA NOTA

Il Carroccio si inserisce nel gelo provocato dalla crisi con i vescovi

Rapporti sospesi tra governo e Vaticano

Incognite sul futuro del biotestamento


Si nota un filo di imbarazzo e di preoccupazione, in alcuni settori del centrodestra. Come se nella cerchia berlusconiana almeno qualcuno cominciasse a domandarsi quale sarà il saldo politico dello scontro con la Cei ed il Vaticano. E l’annuncio della visita di Umberto Bossi in Vaticano per «un chiarimento», lascia capire che nel centrodestra si è aperto un vuoto; e che la Lega prova a riempirlo. L’ipotesi che le cose si rimettano a posto da sole sembra remota: basta registrare il commento durissimo rilasciato ieri dal capo dei vescovi. Il direttore di Avvenire , Dino Boffo, ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, è stato vittima di «un attacco disgustoso e molto grave». Eppure non sembrano in vista ripensamenti e correzioni di rotta neppure da parte berlusconiana. Le critiche del mondo cattolico ad alcuni comportamenti privati del premier sono state accolte malamente dal capo del governo; e gli hanno suggerito risposte irate quanto prive di lucidità. Dopo l’annullamento della cena di venerdì all’Aquila con il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, i rapporti sono come sospesi. All’ombra di una vicenda destinata a lasciare un segno livido fra governo e Santa Sede, rimane comunque la consapevolezza di dover riprendere un filo. Il problema è da dove ripartire.

In questi mesi, Cei e Vaticano hanno corretto le tesi strumentali di una parte dell’opposizione, secondo le quali erano appiattiti su Berlusconi. Su immigrazione, sicurezza, questioni etiche, invece, ultimamente hanno espresso un punto di vista critico anche a costo di irritare il centrodestra: sebbene siano stati attenti a non confondersi con un’opposizione che, Udc a parte, sentono estranea. Ma i distinguo sono stati vissuti come uno smarcamento inaccettabile da un governo convinto di avere la Chiesa comunque alleata. I contrasti nel Pdl sul biotestamento in discussione alla Camera fanno intravedere quale potrebbe essere il primo contraccolpo della polemica: l’insabbiamento di una legge nella quale il Vaticano confida. Ma è difficile che l’episcopato scivoli verso l’opposizione: sa di dovere evitare l’abbraccio di un antiberlusconismo mai condiviso: anche perché teme un vuoto di potere che nessuno oggi sarebbe in grado di riempire. Così, per ora sia Berlusconi che la Chiesa appaiono soltanto più soli e distanti fra loro. E la Lega si offre, con generosità interessata, come sponda di un Vaticano col quale si è scontrata appena qualche giorno fa: d’intesa e insieme in concorrenza con un Cavaliere che mai come ora non può dare per scontati i buoni rapporti con i potenti di oltre Tevere.

Massimo Franco
30 agosto 2009
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« Risposta #59 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:02:32 pm »

LA NOTA

Tentativi paralleli di scongiurare i rischi di incrinatura

Santa Sede e Cei serrano le fila e aprono alla Lega

E il premier rilancia il dialogo


La telefonata di Benedetto XVI al presidente della Cei, Angelo Bagnasco, cerca di archiviare qualun­que voce di tensioni fra Segreteria di Stato vatica­na e vescovi italiani. Silvio Berlusconi, invece, nega qualun­que «distanza» fra governo e Santa Sede accreditando un «dia­logo pressoché quotidiano, come sempre». I due atteggiamen­ti evocano le posizioni dalle quali potrebbe partire una ricuci­tura. Con una Chiesa preoccupata di blindare i propri vertici, esorcizzando qualunque divisione; e decisa a respingere le di­missioni offerte dal direttore di Avvenire , Dino Boffo, dopo gli attacchi del Giornale berlusco­niano.

Ma è come se ognuno occu­passe le proprie trincee cercan­do la tregua. La disponibilità va­ticana ad incontrare la Lega è un cauto segnale di disgelo. Il capo della sala stampa, padre Lombar­di, non esclude un colloquio con Bossi e Calderoli. E’ il segno del­la volontà di ridimensionare le polemiche sul Concordato e sul­l’immigrazione. Anche se la poli­tica del governo sui clandestini rimane un tema scivoloso: lo di­mostra l’altolà di Berlusconi alla Commissione Ue dopo le ri­chieste di chiarimento di alcuni portavoce.

La sensazione è che le diplomazie di Stato e Chiesa stiano cercando di riprendere in mano la situazione. Ma c’è la consa­pevolezza che possano filtrare nuovi veleni; e che, anche dopo avere ripreso il dialogo, rimangano i lividi di quella che la Cei considera un tentativo di intimidazione del governo per le cri­tiche di Avvenire alla vita privata del premier. Più che col Vati­cano, a rischio di incrinatura sono infatti i rapporti fra palazzo Chigi e Cei, fino a qualche tempo fa più che buoni: al punto che il direttore del quotidiano cattolico, Dino Boffo, veniva accusato da una parte dei lettori di indulgenza verso Berlusco­ni.

Il presidente del Consiglio sa di dover chiudere il fronte che si è aperto con quel mondo. È uno spezzone di elettorato mo­derato che preoccupa più degli attacchi della sinistra. Le vota­zioni sul biotestamento si profilano come la prima occasione di tregua almeno con i vertici episcopali. La libertà di coscien­za dei deputati del Pdl viene teorizzata anche per neutralizzare un eventuale orientamento antivaticano di Gianfranco Fini, presidente della Camera. Berlusconi vuole riaffermarsi come interlocutore principale, se non esclusivo, agli occhi delle ge­rarchie cattoliche: un altro tassello della sfida nel centrodestra con una Lega a caccia di legittimazione oltre Tevere.

Massimo Franco
02 settembre 2009
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