LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 12:21:16 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2 3 ... 6
  Stampa  
Autore Discussione: GUIDO RUOTOLO -  (Letto 43298 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Agosto 22, 2008, 10:55:13 pm »

22/8/2008 (7:52) - IL RETROSCENA

Le case confiscate?

Restano ai boss
 
Calabria, centinaia tra sindaci e assessori sotto inchiesta


GUIDO RUOTOLO
REGGIO CALABRIA


Che vergogna, la Calabria del riscatto contro la ‘ndrangheta. Che brutto colpo (d’immagine) per lo Stato che fa sul serio. E per la politica (bipartisan) che ha fatto della «confisca dei beni mafiosi» il suo manifesto programmatico.

C’è una informativa del Ros dei carabinieri di Reggio Calabria alla Procura della Repubblica, uno screening serio e documentato sullo stato dell’arte delle confische dei beni e del loro utilizzo. Il bilancio è disarmante: 374 tra sindaci, assessori e funzionari comunali della provincia di Reggio sono stati denunciati per omissione d’atti d’ufficio, aggravata dall’aver favorito la ‘ndrangheta.

Tra i denunciati c’è anche il sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti (An), un magistrato che ha fatto il pm al Tribunale di Palmi, Giuseppe Adornato, un colonnello della Guardia di finanza pensionatosi per passare alla politica, Graziano Melandri, assessore alla polizia urbana di Reggio. E tutto questo perché la stragrande maggioranza degli 803 beni immobili confiscati alle famiglie della ‘ndrangheta, a partire dal 1996, o sono in stato di abbandono o sono ancora nella disponibilità degli ex proprietari.

Dunque, il rapporto del Ros di Reggio: «Si procedeva all’acquisizione, presso l’Agenzia del Demanio di Reggio Calabria, di un elenco dei beni confiscati agli esponenti della criminalità organizzata, ricadenti in questa provincia. Dalla lettura del tabulato si accertava che alla date del 16 maggio del 2006 erano stati confiscati 803 beni immobili, di cui 307 già consegnati dall’Agenzia del Demanio alle competenti amministrazioni comunali».

Bilancio del colonnello Valerio Giardina: «Dopo i primi accertamenti è emerso che parte degli immobili, sebbene siano stati destinati e consegnati alle rispettive amministrazioni comunali nel cui territorio di competenza gli stessi ricadono, sono stati assegnati ad enti e/o associazioni di impegno sociale con notevole ritardo, cioè solo alcuni anni dopo la loro presa in consegna; alcuni, non sono mai stati assegnati ad alcun ente, con iter procedurali avviati e mai conclusi, pertanto inutilizzati; altri ancora sono addirittura risultati in uso e/o nella disponibilità dei soggetti nei cui confronti si è proceduto alla confisca, o dei loro familiari».

Va anche segnalato, per dovere di cronaca, che vi sono soltanto tre comuni in regola. E cioè che hanno utilizzato i beni loro assegnati. Platì, il comune con il più basso reddito procapite in Italia, ha trasformato il palazzotto a tre piani della famiglia Barbaro in una caserma dei carabinieri. Piccolo e non secondario particolare: il comune di Platì, sciolto per mafia, è amministrato da tre commissari prefettizi. A Fiumara, il palazzo di Nino Imerti ospita una scuola ed edifici pubblici. A Maropati, il terreno del boss Michele Audino è gestito oggi dalla cooperativa sociale «Futura».

Tre granelli di sabbia nel deserto. Gli «inadempienti» sono decine di comuni: dal capoluogo a Gioia Tauro, da Africo a Melito Porto Salvo, da Siderno a Palmi, Rosarno, Villa san Giovanni. Prendiamo il caso di Reggio Calabria. E di quel palazzo di cinque piani del «Supremo», il boss Pasquale Condello (di recente arrestato dopo una ventennale latitanza). Quel palazzo fu confiscato definitivamente nel 1997 e consegnato al comune alla fine del 2001. Cinque anni dopo, nel 2006, era ancora «nella piena disponibilità del nucleo familiare di Condello». Dopo i primi interrogatori di funzionari e amministratori reggini, lo stabile a partire dalla fine del 2006 è stato liberato dai suoi inquilini.

Ad Africo Nuovo, i terreni di Giuseppe Morabito dovevano diventare «spazio verde pubblico da attrezzare per la collettività». Sono ancora oggi in stato di abbandono. Ad Ardore su un terreno confiscato alla famiglia Violi e Ciampa doveva sorgere un centro contro la tossicodipendenza, a partire dall’ottobre del 2004. Il comune ha pensato di realizzare un parco giochi. Ma aspetta ancora i fondi regionali per farlo. Su certi terreni della famiglia Piromalli di Gioia Tauro, destinati a un centro per le tossicodipendenze, la ‘ndrangheta coltiva ancora ortaggi e frutta.

Il rapporto del Ros è una mina vagante. Se i sindaci e gli assessori comunali verranno mandati a processo, mezza Calabria dovrà essere commissariata. E la credibilità dello Stato che fa sul serio, dell’Antimafia dei diritti e dei doveri, oltre che della prevenzione e del contrasto, è già bella che defunta.


da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Febbraio 23, 2010, 02:59:10 pm »

23/2/2010 (7:4)  - RETROSCENA
 
Nella "corruzione liquida" spuntano altri magistrati

Della Giovampaola: "Non sono mai stato con una prostituta"

GUIDO RUOTOLO
ROMA

Boatos minacciosi annunciano che la posizione di Achille Toro è molto compromessa. Si è dimesso da procuratore aggiunto, ha rischiato di far scatenare la guerra tra procure (Firenze contro Roma), e adesso deve sperare in un santo perugino. Un altro, visto che già è stato graziato a Perugia, indagato per la fuga di notizie sul caso Unipol-Consorte. Di corruzione deve rispondere adesso, e nei suoi confronti gli indizi sono molto meno vaghi di quelli ipotizzati contro Guido Bertolaso. Anche se nell’interrogatorio di garanzia, Angelo Balducci giura: «Non sapevo di avere i telefoni sotto controllo. Sapevo di una indagine in corso ma non a Firenze, a Roma...».

Achille Toro, anche lui una tessera di un mosaico più grande: il «sistema», chiamatelo «gelatinoso» (il copyright è dei protagonisti). Un sistema che è andato avanti grazie alla corruzione. Gli investigatori e gli inquirenti si divertono a parlare di «corruzione liquida», per dire che in questa inchiesta «alla prestazione non corrisponde immediatamente la controprestazione». Non c’è l’automatismo: in cambio di questo favore avrai questa somma. I protagonisti sono imprenditori, politici, uomini delle istituzioni che governano il mondo degli appalti, magistrati della Corte dei Conti che risolvono i contenziosi e magistrati inquirenti che (secondo le prove raccolte dal Ros dei carabinieri) informano gli indagati che stanno per «piovere» guai a catenelle, in cambio di un assunzione di un figlio. A proposito, secondo i boatos i magistrati amministrativi chiamati in causa non sarebbero soltanto Mario Sancetta e Antonello Colosimo.

Il «sistema» è appunto questo meccanismo perfetto, dove ognuno svolge la sua parte. Sono tutti la stessa cosa. I figli o le mogli sono in società (Balducci&Anemone), chi del centro benessere «Salaria Sport Village» chi della società di produzione cinematografica «Erretifilm». E Balducci nel suo interrogatorio di garanzia tiene a precisare due cose: «Con la famiglia Anemone ci conosciamo da 35 anni. Abbiamo lo stesso commercialista, è lui che gestisce tutto. Guadagno 2,5 milioni di euro all’anno e i lavori a casa di mio figlio li ho pagati io». Come dire: non ho bisogno di essere corrotto.

Da questo punto di vista ha ragione il presidente della Camera, Gianfranco Fini, quando dice che non siamo di fronte a Mani pulite ma a fenomeni di malcostume individuale. O meglio: siamo di fronte a un «sistema» (gelatinoso) che garantisce a chi vi fa parte di goderne i benefici.

«Ma la ciccia dov’è?». E’ la domanda che si sente sollevare spesso nei dibattiti televisivi o nei capannelli assolutori di questi giorni. Insomma, di quale colpa si sono macchiati i Guido Bertolaso, i Denis Verdini e poi via via tutti gli altri (Anemone, Balducci, De Santis e Della Giovampaola). A sfogliare l’elenco delle «utilità» che i corrotti hanno ricevuto dagli imprenditori assatanati di appalti, davvero Mani pulite era tutt’altra cosa. Altro che mazzette e bustarellone: qui siamo soltanto a cellulari, personale di servizio, auto, divani e poltrone, lavori di manutenzione, e poi ancora auto, librerie, prestazioni sessuali, viaggi su aerei a noleggio, pernottamenti in albergo, massaggi, qualche posto di lavoro, lavoretti. Tutto in regola, sostiene Angelo Balducci: «Telefoni, auto, personale? Erano benefit scritti nero su bianco nei capitolati degli appalti diventati poi contratti».

E’ tutta qui la tangentopoli del G8 della Maddalena, del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, dei Campionati mondiali di nuoto? No, che non è tutta qui. Che tenerezza l’interrogatorio di garanzia di Mauro Della Giovampaola, pubblico ufficiale nella struttura G8 La Maddalena: «Non sono mai stato con una donna a pagamento. Sono felicemente sposato». E Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici ricorda: «Fin quando me ne sono occupato io, alla Maddalena tutto si è svolto secondo le regole, successivamente (quando è subentrato De Santis, ndr) non so».

Ma non è certo il processo alla Protezione Civile, l’inchiesta fiorentina che adesso diventa perugina. E’ anche vero che diverse procure della Repubblica riceveranno stralci dell’inchiesta per episodi specifici (per esempio: l’Aquila riceverà gli atti che riguardano gli appalti vinti dal Consorzio Federico II). Ma per quello che è emerso finora, la «ciccia» sarà sviluppata a Perugia.

Il «sistema» (gelatinoso) in realtà è davvero una dimensione ambientale. Lo racconta l’inchiesta del Ros dei carabinieri di Firenze. Ricordate l’imprenditore Francesco Maria Piscicelli? Quello che diceva a Riccardo Fusi della Btp: «Mi dovrai dare un milione e mezzo di euro. Io metto a disposizione un background di 10 anni di buttamento di sangue» presso i vari Balducci e De Santis. Ecco, l’inchiesta di questi giorni nasce così, con il «buttamento di sangue».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 24, 2010, 05:43:07 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Febbraio 24, 2010, 05:42:50 pm »

24/2/2010 (7:1)  - LA MAXI OPERAZIONE DI GDF E ROS - LE INTERCETTAZIONI

L'imprenditore: "Nicò devi obbedire sei il mio schiavo"

Così il faccendiere Mokbel dava ordini al «suo» eletto

GUIDO RUOTOLO
ROMA

Persino Silvio Berlusconi rimase colpito da quell’exploit elettorale, come quando in una corsa di cavalli vince la classica «macchia». Insomma, nessuno lo conosceva, nessuno sapeva la dote di voti che avrebbe portato al Popolo delle libertà, Nicola Di Girolamo.

Anche lui adesso è finito nei guai, per via di quell’associazione di imbroglioni, di riciclatori, di evasori fiscali. E a leggere le carte dell’enciclopedica ordinanza di custodia cautelare sulla «più grande frode tributaria della storia nazionale», Di Girolamo era il fedele burattino di Lucifero-Mokbel, alias Gennaro Mokbel, un losco personaggio da un passato nell’eversione fascista degli Anni Settanta, la mente criminale di questa associazione a delinquere.

Senatore nero
Quello che è ancora più inquietante è che Di Girolamo è stato eletto con gli imbrogli, con l’aiuto determinante della cosca della ’ndrangheta degli Arena di Isola di Capo Rizzuto, che ha falsificato una valanga di schede elettorali. Gli investigatori del Ros sono convinti che l’associazione criminale di Gennaro Mokbel «ha realizzato un salto di qualità» facendo eleggere a Palazzo Madama un suo rappresentante».

Scrive il gip: «L’estrema pericolosità del sodalizio criminale risulta evidente se si considera che esso disponeva di associati che svolgevano funzioni pubbliche, sia all’interno dell’amministrazione civile dello Stato che della polizia giudiziaria e che ha realizzato un salto di qualità giungendo perfino a determinare l’elezione in Parlamento di uno dei promotori dell’associazione».

Hai la candidite!
Offensivo paragonare un senatore della Repubblica eletto in un collegio di Italiani all’Estero a uno schiavo? Intercettazione del 17 aprile del 2008 tra il senatore e Mokbel.
MOKBEL: «Nicò? Io quanno apro a bocca faccio male, capito? Vuoi che parlo io, no parla te».
DI GIROLAMO: «Io ieri ho sbagliato..».
MOKBEL: «Non me ne frega un caz..., a me di quello che dici tu, per me Nicò, puoi diventà pure Presidente della Repubblica, per me sei sempre il portiere mio, cioé nel mio cranio sei sempre il portiere, no nel senso che tu sei uno schiavo mio, per me conti... scusa conti come il portiere».

Annota il gip: «In alcune conversazioni Mokbel rimprovera aspramente il Di Girolamo per le condotte sbagliate da lui tenute in qualche occasione, ricordandogli che non conta nulla, che si sarebbe montato la testa. E altrettanto chiare ed esplicite sono le sue risposte, in cui ammette espressamente che lui è espressione del gruppo ed è pronto a tirarsi fuori se lo chiedono.
MOKBEL: «Se t’è venuta a candidite Nicò e se t’è venuta già a Senatorite è un problema tuo, però sta attento che ultimamente te ne sei uscito 3-4 volte che io so stato zitto... ma oggi m’hai riempito proprio le palle Nicò... capito? Se poi dopo te e metto tutte in fila e cose... abbozzo du volte... tre volte...».

Mokbel si lamenta con il senatore: «Tu ci resti male, grandissima testa di cazzo...de merda, mo te do una cosa in faccia (inc)». E poi aggiunge: «Sono sette mesi che sono murato qua dentro, è calcola che il 70% dei soldi tirati fuori qua non li avete tirati fuori voi, li ho tirati fuori io. Zitto, muto, tiro fuori, tiro fuori, ma che mi vuoi dì?».

Non è che se la passassero male, i riciclatori. Villa lussuosa ad Antibes, in Francia, come base operativa della «struttura transnazionale». Se poi pensiamo ai mezzi di locomozione nella disponibilità del nostro senatore Di Girolamo, non c’è che da rimanere allibiti: una Bmw X5, una Ferrari F430, una Jaguar E, una Audi A8. Ma anche i mezzi nautici non scherzano: due barche, un Ferretti 45 Fly e un Ferretti 550.

Auto, barche e grandi viaggi. Di lavoro, naturalmente. Per pianificare le grandi truffe, gli imbrogli e le movimentazioni. A sentire gli investigatori, più che una immensa «lavanderia», l’organizzazione del nero Mokbel sfruttava una gigantesca «autostrada» dove tir di denari entravano ed uscivano da diversi caselli.

«Casello» Hong Kong
Presentiamo i protagonisti: Marco Toseroni, broker romano, membro effettivo dell’associazione criminale di Mokbel, Mister Lee (non identificato) e Mister T (Takeshi Iwasawa) e un terzo soggetto operante a Singapore, Ram Chandra Randhir. Questi tre stranieri, spiega il gip nella sua ordinanza, «costituiranno il punto di riferimento di Toseroni per la sua attività di dissimulazione e di riciclaggio sul circuito finanziario dell’Estremo Oriente e del Sud-Est Asiatico degli ingenti compensi che il sodalizio aveva ottenuto in seguito all’operazione commerciale fittizia effettuata con le compagnie telefoniche italiane».

E’ il 25 luglio del 2007. Mister Lee chiama Marco Toseroni: «Gli chiede se ha deciso quali saranno - è il riassunto del testo della conversazione intercettata - i soci della costituenda compagnia europea che dovrà operare ad Hong Kong; Marco risponde che l’indomani andrà appositamente a Londra per parlare con il suo cliente, ma comunque la scelta della persona che gestirà la compagnia di Hong Kong verrà fatta alla fine di agosto, perché ora in Italia è periodo di vacanze. Mr. Lee e Marco parlando di Foreign Exchange Market (Forex, mercato delle valute, ndr) con l’asiatico che sottolinea le attuali difficoltà del dollaro statunitense di cui spera che il tasso di cambio, attualmente fissato a 10.765, non perda ulteriore valore. Toseroni spera che nel momento in cui l’interlocutore riceverà l’1.45 (1,45 milioni di euro, ndr) proveniente dai conti da lui gestiti, potrà cambiarlo al migliore tasso».

C’è anche il senatore Nicola Di Girolamo, che all’epoca della telefonata intercettata,era soltanto uno della banda dei riciclatori: «Proseguendo nel dialogo, Marco dice di aver parlato con Mr. N (Nicola Paolo Di Girolamo, ndr) e di avvisare Mr. T che Mrs N (Natalhie Doumesnil, ndr) sarà ad Hong Kong per due settimane in modo da completare tutta l’attività di TT (telegraph trasfert, ndr) aspettando nel contempo il deposito dell’1.45” poiché sarebbe stata l’ultima volta che lei sarebbe andata lì».

Scuola di riciclaggio
La lezione si svolge in viale Parioli 63. Un ufficio. Il maestro è il broker romano Marco Toseroni. Il tema della lezione: tecniche per raggiungere gli obiettivi prefissati nella vendita dei diamanti: «Primo: vendere le società... due non pagare... abbattere ... Iva.. si vanno a pagare le tasse... tre riciclare... soprattutto riciclare quei venti milioni, dieci milioni delle... tredici milioni, quelli che toccano e... qua vanno riciclati quelli... quelli vanno riciclati.. o cinque milioni di euro.. sei milioni di euro si blocca...».

E poi Toseroni aggiunge: «Diciamo sei milioni di conto...e così ricicliamo veramente tutto, per cui abbiamo superato i 15 milioni dati alla lega (inc.)...il federalismo è proprio...Giorgia (la moglie di Mokbel) hanno già capì». «Abbassiamo le tasse, ricicliamo, e c’abbiamo un contenitore....c’è da fare 20 milioni di euro...».

Basta lezioni teoriche. Scrive il gip: «I programmi di investimento dei proventi illeciti del sodalizio, venivano poi sviluppati sul piano societario internazionale da Di Girolamo e da Toseroni che cominciava pertanto ad adoperarsi con i suoi referenti asiatici, nonché per le questioni relative alle pietre preziose con Massimo Massoli.

«Casello» Seychelles
Gennaro Mokbel, siamo nel maggio 2008, è nell’ufficio di viale Parioli 63 con tali «Giovanni e Marco, non meglio indentificati», ai quali - scrive il gip - «spiega le logiche degli spostamenti di denaro dall’Austria alle Seychelles, al fine di rendere ancora più difficoltosa la tracciabilità dei flussi da parte degli organismi inquirenti».
MOKBEL: «Quando gli so arrivati... dall’Austria so partiti... dall’Italia vengono mandati in Austria, dall’Austria sono partiti tutti quanti e so arrivati alle Seychelles, poi è partita l’indagine... qua dall’Italia... li hanno mandati in Austria.. so andati in Austria co... a co a rogatoria...».
MARCO: «In Austria sono stati mandati tramite telematicamente..».
MOKBEL: «Sì, tramite banca... era tutto diplomatico... capito?».
MARCO: «In quanto tempo l’hai fatta questa operazione?».
MOKBEL: «In dodici mesi...».
MARCO: «Manco pochi....trasportà tutta sta cifra...».
MOKBEL: «C’avete rocco il c... con tutti sti milioni.... A che punto sta sto cacacazz con st’indagine?».

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Marzo 20, 2010, 02:50:05 pm »

20/3/2010 (7:14)  - INCHIESTE PUGLIESI

Tangenti a Bari: nella bufera un altro dirigente del Pd

Sandro Frisullo, ex vice presidente della giunta regionale pugliese

L'omissis di Tarantini si riferirebbe a Mazzarano

GUIDO RUOTOLO
INVIATO A BARI

Sarebbe Michele Mazzarano, numero due del Pd pugliese, responsabile dell’organizzazione del partito, candidato a Taranto per le Regionali, il secondo politico a libro paga dell’imprenditore Gianpi Tarantini. «Con riferimento al pagamento di tangenti - aveva detto l’imprenditore da sei mesi ai domiciliari - preciso che gli unici due politici pugliesi ai quali ho corrisposto tangenti sono Frisullo e (omissis)».

Frisullo è finito in carcere, dell’esito degli accertamenti sul secondo politico non trapela ancora nulla. E intanto l’ex vicepresidente della giunta Vendola sta male. Soffre di diabete e i suoi valori sono altissimi. I suoi avvocati Fritz Massa e Michele Laforgia sono andati a trovarlo ieri mattina in carcere (l’interrogatorio di garanzia si terrà lunedì). Frisullo non ha letto le carte, ma aspetta di poter rispondere a tutte le accuse: «Sono amareggiato per la mia famiglia e per il partito. Non ho mai preso una lira da Tarantini, né quelle dazioni di cui parla né gli stipendi mensili. L’unica mia colpa è stata quella di averlo frequentato per due anni. Eravamo amici. E in quanto tale ho accettato i suoi regali, ho condiviso con lui l’appartamento di Bari, l’ho messo in contatto con Vincenzo Valente, amministratore dell’Asl di Lecce, perché Tarantini lamentava un ritardo nei pagamenti dei crediti che vantava. Quello che è successo tra loro, non mi riguarda».

Ha ammesso, Frisullo, gli incontri ravvicinati con le escort offerte da Tarantini. Ma due di loro, interrogate, hanno smentito di aver fatto sesso con l’esponente politico. Sonia, la ragazza dell’incontro nell’albergo milanese, il Principe di Savoia, ammette: «Ho incontrato l’amico di Claudio (fratello di Gianpi, ndr) perché mi è piaciuto. Non ho richiesto né ho percepito alcunché». Poi gli investigatori mostrano alla ragazza una foto di Sandro Frisullo e lei: «No, non è lui l’amico di Claudio».

Vanessa la «francese» è di Boulogne Billancourt e da tre anni lavora a Parigi, come assistente di direzione presso un’agenzia di lavoro interinale. Ammette due incontri con Sandro Frisullo: «Gianpi mi pagò i biglietti aerei per Bari. Nel primo incontro non furono consumati rapporti sessuali ma solo un approccio e scambio di effusioni. La seconda volta chiesi a Tarantini di non lasciarci da soli».

Gianpi. Davvero le sue dichiarazioni lasciano di stucco, fanno riflettere: «Negli ultimi anni, complessivamente, ho svuotato la Tecnohospital per un importo di circa 4 o 5 milioni di euro. In quel periodo ho condotto una vita esagerata, spendendo molti soldi». Tornano così alla ribalta le montagne di coca, alle escort da regalare ad amici, medici, politici, dirigenti di Asl. E il mezzo milione di euro investito nella vacanza in Sardegna, estate 2008, quella che lo portò a Villa Certosa e a stringere un rapporto di amicizia con Silvio Berlusconi. Droga e ragazze come mezzi di corruzione per la scalata nel mondo dei vip e dei soldi facili. Gianpi ha iniziato ai tempi delle giunte regionali di centrodestra, è passato per le forche caudine della giunta Vendola, espugnandola, ed è tornato al centrodestra, stringendo un rapporto con il premier Berlusconi. Le sue rivelazioni, ritenute credibili, hanno portato in carcere Sandro Frisullo. Adesso si aspetta di capire quale sarà la sorte di Michele Mazzarano, il dirigente del Pd che organizzò la famosa cena elettorale al ristorante «La Pignata» con i candidati alle politiche. Passò anche Massimo D’Alema, quella sera alla Pignata.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Marzo 20, 2010, 02:50:59 pm »

20/3/2010 (7:21)  - I VERBALI

"La coca era distribuita all'ora dell'aperitivo"

Mannarini: «Così Gianpi dava le bustarelle»

GUIDO RUOTOLO
BARI

Chissà se l’hanno trovato il tesoro di Gianpi Tarantini, come racconta Alex Mannarini, l’ex collaboratore ingaggiato ai tempi della vacanza in Sardegna e poi licenziato. «Credo che Tarantini abbia un conto in Svizzera; so questo per aver fatto uso personalmente di una American Express black con il suo nome e aver appreso da lui che era legato a un conto svizzero. L’ho usata per pagare discoteche in Sardegna, tipo “il Sottovento”, il “Billionaire” nell’estate del 2008 precedentemente l’avevo usata per pagare un conto al “Gimmiz” di Montecarlo il 25 maggio 2008; un weekend a Venezia per lui e la signora Benetton; non ricordo il numero del conto».

Alex Mannarini. Alla fine anche lui ha deciso di collaborare. Una scelta maturata all’interno delle mura domestiche, visto che anche lui, per il capitolo cocaina, si trovava agli arresti domiciliari. Il 23 dicembre scorso, dopo due mesi di detenzione, ha chiesto di essere ascoltato e ha raccontato un inedito Gianpi Tarantini.

A partire dall’uso della cocaina, in quell’estate indimenticabile del 2008 in Sardegna: «Lo stupefacente veniva distribuito in casa durante le ore dell’aperitivo, dopo la cena e al ritorno dalla discoteca, alle sette del mattino. Anche persone che non erano ospiti della villa venivano in quelle occasioni a condividere quei momenti; senza voler giustificare nulla, credo che il contesto che si era creato induceva persone che a mio avviso nel quotidiano si comportavano diversamente a utilizzare cocaina. La cocaina veniva distribuita anche durante le gita in barca, preciso sul suo gommone».

Una «vita esagerata» la sua, confessa Tarantini ai magistrati di Bari, forse anche per giustificare quei cinque milioni di euro sperperati in un biennio. Ma quando si trattava del lavoro, Gianpi non faceva sconti a nessuno. Racconta Alex Mannarini: «Sono stato testimone di un incontro tra Tarantini e circa quaranta primari ospedalieri baresi e leccesi tra i quali ricordo vi era il professor Patella; in quell’occasione, pur non avendo partecipato al pranzo, che si tenne alla Taberna, appresi che Gianpaolo usava organizzare questi incontri a sue spese per promuovere i prodotti, farsi pubblicità e prendere accordi; arrivai alla fine dell’incontro e prendendo il caffè mi resi conto che tutti erano d’accordo con Gianpaolo».

Tutti d’accordo? «In alcune occasioni ho constatato che Tarantini ha effettuato dazioni di danaro; dico questo perché ci sono state occasioni in cui lui con la borsa che conteneva danaro prelevato in banca si recava nei posti (ospedali, prefettura, comune, presidenza della regione, policlinico...) e alla fine della giornata avevo modo di riscontrare che il danaro non c’era più». Precisa: «Il primo appuntamento della mattinata era la banca; poi andavamo negli ospedali e a fine giornata la mazzetta di denaro che aveva prelevato era sparita. Posso con quasi assoluta certezza dire che il danaro finiva negli ospedali». Ma in un altro passaggio delle sue confessioni, Mannarini aggiunge: «So che Gianpaolo effettuava regalie ai medici: casse di champagne Krug, buoni di benzina, biglietti aerei, viaggi».

E di Sandro Frisullo, sul libro paga di Tarantini, Mannarini ricorda: «Con Frisullo si incontravano a pranzo al Nessun Dorma; a lui piaceva arrivare all’incontro accompagnato dall’autista per “fare scena”. A me i due sembravano buoni amici. Tarantini era assetato di conoscenze; so che inseguiva D’Alema per averlo appreso da Maldarizzi (concessionario auto barese, ndr) che è mio amico; secondo me Tarantini ha conosciuto D’Alema tramite De Santis».

da la stampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Marzo 21, 2010, 10:57:20 am »

21/3/2010 (8:2) 

- INCHIESTA SULLA SANITÀ, SI DIMETTE IL SEGRETARIO ORGANIZZATIVO REGIONALE

Puglia, lascia il candidato Pd indagato

Mazzarano accusato da Tarantini: «Sono innocente, ma ho deciso di ritirarmi per salvare il partito»


GUIDO RUOTOLO
INVIATO A BARI

Michele Mazzarano, indagato dalla Procura di Bari per le dichiarazioni dell’imprenditore Gianpi Tarantini («Sandro Frisullo e Michele Mazzarano erano i due politici a libro paga...»), ha deciso «con grande sofferenza» - dopo che i giornali avevano rivelato che era lui il secondo politico chiamato in causa da Tarantini - di dimettersi da segretario organizzativo del Pd e di ritirarsi dalla competizione elettorale, candidato alle Regionali nella lista di Taranto.

«Nego nel modo più fermo e risoluto - dice l’esponente politico - di essere stato mai destinatario di tangenti da parte di chicchessia, e in particolare dal Tarantini, e sono convinto che la magistratura vaglierà con le dovute cautele le suddette eventuali dichiarazioni. Chiedo a chi ha sostenuto la mia candidatura di capire e condividere le motivazioni politiche della mia scelta. Con questa decisione non intendo tanto salvaguardare la mia persona, estranea a qualsivoglia sistema tangentizio, quanto contribuire a mantenere indenne da ogni sospetto e da ogni accusa il mio partito e l'intero centrosinistra».

Che sofferenza. E’ tramortito il Pd pugliese. Se potesse gridare ai quattro venti che è vittima di una «tempistica» giudiziaria sospetta, lo farebbe. Ma si immola, per il momento, nello stoicissimo «rispetto della magistratura». Ha provato a sollevare dubbi Nicola Latorre, quando hanno arrestato tre giorni fa l’ex numero due della Giunta Vendola, Sandro Frisullo. Ed è stato respinto con perdite, criticato per le sue obiezioni. Il segretario regionale del Pd, Sergio Blasi, si sfoga: «Frisullo è in carcere per le accuse di Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore di cui è noto il sodalizio costante con Silvio Berlusconi...». Come dire che le sue accuse sono sospette. E sulla sua innocenza scommettono i suoi legali. In carcere, Sandro Frisullo (domani mattina è fissato il suo interrogatorio di garanzia) ha negato di aver preso lo «stipendio» da Tarantini. E anche uno degli avvocati ed esponente di punta del Pd barese, Gianni Di Cagno (che difende Mazzarano) si chiede con grandi perplessità le ragioni per le quali è stato arrestato Frisullo, che da nove mesi si è dimesso dalla Giunta Vendola. Che non può reiterare il reato (Tarantini da sei mesi è ai domiciliari). E che a lui come a qualunque cittadino non si può impedire di avere opinioni politiche.

Sul fronte giudiziario, si apprende che Michele Mazzarano potrebbe essere indagato nell’ambito dell’inchiesta su sanità e finanziamento illecito dei partiti. Alla fine del luglio scorso, il pm Desiré Digirolamo mandò i carabinieri nelle sedi di Pd, Rifondazione, Socialisti autonomisti, Lista Emiliano e Sinistra e libertà per acquisire i bilanci dal 2005 in poi. Mazzarano è stato segretario regionale dei Ds e poi numero due del Pd. Nei brogliacci delle intercettazioni telefoniche del fascicolo Frisullo, compaiono un paio di telefonate tra Tarantini e Mazzarano, alla fine del luglio del 2008: «Tarantini riferisce a Marzocca (Domenico, imprenditore, ndr) di essere già stato contattato da una persona che voleva incontrarlo. Marzocca chiede a Tarantini di fissare un appuntamento per l’indomani».

Non scambiare cortesia con asservimento. Lo precisa Guido Scoditti, direttore generale dell’Asl di Lecce coinvolto nell’inchiesta barese sulla sanità in merito alle intercettazioni di telefonate tra lui e Sandro Frisullo, ex vicepresidente della Regione Puglia arrestato nell’ambito della stessa inchiesta. «In merito alle notizie di stampa che vedrebbero il sottoscritto in atteggiamento di totale riverenza, gratitudine e disponibilità nei confronti dell’ex vicepresidente della Regione Puglia, presumibilmente finalizzato a favorire qualcuno e collegando questo a episodi irregolari di forniture sanitarie nell’ambito della Asl di Lecce, è doveroso precisare che le intercettazioni riguardano determinazioni» dello stesso Scoditti «completamente di segno opposto ai desiderata del vicepresidente».

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Luglio 11, 2010, 06:27:30 pm »

11/7/2010 (7:19)  - INTERVISTA

Bocchino: "Per Verdini una soluzione-Brancher"

Il finiano invoca le dimissioni anche per Cosentino

GUIDO RUOTOLO
ROMA

Non l’ho detto, e poi la stessa agenzia di stampa ha chiesto scusa. Figuriamoci se noi ci mettiamo a fare i ricatti o a minacciare di far cadere il governo. In questi mesi abbiamo sempre condotto una solare battaglia di idee e di confronto politico interno al Pdl e parrebbe molto singolare che oggi affermassimo di avere i numeri per far cadere il governo.
Il nostro obiettivo non è quello di danneggiare la maggioranza o disarcionare Berlusconi, ma di diventare maggioranza nel partito su tre argomenti sui quali il Pdl appare oggi poco sensibile: difesa della legalità e dell’unità nazionale; riaffermazione di una carta dei diritti e dei doveri dei cittadini».

Italo Bocchino è amareggiato per l’ultimo scandalo giudiziario che vede coinvolti esponenti del suo partito (da Denis Verdini a Nicola Cosentino). L’ordinanza di custodia cautelare di 60 pagine l’ha letta tutta di un fiato: «Si passa da Totò e Peppino, nel senso che quei signori sembrano far parte di una banda di sfessati, al Romanzo Criminale come dice Fabio Granata.
La cosa davvero preoccupante è il risvolto di malcostume nel partito». E tanto per non gettare il sasso e tirare indietro la mano, l’esponente dei finiani dice che «il Berlusconi “ghe pensi mi” come ha risolto il caso Brancher così deve risolvere il caso Verdini». Insomma, anche il triumviro del Pdl deve dimettersi.

Adesso a far girare su tempesta la lancetta del barometro della politica interna, è il dopo cena a casa Vespa. La Lega all’ipotesi dell’Udc di Casini nel governo non ci sta...
«Posso solo dire che a quella cena era stato invitato anche Gianfranco Fini, che però ha preferito raggiungere le figlie al mare».

Il premier ha attaccato la libertà di stampa, che non è un diritto assoluto.
«Da editore dico al Presidente che sbaglia. E’ una sciocchezza imperdonabile prendersela con la sinistra che imbavaglia la verità. Il mondo dell’informazione è plurale e per i giornalisti è un dovere raccontare i fatti».

Torniamo ai fatti della loggia paramassonica di Flavio Carboni e soci. Soci molto vicini o interni al Pdl...
«L’assessore regionale della Campania Ernesto Sica si deve dimettere subito. Lui è stato catapultato in giunta dal suo sponsor-protettore: Silvio Berlusconi. Sica è quello che costruisce il falso dossier contro Stefano Caldoro, il nostro governatore».

E il sottosegretario all’Economia nonché segretario regionale del Pdl Nicola Cosentino?
«Anche lui è oggettivamente incompatibile con la guida del Pdl campano. In una intercettazione tra Cosentino e l’imprenditore Martino, il sottosegretario spiega all’interlocutore che in un rapporto dei carabinieri, che non esiste, si parla delle frequentazioni ambigue e dei vizietti di Stefano Caldoro. Cosentino partecipa all’azione di dossieraggio contro il futuro governatore della Campania. Se fossi in Caldoro non gli rivolgerei mai più la parola. E dunque Cosentino non può più essere segretario del partito».

Sul nodo Verdini lei dice che deve essere Berlusconi a far dimettere il triumviro del Pdl. Indagato a Firenze e probabilmente a Roma, Verdini dagli atti processuali sembra più impegnato a raccomandare i suoi sodali in affari più o meno leciti che a fare politica...
«Sui profili penali non voglio esprimermi. Da amico, mi auguro che Denis Verdini sappia dimostrare la sua innocenza. Dal punto di vista politico c’è un enorme problema di opportunità che Silvio Berlusconi non può far finta di non vedere. Insomma, il caso Brancher docet. Più in generale c’è un problema della classe dirigente del partito che non riesce a interpretare il progetto originario di Berlusconi e Fini. La degenerazione è arrivata a livelli di guardia con spericolate e vergognose operazioni di dossieraggi contro esponenti del partito».

C’è anche un dossier su di lei...
«Nessuno mi ha dato comunicazione ufficiale. So che a Napoli circola questa voce. Sono certo che qualcuno ha perso tempo non riuscendo a trovare o a inventare nulla contro di me».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56621girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Luglio 18, 2010, 11:02:16 am »

18/7/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Lombardi: "Quando vidi Mancino"

Il geometra: «Gli avrò parlato della nomina di Marra alla Corte d'appello»

GUIDO RUOTOLO
ROMA

Si racconta come uno voglioso di fare soltanto bella figura con il capo, quando si difende dall’accusa di aver tentato di condizionare l’esito della decisione della Corte Costituzionale sul Lodo Alfano: «Ho tentato di interessarmi per acquisire meriti con il capo del mio partito, con Silvio Berlusconi, affinché potesse ritenersi che ero in grado di arrivare anche ai giudici della Corte Costituzionale».

È un millantatore che si dà un gran daffare ma che alla fine non ottiene nessuno degli obiettivi che voleva raggiungere, Pasquale Lombardi, il «geometra» che si faceva passare per giudice tributarista? «Ammetto di aver contattato il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, che ormai non conta più nulla».

È il 10 luglio scorso quando Pasquale Lombardi viene interrogato dal gip nel carcere di Avellino. Lui, l’imprenditore Arcangelo Martino, Flavio Carboni o gli altri indagati eccellenti (Marcello Dell’Utri e Denis Verdini) si contendono la palma di «Venerabile», il 33° della Loggia P3 la cui esistenza è stata ipotizzata dal procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo. Una banda di «pensionati» per dirla con Silvio Berlusconi, o una organizzazione paramassonica con l’obiettivo di condizionare la vita delle istituzioni?

A leggere il suo interrogatorio, Pasquale Lombardi nei fatti è costretto ad ammettere gli episodi contestati, confermando così le ipotesi dell’accusa (e qualche schizzo di fango lo fa arrivare addosso a Nicola Mancino, vicepresidente del Csm). Per esempio, a proposito del suo interessamento in Cassazione alla «pratica» Cosentino (era stato presentato il ricorso al Palazzaccio contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di Nicola Cosentino per concorso esterno in associazione mafiosa), Lombardi ha ammesso di aver contattato il presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone.

«Dopo l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti, poiché l’onorevole Cosentino mi ha chiesto se conoscessi qualcuno in Cassazione perché per il 28 gennaio del 2010, data fissata per la discussione del ricorso, era previsto uno sciopero degli avvocati, ho chiamato - ha spiegato Lombardi - il presidente Carbone per sapere se il ricorso sarebbe stato comunque trattato. Non ricordo dell’indicazione che mi fu data di far rinunciare ai termini per la trattazione del ricorso da parte dei difensori dell’onorevole Cosentino».

Altro episodio centrale che è emerso dalle indagini dei carabinieri di Roma è quello dell’incontro a casa del triumviro del Pdl, Denis Verdini. In quell’occasione, secondo l’accusa, si parlò anche della Consulta che doveva discutere il Lodo Alfano. «Confermo l’incontro svoltosi in casa dell’onorevole Verdini - ammette l’indagato - al quale erano presenti Dell’Utri, l’onorevole Caliendo, il giudice Miller, non ricordo se fosse presente anche Martone (l’ex avvocato generale della Cassazione, ndr). In quell’occasione non abbiamo parlato dell’imminente giudizio di costituzionalità del lodo Alfano ma soltanto della candidatura per la presidenza della Regione Campania. In particolare la presenza di Miller (Arcibaldo, capo degli ispettori di via Arenula, ndr) era legata a una sua possibile candidatura».

C’è poi il blocco di contestazioni sulle «raccomandazioni» di magistrati da promuovere: «Alfonso Marra, Gianfranco Izzo e Paolo Albano». Il gip chiede all’indagato perché quei magistrati si siano rivolti a lui: «Perché ho molte conoscenze e amicizie nell’ambito politico e giudiziario». Ammette di essersi rivolto ad alcuni componenti del Csm (Ferri, Carrelli Palumbi, Saponara, Bergamo): «Effettivamente mi sono incontrato con l’onorevole Mancino (Nicola, vicepresidente Csm, ndr) con il quale avrò parlato incidentalmente della nomina di Marra» (a presidente della corte d’Appello di Milano, ndr).

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56805girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Luglio 20, 2010, 10:24:12 am »

20/7/2010

A Palermo si sbriciola l'Italia
   
GUIDO RUOTOLO

La vigilia dell’anniversario. Poche «agende rosse» nella Palermo di Salvatore Borsellino e dell’Italia dei Valori. Manifestazione anticipata, perché non sia mai doversi contaminare con le istituzioni. Il giorno del ricordo. Diciott’anni fa, via D’Amelio. Dopo Giovanni Falcone cadevano anche Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. I due figli amati dalla Palermo che non piegava la schiena eliminati da Cosa nostra e non solo.

Commemorazioni e fiaccolate. C’è qualcosa che non quadra in questa fotografia che Palermo ci consegna a fine serata. Ore 10, caserma della polizia Lungaro. Il palermitano presidente del Senato, Renato Schifani, depone una corona di fiori in ricordo del magistrato e della sua scorta. E non sia mai che qualcuno possa solo dire che Schifani sarebbe voluto andare anche alla fiaccolata e alla manifestazioni in via D’Amelio. Il suo ufficio stampa precisa subito che è una notizia falsa. Perché via D’Amelio fa così paura? Le agenzie battono il discorso di Gianfranco Fini, il presidente della Camera, accolto con i fischi di un gruppo di ragazzi.

Che bella scena, Fini che si ferma a parlare con i contestatori, che sente le loro ragioni e strappa applausi mentre si reca alla veglia notturna. Questa sì affollata, con oltre tremila persone.

Palermo non dimentica, magari è stanca.

Tuonano gli oppositori del governo contro l’assenza del Guardasigilli Angelino Alfano. Assente da Palermo, dalla sua Sicilia. Le agenzie battono che Alfano è stato in via Arenula, al ministero, dove ha ricevuto il neo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo.

Palermo, Italia. Una rappresentazione plastica dello sfarinamento del Paese. Una incomunicabilità tra pezzi delle istituzioni e delle forze politiche che lascia sgomenti.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7616&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Luglio 20, 2010, 10:28:35 am »

20/7/2010 (7:45)  - LE INCHIESTE

Palamara: "Fuori chi getta discredito sulla giustizia"

«Espulso chi ha frequentazioni equivoche»

GUIDO RUOTOLO

Cartellino rosso, espulsione insomma, per quei colleghi che con le loro frequentazioni gettano discredito nei confronti dell’ordine giudiziario». Anche l’Anm sembra voler fare sul serio, forse perché avverte che il terreno sotto i piedi sta smottando. «Il 23 luglio si riunirà d’urgenza la Commissione deontologica per portare a termine la revisione del Codice deontologico». L’annuncio del presidente dell’Anm, Luca Palamara, è foriero di iniziative draconiane sul terreno della questione morale che non risparmia neppure la magistratura.

Presidente Palamara, il Capo dello Stato ha rimandato al nuovo Csm la discussione sul coinvolgimento dei magistrati nell’inchiesta sulla P3.
«E’ assolutamente condivisibile che delle questioni emerse negli ultimi giorni se ne debba occupare il nuovo Csm, anche alla luce della vicenda che ha portato alla nomina del nuovo presidente della Corte d’appello di Milano e delle asserite e indebite interferenze tra soggetti esterni al Csm e alcuni consiglieri di Palazzo dei Marescialli».

Di solito le analisi sono sempre lucide, e anche l’indignazione non guasta mai. Poi però si torna a come prima. Insomma, l’Anm al di là delle parole come intende passare ai fatti?
«Dobbiamo essere conseguenti e batterci per una magistratura realmente rinnovata che dia un segnale molto forte di non accettare più al suo interno situazioni che ne compromettano il prestigio e la credibilità della funzione. Anche perché la stragrande maggioranza dei magistrati è del tutto estranea ai fatti accaduti negli ultimi giorni. Dobbiamo concretamente dare dei segnali di discontinuità da questi comportamenti».

Come si può essere credibili quando, per esempio, sulle promozioni le diverse correnti si spartiscono i posti?
«Non voglio nascondermi dietro un dito. Inutile negare che in passato le cose non sono andate per il verso giusto e che sicuramente la legge Castelli, con la valorizzazione del merito piuttosto che dell’anzianità, ha ulteriormente creato una rivoluzione all’interno della magistratura».

Sulla legge Castelli sta esprimendo un giudizio positivo?
«Su questo aspetto sì. Distinguerei il discorso delle correnti dal correntismo. Non deve più prevalere la logica dello scambio: se un cinquantenne lo merita, può essere nominato anche procuratore della Repubblica di Roma».

Come si blinda il Csm da sollecitazioni esterne?
«Ricordandosi ogni giorno che il Csm è una istituzione e in quanto tale va preservata».

L’Anm propone di espellere anche chi con le sue frequentazioni arreca un danno all’ordine giudiziario. Se questa proposta fosse operativa, il capo degli Ispettori di via Arenula, Arcibaldo Miller, sarebbe espulso dall’Anm?
«Direi di sì. Al di là del merito, nel quale non posso entrare, la situazione di chi è il capo degli ispettori di via Arenula è oggettivamente delicata. Chi riveste tale carica non può avere frequentazioni politiche che hanno come oggetto addirittura una sua eventuale candidatura politica-amministrativa. E’ chiaro che il ministro di Giustizia deve valutare e agire di conseguenza».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201007articoli/56871girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Luglio 22, 2010, 10:08:25 am »

22/7/2010 (7:30)  - RETROSCENA

Borsellino, un'altra autobomba era pronta a uccidere il giudice

Dopo anni di depistaggi, si scopre che la mafia quel giorno aveva un piano bis: un secondo commando addestrato per fare strage sotto la casa di via Cilea

GUIDO RUOTOLO
INVIATO A PALERMO

Ecco le verità che stanno affiorando dopo diciotto anni di «depistaggi colossali», per dirla con le parole del procuratore di Caltanissetta Sergio Lari nel giorno delle audizioni palermitane all’Antimafia guidata da Beppe Pisanu. E sono verità che fanno male a tutti, ai magistrati che hanno fatto le indagini, che hanno giudicato gli imputati, che hanno condannato all’ergastolo degli innocenti.

Agli apparati di sicurezza, alle forze di polizia che non sono state in grado di coltivare le piste giuste. Ai livelli politico-istituzionali che hanno fatto finta di non sapere quello che stava accadendo.

Quando Sergio Lari, gli aggiunti Bertone e Gozzo, il pm Nicolò Marino hanno raccontato l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio (l’audizione è stata segretata), i commissari dell’Antimafia sono rimasti sconvolti, increduli. Come è possibile che per tanti anni nessuno si sia mai accorto della fine che aveva fatto il motore della 126 imbottita di esplosivo? Come se facesse parte di una strategia raffinata, quella di alimentare misteri che tali poi non erano. Chissà dove è finito il motore? Chi l’ha fatto sparire? C’è lo zampino dei servizi, non è farina del sacco di Totò Riina...

Dubbi, domande, sospetti che si sono inseguiti per 18 anni. Bene, quel motore non è mai sparito da via D’Amelio per il semplice fatto che è rimasto accanto ai resti della macchina e dei corpi maciullati delle vittime.

Secondo mistero: da dove e chi ha premuto il pulsante del telecomando dell’autobomba? Sono 18 anni che se ne parla. Si è favoleggiato sullo splendido castello che sovrasta Palermo e che si trova sul Monte Pellegrino: il Castello Utveggio, dove aveva una sede distaccata l’allora Sisde, oggi Aisi, il servizio segreto civile. E’ stato il cavallo di battaglia del consulente Gioacchino Genchi. Anche questo da oggi non è più un mistero. La postazione da dove è stato premuto il pulsante è all’ultimo piano di un edificio con tre scale che si trova in linea d’aria a centocinquanta metri da via D’Amelio, il palazzo dei Graviano, i costruttori prestanome dei Madonia, la famiglia mafiosa a cui appartiene come mandamento via D’Amelio.

Ma soprattutto i commissari di Palazzo San Macuto hanno avuto un sussulto quando i magistrati di Caltanissetta hanno raccontato uno scenario incredibile, e che sarà materia di approfondimenti investigativi: Cosa Nostra aveva attivato una seconda squadra operativa in grado di intervenire in via Cilea, dove abitava Paolo Borsellino (lo ha raccontato il pentito Antonino Galliano). Insomma, quel maledetto giorno due autobombe erano pronte a esplodere: una sotto casa del magistrato, l’altra sotto l’abitazione della madre di Paolo Borsellino. Solo a riassumere questi tre misteri si comprende subito quanto sia stata «anomala» la strage Borsellino, quanto lontana dal cliché dei Corleonesi.

Al di là di Gaspare Spatuzza - e poi delle ritrattazioni dei tre vecchi pentiti Candura, Scarantino e Andriotta - e delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e della sua copiosa documentazione, le novità di Caltanissetta arrivano tutte dal lavoro tecnico sulle prove, sulla documentazione raccolta all’epoca, e lasciata inspiegabilmente nel dimenticatoio.

La polizia scientifica centrale ha ricostruito la scena del crimine. L’ha suddivisa in cinque parti, l’ha resa vera con un collage, un puzzle composto da migliaia di fotografie, di frammenti di video, anche quelli amatoriali. E quante sorprese hanno lasciato stupefatti persino gli uomini della Scientifica. La prima scoperta è stata il motore. Era lì, non hanno dubbi, l’hanno scritto nella loro perizia gli uomini della Scientifica. Chi c’era in quella postazione del palazzo dei Graviano? E come si è arrivati all’individuazione del palazzo? Probabilmente il Giovanni Brusca di via D’Amelio potrebbe essere Fifetto Cannella o lo stesso Giuseppe Graviano. E’ una ipotesi, ancora tutta da riscontrare, ma che siano loro gli inquirenti di Caltanissetta non hanno molti dubbi.

Le foto, i filmati mostrano addirittura le cicche di sigaretta a terra, sul pavimento dell’attico del palazzo Graviano. Si vede anche un vetro, probabilmente un riparo per chi doveva premere il pulsante. Ricordate Capaci? Ben presto fu individuato il casolare a metà strada tra Isola delle Femmine e Capaci da dove Giovanni Brusca premette il pulsante dell’esplosivo che fece saltare Giovanni Falcone, la moglie, la sua scorta. Quelle cicche di sigarette, il Dna, le indagini che andarono in porto.

Perché per via D’Amelio non è stato fatto lo stesso. Si scopre solo adesso che a poche ore dalla strage arrivò una segnalazione anonima. Una signora molto arzilla disse al telefono: «Ho visto del movimento all’ultimo piano del palazzo Graviano. Guardate che i Graviano sono dei prestanome dei Madonia...».

E poi il sospetto che quel giorno fossero pronte due squadre operative di Cosa nostra, una che si appostò in via Cilea, dove abitava Paolo Borsellino. L’altra in via D’Amelio. Da chi era composta la squadra di via Cilea? Che fine ha fatto la seconda auto imbottita di tritolo? Chi doveva premere il pulsante dell’innesco?

Domande alle quali i magistrati di Caltanissetta stanno cercando di dare risposte. Colpisce la considerazione di Gaspare Spatuzza che quando riconosce in Lorenzo Narracci (funzionario dei servizi segreti) l’uomo presente nel garage dove si stava imbottendo di esplosivo la 126 che doveva servire per la strage di via D’Amelio, commenta: «E’ l’unico attentato con l’esplosivo che abbiamo gestito noi che va in porto».

E già, i Graviano, la famiglia di Brancaccio. E gli attentati non riusciti, come quello di via Fauro (doveva saltare in aria Maurizio Costanzo), o l’autobomba dell’Olimpico, che alla fine del gennaio del 1994 doveva fare una ecatombe di carabinieri.

Le indagini sulle stragi palermitane hanno ancora bisogno di tempo per arrivare a una conclusione. In autunno dovrebbe avviarsi il meccanismo per la revisione dei processi che hanno condannato all’ergastolo degli innocenti. Stiamo parlando degli esecutori materiali della strage.

E poi c’è il capitolo «doloroso» dei depistaggi, delle calunnie. Sono coinvolti alcuni poliziotti che condussero le indagini: Vincenzo Ricciardi, Mario Bo, Salvatore La Barbera. Se fosse ancora vivo sicuramente sarebbe indagato anche Arnaldo La Barbera che guidò quel gruppo di investigatori.

E l’ultimo capitolo da approfondire è quello della trattativa, del coinvolgimento di pezzi delle istituzioni. All’Antimafia, gli inquirenti di Caltanissetta hanno ribadito quello che era già noto, con le dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Borsellino viene ucciso anche per la trattativa che era stata avviata dal Ros dei carabinieri di Mario Mori e Beppe De Donno. Perché due giorni dopo la strage, con i funerali di Paolo Borsellino ancora da celebrare, l’allora colonnello Mario Mori va subito a Palazzo Chigi per rivelare a Fernanda Contri, capo di gabinetto del presidente del Consiglio Giuliano Amato, che aveva intavolato un certo discorso con Vito Ciancimino?

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56930girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Luglio 25, 2010, 12:31:29 pm »

25/7/2010 (7:52)  - I SEGRETI DI COSA NOSTRA

Stragi, la lettera segreta di don Vito

Ciancimino jr la consegna ai pm: «Borsellino contro la trattativa Stato-mafia»

GUIDO RUOTOLO
ROMA

In tempi non sospetti, siamo al novembre del 1992, don Vito Ciancimino lascia tracce dei suoi incontri con il Ros dei carabinieri, con il colonnello Mario Mori, prima della strage di via D’Amelio. Come tanti altri materiali riaffiorati dagli archivi della famiglia Ciancimino 18 anni dopo quella tragica stagione, anche questo documento è stato consegnato alla Procura di Palermo.

Si tratta di una lettera indirizzata a un dirigente di Bankitalia il cui nome era compreso in una rosa di candidati a occupare la poltrona di presidente del Consiglio, in quel convulso autunno del ’92.

Mercoledì Massimo Ciancimino sarà di nuovo in pellegrinaggio a Palermo, e poi a Caltanissetta, per una nuova serie di colloqui-interrogatori con i magistrati che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra, e sulla strage di via D’Amelio. E mercoledì Ciancimino jr dovrà anche spiegare la lettera nella quale il padre si assunse un ruolo di compartecipe di quella «cricca» - una decina di personalità, tra ministri in carica, funzionari e generali degli apparati di sicurezza - che, mentre crollava la Prima Repubblica abbattuta da Mani Pulite, lavorava a creare le condizioni per «una nuova entità politica».

L’incipit di questa lettera è chiarissimo: «Sono Vito Ciancimino il noto, questa mia lettera, a futura memoria, vuole essere un promemoria da ben conservare se realmente Lei deciderà di scendere in politica come da amici di regime mi è stato sussurrato. Ritengo mio dovere precisare che direttamente e indirettamente faccio parte di quel “regime” che oggi, a causa di tutti loro e anche i miei sbagli costringeranno Ella, sicuramente persona super partes, e da me stimata e apprezzata nel tempo, nel tentativo di convincerla a prendere le redini di un Paese destinato allo sfascio. Sono stato condannato su indicazione del regime per il reato di mafia per mano di persone che a confronto con alcuni mafiosi sono dei veri galantuomini».

Non veste solo i panni del «profeta» don Vito Ciancimino. Scrive al suo interlocutore: «Faccio parte di questo regime e sono consapevole che solo per averne fatto parte ne sarò presto escluso. Al momento, sono utile per i loro ultimi disegni prima del “capolavoro finale”».
E’ come se don Vito avvertisse che ben presto sarebbe finito in carcere, e ciò avvenne puntualmente un paio di settimane dopo aver spedito questa lettera.

«Dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzato dal colonnello Mori per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia, ennesimo strumento nelle mani del regime, e di fatto interrotto con l’omicidio del giudice Borsellino sicuramente oppositore fermo di questo accordo, si è deciso finalmente, costretti dai fatti, di accettare l’unica soluzione possibile per poter cercare di rallentare questa ondata di sangue, che al momento rappresenta solo una parte di questo piano eversivo».

Dunque, Ciancimino rivela al suo interlocutore che il colonnello Mori propone - anche se la ritiene «scellerata» - una soluzione per bloccare l’offensiva stragista. In tutti questi mesi, il figlio Massimo ha sempre sostenuto che, secondo don Vito, Mori, il signor Franco, lo stesso Provenzano suggerivano di trattare con Totò Riina e che suo padre era contrario: «Con quell’animale - diceva papà - non si può trattare».

Nella lettera spedita nel novembre del ’92, don Vito ammette che la trattativa si avvia dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio. Nello stesso tempo l’ex sindaco mafioso di Palermo rivela implicitamente che Paolo Borsellino era stato informato dei contatti in corso tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, e che si opponeva.

Da questo punto di vista, la lettera consegnata da Ciancimino jr ai magistrati siciliani è una conferma a quanto ha ricostruito la Procura di Caltanissetta.

La missiva di don Vito Ciancimino si conclude così: «Tutta la vecchia gerarchia politica sarà destinata ad allinearsi a questo nuovo corso della storia della nostra Repubblica, che sta buttando le sue basi non più su un semplice imbroglio (quale fu secondo don Vito il referendum monarchia-repubblica, ndr), ma su “una vera e propria carneficina”. Di tutto questo posso fornirle documentazione come prove e nomi e cognomi».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201007articoli/57022girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Luglio 26, 2010, 11:10:51 pm »

26/7/2010 (7:14)  - INTERVISTA

Il deputato Fabio Granata insiste

"Nel Pdl c'è una questione morale"

«A Orvieto sono prevalsi venti di guerra»

GUIDO RUOTOLO
ROMA
Domenica di passione per Fabio Granata. Crocefisso soprattutto dai vecchi camerati dell’Msi per le sue professioni di fede antimafia che avrebbero inferto colpi mortali al governo e al suo sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, ritenuto colpevole di non aver voluto dare la patente di pentito a Gaspare Spatuzza. Di fronte a tutte le frecce avvelenate che gli sono state lanciate, lui, che vive sotto scorta, ha passato la mattinata a manifestare contro le trivellazioni di petrolio nel ragusano. E dopo aver riflettuto e aver avuto conforto da Roma, Fabio Granata ha accettato di rispondere alle accuse dei suoi colleghi di maggioranza e di partito.

Onorevole, non deve essere piacevole trovarsi sul banco degli imputati...
«Sono sorpreso. Ciò che ho espresso sulle stragi del ‘92 e più in generale sui temi della legalità sono concetti e valori da sempre patrimonio della destra politica italiana. Una destra che ha in Paolo Borsellino e in tutti quei servitori dello Stato uccisi perché facevano il loro dovere, il punto di riferimento imprescindibile dell’agire politico».

Un bravo ragazzo ma un cavallo pazzo, l’ha definita così Gianni Alemanno.
«Sono amareggiato particolarmente per il tentativo di dipingermi come un irresponsabile rispetto ad alcune verità di fondo su quegli anni bui che sono le stesse ribadite da personaggi come Ciampi, Piero Grasso, Fini, Pisanu, lo stesso presidente Napolitano. Nessuna tesi eversiva ma la consapevolezza che su quella stagione bisogna ancora fare piena luce pretendendo verità e giustizia. Non furono solo stragi di mafia, quelle di Falcone e Borsellino».

Tesi suggestiva, tutta da dimostrare.
«La ciclopica storia di depistaggi e insabbiamenti portata avanti con i primi processi che hanno visto protagonista quel pentito inquinato che corrisponde al nome di Vincenzo Scarantino, dimostra che opera di deviazione vi fu e che non fu farina del sacco di Cosa nostra».

Spatuzza, su di lui si è spaccata la maggioranza...
«Non ho dato patente di attendibilità a Gaspare Spatuzza. Non tocca a noi politici dispensare queste patenti. Come l’intera Antimafia, ho preso atto che tre Procure competenti, Firenze, Palermo e Caltanissetta, lo hanno ritenuto attendibile. In particolar modo, le due procure siciliane hanno circoscritto la sua attendibilità alla ricostruzione delle stragi di Falcone e Borsellino. In particolare, la strage di via D’Amelio. Non conosco un rigo delle dichiarazioni di Spatuzza sui fatti successivi a Falcone e Borsellino, per cui non ho espresso e non intendo esprimere alcuna valutazione. Sul premier Berlusconi, tanto per essere chiari, continuo a ritenere che sia vittima di un accanimento giudiziario ingiustificato».

Il presidente della commissione che vaglia le posizioni dei dichiaranti che vogliono ottenere il programma di protezione, Alfredo Mantovano, si è risentito per le sue dichiarazioni, chiedendo al presidente Fini di essere tutelato...
«Stimo Mantovano. Dico subito che secondo me ha commesso un errore di valutazione. Tutto qui, nulla a che vedere con il sospetto di collusione con la mafia. Si può esprimere una critica? Lo dico perché sono consapevole che Alfredo Mantovano è un magistrato e insieme al ministro dell’Interno Maroni ha ben condotto l’azione di contrasto alle mafie».

Ma le sue critiche sono andate ben oltre: ha accusato parte del governo di non fare lotta alla mafia.
«Ho messo insieme alcuni fatti e alcuni segnali. Su Spatuzza ho già detto. Aggiunga che diversi membri del governo e del Pdl hanno utilizzato un linguaggio inaccettabile nei confronti delle Procure maggiormente impegnate in questi procedimenti. E poi il silenzio di settori del governo che pure sono impegnati nella lotta alle mafie nell’impegno a migliorare in Parlamento il testo sulle intercettazioni. Arrivavano suggerimenti dal prefetto Manganelli, il capo della Polizia, del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso su come non indebolire gli strumenti investigativi della lotta alla mafia. Noi, tra mille difficoltà, abbiamo raccolto quei suggerimenti e anche su questo siamo stati accusati di remare contro il governo».

Non crede che lei sia il pretesto per mettere in difficoltà il presidente della Camera, Gianfranco Fini?
«Lo sospetto anch’io. Da parte mia non posso che ribadire che non mi scuso per quello che ho detto. Che non posso tacere che nel Pdl c’è anche una questione morale. Che se finisco io davanti ai Probiviri, vorrei che anche i Cosentino e i Verdini vengano processati dai giudici del partito. Sono consapevole che a Orvieto sono prevalsi i venti di guerra di chi vuole risolvere traumaticamente i conflitti politici».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57040girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Luglio 27, 2010, 09:43:28 am »

27/7/2010 (7:25)  - INTERVISTA

Mantovano: "Un pellegrinaggio per la pace nel Pdl"

Il sottosegretario: «Granata non usi la clava della mafia»

GUIDO RUOTOLO
ROMA
Se dovesse scommettere punterebbe sulla pace o sulla rottura? «Non scommetto mai, da cattolico faccio solo voti. Sì, andrei in pellegrinaggio a piedi perché scoppi la pace tra Berlusconi e Fini. Una pace vera, fondata su basi solide, non una tregua». Una battuta. Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, ex An, al centro delle polemiche con Fabio Granata, il finiano intransigente. E sulla vicenda Spatuzza, Mantovano ha le idee molto chiare: «Se l’Antimafia chiedesse al Parlamento di modificare la legge sui collaboratori di giustizia, cancellando il limite temporale dei 180 giorni per fare tutte le dichiarazioni, e il Parlamento approvasse questa risoluzione, l’indomani mattina Gaspare Spatuzza avrebbe il programma di protezione».

Sottosegretario, lei accusa Fabio Granata di aver superato il confine della critica legittima sconfinando nella diffamazione. E’ sanabile questa frattura tra lei e Granata?
«Vorrei trascorrere una giornata senza dover leggere o sentire una dichiarazione di Bocchino o di Granata. Le polemiche oscurano i risultati del lavoro delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria che, grazie a sforzi e sacrifici, sono senza precedenti. In alcuni casi, sono arrivati prima che si consumassero reati gravissimi, come nel caso di Expo 2015 o nella ricostruzione all’Aquila. Tutto questo si perde perché mediaticamente passa la frase forte di Tizio o di Caio».

A Orvieto lei, Lupi, La Russa - e poi a seguire tutti gli altri - avete aperto il fuoco contro Granata, chiedendo l’intervento dei probi viri.
«A chi giova l’ansia distruttrice? Nei giorni scorsi alcuni finiani hanno paragonato il Pdl a un partito sudamericano. Faccio parte dell’Ufficio di presidenza del Pdl. Prima delle elezioni regionali il presidente Berlusconi non voleva che trovassimo un accordo elettorale con l’Udc e invece questa intesa è stata raggiunta. Sulle intercettazioni, avevamo trovato una intesa e sintesi con i finiani. Poi, siamo andati ben oltre. Dico questo per testimoniare che il nostro è un partito che discute e riesce a trovare una sintesi, se si vuole trovarla».

Perché fa paura Gaspare Spatuzza?
«Non è questa la domanda da porre. Nelle sette pagine di motivazioni con le quali la Commissione ministeriale che presiedo gli ha negato la concessione del programma di protezione, è scritto che Spatuzza su via D’Amelio e via dei Georgofili è stato riscontrato. Ricordo che la Commissione è giunta a una conclusione dopo aver letto tutti i verbali, tutte le dichiarazioni fatte da Spatuzza all’autorità giudiziaria. Il punto è il rispetto della legge. E la legge ci imponeva di bocciare la sua domanda perché Spatuzza ha fatto rivelazioni su vicende molto importanti ben oltre il limite del 180 giorni».

E’ legittimo criticare la decisione della sua Commissione?
«Ci mancherebbe. Ma cosa c’entra una critica legittima con l’affermazione che io ostacolerei l’accertamento della verità sulle stragi? Sono assolutamente contrariato dal fatto che il contrasto alla mafia sia oggetto di scontro interno allo stesso partito. E non sono per nulla d’accordo con l’agitare il vessillo della legalità, trasformandolo in clava con cui tramortire i colleghi di partiti».

Lei viene dalla storia di An, non dell’Msi, da quel cosiddetto movimento cattolico integralista. Mantovano, come vive lo strappo con Gianfranco Fini?
«In virtù della mia storia sono orgoglioso di aver contribuito a raggiungere risultati importanti di governo sul fronte dell’antimafia e della sicurezza».

Ma Fini, Granata, Bocchino hanno ragione quando pongono la questione morale nel Pdl?
«Così genericamente è incomprensibile e strumentale. Voglio dire che bisogna entrare nel dettaglio, nel particolare. E allora poi discutiamo. Da quattro mesi aspetto che a Claudio Scajola, che si è dimesso da ministro, vengano contestati i reati».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57067girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Luglio 28, 2010, 10:51:22 am »

28/7/2010 (7:25)  - DOCUMENTO

P3, una rete impressionante, non solo quattro lobbisti

Il Tribunale del Riesame inchioda il "gruppo di potere occulto"

GUIDO RUOTOLO
ROMA

Sbuffa l’avvocato del politico trascinato dentro questa storia: «Ma che loggia segreta, questa è solo un’inchiesta giudiziaria. La politica che c’entra? Al massimo è una storia di affari e raccomandazioni». Forse ha ragione l’avvocato quando segnala che l’aspetto più importante di questa inchiesta è quello «giudiziario», per dire che la storia impresentabile riguarda i magistrati coinvolti nelle scalate di carriera, nei favori ricevuti o nelle promesse da mantenere. E alla fine, se questa lettura minimalista dovesse prendere il sopravvento, quali reati avrebbero commesso i diversi indagati ai vari livelli?

Forse vale la pena citare il capo d’imputazione per capire la sostanza dell’inchiesta del procuratore aggiunto Capaldo e del pm Sabelli. Agli indagati viene contestato il reato di associazione a delinquere «caratterizzata dalla segretezza degli scopi, dell’attività e della composizione del sodalizio, volta altresì a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nonché di apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali».

Insomma, un’organizzazione paramassonica. Va detto subito che la tesi dell’accusa ha già trovato due conferme, in questa fase delle indagini, rappresentate dalle decisioni del gip e del Tribunale del Riesame. «Nelle vicende in esame - si legge nelle motivazioni del Riesame - può tranquillamente escludersi che gli associati si limitassero a esercitare pressione lobbistica. Orbene, emerge in modo inconfutabile dagli atti processuali che gli attuali indagati hanno svolto una continuativa azione di interferenza sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, come la Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione, il Csm, la Regione Sardegna, il ministero di Giustizia, grazie anche a una impressionante rete di conoscenze con soggetti che ricoprono cariche istituzionali ad alto livello e che appaiono sempre pronti ad accogliere le richieste del sodalizio». Leggendo l’ordinanza del Riesame si scopre che la banda non solo voleva interferire sul ricorso per le liste elettorali in Lombardia nelle ultime regionali, ma anche nel Lazio.

Esplicita il Riesame: «Come correttamente affermato nell’ordinanza impugnata, si tratta di un “gruppo di potere occulto e autonomo rispetto a quanti (persone fisiche estranee al gruppo medesimo, organismi istituzionali, entità politiche) costituiscono l’ambiente nel quale esso si muove e con il quale pure instaura dinamiche complesse”».

Dalla lettura dell’ordinanza del Riesame si comprende anche quanto l’inchiesta sia destinata ad allargarsi, nel senso di numero di indagati: «L’associazione vede dunque un numero di associati che va ben oltre i tre dirigenti del sodalizio (Carboni, Lombardi e Martino, ndr). L’associazione segreta facente capo agli attuali indagati risulta essere nota solo a pochissimi soggetti che le garantivano appoggio politico».

Ecco che finiscono nella rete degli indagati anche gli onorevoli Denis Verdini e Marcello Dell’Utri. E adesso all’elenco si aggiunge anche il sottosegretario Giacomo Caliendo. E probabilmente vedremo finire sul registro degli indagati anche altri magistrati eccellenti.

Ora, se l’associazione in questione fosse solo quella a delinquere, l’accusa avrebbe dovuto esplicitare il «programma di reati». Introducendo l’associazione segreta, i reati diventano quelle «interferenze illecite» contestate. Quelle che sono azioni eticamente riprovevoli diventano reati.

In questi giorni, dalla politica, dalla maggioranza, alle richieste finiane di dimissioni degli indagati dalle cariche istituzionali o politiche, si sono levate obiezioni del tipo: «La magistratura non può selezionare la classe politica». Vecchia e cara obiezione dai tempi di Mani Pulite. Ma la novità dell’inchiesta romana, quand’anche diventasse solo una emersione di «comportamenti eticamente riprovevoli», è che questi comportamenti sono davvero intollerabili per chi ricopre incarichi pubblici.

Una versione minimalista vuole che i Lombardi e i Martino siano degli sfigati qualunque. Ecco cosa scrive il Riesame su Pasquale Lombardi: «Il fatto che il primo presidente della Corte di Cassazione Carbone chieda garanzie per il proprio futuro a un personaggio come Lombardi attesta quanto sia riconosciuto, anche in ambienti istituzionali di altissimo livello, il potere del gruppo occulto di cui gli indagati fanno parte». Anche se poi Lombardi al telefono annuncia a Carbone: «stammi a sentì... io mi so’ fatto portare l’olio e te lo porto domani mattina».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57101girata.asp
Registrato
Pagine: [1] 2 3 ... 6
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!