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Autore Discussione: GUIDO RUOTOLO -  (Letto 43295 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 18, 2012, 05:05:08 pm »

Cronache

18/06/2012 - IL CASO

La lotta ai clandestini riparte da Gheddafi

Ecco l'accordo Italia-Libia: una fotocopia di quello siglato con il dittatore

GUIDO RUOTOLO
Roma

Saranno poco più di duemila, divisi tra Sicilia e Calabria, gli immigrati clandestini sbarcati sulle nostre coste nei primi sei mesi del 2012.

Percentuali risibili, infinitesimali se confrontate a quelle degli anni passati.

E’ vero, Gheddafi usava i clandestini come una clava contro l’Italia e l’Occidente. E di fronte a un paese, la Libia, dove con il dopo Gheddafi regnano le milizie, i clan, le tribù e un esercito nazionale e forze di polizia sembrano, il timore di possibili nuovi esodi di massa di clandestini verso l’Europa, e cioè l’Italia, non è campato in aria.

E invece, grazie all’accordo tra Libia e Italia per il contrasto all’immigrazione clandestina e al fatto che, evidentemente, proprio per l’instabilità di quel paese i flussi provenienti dal Corno d’Africa e dalla fascia dei paesi subsahariani sembrano essersi ridotti di molto, la pressione degli immigrati irregolari verso l’Italia non si fa (ancora) sentire. O meglio, non è critica come in passato.

Venerdì Amnesty International ha denunciato che il 3 aprile scorso, a Tripoli, è stato siglato un accordo segreto tra l’Italia e la Libia sull’immigrazione clandestina che autorizza le autorità italiane a intercettare i richiedenti asilo e a riconsegnarli ai soldati libici.

«Nel quadro del consolidamento dei rapporti di amicizia tra la Libia e la Repubblica Italiana, dei trattati e degli accordi bilaterali finalizzati al rafforzamento di relazioni privilegiate in materia di contrasto all’immigrazione clandestina...». E ancora: «L’Italia si impegna ad avviare immediatamente il programma delle forniture relativo a mezzi tecnici e attrezzature».

«La Stampa» è venuta in possesso dell’accordo siglato dai ministri dell’Interno italiano, Annamaria Cancellieri, e libico, Fawzi Altaher Abdulati il 3 aprile, a Tripoli.

L’accordo - processo verbale della riunione tra le due delegazioni - sembrerebbe riconfermare in sostanza tutte le vecchie intese siglate da Roma e Tripoli, al tempo di Gheddafi. Compresa, evidentemente, quell’intesa contestata anche dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo sui respingimenti in mare.

Si legge nell’accordo di aprile: «Adoperarsi alla programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza nonchè in acque internazionali, secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia e in conformità al diritto marittimo internazionale».

L’accordo rafforza la cooperazione tra i due Paesi. In materia di formazione, semaforo verde per «il programma di addestramento in favore degli ufficiali della polizia libica su tecniche di controlo della polizia di frontiera (confini terrestri e aeroporti); individuazione del falso documentale e conduzione delle motovedette».

Inoltre l’Italia allestirà presso la nostra ambasciata di Tripoli, un «centro di individuazione di falso documentale», i libici, invece, nel porto della capitale, forniranno le strutture per un centro di addestramento nautico.

Kufra è l’ultima oasi a sud della Libia, ai confini con l’Egitto, il Sudan, il Ciad. Ed è sicuramente una delle principali porte d’ingresso dei flussi di immigrati o richiedenti asilo che arrivano dal Corno d’Africa.L’accordo del 3 aprile stabilisce l’inizio della costruzione di un «centro sanitario a Kufra per garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore dell’immigrazione illegale».

Materia controversa è quella dei centri di accoglienza in Libia, Paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sul rispetto dei diritti umani. Nella fase finale del regime di Gheddafi le agenzie internazionali che si occupano di diritti umani e di immigrazione hanno sempre denunciato la violazione dei diritti umani in questi centri d’accoglienza.

Quella Libia dovrebbe essere andata in pensione, con la Rivoluzione del 17 febbraio. E adesso, il 7 luglio, con le elezioni per l’Assemblea costituente, il nuovo parlamento dovrebbe elaborare e approvare una nuova Costituzione.

Naturalmente, i ministri dell’Interno di Roma e Tripoli hanno ribadito nel documento sottoscritto da entrambi l’impegno per il rispetto dei diritti dell’uomo, parlando per esempio dei «centri di accoglienza, durante la permanenza degli immigrati illegali». E, soprattutto, hanno annunciato di voler coinvolgere con urgenza «la Commissione Europea affinchè fornisca il proprio sostegno a ripristinare i centri di accoglienza presenti in Libia».

Nel processo verbale dell’incontro del 3 aprile a Tripoli si legge ancora: «Tenendo presente i precedenti accordi e la determinazione della Libia di fondare un nuovo Stato basato sulla democrazia e su principi di diritti umani universalmente riconosciuti... in un clima in cui ha prevalso la comprensione, l’armonia e il reciproco rispetto, le due parti hanno concordato...». Insomma, se son rose fioriranno.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/458843/
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« Risposta #46 inserito:: Luglio 19, 2012, 10:07:33 pm »

Politica

19/07/2012 - RAPPORTI STATO-MAFIA

Berlusconi, ecco i bonifici sospetti: in 10 anni 40 milioni per Dell'Utri

I primi due trasferimenti erano per un prestito ma per la Finanza quella somma non è mai tornata

GUIDO RUOTOLO
inviato a Palermo

Che clima di tensione si respira a Palermo, in questa vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio. Le polemiche con il Quirinale, l’inchiesta sulla trattativa e, adesso, «la decisione di Silvio Berlusconi di rompere unilateralmente la trattativa in corso, facendo uscire la notizia che non si è presentato in Procura, dove era stato convocato come testimone».

Ecco, il clima che si respira a Palermo è esattamente questo: «Strano che l’ex presidente del Consiglio annunci la sua candidatura a premier il giorno dopo aver ricevuto la convocazione a Palermo». Anche se sono battute raccolte nei corridoi della Procura, rendono bene il clima e soprattutto delineano già i contorni di ciò che ci aspetta. Ma torniamo all’inchiesta svelata, secondo la Procura di Palermo, dagli stessi collaboratori dell’ex presidente del Consiglio. Perché in dieci anni dai conti correnti co-firmati da Silvio Berlusconi e da sua figlia Marina sono usciti quaranta e passa milioni di euro finiti sui conti correnti di Marcello Dell’Utri e di sua moglie?

Sono queste le domande che si pone la procura di Palermo che ha deciso di indagare il senatore del Pdl per estorsione. Eh già, perché il sospetto è che Dell’Utri abbia estorto quei soldi al suo «principale», sodale, amico di sempre Silvio Berlusconi.

Ma perché il giorno prima della sentenza della Corte di Cassazione che avrebbe potuto confermare la condanna a 7 anni di carcere per mafia del senatore palermitano, nello studio di un notaio milanese si perfeziona il passaggio di proprietà della villa di Dell’Utri a Berlusconi? Venti milioni di euro per una villa che ne vale la metà? Per dirla in breve, la Procura di Palermo sospetta che quei soldi siano una sorta di liquidazione per i servigi resi da Dell’Utri, attraverso Cosa Nostra, al Cavaliere.

È vero, su alcuni bonifici Silvio e Marina Berlusconi scrivono che la causale è un «prestito», ma secondo il lavoro di verifica della Guardia di finanza, quei soldi due bonifici di 362.000 e 775.000 euro del 10 aprile del 2003 - non sarebbero mai tornati indietro. Troppe operazioni «sospette» portano la stessa procura di Roma che indaga sulla P3 a inviare a Palermo per competenza la documentazione sui bonifici che padre e figlia, Silvio e Marina, indirizzano su conti correnti intestati al senatore e alla moglie.

Il 10 aprile del 2003, i due bonifici per un 1.137.000 euro; il 22 maggio del 2008 da un conto di Silvio Berlusconi presso il Monte dei Paschi di Siena parte un bonifico di 1.500.000 euro, il 25 febbraio del 2011 un altro milione di euro, l’11 marzo del 2011 altri 7 milioni. E poi, l’8 marzo scorso, la cessione della villa sul lago di Como: 20 milioni e 970 mila euro.
Un prezzo sovrastimato di almeno il doppio. Una perizia del 2004 fissava il valore della villa in 9 milioni e 300 mila euro. Da quello che era emerso nell’inchiesta sulla P3 fatta dalla Procura di Roma, nel 2011 Silvio Berlusconi aveva versato 9,5 milioni di euro per ristrutturare la villa. Un anno dopo, quella villa se la compra per il doppio del suo valore.

Irritazione, in Procura, per la fuga di notizie. Silvio Berlusconi aveva fatto sapere che per lunedì 16 luglio, giorno di convocazione a Palermo, era impegnato. Sua figlia Marina si sarebbe trovata all’estero (e Marina ha confermato l’appuntamento per mercoledì prossimo). Nella lettera spedita dall’avvocato dell’ex premier, Niccolò Ghedini, si spiega che Berlusconi preferirebbe essere sentito a Roma: «Sarebbe altresì auspicabile che le testimonianze, per ovvie ed evidenti ragioni di riservatezza, che certamente governano gli intendimenti anche di codesto Ufficio, non venissero assunte presso il Tribunale di Palermo, bensì presso sede diversa».

La Procura di Palermo aspetta un segnale da Berlusconi. Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio si nega ai magistrati antimafia. Successe già il 26 novembre del 2002.
Allora, lo stesso procuratore aggiunto Antonio Ingroia si recò a Roma, a Palazzo Chigi. Un viaggio a vuoto perché Berlusconi si rifiutò di rispondere alle domande.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/462899/
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 27, 2012, 04:25:03 pm »

27/7/2012

Ilva, una sfida per Taranto e l'Italia

GUIDO RUOTOLO

L’Ilva è a un passo dalla chiusura, avendo il gip deciso il «blocco delle attività» di cinque aree dell’acciaieria. E se muore la fabbrica muore la città, Taranto. Ma nello stesso tempo il ricatto del lavoro al Sud non può più consentire che si lavori a tutti i costi. Anche a costo di morire di lavoro.

E’ terribile il ricatto. Ne sanno qualcosa i sopravvissuti di Casale Monferrato che hanno vissuto con l’Eternit. E che solo quando la fabbrica della morte era chiusa ormai da anni hanno avuto giustizia. Adesso, la vicenda di Taranto è più complessa. Intanto perché nello stabilimento lavorano, tra diretti e indiretti, quasi 15.000 addetti. E per la città sarebbe una tragedia la perdita di 15.000 posti di lavoro. Poi perché si scatenerebbe un effetto «domino» con la chiusura di altri impianti Riva che producono tubi e acciai, e le aziende clienti dell’Ilva soffrirebbero per la mancata consegna delle materie prime.

Ma come per l’Eternit di Casale Monferrato, così l’inchiesta della procura di Taranto ha accertato che la presenza dell’acciaieria ha provocato decine di decessi di cittadini che hanno respirato i veleni dell’Ilva.

La città naturalmente si interroga e assiste agli eventi. L’anno scorso ha dovuto prendere atto che il Mar Piccolo era «avvelenato» a tal punto che tutte le coltivazioni di cozze sono state distrutte. E’ accaduto anche quest’anno. Sembra che la fonte dell’inquinamento sia l’Arsenale militare.

Da sempre Taranto ha accettato la grande acciaieria che garantisce lavoro agli operai pugliesi, della Basilicata e persino della Calabria. Anche sapendo del prezzo da pagare. Quand’era Italsider, azienda pubblica, era un “«ssumificio», le assunzioni passavano attraverso il ministero delle Partecipazioni statali e dei ras democristiani locali. La produttività era un concetto astratto. Nella fabbrica prosperavano ben 546 imprese d’appalto, comprese quelle in odore di quarta mafia, di mafia pugliese. Si moriva di fabbrica e per la fabbrica, ma politici e sindacati erano impegnati a garantire lavoro.

Poi è arrivato il padrone delle ferriere. L’inglese che si insedia in India: Emilio Riva che si ritrova la più grande acciaieria d’Europa tra le mani. Per nulla. E si è continuato a morire di fabbrica e per la fabbrica.

Ma adesso che si stava intervenendo per sanare le ferite dell’inquinamento, con un’azione congiunta tra governo, regione, azienda, enti locali e sindacati, arrivailprovvedimentodelgip.Chissàperchéitempi della giustizia sono sempre così anacronistici. Patron Riva si è fatto da parte, ha nominato ai vertici dell’Ilva l’ex prefetto Bruno Ferrante. Il governo dei «tecnici» con molta sensibilità politica ha capito l’urgenza di investire 330 milioni per l’ambiente di Taranto. Il gip ha posto una condizione perché l’Ilva rimanga aperta: che si rendano compatibili con l’ambiente i reparti e le aree di produzioni. E’ una sfida che si deve accettare. Per Taranto e l’Italia. E ieri sera, nel corteo operaio che ha invaso la città, lo slogan che si gridava parlava di questo: «Lavoro e ambiente, connubio intelligente».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10377
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 16, 2012, 06:47:02 pm »

Cronache

15/08/2012 - caso Ilva

"Perito del pm corrotto", coinvolti la proprietà e l'ex direttore di fabbrica

Nuova tegola per gli ex vertici dell'acciaieria

Per la Finanza, Riva e Capogrosso sapevano della bustarella.

Le intercettazioni: "Contatti ministeriali per ottenere l'Aia"

Guido Ruotolo
inviato a Taranto

Una nuova tempesta giudiziaria potrebbe abbattersi sull’Ilva. In questo caso non si tratta di disastro ambientale, gli indagati sono incriminati per corruzione in atti giudiziari. In un rapporto della Guardia di Finanza si riportano decine di intercettazioni telefoniche dalle quali emerge che non solo Girolamo Archinà - l’uomo delle relazioni istituzionali dell’Ilva mandato a casa la settimana scorsa dal presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante - ma anche la proprietà, attraverso Fabio Riva, figlio del patron Emilio, era perlomeno consapevole della corruzione di un perito nominato dall’accusa, e dei tentativi di pilotare l’approvazione delle autorizzazioni ambientali.

La diossina degli altri
Per la Finanza, coinvolti nell’«attività corruttiva» del perito del pm, Lorenzo Liberti, ci sarebbero dunque Archinà e Fabio Riva, ma un ruolo l’avrebbe avuto pure l’ex direttore dell’Ilva di Taranto, Luigi Capogrosso. Liberti per 10.000 euro avrebbe «addolcito» una consulenza negando che le quantità di diossine che hanno portato all’avvelenamento di centinaia e centinaia di pecore e capre, poi abbattute, erano prodotte dall’acciaieria.

È il 31 marzo del 2010, il passaggio di una busta con i soldi tra Archinà e il professore Liberti è avvenuto cinque giorni prima (documentato dagli 007 della Finanza) in un autogrill sulla Taranto-Bari, ad Acquaviva delle Fonti. Archinà parla con il ragionier Fabio Riva per raccontargli l’esito dell’incontro del giorno prima tra Liberti e il direttore dello stabilimento, Capogrosso. Riva: «Ieri come è andata?». «È andata secondo le aspettative...». Riva: «Come siamo messi?». Archinà: «Per quanto riguarda l’aspetto delle bricchette, la prossima settimana ci fa avere tramite un professore del Politecnico di Bari...».

Girolamo Archinà, annotano gli uomini della Finanza, «dice al Fabio Riva che consegnando in anteprima le analisi, potrà iniziare a lavorare (sul Liberti) affinché non nasconda che il profilo è identico, bensì che attesti che comunque le emissioni di diossina prodotte dal siderurgico siano in quantitativi notevolmente inferiori a quelli accertati all’esterno».

Una succulenta occasione
Emilio e Fabio Riva, padre e figlio, si confessano al telefono. E Fabio conferma al padre che conosceva la perizia Liberti ben prima della richiesta di incidente probatorio del 28 giugno del 2010. Fabio: «La perizia tecnica sembrava andasse tutto bene... non lo so che caz... è successo...». Sempre il figlio rivolgendosi al padre: «Però è succulenta la cosa di beccare un Riva giovane... eh papà...». Emilio Riva: «Ma non c’è niente... tanto hanno dimostrato che l’abbattimento delle pecore non c’entra con la nostra diossina, ecco... è quell’altra causa...».

L’Aia addomesticata
Che fatica ottenere l’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, che adesso il ministro dell’Ambiente Corrado Clini vuole aggiornare prima possibile. Stiamo parlando di quell’Aia concessa il 4 agosto del 2011 dopo un inter burocratico di ben sette anni.

La commissione che la istruisce si chiama l’Ipcc, e Giorolamo Archinà si dà un gran da fare per ottenere l’autorizzazione. Scrive il rapporto della Finanza: «L’effettiva e buona riuscita dei contatti si rileva, come si accennava in precedenza, dai costanti aggiornamenti che egli fornisce ai vertici aziendali, con i quali ovviamente condivide le strategie da porre in atto, recependo le direttive che di volta in volta vengono impartite. Nello specifico emerge come anche a livello ministeriale fervano i contatti non proprio istituzionali per ammorbidire alcuni componenti della Commissione Ipcc Aia; con i predetti le relazioni vengono mantenute da tale Vittoria Romeo e in parte anche dall’avvocato Perli».

I parchi scoperti
Vittoria Romeo è al telefono con Fabio Riva: «Allora dicevo ad Archinà, se Palmisano, che è quello della Regione, tira fuori l’argomento in Commissione, siccome l’Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) deve ancora dare il parere sul barrieramento e a noi serve un parere positivo per continuare a dimostrare che non dobbiamo fare i parchi...». Fabio Riva: «È chiarissimo. Però siccome noi non possiamo assolutamente coprire i parchi perché non è fattibile... tanto vale rischiarla così». Vittoria Romeo: «Valutiamo se la cosa in questi giorni la teniamo al livello di Ticali, Pelaggi, Mazzoni (presidente e membri della commissione ministeriale Ipcc, ndr) oppure...». Fabio Riva: «No, picchiamo... picchiamo duro...».

Che termini da combattimento. Del resto quando il direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, firma una relazione che denuncia che i monitoraggi dell’aria nel quartiere Tamburi - siamo nel giugno del 2010 - hanno rivelato la presenza di benzoapirene nell’aria che proveniva dalle cokerie dell’Ilva e che in assenza di un ridimensionamento di quelle emissioni, si dovrà ridurre drasticamente la produzione e condizionarla alle condizioni meteo, la reazione dell’Ilva promette sfracelli. Girolamo Archinà dice ad Alberto Cattaneo, ex consulente esterno oggi dirigente Comunicazione dell’Ilva: «Dobbiamo distruggere Assennato».

Riva serpente
C’è un incontro tra il governatore della Puglia Nichi Vendola, Fabio Riva, Girolamo Archinà e il direttore dell’Ilva Capogrosso, tra le carte della Finanza. Fabio Riva ne parla con il figlio Emilio (omonimo del nonno), il quale suggerisce al padre: «Facciamo un comunicato stampa fuorviante, tanto “per vendere fumo” dicendo che va tutto bene e che Ilva collabora con la Regione».

Archinà con la linea della «trasparenza» non va molto d’accordo. Vuole comprarsi i giornalisti, tagliargli la lingua. «Mi sto stufando perché fino a quando io so’ stato accusato di mantenere tutto sotto coperta, però nulla è mai successo... nel momento in cui abbiamo sposato la linea che sicuramente è più corretta, della trasparenza... non ci raccogliamo più... La situazione è complicata e se non si ha l’umiltà di dire ritorniamo tutti a nascondere tutto...».

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/465626/
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« Risposta #49 inserito:: Agosto 16, 2012, 06:50:55 pm »

Cronache

13/06/2012 - VELENI NELLA CHIESA

"Allo Ior i soldi degli affari con la mafia"

Trapani, l’ombra di Cosa Nostra dietro lo scandalo

GUIDO RUOTOLO
inviato a trapani

Questa è la storia di una guerra per il «potere» e il «denaro» in terra di mafia, combattuta all’interno della Chiesa e che ha avuto delle vittime: un vescovo destituito, un economo diocesano sospeso a divinis e indagato dalla magistratura italiana. L’uno e l’altro fino a ieri - e chissà se non ancora - con pesanti coperture, con cardinali e ministri che dalla Santa Sede hanno dispensato loro benedizioni. «Il Vescovo Miccichè per parte di madre ha stretti legami parentali con uomini d’onore di San Giuseppe Jato». Benvenuti a Trapani. Il narratore di questa storia è un prelato influente. Tanto che le precisazioni della Procura di Trapani di non nominare il nome di Matteo Messina Denaro invano, sono superate dalla «terribile preoccupazione» che non viene nascosta neppure tra i collaboratori più stretti del Santo Padre. E cioè che tra i soldi trapanesi transitati su conti Ior, «si nascondono soldi orribili». E il perché lo spiega il nostro prelato: «È emerso solo uno spruzzo di lava, sotto c’è una bomba a orologeria che è pronta a esplodere». E, dunque, colpisce che il vescovo defenestrato, Francesco Miccichè, che pure aveva avuto la proposta di dimettersi in cambio di un coperchio sullo scandalo, sia «accusato» di essere «vicino ad ambienti mafiosi».

Rimosso dal Pontefice

Il suo processo - con condanna - l’ha subito in tempi strettissimi. Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, era stato inviato dal Papa a ispezionare e riferire direttamente a lui. L’istruttoria, da giugno a dicembre, si è conclusa con una «camera di consiglio» e al termine (a maggio), il Pontefice ha sostituito Micciché. Quali le colpe, i reati e i peccati di Miccichè? Purtroppo, nell’inchiesta della Procura di Trapani sugli imbrogli dell’ex economo della diocesi, don Ninni Treppiedi, il vescovo è parte lesa, è la vittima di una campagna diffamatoria e calunniatoria che don Ninni ha orchestrato con due giornalisti locali. Ma il sospetto è che i due abbiano «alienato beni della diocesi» che non potevano alienare perché sarebbe stato necessario il consenso del Vaticano, essendo di valore superiore al milione di euro. E le operazioni sono state prive di autorizzazioni interne come sarebbe stato necessario.

Vista da Oltretevere, questa di Trapani è la storia di due soci in affari, il Vescovo e l’economo, che a un certo punto rompono il loro rapporto per questione di affari. In un’intervista a un mensile siciliano, don Ninni Treppiedi ha detto: «Credo che quando due persone dopo dieci anni che stanno insieme divorziano (il riferimento è alla rottura con il Vescovo Miccichè, ndr) quanto meno devono avere la buona creanza di lavare i propri panni, soprattutto se si tratta di cose molto delicate, in casa, in questo caso tra le stanze del Vaticano e non andarsi a sputtanare».

Forse possono infastidire certe parole, ma la sostanza è più grave: non portare fuori dalla Chiesa le beghe interne è un messaggio tipicamente mafioso. Secondo i testimoni di questa faida, in realtà, la rottura avviene quando il Vescovo promuove l’economo nominandolo arciprete di Alcamo. Don Ninni si «allarga», bypassando il vescovo nella promozione di affari immobiliari.

La rottura definitiva

La rottura tra i due avviene dunque per motivi di potere e denaro. Era stato don Ninni a introdurre il Vescovo nel mondo della politica locale, alla corte di Antonio D’Alì, ex sottosegretario all’Interno con delega a gestire i fondi dedicati al culto. Si cementa così un rapporto d’interesse intenso. Il sottosegretario è molto attento a soddisfare le richieste del vescovo per ristrutturare chiese, conventi, luoghi di culto. E don Ninni cresce grazie a certe frequentazioni.

Trapani è città di massonerie e logge coperte. Il senatore D’Alì, poiché il padre di Matteo Messina Denaro era campiere nelle terre di famiglia, conosceva bene il capo dei Corleonesi nel Trapanese. E il senatore, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha ottenuto il rito abbreviato.

La storia di questa guerra tra due schieramenti interni alla Chiesa sembra la metafora di una guerra incruenta interna a Cosa nostra. In carcere tutti i «viddani» (da Riina a Provenzano), della vecchia guardia è libero solo Matteo Messina Denaro. È un reduce. Defenestrato il vescovo, don Ninni si pensa vincitore, anche se è stato sospeso a divinis. E presto la giustizia italiana farà il suo corso. Per don Ninni è questione di ore e poi dovrà vedersela in Tribunale.

DA - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/458132/
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« Risposta #50 inserito:: Agosto 18, 2012, 10:21:25 pm »

Cronache

15/08/2012 - caso Ilva - LE CARTE

"Perito del pm corrotto" Coinvolti la proprietà e l'ex direttore di fabbrica

Nuova tegola per gli ex vertici dell'acciaieria

Disagi sull'Appia per la protesta degli operai Ilva

Per la Finanza, Riva e Capogrosso sapevano della bustarella. Le intercettazioni: "Contatti ministeriali per ottenere l'Aia"

Guido Ruotolo
inviato a Taranto

Una nuova tempesta giudiziaria potrebbe abbattersi sull’Ilva. In questo caso non si tratta di disastro ambientale, gli indagati sono incriminati per corruzione in atti giudiziari. In un rapporto della Guardia di Finanza si riportano decine di intercettazioni telefoniche dalle quali emerge che non solo Girolamo Archinà - l’uomo delle relazioni istituzionali dell’Ilva mandato a casa la settimana scorsa dal presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante - ma anche la proprietà, attraverso Fabio Riva, figlio del patron Emilio, era perlomeno consapevole della corruzione di un perito nominato dall’accusa, e dei tentativi di pilotare l’approvazione delle autorizzazioni ambientali.

La diossina degli altri
Per la Finanza, coinvolti nell’«attività corruttiva» del perito del pm, Lorenzo Liberti, ci sarebbero dunque Archinà e Fabio Riva, ma un ruolo l’avrebbe avuto pure l’ex direttore dell’Ilva di Taranto, Luigi Capogrosso. Liberti per 10.000 euro avrebbe «addolcito» una consulenza negando che le quantità di diossine che hanno portato all’avvelenamento di centinaia e centinaia di pecore e capre, poi abbattute, erano prodotte dall’acciaieria.

È il 31 marzo del 2010, il passaggio di una busta con i soldi tra Archinà e il professore Liberti è avvenuto cinque giorni prima (documentato dagli 007 della Finanza) in un autogrill sulla Taranto-Bari, ad Acquaviva delle Fonti. Archinà parla con il ragionier Fabio Riva per raccontargli l’esito dell’incontro del giorno prima tra Liberti e il direttore dello stabilimento, Capogrosso. Riva: «Ieri come è andata?». «È andata secondo le aspettative...». Riva: «Come siamo messi?». Archinà: «Per quanto riguarda l’aspetto delle bricchette, la prossima settimana ci fa avere tramite un professore del Politecnico di Bari...».

Girolamo Archinà, annotano gli uomini della Finanza, «dice al Fabio Riva che consegnando in anteprima le analisi, potrà iniziare a lavorare (sul Liberti) affinché non nasconda che il profilo è identico, bensì che attesti che comunque le emissioni di diossina prodotte dal siderurgico siano in quantitativi notevolmente inferiori a quelli accertati all’esterno».

Una succulenta occasione
Emilio e Fabio Riva, padre e figlio, si confessano al telefono. E Fabio conferma al padre che conosceva la perizia Liberti ben prima della richiesta di incidente probatorio del 28 giugno del 2010. Fabio: «La perizia tecnica sembrava andasse tutto bene... non lo so che caz... è successo...». Sempre il figlio rivolgendosi al padre: «Però è succulenta la cosa di beccare un Riva giovane... eh papà...». Emilio Riva: «Ma non c’è niente... tanto hanno dimostrato che l’abbattimento delle pecore non c’entra con la nostra diossina, ecco... è quell’altra causa...».

L’Aia addomesticata
Che fatica ottenere l’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, che adesso il ministro dell’Ambiente Corrado Clini vuole aggiornare prima possibile. Stiamo parlando di quell’Aia concessa il 4 agosto del 2011 dopo un inter burocratico di ben sette anni.

La commissione che la istruisce si chiama l’Ipcc, e Giorolamo Archinà si dà un gran da fare per ottenere l’autorizzazione. Scrive il rapporto della Finanza: «L’effettiva e buona riuscita dei contatti si rileva, come si accennava in precedenza, dai costanti aggiornamenti che egli fornisce ai vertici aziendali, con i quali ovviamente condivide le strategie da porre in atto, recependo le direttive che di volta in volta vengono impartite. Nello specifico emerge come anche a livello ministeriale fervano i contatti non proprio istituzionali per ammorbidire alcuni componenti della Commissione Ipcc Aia; con i predetti le relazioni vengono mantenute da tale Vittoria Romeo e in parte anche dall’avvocato Perli».

I parchi scoperti
Vittoria Romeo è al telefono con Fabio Riva: «Allora dicevo ad Archinà, se Palmisano, che è quello della Regione, tira fuori l’argomento in Commissione, siccome l’Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) deve ancora dare il parere sul barrieramento e a noi serve un parere positivo per continuare a dimostrare che non dobbiamo fare i parchi...». Fabio Riva: «È chiarissimo. Però siccome noi non possiamo assolutamente coprire i parchi perché non è fattibile... tanto vale rischiarla così». Vittoria Romeo: «Valutiamo se la cosa in questi giorni la teniamo al livello di Ticali, Pelaggi, Mazzoni (presidente e membri della commissione ministeriale Ipcc, ndr) oppure...». Fabio Riva: «No, picchiamo... picchiamo duro...».

Che termini da combattimento. Del resto quando il direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, firma una relazione che denuncia che i monitoraggi dell’aria nel quartiere Tamburi - siamo nel giugno del 2010 - hanno rivelato la presenza di benzoapirene nell’aria che proveniva dalle cokerie dell’Ilva e che in assenza di un ridimensionamento di quelle emissioni, si dovrà ridurre drasticamente la produzione e condizionarla alle condizioni meteo, la reazione dell’Ilva promette sfracelli. Girolamo Archinà dice ad Alberto Cattaneo, ex consulente esterno oggi dirigente Comunicazione dell’Ilva: «Dobbiamo distruggere Assennato».

Riva serpente
C’è un incontro tra il governatore della Puglia Nichi Vendola, Fabio Riva, Girolamo Archinà e il direttore dell’Ilva Capogrosso, tra le carte della Finanza. Fabio Riva ne parla con il figlio Emilio (omonimo del nonno), il quale suggerisce al padre: «Facciamo un comunicato stampa fuorviante, tanto “per vendere fumo” dicendo che va tutto bene e che Ilva collabora con la Regione».

Archinà con la linea della «trasparenza» non va molto d’accordo. Vuole comprarsi i giornalisti, tagliargli la lingua. «Mi sto stufando perché fino a quando io so’ stato accusato di mantenere tutto sotto coperta, però nulla è mai successo... nel momento in cui abbiamo sposato la linea che sicuramente è più corretta, della trasparenza... non ci raccogliamo più... La situazione è complicata e se non si ha l’umiltà di dire ritorniamo tutti a nascondere tutto...».

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/465626/
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 29, 2012, 10:49:57 pm »

Intervista
29/10/2012 - Ilva

“Il quadro è critico L’Italia adotti quella città”

Renato Balduzzi, Ministro della Salute, sottolinea che l’attenzione su Taranto deve essere continua: «Come autorità sanitaria dobbiamo trovare risposte convincenti e programmare campagne di screening di massa»

Il ministro Balduzzi: salute e lavoro devono convivere

GUIDO RUOTOLO
ROMA

I primi rilevamenti del biomonitoraggio avviato dalle strutture del ministero della Salute sono preoccupanti. Il 30% del latte di pecora prodotto negli allevamenti entro i 10 chilometri dall’Ilva di Taranto, è contaminato dalle diossine. Il ministro della Salute Renato Balduzzi riconosce: «Effettivamente siamo in presenza di criticità permanenti. Questi dati più recenti di biomonitoraggio testimoniano la persistenza della propagazione di diossine e di metalli pesanti pericolosi». 

Ed è per questo che il ministro lancia un appello: «Vorrei che il Paese sentisse come suo il problema di Taranto. Adottiamo la città perché il quadro sanitario e ambientale è critico».

 

Ministro, è preoccupato per Taranto? Quali dimensioni ha il disastro ambientale e sanitario? 

«La preoccupazione dell’Autorità sanitaria su Taranto non è di oggi perché la città presenta da tempo delle criticità. Il dato positivo è il carattere fortemente innovativo dell’approccio che il ministero dell’Ambiente ha voluto dare nella definizione della nuova Aia, anche grazie alle nostre indicazioni. Mi preme sottolineare le novità delle prescrizioni che ridimensionano l’impatto ambientale. Ma così, stiamo parlando del futuro che vede la coabitazione tra città e grande industria senza che questo provochi disastri sanitari e ambientali. Noi però dobbiamo anche affrontare il presente e risolvere il passato».

 

L’Ilva continua a inquinare? L’azienda può mettersi in regola con gli impianti senza doverli spegnere? 

«E’ innegabile che la nuova Aia risponda a questo problema. E lo fa con chiarezza quando introduce prescrizioni molto stringenti e forti e impone una azione di monitoraggio costante delle emissioni per avere sotto controllo l’esposizione al rischio e, attraverso il biomonitoraggio, le conseguenze del rischio di emissioni. Posso aggiungere che se l’Ilva dovesse chiudere, la criticità occupazionale avrebbe anche delle conseguenze negative dal punto di vista della salute».

 

I primi risultati del biomonitoraggio confermano che oggi la catena alimentare è contaminata. 

«Proprio perché l’indagine esplorativa ha fatto emergere dei dati sulla contaminazione da diossine e da metalli pesanti nel latte delle capre, dobbiamo rendere permanente e continuo (e non occasionale) il biomonitoraggio».

 

I dati sulla mortalità da tumori diminuiscono in tutto il Paese tranne che a Taranto, dove aumentano... 

«L’attenzione su Taranto deve diventare continua. Come autorità sanitaria dobbiamo trovare delle risposte convincenti, programmare campagne di screening di massa, rilevazioni continue e iniziative di cura».

 

Quando è stato a Taranto a presentare «Sentieri», lo studio sui dati epidemiologici, è stato nel quartiere Tamburi, che quando soffia il vento viene sommerso da strati di polveri. 

«Mi ha colpito la grande civiltà delle persone di Tamburi. Una signora si è chinata su una aiuola e ha messo su un fazzoletto di carte della terra. E mi ha chiesto: “Vede il colore strano?”. Effettivamente era una polvere “caratterizzata”. E poi mi ha colpito la partecipazione della gente. Sono andato a Tamburi senza che nessuno lo sapesse. Ho partecipato a un incontro in parrocchia con il vescovo e le associazioni e man mano la sala si è riempita da cittadini che poneva domande semplici e drammatiche nello stesso tempo. Ho ascoltato e quell’incontro, quelle domande me le porto dentro».

 

Ministro Balduzzi, la decisione di rendere pubblici i risultati della indagine sulla mortalità a Taranto rappresenta un atto di trasparenza. 

«Noi abbiamo investito nella trasparenza. Nel comunicare alla popolazione di Taranto e all’opinione pubblica nazionale che la città deve essere disinquinata. La vertenza Ilva è complicata e difficile da risolvere perché deve trovare un punto di equilibrio tra due esigenze: quella sanitaria e quella produttiva. Come ministro della Salute mi batterò perché salute e lavoro coesistano insieme».

da - http://lastampa.it/2012/10/29/italia/cronache/il-quadro-e-critico-l-italia-adotti-quella-citta-KrSsk2ioT4tgIXioxkwXpI/pagina.html
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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:30:21 pm »

Economia
13/02/2013 - il caso Finmeccanica. Le carte

“Quelle tangenti erano una prassi abituale”


Le confessioni dell’intermediario e i legami con la Lega

Guido Ruotolo

ROMA

A un certo punto, proprio sul finire dell’ordinanza, il gip di Busto Arsizio, Luca Labianca, si lascia andare a una violentissima censura nei confronti di Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini: «Gli elementi fin qui descritti dimostrano che entrambi gli indagati appaiono convinti dell’esigenza di ricorrere alla corruzione di pubblici ufficiali indiani per ottenere l’aggiudicazione della gara d’appalto per la fornitura di 12 elicotteri». 

 

Esplicita il gip: «Dunque l’AgustaWestland e per essa la sua dirigenza - lo Spagnolini in particolare ma le stesse considerazioni possono e debbono farsi per Giuseppe Orsi, a capo di una holding comprensiva di aziende operanti in svariati settori - sembrano essere consueti al pagamento di tangenti e vi è motivo di credere che tale filosofia aziendale si ripeta anche in futuro se non resa vana attraverso l’intervento cautelare».

Parlano al telefono Mario Orlando, responsabile affari legali e societari di Finmeccanica, e Giuseppe Bargiacchi, responsabile internal dell’Audit Finmeccanica. Loro sì che sono consapevoli della imminente tempesta giudiziaria (Orlando): «Stiamo correndo verso il precipizio... questa è la mia sensazione....». 

 

Commenta il gip: «Invero, i fatti oggetto del presente procedimento penale sembrerebbero aver determinato anche un palese e conosciuto imbarazzo da parte dei più importanti esponenti governativi per la condotta osservata da Giuseppe Orsi».

 

La sala riunioni della società Fata spa (gruppo Finmeccanica), presidente Ignazio Moncada, è piena di cimici del Noe dei carabinieri. Moncada parla con l’ex ministro delle Finanze Domenico Siniscalco. Riporta il brogliaccio del Noe: «Moncada parla di Monti (Mario, presidente del consiglio, ndr) e di Orsi e della questione legata ad Abu Dhabi. Sembra che Ignazio riporti le parole di Monti in merito: “Perché io ho detto vado ad Abu Dabhi, non gli stringo la mano e lui capirà che si deve dimettere... poi non gli ho risposto alla lettera quindi ha capito che...”. Ignazio gli spiega che Orsi ha scritto una lettera a Monti...».

 

Guido Haschke, l’intermediario con doppio passaporto (italo-americano) che vive a Lugano, è un bel tipo. Un piccolo squaletto in grado di spolpare fino all’osso le sue vittime ma anche costretto, a sua volta, a garantire alle stesse altre prede per sopravvivere. Lui faceva il consulente (anche) per le imprese Finmeccanica, soprattutto in India, grazie alle sue buone entrature in quel Paese. E i manager della holding pubblica, in cambio di contratti di consulenza, chiedevano una mazzetta mensile.

 

Non c’è che dire, il mondo di Finmeccanica è un mondo di avidi dirigenti che potrebbero accontentarsi del corposo lunario garantito, e invece per arrotondarlo pretendono tangenti mensili. Ecco cosa racconta Haschke ai magistrati di Busto Arsizio, il 13 novembre scorso: «A Pozzessere (Paolo, ex direttore commerciale Finmeccanica, ndr) ho corrisposto la somma di denaro tra i 50.000 e i 100.00 euro in più occasioni sia in Italia che all’estero. Ricordo in particolare che a Londra gli diedi 10.000 euro, li mise in una tasca e poi mi disse di averli smarriti...».

 

Perché l’obolo mensile? «Perché mi introducesse in altri settori. Quando l’ho conosciuto era in Alenia. Ho avuto una consulenza da Alenia per il tramite di Fava (Luciano, all’epoca direttore commerciale di Alenia, ndr) al quale ho dato 30.000 euro in contanti. Il contratto di consulenza con Alenia prevedeva un corrispettivo di 360.000 euro annui e mi è stato rinnovato per due anni».

 

Pozzessere, Fava. E poi Paolo Girasole: «Gli ho corrisposto - ricorda Haschke - la somma complessiva di 200.000/220.000 circa. Praticamente Girasole era da noi stipendiato per 10.000 euro al mese per fare il lavoro che avremmo dovuto fare io e Gerosa se fossimo stati sempre in India. Girasole è dal 2009 (lo è stato fino a pochi mesi fa, ndr) il rappresentante di Finmeccanica in India. Sapevo che anche lui gradiva di essere retribuito. Era al corrente di quel che accadeva in un’altra “parrocchia” rispetto ad Orsi. Quest’ultimo ha sempre gestito AgustaWestland senza fare riferimento a Finmeccanica, intendo dire come una sorta di “provincia autonoma”».

 

Quando nel luglio scorso la Cassazione decise che la competenza dell’inchiesta dovesse essere di Busto Arsizio, le carte partirono da Napoli, dai pm Piscitelli, Woodcock e Curcio, con l’incriminazione di Orsi anche per finanziamento illecito alla Lega Nord.

 

A un certo punto, AgustaWestland non vuole più cacciare i soldi promessi ad Haschke, o meglio vuole tagliare 10 milioni di euro sui 41 della maxitangente e delle provvigioni. L’intermediario che vive a Lugano, ricorda: «Giuseppe Zampini, amministratore delegato Ansaldo Energia mi fece considerare che i soldi che non volevano più dare a me, potevano essere ritornati allo stesso Orsi per ringraziare chi lo aveva sponsorizzato nell’ascesa a Finmeccanica, cioè la Lega». Interrogato, Zampini conferma: «Avevo raccontato ad Haschke che proprio all’ultimo momento Orsi era stato preferito a me per il forte appoggio della Lega».

 

Il gip conviene, come ipotizzato da Haschke e da Zampini, che la riduzione della provvista della quota dei 41 milioni ad Haschke sia dipesa dalla necessità di Orsi di «disobbligarsi con alcuni esponenti politici che avevano appoggiato la sua candidatura a presidente e ad di Finmeccanica, politici appartenenti al partito Lega Nord a cui egli faceva riferimento»: «La circostanza non può essere sottaciuta poiché sull’utenza cellulare di Giuseppe Orsi sono state intercettate diverse telefonate intercorse con esponenti politici di quel partito che dimostrano una certa vicinanza di Orsi a quel partito e confermano la complessiva credibilità di Haschke».

 

Il presidente Orsi aveva provato a condizionare le indagini, a toglierle da quel pm impenitente, Eugenio Fusco, ad assumere due magistrati in pensione per il tribunale interno a Finmeccanica e più in generale, i due indagati eccellenti, annota il gip, «si sono attivati nel porre in essere condotte di sovvertimento della genuinità delle prove». Ma la vera spina nel fianco del presidente Finmeccanica erano i giornali. Addirittura il «nemico» per eccellenza era ritenuto il Sole 24ore. Tant’è che Orsi chiama il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: «Ha superato il limite... è il giornale che mi attacca di più...». «Comunque interveniamo subito.....», gli risponde Squinzi. Intervento che il Comitato di redazione e il direttore del Sole negano sia mai avvenuto.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/13/economia/quelle-tangenti-erano-una-prassi-abituale-5WWn8NFTtxpSFuB1i7O4hN/pagina.html
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:32:07 pm »

Politica
02/03/2013

“Il Cavaliere mi pagò, ho deciso di parlare perché voglio rinascere”

De Gregorio: “Ci fu una guerra, aspettate e capirete”

Guido Ruotolo
inviato a Napoli


Scusi senatore De Gregorio, ma lei i soldi da Berlusconi li ha presi o no? 

«Certo che li ho presi. Così come ho chiarito con i magistrati».

 

Senatore, allora lei ha deciso di collaborare con i pm napoletani quando ha scoperto che non sarebbe stato più candidato, cioè eletto? 

«Un’altra sciocchezza. Ai pm di Napoli ho consegnato una copia della raccomandata spedita il 19 settembre scorso a Berlusconi, Verdini, La Russa, Biondi e Alfano nella quale annunciavo che non era mio interesse ricandidarmi, che avrei fatto un passo indietro utile per il rinnovamento. Chiesi loro di dare spazio nelle liste a due giovani di Italiani nel Mondo, così come sancito da accordi sottoscritti da Berlusconi e Verdini nel 2009. Ancora il 19 dicembre Verdini mi ha proposto la candidatura che io ho rifiutato chiedendo in cambio un posto blindato in lista per un giovane dirigente di Italiani nel Mondo».

 

De Gregorio, un passo indietro maturato perché voleva essere libero di potersi difendere nelle inchieste accusando il presidente Berlusconi? 

«Vuole sapere quando ho maturato la decisione di chiarire, raccontare, assumermi le mie responsabilità anche penali? Quando ho sognato mio padre che mi ha spronato a liberarmi dai miei fardelli, a diventare uomo libero per poter ricominciare».

 

Non perché rischiava l’incriminazione per riciclaggio con l’aggravante di aver favorito l’organizzazione camorrista? 

«È un’altra balla. Sono già a processo per riciclaggio semplice, senza aggravante e dimostrerò che ero una vittima di usura. In realtà ho maturato la scelta di collaborare nel momento in cui ho avvertito la consapevolezza che nel nuovo Parlamento una parte degli eletti avrebbe preteso una “Norimberga per i politici”. Non volevo passare alla storia come un senatore che esce con le manette da Palazzo Madama. Da libero cittadino, invece, mi consegnerò alla giustizia. Ho scritto ai pm napoletani che il giorno dopo lo scioglimento delle Camere sarei andato da loro. E così è successo...».

 

Con l’avvocato Ghedini lei si è mai consultato? 

«L’incontrai nel maggio scorso preannunciandogli la mia decisione e chiedendogli un aiuto per il dopo. Avrei voluto che mi fosse finanziato un film sul genocidio del popolo curdo».

 

In uno degli interrogatori lei ha detto che si è combattuta una vera guerra per far cadere il governo Prodi, e ha fatto riferimento al ruolo degli americani.... 

«Sul punto non posso dire nulla. Aspettate e capirete perché ho parlato di guerra».

 

Lei rispondendo a Berlusconi ha detto che da tempo si sta preparando agli arresti domiciliari. Perché non ha chiesto la revoca della misura, come ha fatto Marco Milanese che l’ha ottenuta? 

«Non l’ho fatto perché non voglio intorbidare il clima».

 

Chi è per lei Valter Lavitola, suo compagno di merendine? 

«Gli ho fatto da compare di cresima. È un ragazzo diseducato alla vita. In testa ha il film del denaro, vuole diventare ricco come Silvio Berlusconi». 

 

Intanto era consapevole che liberarsi dei suoi macigni avrebbe comportato l’incriminazione di Berlusconi? 

«Sono nel giusto, non mi pongo il problema di inguaiare qualcuno. Forse qualcuno ha solidarizzato con me quando Reggio Calabria mi ha indagato per rapporti con la ’ndrangheta? Non ho ricevuto neppure una telefonata... Quando si è discusso al Senato la richiesta del mio arresto ho avuto la chiara sensazione che mi dovevo guardare da possibili traditori nel mio gruppo».

da - http://lastampa.it/2013/03/02/italia/politica/il-cavaliere-mi-pago-ho-deciso-di-parlare-perche-voglio-rinascere-1Qm6Q9FL1FpFwRmmADBphP/pagina.html
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 09, 2013, 12:09:29 am »

Economia
08/03/2013 - Il giorno del dramma

Scandalo del Monte dei Paschi Rossi suicida per il suo lavoro

Gli inquirenti seguono la pista di una fuga di notizie denunciata dalla banca.

Oggi l’autopsia sul corpo del dirigente

Guido Ruotolo
INVIATO A SIENA

Il film della morte non ha un inizio: non si vede l’uomo scavalcare la finestra e lanciarsi nel vuoto. Il film inizia con un corpo che è arrivato alla fine del suo viaggio e sta per toccare terra. Sono i fotogrammi della morte di David Rossi, responsabile Comunicazione di Mps, impressi nella telecamera che dà sulla strada dietro piazza Salimbeni, via De Rossi. Fotogrammi muti che lasciano intuire il sordo rumore del tonfo, dell’impatto con il suolo. Il corpo supino, a pancia all’aria, muove un braccio. Come se nel torcersi in aria Rossi avesse avuto premura di non vedersi poi irriconoscibile. Lunghi attimi di nulla, di silenzio, di corpo inanimato. Venti minuti di agonia e di morte di un uomo solo. Poi arriva qualcuno: un passante, un dipendente del Monte che si deve essere accorto di quella finestra aperta nel giro serale prima di chiudere il portone del palazzo. L’uomo si china, si volta e scompare. Sono le 19,59 del 6 marzo 2013 e l’inchiesta Mps conosce la sua prima (speriamo unica) vittima. In realtà potrebbero essere state le 20,20 (gli orologi delle telecamere potrebbero avere il tempo sfalsato). Una ventina di minuti dopo arriva al 112 dei carabinieri l’allarme e le forze di polizia in pochi minuti sono lì.

 

Che impressione, prima le monetine - era il 15 febbraio scorso - quando Giuseppe Mussari, il presidente di Mps e dell’Abi, si presentò per l’interrogatorio. Adesso il suicidio. Troppo forte è la suggestione perchè non si torni alle immagini di quel biennio di Mani Pulite, vent’anni fa. E però quanto è sbagliato questo parallelismo. Allora gli arresti erano all’ordine del giorno. Questa di Siena è paradossalmente una inchiesta soporifera. E’ vero, c’è stato un arresto, quello di Gianluca Baldassarri, ma solo perchè l’indagato voleva trasferirsi a Londra, e gli sono stati sequestrati una ventina di milioni scudati. Per il resto, solo perquisizioni e avvisi a comparire.

 

Sono sconvolti i tre pm Antonio Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso, quando escono dal Palazzo del Monte a metà mattinata, dopo aver interrogato il presidente di Mps Alessandro Profumo. E’ come se si sentissero moralmente responsabili di un gesto, la cui colpa sicuramente non può ricadere su di loro. Proviamo a ricostruire gli attimi immediatamente precedenti al salto nel vuoto. David Rossi è scosso per quello che sta succedendo. Non è un mistero che fosse amico di Mussari. Era stato perquisito anche lui, insieme a Mussari e all’ex direttore generale Antonio Vigni, a febbraio. Sospettati gli indagati, di concordare la linea di difesa. Ma ieri come oggi i pm e gli uomini del Valutario del generale Giuseppe Bottillo negano che Rossi fosse stato indagato.

 

Eppure quei tre messaggi accartocciati trovati nel cestino del suo ufficio lasciano intendere che si dannasse per qualcosa che aveva fatto. Prove di un messaggio, di una lettera da lasciare alla moglie. Una frase, tre righe, poi cinque. Il senso dell’addio: «Cara Antonella... ho fatto una caz... sto morendo....». Chiariscono gli investigatori: «Nessuna indicazione precisa sull’elemento scatenante del gesto».

 

Il fatto che sull’inchiesta per il suicidio lavori il quarto pm della Procura, Nicola Marini, l’unico che non si occupa dell’inchiesta Mps (e come pg sia coinvolta la Squadra mobile e non la Finanza) lascerebbe escludere che il movente sia da individuare nell’inchiesta su Antonveneta e sui titoli tossici. 

 

Gli investigatori sono convinti che il suicidio sia maturato nell’ambito del lavoro: ieri hanno sequestrato due cellulari, il pc, le drive pen trovate in ufficio. Oggi dovrebbe essere fatta l’autopsia. Ma quel messaggio, «ho fatto una caz....», lascerebbe intendere un problema che si sarebbe posto dopo. 

 

Rossi non era indagato e forse potrebbe essersi sentito colpevole perchè una notizia che doveva rimanere riservata è finita nella redazione del Sole 24Ore. La notizia cioè del 28 febbraio che Mps voleva avviare l’azione di responsabilità nei confronti di Mussari, Vigni e delle due banche d’affari, Deutsche Bank, per l’operazione Santorini, e Nomura per Alexandria. Una fuga di notizie che ha fatto scattare l’inchiesta per insider trading e la perquisizione nei confronti di due consiglieri. Facendo uscire la notizia dell’orientamento di Mps, la talpa ha messo le banche nelle condizioni di anticipare una difesa promuovendo loro, una causa contro Mps a Londra.

 

Non trova conferme neppure l’indiscrezione che voleva Rossi sul punto di essere sostituito nell’incarico di responsabile della comunicazione di Mps. David Rossi non ha retto al peso di una responsabilità che sentiva su di sè. Il salto nel vuoto, il tonfo, l’agonia. Attimi nei quali deve aver rivisto il film della sua vita che stava per finire. Ci voleva anche un fuoriprogramma, una agonia inaspettata. In solitudine, prima che arrivasse qualcuno a dare l’allarme.

da - http://lastampa.it/2013/03/08/economia/rossi-suicida-per-il-suo-lavoro-BLmOLG6pVXkOeSA3dzvSZN/pagina.html
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« Risposta #55 inserito:: Maggio 13, 2013, 11:08:30 am »

Politica
13/05/2013 - intervista


Sabelli al Pdl: offensivo parlare di pacificazione

Noi non siamo in guerra



Il presidente dell’associazione dei magistrati replica dopo la giornata di sabato, Pdl e Cavaliere in piazza contro i giudici


Il presidente Anm: ormai vedo assuefazione ai loro attacchi


Guido Ruotolo
ROMA


Pone subito una questione diciamo di metodo: «La gravità della manifestazione di Brescia del Pdl non sta nella partecipazione di qualche ministro del governo Letta, o meglio non solo in tale partecipazione come denuncia il Pd, alleato di governo, quanto nei contenuti espressi dalla stessa».

Il presidente dell’Anm, l’Associazione nazionale dei magistrati, Rodolfo Sabelli, che pure ha un atteggiamento sempre molto misurato, sbotta dopo l’ennesima valanga di contumelie contro i magistrati pronunciate sabato da Silvio Berlusconi.

 

Presidente, sembra un fotogramma bloccato di un film che va in onda da 20 anni. Berlusconi che attacca certa magistratura e l’Anm che si chiude a riccio in una difesa dei magistrati... 

«Temo che l’assuefazione a queste affermazioni faccia perdere di vista la loro gravità e, dunque, faccia svaporare la collera, o meglio l’indignazione, di fronte a delle accuse gravissime e inaccettabili».

 

Ma scusi ieri il presidente Berlusconi si è paragonato ad Enzo Tortora ed è stato zittito dalla figlia del presentatore televisivo. 

«E’ un paragone fuori luogo. Certo, sabato non sono state pronunciate frasi come “la magistratura è un cancro, è peggio della mafia”, ma non per questo i concetti espressi sabato non devono essere pesantemente censurati. Possiamo mai subire senza criticarle affermazioni sui magistrati accecati dall’odio nei suoi confronti, invidiosi, che giudicano per convinzioni politiche? Noi abbiamo il dovere di ricordare ogni volta che i magistrati sono imparziali e applicano la legge».

 

Il fotogramma bloccato però è reale. «Siamo a una pericolosa delegittimazione del ruolo della giurisdizione nella nostra democrazia...». Concetti espressi dall’Anm l’altro giorno, che ricordano quelli di vent’anni fa, appunto. 

«Non è colpa nostra se ogni volta con la ripresa di processi che lo vedono coinvolto, Berlusconi spara a zero sulla giustizia con il solito campionario di offese e luoghi comuni contro i magistrati definiti faziosi e con la storia del pregiudizio. E’ vero, ogni volta sembra che ci troviamo punto e a capo, che anche noi riviviamo un deja vu. Ma dobbiamo, ripeto dobbiamo riaffermare il valore della legalità e della giurisdizione. In questo modo, noi non difendiamo i magistrati ma il ruolo della giurisdizione».

 

Le colombe sembrano ancora una volta sconfitte. Quali sono le condizioni dal vostro punto di vista per arrivare a una pacificazione? 

«È offensivo porre il tema della pacificazione perché lascerebbe intendere che ci sono due eserciti in guerra: quello della politica e quello della magistratura. Non è così. La magistratura non ha dichiarato guerra a nessuno. Ci sono invece esponenti politici, che sistematicamente da anni conducono una offensiva contro la magistratura fatta di contumelie e tentativi di “punizioni” attraverso modifiche legislative che rischiano di vanificare il controllo di legalità pur di garantire l’impunità a qualche imputato eccellente. Il processo è già in se stesso, con le sue regole e i gradi di giudizio, una forte garanzia».

 

Va bene, non parliamo di pacificazione ma di responsabilità. Che bisogna fare per uscire da questo cul-de-sac? 

«Fino a quando si continuerà a parlare di riforma dei giudici e non della giustizia, e sabato il presidente Berlusconi ha riproposto la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei giudici, non vedo grandi margini di manovra. Occorre una reazione corale a difesa della giurisdizione, occorrono decisi interventi di riforma per il contrasto alla criminalità e per l’efficienza della giustizia, occorre che tutti riscoprano la capacità di indignarsi. Ma le voci che si levano di fronte agli insulti che vengono rivolti alla magistratura, cioè ad una delle istituzioni dello Stato, spesso sono deboli e circoscritte, e questo è preoccupante». 


DA - http://lastampa.it/2013/05/13/italia/politica/sabelli-al-pdl-offensivo-parlare-di-pacificazione-noi-non-siamo-in-guerra-UBwioJDLj6K55SN1tHCILJ/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 24, 2013, 11:40:57 am »

Cronache
24/06/2013

Omicidi ed estorsioni

Ma a Lamezia non ci sono condannati per mafia

Viaggio nella città dove la guerra tra clan della ’ndrangheta ha fatto più di 30 morti e tutti gli imprenditori pagano il pizzo



Guido Ruotolo


INVIATO A LAMEZIA TERME


Silenzio. Le armi tacciono, anche le taniche di benzina, i proiettili in busta, gli ordigni artigianali sono in «vacanza». Le statistiche raccontano che negli ultimi due anni solo per 62 giorni non ci sono stati attentati. Più o meno un giorno di riposo ogni dieci di rumori, fiamme e rovine. 

 

È che da quando si è diffusa la notizia di imminenti retate che riguarderebbero «batterie di fuoco», piromani, esperti in esplosivi, avvocati collusi, politici corrotti, tutti si sentono coinvolti. Si sussurra che un politico finirà in carcere e il panico ha preso il sopravvento perché ognuno si sente perseguitato.

 

Che dolore prendere atto come in questo scenario, solo adesso, l’Antimafia sembra essere passata all’offensiva. Finora persino la giustizia ha dato prova di molta debolezza se non di collusione. Saltati i meccanismi di coordinamento tra gli apparati investigativi che si occupano del contrasto al crimine organizzato, si assisteva allo scaricabarile sulle competenze facendo perdere ogni visione unitaria di quello che succedeva a Lamezia. 

 

È vero, nel luglio 2012 sono state arrestate 36 persone, i vertici della cosca Giampà, tutti recentemente condannati a pene pari a circa 400 anni di reclusione. Ma siamo solo al primo grado, come se fosse l’alba di una stagione tradita in passato. Infatti, a Lamezia, nessun processo si è concluso finora con la sentenza passata in giudicato per il reato di associazione mafiosa. E oggi la giunta del riscatto antimafia del sindaco Giannetto Speranza, segretario regionale di Sel, sta per soccombere al fuoco amico. 

 

La Calabria della politica è un territorio dove si combatte aspramente. E Lamezia è un po’ Beirut, un po’ Corleone. Riconosce il sindaco: «Da sempre la politica è debole verso la mafia». Rodolfo Ruperti, l’esperto investigatore: «Lamezia è una città criminale». Il procuratore aggiunto antimafia, Giuseppe Borrelli: «Lamezia è la città dove il legame tra la ’ndrangheta e alcuni settori della società civile è talmente radicato che non viene percepito come una devianza sociale perché è digerito nello stomaco della città».

 

Anche l’Antiracket, fiore all’occhiello di un Sud che si dovrebbe opporre a Lamezia sembra una margherita appassita. Mai una denuncia, mai una primavera di imprenditori sanamente incolleriti davanti alla porta della Mobile, dei carabinieri. E il peggio è il sospetto che anche loro, non abbiano saputo dire «no» agli esattori del pizzo.

Il bilancio della ’ndrangheta di Lamezia è di 37 omicidi, 10 tentati omicidi in dieci anni. Come se a Roma ve ne fossero stati 2.500. In questo elenco non ci sono i due netturbini uccisi nel 1987 solo perché il Comune aveva tolto ai clan l’appalto della raccolta dei rifiuti. E non c’è l’omicidio del vigile del fuoco Vincenzo Paradiso, colpevole di aver investito in auto un ubriaco che si pose all’improvviso davanti alla sua auto. L’ubriaco però era un mafioso e la sua cosca punì con la vita il povero pompiere. Un caso che porta all’omicidio del poliziotto Salvatore Aversa e di sua moglie,nel ’92, condannato a morte per aver concentrato le attività investigative sui reggenti del clan Giampà e Torcasio.

 

Ndrangheta per nulla di serie b, questa di Lamezia. Francesco Giampà è il figlio del capo della cosca che comanda in città, Giuseppe, in carcere da anni. È dunque il reggente. Arrestato pure lui, ha deciso di collaborare diventando il pentito più importante della Calabria. Non solo per il grado che ricopre. Ha messo a verbale: «Chi comanda davvero è chi ha le batterie di fuoco».

Parla di killer, il pentito. E lui ne aveva di fidatissimi e non conosciuti. Almeno otto. Uno dei «migliori» è stato Vasile. Francesco Giampà l’aveva assunto come dipendente nella sua attività di copertura, un ristorante. «Era bravissimo a sparare - racconta il boss pentito - che una volta con il guidando il motorino con una mano e la pistola nell’altra ammazzò senza problemi la sua vittima». Un’altra volta, nel 2011, entrò nel campo di calcio e uccise l’allenatore, che era della famiglia rivale dei Torcasio.

 

Il patriarca Giuseppe Giampà non era da meno. Un giorno capì che lo zio Vincenzo Bonaddio non versava nella cassa del clan tutti i proventi delle estorsioni. Il boss fece partire l’ordine di piazzare una bottiglia incendiaria spenta davanti a ogni attività commerciale e imprenditoriale di Lamezia. «Ma in questo modo chi paga già dovrà pagare due volte?», obiettano i fedelissimi al capo. Il boss replica: «Chi paga ce lo dirà e sapremo così quanto lo zio Vincenzo si è fregato». Il conto adesso sembra essere arrivato. Lo scenario che si annuncia è un terremoto giudiziario che lascerà tante rovine. E non è detto che sia un male. 

da - http://lastampa.it/2013/06/24/italia/cronache/omicidi-ed-estorsioni-ma-a-lamezia-non-ci-sono-condannati-per-mafia-pxXbCmJohcIteAoSD3xtLP/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Settembre 15, 2013, 05:29:48 pm »

Politica
15/09/2013

Fondi neri a Hong Kong e un memoriale di Lavitola

Nuovi guai per Berlusconi

Valter Lavitola a Fiumicino nell’aprile 2012 dopo la latitanza in Sud America

L’ex senatore De Gregorio: “Nel 2007 bloccammo la rogatoria, ma ora...”


Guido Ruotolo
Roma


Segnali, avvisaglie di una tempesta in arrivo. Da due giorni sul «Fatto Quotidiano», Valter Lavitola manda messaggi a Silvio Berlusconi, annunciando che all’udienza preliminare dell’inchiesta napoletana sulla compravendita dei senatori (Sergio De Gregorio) depositerà un memoriale di venti pagine, in cui si difende e «interpreta» i fatti che gli vengono contestati. L’udienza, fissata per domani, salterà per lo sciopero degli avvocati.

Il legale di Lavitola, Guido Iaccarino, assicura che comunque depositerà il memoriale in cancelleria. Da più di un anno il faccendiere ex direttore dell’Avanti è in carcere (adesso ai domiciliari), e la sua resistenza potrebbe vacillare. Il processo sulla corruzione per la compravendita di senatori dovrebbe cominciare entro fine anno, e la prescrizione scatterà nel settembre del 2015. 

Ma non è solo il «fronte» napoletano che potrebbe riservare altre sorprese, a preoccupare Silvio Berlusconi c’è sempre Milano, con la probabile nuova incriminazione per subornazione di testimoni, per le false dichiarazioni dei testi chiamati al processo Ruby.

E poi c’è la «novità» della mina vagante ex senatore Sergio De Gregorio, che è stato sentito per quattro ore, a inizio settimana, dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro, che sono titolari dell’inchiesta sulla colossale frode fiscale del gruppo imprenditoriale fondato da Silvio Berlusconi, complice Farouk detto «Frank» Agrama. 

L’ex senatore De Gregorio ha ripetuto, naturalmente con maggiore dovizia di particolari, quanto già messo a verbale a Napoli, ai pm Piscitelli e Woodcock. E da quanto si intuisce, mercoledì o giovedì della prossima settimana il procuratore De Pasquale potrebbe depositare la rogatoria «cinese» e le dichiarazioni di De Gregorio nell’udienza del processo Mediatrade, che vede imputati il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, il vicepresidente Pier Silvio Berlusconi e lo stesso Agrama, imputati per frode fiscale relativa al consolidato Mediaset. Il presidente della seconda sezione penale del Tribunale potrebbe mandare gli atti alla Procura.

Al bar della Casa del Cinema, a Villa Borghese, Sergio De Gregorio si presenta dopo un’ora di corsa, anzi di «camminata veloce». Ha con sé le bozze del libro che sta per uscire - «Operazione libertà» - che gli servono per leggere quei riferimenti (messi a verbale a Milano) che chiamano in causa Berlusconi. In sostanza, nel 2007, complice Sergio De Gregorio, Silvio Berlusconi riesce a bloccare una rogatoria internazionale che lo potrebbe rovinare. «Se i pm portano in Aula quelle carte - ricorda ora Sergio De Gregorio - è un disastro. Mi disse così il Cavaliere alla fine della lettura del mio dossier. I pm milanesi svilupparono informalmente la loro rogatoria a Hong Kong, senza autorizzazioni. Spiegai al Presidente che potevamo bloccare la minaccia chiedendo all’ambasciatore cinese a Roma di neutralizzare la rogatoria. La cena si svolse a Palazzo Grazioli e l’ambasciatore mantenne gli impegni».

L’ex senatore di «Italiani nel mondo» ricorda di aver consegnato una cartellina di poche pagine del console generale italiano ad Hong Kong, Alessandro De Pedys, al Presidente Berlusconi. Era un report, una informativa che il console aveva inviato alla Farnesina.

«È in corso un’indagine su una colossale frode fiscale perpetrata da Silvio Berlusconi e Farouk Agrama. Siamo a un’ipotesi di distrazione di fondi per 170 milioni di dollari. Le somme sono state versate da conti ufficiali del gruppo Fininvest», in diverse filiali di banche a Londra, Bahamas e Lugano. Il console, in quel report finito a Palazzo Grazioli, raccontava gli intrecci che legavano Berlusconi ad Agrama attraverso alcune società di «Hong Kong, Curaçao, Antille Olandesi». «E queste società sono amministrate da due prestanomi: Paddy Chan Mei Yu e Katherine Hsu May Chun».

La rogatoria fu inoltrata dalle autorità italiane a quelle della ex colonia britannica il 4 ottobre 2006. De Gregorio e Berlusconi intervengono nel 2007 per bloccarla. Nel 2013, pochi giorni fa, quel materiale è finalmente arrivato a Milano. Chi è che insiste nel far illudere il Cavaliere che una richiesta di grazia sarà accolta dal Quirinale? Chi si professa vero amico di Berlusconi, lo racconta come assediato in queste ore dagli «incubi giudiziari e dai tradimenti politici».

da - http://lastampa.it/2013/09/15/italia/politica/fondi-neri-a-hong-kong-e-un-memoriale-di-lavitola-nuovi-guai-per-berlusconi-pgZcUCO0sHq3GNZ4tG30HN/pagina.html
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« Risposta #58 inserito:: Settembre 22, 2013, 11:07:12 pm »

POLITICA
22/09/2013

I verbali del Cavaliere “Tarantini portava ragazze ma non sapevo le pagasse”

L’ex premier: “Quando è stato in crisi ho aiutato lui e la moglie”

GUIDO RUOTOLO
ROMA


Il procuratore aggiunto di Bari, Pasquale Drago, assolve al burocratico compito di assumere le generalità dell’interrogante. Ha uno pseudonimo, un soprannome? «No». Dimora? «Ho eletto domicilio presso il mio difensore, avvocato Nicolò Ghedini, di professione parlamentare della repubblica». Professione, occupazione? «Prima imprenditore, ora senatore della repubblica». 
 
Siamo nel maggio scorso, prima a Roma e poi a Bari, Silvio Berlusconi viene sentito dai pm. A Bari, dopo la chiusura delle indagini, siamo in attesa della richiesta della Procura dell’udienza preliminare. L’inchiesta è quella che vede Berlusconi e il faccendiere Valter Lavitola indagati per induzione a rilasciare dichiarazioni mendaci nei confronti di Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore della malasanità pugliese che procurava le escort. Secondo l’accusa, Gianpaolo Tarantini fu mantenuto, stipendiato, finanziato dal Cavaliere perché non mettesse in difficoltà, non raccontasse delle escort - tra queste, Patrizia D’Addario - e degli incontri di lavoro procurati da Berlusconi con Finmeccanica e la Protezione civile.
 
«Voglio dire veramente che Tarantini era un fatto di comodità, quando c’era una cena io non le invitavo neppure. Si era creato un rapporto di amicizia, amicizia non è il termine giusto, di cordialità con il mio maggiordomo e con gli altri camerieri di casa mia e perciò telefonava per sapere se c’era una cena e arrivava sempre con due ospiti».
Un’ora e mezza di domande e di risposte. In un clima molto cordiale, con il procuratore aggiunto Drago che a un certo punto si lascia andare: «Il gip sostanzialmente imposta il processo in una direzione che purtroppo per il pubblico ministero ha preso una strada obbligata...». 
La linea Maginot tracciata dai difensori di Silvio Berlusconi è quantomai scontata: «Non sapevo che le ragazze che venivano con Tarantini alle cene fossero delle escort. Ho fatto solo beneficenza nei confronti di Tarantini. Nulla so degli appuntamenti fissati con i dirigenti di Finmeccanica».
 
Il procuratore Drago si chiede e chiede: «Perché lei ha stretto quest’amicizia con questo signore di cultura e di esperienza assolutamente inferiore alla sua?». Risponde l’ex presidente del Consiglio: «Non è che ho stretto con lui una profonda amicizia. Con Tarantini non ho mai parlato di fatti miei o di fatti della sua famiglia. Era piacevole avere in mezzo a tante persone, uno che si faceva sempre accompagnare da due belle ragazze e ridendo con il mio maggiordomo e con i miei camerieri, mentre Tarantini andava al posto più lontano, a capo tavola, dicevo al maggiordomo che le ragazze me le mettesse proprio di fronte per tirarmi su di morale. Mai avrei immaginato che lui le pagasse, anche perché non avevo bisogno di Tarantini per invitare delle belle ragazze».
 
Sarà, ma il procuratore Drago riporta il sospetto dei giudici sulla sua generosità e le buste lasciate per le ragazze. «Una donazione di qualche migliaio di euro era assolutamente nulla, in quei tempi il mio gruppo guadagnava un milione e mezzo al giorno. Quindi lei faccia il calcolo di che cosa siano duemila, tremila, quattromila euro. Allora raggiungevo una ricchezza che per quanto riguarda la valutazione di Borsa era di 12 miliardi di euro».
In un altro passaggio dell’interrogatorio, il procuratore cerca di capire perché versava tutti quei soldi a Tarantini: «Avevo conosciuto Tarantini in una situazione di benessere forte. Aveva affittato ville in Sardegna, viaggiava su aerei privati e francamente sentirlo precipitato».
Drago: «Mi permetta una interruzione, per quella situazione di benessere forte ha fatto un buco di 12 milioni di euro nell’azienda di papà».
Ma lui che poteva saperne? Soprattutto quando veniva informato che «non aveva neppure i soldi per dare da mangiare alle bambine». Dice Berlusconi: «Davo cinquemila euro per il marito, cinquemila per la moglie e direi di questo passo quasi tutti i mesi io adempivo a queste cose».
 
Un’ora e venticinque minuti pieni di «non ricordo». Come quando Drago svela il mistero delle tre telefonate dall’Argentina di Lavitola ad Arcore, delle 21.33, 21.37 e 21.38 del 17 luglio del 2011. Giusto in concomitanza con l’«affaire» Montecarlo, l’appartamento occupato dal cognato di Gianfranco Fini che divenne una durissima campagna stampa del «giornalista» Lavitola strumentalizzata dal Pdl.
 
Il faccendiere ex direttore dell’Avanti ha depositato i tabulati telefonici argentini in cui ci sono le tracce di quelle tre telefonate ad Arcore mai intercettate dagli investigatori napoletani. Ricorda quelle telefonate? Risponde Berlusconi: «Non ne ho memoria». 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/22/italia/politica/i-verbali-del-cavaliere-tarantini-portava-ragazze-ma-non-sapevo-le-pagasse-zQTu7SkG49XUfWc4sM5lGP/pagina.html
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« Risposta #59 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:16:50 pm »

Politica
26/09/2013 - Le carte dell’inchiesta di Bari

“Tarantini mente sulle escort”

La Finanza smonta la difesa

Un nuovo rapporto: Berlusconi sapeva dei compensi alle ragazze


Guido Ruotolo
Roma


Si sente accerchiato dalle procure che non lo hanno mai mollato, teme che una volta decaduto da senatore potrebbero arrestarlo. Milano, Napoli ma non solo. Silvio Berlusconi si aspetta che i guai potrebbero arrivargli da Bari. Dove è indagato insieme al faccendiere Valter Lavitola per aver convinto l’imprenditore Gianpi Tarantini a rilasciare «dichiarazioni mendaci», insomma false dichiarazioni, in cambio di denaro e di «raccomandazioni». Siamo nella fase in cui la Procura di Bari ha comunicato agli indagati la chiusura delle indagini e si appresta a chiedere al gip di fissare l’udienza preliminare. L’inchiesta sembra blindata. C’è un rapporto della Finanza che smonta tutta la linea difensiva del Cavaliere.

 

Gianpi Tarantini, interrogato dai magistrati di Bari, aveva giurato sull’innocenza di Berlusconi che nulla sapeva di escort: «Non ho fatto altro che accompagnare da lui ragazze che presentavo come mie amiche tacendogli che a volte le retribuivo. Il presidente non ha mai saputo che io potessi aver dato un centesimo alle ragazze». Ma ora, in un rapporto delle Fiamme Gialle alla procura, queste tesi viene smontata: «Ci sono - scrivono i finanzieri - punti di contrasto e contraddizione tra le dichiarazioni fatte dal Tarantini e quanto invece emerso dall’attività di indagine».

 

Ricordate la escort più famosa d’Italia, Patrizia D’Addario? Nella prima cena a Palazzo Grazioli, ricostruiscono gli 007 della Finanza, non fu scelta la D’Addario, trascorsero «la notte in compagnia del presidente Berlusconi Barbara Guerra e Ioana Visan». L’indomani mattina Berlusconi e Tarantini parlano al telefono del «compenso riconosciuto alle due donne»: Silvio Berlusconi sottolineava «guarda che hanno tutto per pagarsi tutto da sole queste qua», alludendo evidentemente al fatto che era stato dato loro il necessario, motivo per cui Tarantini non doveva sentirsi obbligato a corrispondere loro alcunché. Berlusconi: «Sono foraggiatissime».

 

La linea difensiva del Cavaliere non si è mai discostata dalla affermazione che lui non ha mai avuto bisogno di escort, e che le donne portate da Tarantini erano belle donne che voleva che si sedessero a tavola di fronte a lui.

 

Ma gli infortuni possono sempre capitare. Il giorno dopo una cena a Palazzo Grazioli, «Berlusconi manifestava a Tarantini la preoccupazione che due delle sue ospiti portate da Tarantini, di cui una identificata in Daniela Lungoci (romena, ndr) potessero fare qualche commento sulla serata trascorsa a Palazzo Grazioli». Un brano della intercettazione. Berlusconi: «Tu avevi preso quelle due romene, no? Hanno fatto qualche commento?». Tarantini: «Assolutamente no. Le ho sentite oggi, mi hanno detto che sono state bene e che speravano di rimanere lì». In realtà, si legge nel rapporto, Tarantini temeva che le due romene potessero parlare tanto che si rivolse alla intermediaria Carolina per avere «informazioni sulla loro riservatezza». Tarantini: «Ma sono tranquille? Non è che vanno a sputtanare che siamo stati là a cena?».

 

In 32 pagine la Guardia di Finanza affronta anche il capitolo delle «prospettive di affari» di Tarantini, dopo l’intervento di Berlusconi, con Finmeccanica/Protezione civile. Tarantini nei suoi interrogatori ha negato che «Berlusconi per ricambiarmi delle donne mi mandò da Bertolaso (Guido, allora numero uno della Protezione civile, ndr)». E ha anche dichiarato che con Finmeccanica i rapporti li ebbe lui. «È stato accertato - è implacabile il rapporto della Finanza - che Silvio Berlusconi su iniziativa di Gianpaolo Tarantini promosse un incontro tra quest’ultimo e l’allora capo della Protezione civile, Bertolaso». 

 

Ci sono i rapporti favoriti da Silvio Berlusconi ma anche dal fratello Paolo con la Finmeccanica di Pier Francesco Guarguaglini. E le relazioni con Sabatino Stornelli, ex ad di Selex Service management, arrestato dalla Procura di Napoli nell’inchiesta sul tracciamento dei rifiuti, diventato adesso un collaboratore di giustizia. I risultati delle sue rivelazioni potrebbero vedersi presto.

da - http://lastampa.it/2013/09/26/italia/politica/tarantini-mente-sulle-escort-la-finanza-smonta-la-difesa-rKGFcxtADb1j5msG0bLSSN/pagina.html
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