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Autore Discussione: Beppe SEVERGNINI. -  (Letto 77635 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Giugno 08, 2014, 06:49:29 am »

Uno sfregio da cancellare
Abbiamo tre città, in Italia, che lasciano il mondo a bocca aperta: Venezia, Firenze e Roma. La bocca del mondo, oggi, s’è chiusa in una smorfia.

Di Beppe Severgnini

Quello che è accaduto intorno al Mose — nome biblico, un’offesa nell’offesa — non è solo grave: è irresponsabile. Se una nazione potesse citare i suoi cittadini per danno d’immagine, i responsabili del saccheggio lagunare dovrebbero vivere nell’angoscia. Ma non lo faranno, perché non capiscono. L’angoscia è un sentimento, non una percentuale. Venezia è la città irrepetibile, quella che convince ogni turista d’essere un poeta. Credo che molti stranieri, dopo una settimana di visita, partano convinti d’essersi aggirati dentro una ricostruzione. Troppa delicatezza in così poco spazio. Un’immensa reputazione e una città fragile: il posto più sbagliato dove tollerare gli ingordi. I professionisti del cinismo sono già all’opera, nei media e in politica: non esageriamo, così fan tutti, la corruzione è antica come il mondo! Vero: ma quand’è metodica e sfacciata diventa un’umiliazione. Quando avviene a spese di un luogo tanto speciale e indifeso appare più grave e volgare. La bellezza è una responsabilità. L’Italia, in queste ore, appare al mondo come un Paese d’irresponsabili. Venezia è il nostro vestito più bello, Expo-Milano il nostro vestito nuovo, Siena il nostro vestito più ricco. Sfregiati, tutti, da persone senza scrupoli. In Veneto lo conoscono bene lo sguardo di chi esce dalla stazione di Santa Lucia e scivola nella città d’acqua: è lo sguardo dei bambini, e lo abbiamo scoperto negli occhi delle star di Hollywood, degli oligarchi russi, delle carovane cinesi, dei viaggiatori inglesi che pensano di aver visto tutto. No, non avevano visto Venezia. In queste ore tutti costoro stanno seguendo, avidi, i resoconti della nostra vergogna. Non perché ci odiano. Al contrario: perché ci ammirano e ci invidiano. Perché l’Italia è la grande evocatrice: tutto quello che ci riguarda fa sognare chi legge, guarda, ascolta, cerca, beve, assaggia. L’Italia è sede ufficiosa del congresso perpetuo delle tentazioni. Noi siamo quello che tutti vorrebbero essere, almeno talvolta: e non osano. Intuitivi, emotivi, immediati, sorprendentemente generosi. Non ladri.

Non esiste un’aggravante specifica, nel codice penale: ma chi ha macchiato il nostro vestito più bello dev’essere punito. Non è giustizialismo: è giustizia.

Vedrete: qualcuno, con meno amore, ripeterà quello che Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera negli anni Sessanta e ripetè in un polemicissimo documentario Rai del 1969: occorreva togliere Venezia all’Amministrazione comunale per affidarla ad un organismo internazionale, come l’Onu, in grado di avere mezzi economici e la sensibilità culturale per salvarla. Seguì una querela da parte degli amministratori veneziani, e Montanelli confessò ai lettori: «Fu allora che feci atto di rinunzia a Venezia e giurai a me stesso di non occuparmene mai più, convinto com’ero, e come sono, che una città si può salvare solo a condizione che i suoi abitanti vogliano salvarla. I veneziani di oggi vogliono salvare solo la propria bottega. Quando la decadenza di una città, che fu potenza mondiale, entra anche nella spina dorsale degli uomini non c’è più nulla da fare». Diciamo che non è vero. Diciamo che qualcosa, ancora, possiamo fare per salvare la città ferita e la reputazione macchiata. Ma dobbiamo fare in fretta. Il mondo vuole sapere (cosa, quando, quanto, come). E ha ragione. Venezia è dei galantuomini, non di Galan e dei suoi uomini.

6 giugno 2014 | 08:37
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_06/sfregio-cancellare-5d99eb50-ed40-11e3-8271-5284bdbf132d.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Giugno 10, 2014, 10:59:09 am »

Luci Gutiérrez ha scritto un libro a fumetti in cui usa doppi sensi e disegni per facilitare lo studio
English is very sexy
Ieri le canzoni da tradurre, oggi le fiction sottotitolate.
Così cambia l’apprendimento


Non servono i grandi numeri per spiegare l’ossessione collettiva per l’inglese. Mettiamola così: è una lingua che permette di capire qualcosa dovunque e di dire qualcosa a chiunque. D’accordo: ci sono zone rurali del Giappone, picchi andini e uffici italiani dove l’inglese non serve a niente.
Ma «ok», forse, lo capiscono anche lì.

La necessità d’impararlo è talmente ovvia che l’attenzione s’è spostata: dal perché al come. L’ultimo, interessante tentativo è English is not easy, di una spregiudicata autrice spagnola, Luci Gutiérrez (appena pubblicato da Bur/Rizzoli): 340 pagine di vignette, irriverenza e sesso a scopo didattico. Per capirci: ai miei tempi, per spiegare il verbo essere, l’esempio era «The rabbit is in the room» (mai capito perché i conigli inglesi non passassero più tempo all’aperto). Nel nuovo libro leggo: «Mr Sweat is in Mrs Sweat», con una penetrante rappresentazione dell’unione coniugale.

Ma prima di tornare a English is not easy, spiegare la piccola bugia del titolo e azzardare qualche consiglio, ripercorriamo la storia dell’apprendimento della lingua in Italia.

Partiamo dal fascismo, quando francese e tedesco la facevano da padroni, e l’inglese era particolarmente inviso. Benito Mussolini e i suoi cantori si battevano contro gli influssi della perfida Albione («Basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote!», da «Il Popolo d’Italia») e, zelanti, imposero di tradurre ogni espressione straniera. In qualche caso il tentativo riuscì («tramezzino» invece di «sandwich»). Più spesso fallì miseramente. Se oggi trovate qualcuno che dice «bevanda arlecchina» invece di «cocktail», non c’è dubbio: è già ubriaco.

L’inglese diventò, per alcuni, la lingua della libertà e della silenziosa ribellione, un modo di reagire alla prosopopea del regime. Cesare Pavese lo studiò diligentemente per arrivare a tradurre Herman Melville, Beppe Fenoglio lo coltivò fino a renderlo protagonista de Il partigiano Johnny («Lo spettacolo dell’8 settembre locale, la resa di una caserma con dentro un intero reggimento davanti a due autoblindo tedesche not entirely manned, la deportazione in Germania in vagoni piombati avevano tutti convinto, familiari ed hangers-on, che Johnny non sarebbe mai tornato…»). Ci pensò la storia a dimostrare che quegli scrittori avevano visto lungo. La guerra, la liberazione, l’arrivo degli alleati e delle loro abitudini resero l’inglese di moda. Alberto Sordi in Un americano a Roma è un brillante autodidatta. Così le signorine toscane o napoletane che approfondivano le conoscenze nelle pinete di Livorno o nei vicoli di Forcella.

All’inizio degli anni Sessanta il fenomeno diventò collettivo. Famiglie dove il frigorifero era il frigidaire e un abito sciupato era fané spedirono i figli a studiare inglese, considerato la lingua del futuro. Lo era davvero, a dimostrazione che la borghesia italiana ha conosciuto fasi di lungimiranza. Nel 1964 mi venne annunciato che avrei frequentato — nel pomeriggio, due volte la settimana — la Scuola Interpreti di Crema. A sette anni non sapevo cosa fossero gli interpreti, né cosa facessero: se mi avessero iscritto alla Scuola Intagliatori non avrei sollevato obiezioni. Trovavo il posto interessante. Gli insegnanti erano gentili e nei libri di testo tutti facevano cose bizzarre: i conigli entrano in salotto (vedi sopra), le lucertole stazionavano sulle staccionate («the lizard is on the fence») e nessuno parlava d’altro.

Gli anni Settanta furono, per molti, il periodo degli esperimenti. Per alcuni furono i corsi estivi in Inghilterra: a sedici anni, pur di avvicinare una ragazzina svedese a Eastbourne, avrei imparato lo swahili o l’alfabeto dei segni. Lo sforzo di ripetere «Where do you come from?» mi pareva lieve come i suoi capelli biondi nel vento della Manica. Furono nuove, intense esperienze linguistiche, nel buio delle discoteche; ma non erano quelle che intendevano i nostri genitori. I quali, a casa, tentavano d’imparare l’inglese con altri mezzi. Era il tripudio dei dischi e delle audiocassette. Si ascoltava la prima lezione, magari la seconda; poi l’intero corso veniva riposto e dimenticato. In alcune case italiane questi reperti esistono ancora. Apri un armadio e ti rovinano addosso, come una slavina.

Negli anni successivi — nel totale disinteresse della Rai, che non ha mai pensato di replicare Non è mai troppo tardi per i nuovi analfabeti senza inglese — i metodi si sono moltiplicati. Alcuni piuttosto bizzarri. Il bulgaro M. G. Lozanov propose il sistema Suggestopedics: gli alunni stavano sdraiati a semicerchio e ascoltavano la voce suadente del docente che leggeva un testo con un sottofondo di musica classica. Sono comparsi corsi per ipnosi, corsi telefonici, corsi da spiaggia. Un amico sperimentò un corso di cassette da ascoltare nel sonno: non ha imparato l’inglese, ricorda, ma non ha mai dormito così bene. Giuseppe Prezzolini scrisse: «Chiedo una legge che consideri colpevoli di “truffa continuata” tutti quelli che pubblicano avvisi o attaccano manifesti che promettono di far parlare l’inglese, il francese, il tedesco o qualsiasi altra lingua entro una giornata» (Modeste proposte, 1975). Se gli avessero dato retta, le carceri sarebbero state affollate.

Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, l’inglese ha rotto gli argini, penetrando in ogni anfratto della vita ottica diventavano «Occhial House» (Milano), i fruttivendoli impazzivano per il genitivo sassone («Nonsolopere’s», Udine) e una macelleria in Sardegna esibiva l’insegna «Fleshes’ King» (forse per i cannibali di passaggio, perché flesh è carne viva, mentre la carne animale è meat). Nel 1992 pubblicavo L’inglese. Lezioni semiserie (oggi alla trentesima edizione!) ed elencavo centinaia di termini inglesi ormai comprensibili a tutti, da after-shave a zoom. L’inglese di base non c’era più bisogno d’apprenderlo. Bastava mettere in ordine quello che avevamo imparato.

Negli anni Duemila, come sappiamo, la banda larga e i viaggi low-cost hanno accelerato il fenomeno: evitare l’inglese è oggi impossibile. E tutti hanno capito una cosa: capirlo è più difficile che leggerlo o parlarlo. È il concetto espresso dal senatore Antonio Razzi in una recente, memorabile intervista con Silvia Nucini di «Vanity Fair»: «Quando vado agli incontri internazionali mi parlano in inglese e gli dico: férmate un poco, famme riflettere». Il problema è impostato correttamente. Capire è difficile per cinque motivi:
1) L’ascoltatore non ha alcun controllo sulla velocità altrui.
2) Un testo scritto si può rileggere. Un discorso, in genere, si ascolta una volta sola.
3) Chi parla ha un accento. Chi scrive, no.
4) Un testo è un testo. Un discorso può invece essere disturbato (pensate al telefono).
5) Chi parla lingue come l’italiano, il francese o lo spagnolo — nelle quali la velocità di pronuncia corrisponde grosso modo al numero di sillabe — si trova in difficoltà quando deve affrontare lingue stress-timed come l’inglese, dove la durata della frase corrispondente al numero degli accenti con i quali chi parla sceglie di scandirla. In parole povere: non tutte le parole inglesi hanno un accento tonico, e quelle non accentate vengono «mangiate» tra le altre. Prendiamo due frasi, suggerite dal mio traduttore, Giles Watson:

Small cats eat less = quattro sillabe, quattro accenti Archibald Macallister is travelling to Benbecula = sedici sillabe, quattro accenti (sottolineati)

Per capire l’inglese occorre, in sostanza, apprendere un nuovo ritmo e nuovi automatismi. Prendete i verbi frasali, lo spartiacque tra chi l’inglese lo sa e chi in inglese s’arrangia. Solo l’uso e l’abitudine permettono di capire e utilizzare «get on», «get off», «get by», «get away», «get up», «get down», «get together», «get through», «get (something) across». Il mio campo-scuola fu la traduzione dei testi delle canzoni rock e pop, spesso esoterici; il mio esame d’abilitazione, a diciassette anni, Thick as a Brick dei Jethro Tull. Oggi è tutto più facile. Gli strumenti sono molti ed efficaci. L’importante è legare l’apprendimento ai propri interessi. Un pescatore guardi programmi di pesca, un appassionato di basket ascolti telecronache originali della Nba: non viceversa.

Utilissimo è il cinema. In Italia siamo stati rallentati dall’abitudine al doppiaggio e viziati dalla bravura dei nostri doppiatori. Oggi, finalmente, abbiamo la possibilità di ascoltare film e serie televisive in originale, su dvd, sul satellite o sul digitale terrestre: telecomando, opzione lingua, ed è fatta. Basta vincere l’iniziale pigrizia. Utilissimi i sottotitoli: all’inizio in italiano; appena possibile, in inglese. Kevin Spacey/Frank Underwood, protagonista di House of Cards, non è certo un maestro di vita, ma può diventare un ottimo insegnante.

Per esempio:
«A great man once said, everything is about sex. Except sex. Sex is about power».

«Sex», di nuovo: e cosa vuol dire l’avete capito tutti. Lo ha capito anche Luci Gutiérrez che, come dicevamo, ne ha rovesciato in abbondanza dentro English is not easy, opera impudica e brillante. L’unica inesattezza, ripeto, sta nel titolo: l’inglese è facile. Come gli inglesi, del resto. Il trucco, in entrambi i casi, è lo stesso: mai prenderli troppo sul serio.

Beppe Severgnini

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Da - http://lettura.corriere.it/english-is-very-sexy/
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« Risposta #77 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:09:05 pm »

Eric Schmidt, il grande capo di Google, non è un americano facile da intervistare: Bruce Springsteen è più simpatico, Jezz Bezos più divertente, Scarlett Johansson più attraente. Ma ha un merito: a domanda, risponde. Ogni tanto, per controllare una risposta, cerca su Google; ma questo è comprensibile. 
 
Nell’intervista di martedì sul “Corriere” abbiamo affrontato diversi temi (Italia, Europa, Usa, editoria, sorveglianza di massa). Uno non ha trovato spazio quel giorno sul giornale, e vorrei tornarci sopra. Il tema è questo: studiare, oggi, serve ancora? L’università non è diventata un parcheggio? Costoso e coperto negli USA, non custodito in Italia (infatti ci soffiano alcuni dei laureati migliori).   
 
“Per qualcuno l’educazione superiore non è un buon modo di usare il proprio tempo: si sbaglia”, aveva detto Schmidt nel 2013 alla SXSW, importante fiera di tecnologia. “Se tutto ciò a cui tenete sono i soldi, dovreste andare al college. Se tutto ciò a cui tenete è la cultura e la creatività, dovreste andare al college. Se tutto ciò a cui tenete è divertirvi, dovreste andare al college. Andate al college. Non potrei essere più chiaro di così”.

Un altro uomo Google, Laszlo Bock, direttore del personale, ha spiegato perché questo non basta, però. Cosa cerca la società nei nuovi assunti? “Primo: capacità cognitiva, che non è quoziente di intelligenza (IQ). E’ capacità di imparare. Abilità di trattare informazioni al volo, e combinarle. Secondo: capacità di leadership. Quando sei parte di un gruppo, sai farti avanti e condurre? E, quand’è necessario, sei capace di tirarti indietro e lasciar condurre altri?”.

Occorrono responsabilità e umiltà: insieme. Ecco perché i migliori prodotti delle business schools spesso arrivano a un certo punto e non oltre: non accettano il fallimento, non sanno trarne un insegnamento. “Se tutto va bene, si considerano dei geni. Se le cose si mettono male, la colpa è di qualche idiota, del mercato, delle risorse che mancano”.

Lo studio, in sostanza, è utile; ma non basta. Come ha riassunto Tom Friedman sul “New York Times”: il mondo del lavoro vuole sapere cosa sapete, non dove l’avete imparato. Detto ciò, Schmidt non ha dubbi. Martedì mi ha detto: “Le persone che criticano il college vengono da un altro pianeta”. “Da secoli l’università è il luogo adatto a ragazzi tra i 18 e i 22 anni, non ancora maturi per il mondo del lavoro. In Italia dovreste saperlo: a Bologna è nato il primo ateneo.

E chi va al college poi guadagna di più. Storia ed economia, quindi, sono dalla mia parte. Non solo: lo studio insegna l’ambiguità. Ci insegna che potrebbe esserci un’altra possibilità. Ci allena a pensare. Preferiamo gente che dice ‘Non sono d’accordo con te, ma capisco possa accadere’ o gente che, quando non è d’accordo, prende una pistola e ti spara?”.

La risposta è facile. Non ho dovuto neppure cercarla su Google.

 

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/
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« Risposta #78 inserito:: Giugno 21, 2014, 10:38:44 am »

Quello che i genitori non dicono (ma fanno)

Piccola storia istruttiva di fine d’anno scolastico. Mi scrive un papà preoccupato: “Mia figlia Alessandra deve presentare per la maturità una tesina su Expo, spiegare cosa un Evento di questa portata può generare su base mondiale. Ha trascorso pomeriggi interi in biblioteca per cercare di documentarsi e consultato vari siti. Ci siamo rivolti a te per varie ragioni: sicuramente negli archivi del RCS sono custoditi documenti di primissimo piano a cui non abbiamo accesso nell’istante.  Alessandra ha una particolare stima e terrebbe molto a un tuo personale intervento (infatti, se glielo consenti, sarebbe suo sommo piacere di apporre il tuo nome come Persona alla quale si è rivolta per la stesura). Nel pomeriggio, appena rientrerà a casa da scuola, ti faremo avere la bozza di quanto è riuscita di mettere insieme fino ad oggi per un tuo graditissimo giudizio professionale.”
 
Qualche dubbio, confesso, l’ho avuto subito; chi abusa delle maiuscole (Evento, Persona) mi mette sempre agitazione. Anche i modi della richiesta mi sono sembrati bizzarri (“Le chiediamo un contributo tangibile come contenuto e stesura”). Ma io cerco di accontentare i lettori, nei limiti del possibile. “Mi faccia scrivere da sua figlia”, ho risposto. Sottinteso: una ragazza di diciannove anni capisce al volo che, per la maturità, non ha bisogno di “documenti di primissimo piano” (!) “custoditi negli archivi RCS” (?).  Un padre, non sempre.
 
E’ seguito uno scambio di mail, sempre con papà. Alessandra – nome di fantasia – non ha mai scritto. Forse non aveva intenzione di chiedermi aiuto; forse era imbarazzata dall’approccio paterno. Meno insolito di quanto immaginiate. Modernità, per tanti genitori, è impicciarsi quando non devono.
 
Ho peccato anch’io, in materia. Ma quanto vedo e sento in giro va oltre. Ragazzoni che arrivano per i test universitari con i genitori. Venticinquenni che si presentano ai colloqui di lavoro scortate da papà. Madri che telefonano dieci volte al giorno mentre la figlia lavora. Papà che hanno scoperto WhatsApp e chattano come adolescenti col figlio trentenne, il quale risponde a monosillabi e faccine imbarazzate.  Lo so, è difficile tagliare il cordone ombelicale: ma quello italiano è diventato lungo come una matassa, e rischia di strangolarci tutti.
 
Cosa spinge papà e mamme a questi errori? L’amore, ovviamente. L’ansia: se i pargoli non hanno più bisogno di noi, stiamo invecchiando. La leggerezza. La complicità dei figli stessi, talvolta, che s’impigriscono e accettano/chiedono aiuto. Un po’ di presunzione. La convinzione che l’esperienza, in un paese labirintico come il nostro, sia indispensabile. Errore. L’esperienza è un antipasto preparato da qualcun altro. Si può assaggiare o rifiutare, ma non bisogna mai consumarne troppo, anche quand’è offerto con amore. Altrimenti passa l’appetito per la vita, che è il pasto promesso ad ognuno.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini
Da - http://italians.corriere.it/
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« Risposta #79 inserito:: Giugno 25, 2014, 05:31:35 pm »

Morsi e rimorsi
Di BEPPE SEVERGNINI

A casa di Cesare Prandelli, sulle colline dietro Firenze, c’è un busto con due medaglie al collo: argento per gli Europei 2012, bronzo per il terzo posto nella Confederations Cup 2013. Per la terza medaglia, dovrà aspettare. Oggi ci sentiamo tutti come quel busto: lontani, incolpevoli, in attesa di una bella notizia che non è arrivata.

Sono arrivate, invece, le dimissioni di Prandelli. Il commissario tecnico lascia, lunghe rughe bresciane che parlano più delle parole. Un gesto certamente dignitoso, probabilmente inevitabile, di cui dovremmo imitare il garbo e la misura. È fallita una Nazionale, non una nazione. L’hanno capito inglesi e spagnoli. Passato il fastidio, lo capiremo anche noi.

Consoliamoci: i Mondiali sono comunque memorabili. Tutti ricordiamo dov’eravamo quando gli azzurri hanno vinto molto bene o perso molto male. Prandelli, in quattro anni, ha messo in piedi l’unica squadra italiana capace di giocarsela all’estero: esce con onore. Lo stesso non si può dire per il morsicatore Luis Suárez. Capirà, nel lungo riposo forzato che l’aspetta, che le bandiere non si possono onorare con i piedi e disonorare con i denti.

Morsi e rimorsi. L’esultanza di Gigi Buffon per la doppia parata. Gli occhi tristi di Balotelli in panchina. Il cerchio - poco magico, assai furente - che circondava l’arbitro messicano Rodriguez dopo l’espulsione frettolosa di Marchisio. Il nome completo è Marco Antonio Rodriguez Moreno: un altro arbitro Moreno, come nel 2002 (eliminazione discutibile con la Corea del Sud). Il ritorno di quel nome può essere ironico, il ritorno di certe lamentele sarebbe patetico.

Abbiamo perso: succede. Leggete Azzurro tenebra di Giovanni Arpino. L’epigrafe è un riassunto: «Il ricordo comincia con la cicatrice». Il libro è il resoconto della disastrosa spedizione ai Mondiali di Germania nel 1974. Quarant’anni dopo, ci risiamo: là Chinaglia e qui Balotelli, allora Rivera e oggi Pirlo, un tempo Valcareggi e adesso Prandelli. Ma l’Italia, allora, mostrava ben altre ferite. Non i morsi di un avversario isterico, ma quelli di un nemico vigliacco, il terrorismo. Abbiamo saputo curarle, dovremmo esserne orgogliosi.

Se la vittoria è collettiva - la festa, i brindisi, le bandiere - la sconfitta è individuale. Ieri sera l’Italia era percorsa da tante, piccole, inconfessabili elaborazioni del lutto sportivo. Accettiamolo, senza tragedie, come ha fatto Cesare Prandelli. Se lo sport è pieno di valori, ecco il primo: ogni tanto si perde.

Così il nostro Brasile è passato. Guarderemo le partite degli altri e cercheremo di affrontare i nostri problemi quotidiani. Li conosciamo, non avrebbe senso elencarli qui, oggi. Sono tanti e complessi, ma risolvibili. «Noi del football siamo tanti e siamo soli», diceva il protagonista di Giovanni Arpino. Noi italiani, invece, siamo insieme. Niente Azzurro tenebra, stavolta. Semmai azzurro livido, come i segni sulla spalla di Chiellini. Passerà.

25 giugno 2014 | 08:14
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« Risposta #80 inserito:: Giugno 28, 2014, 11:42:32 am »

Travolti e uccisi, regole mai rispettate
Quei tre bimbi sulle strisce


Di BEPPE SEVERGNINI

Le strisce pedonali rappresentano un tabù per gli automobilisti in tutti i Paesi civili, e una decorazione nel resto del mondo. In Italia non sono né una cosa né l’altra. I pedoni non sanno cosa aspettarsi, e le conseguenze sono spesso drammatiche. Mercoledì sera, la terza, tragica dimostrazione in pochi giorni. In provincia di Reggio Emilia, davanti a una caserma dei carabinieri, una ragazza albanese ha investito tre pedoni: un bambino di tre anni, Salvatore, è morto sul colpo, la madre è in gravi condizioni. Ferita anche la sorella.

Domenica sera, a Ravenna, era toccato a un bimbo di tre anni, Gionatan, ucciso da un’auto sulle strisce pedonali sotto agli occhi dei genitori e del fratellino. L’uomo alla guida dell’auto, che era fuggito, è stato arrestato dopo due giorni. Si tratta di un 37enne, incensurato, di origine bulgara. Martedì a Jesolo è stata travolta e uccisa, sempre sulle strisce pedonali, una bambina di otto anni, Anna, che stava attraversando con la madre. A investirla un albergatore italiano della zona.

Se ne parla solo perché le tragedie ravvicinate hanno coinvolto tre bambini. In sostanza, occorrono tre piccole vittime perché le nostre coscienze abbiano un sussulto. Il reato di omicidio stradale, di cui molto s’è parlato, sembra esser stato inghiottito nell’anfratto tra il governo Letta e il governo Renzi. Il primo dell’anno, in seguito alla morte di una bambina romana, l’allora ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, aveva assicurato: «Entro gennaio porterò in Consiglio dei ministri un pacchetto di norme sulla giustizia contenente anche l’introduzione del reato di omicidio stradale».

Sei mesi e diversi morti dopo, veniamo a sapere dal viceministro ai Trasporti, Riccardo Nencini, che per la modifica al Codice della strada ci sono «tempi strettissimi, e le cose cambieranno». Spiega che si stanno esaminando due possibilità: «L’inserimento del reato di omicidio stradale» oppure «l’ergastolo della patente, se uccidi qualcuno non guidi più». «Presto - assicura - decideremo con il premier quale seguire». Presto. Quando? Per gli streaming il tempo si trova, per le strisce evidentemente no.

Non è populismo: è indignazione. Quella che ha portato, dopo anni di assurde mattanze notturne, a introdurre norme rigorose per i neopatentati e controlli a tappeto per fermare chi guida ubriaco. Un ragazzo oggi sa che, se beve, lo beccano; e, se lo beccano, perde la patente. Risultato: il numero delle vittime delle cosiddette «stragi del sabato sera» è precipitato. La prova che, quando vogliamo, siamo un Paese civile. E chi, arrivato al potere, mormora che gli italiani sono irrecuperabili, mente. Semplicemente, non ha voglia di recuperarci.

Due dei recenti omicidi stradali - come vogliamo chiamarli? - sono stati commessi da stranieri. Evitiamo accuse generiche, piagnistei, sociologia spicciola o buonismi inutili. Diciamo che le regole esistono e valgono per tutti: cittadini e nuovi arrivati. Ma questi ultimi, inevitabilmente, guardano a noi per capire come comportarsi. Se un automobilista su tre piomba sulle strisce cercando di anticipare i pedoni, il messaggio è chiaro: questa regola esiste, ma non vale niente.

«Auto pirata» è un termine vecchio, irritante e assolutorio: chi investe un pedone e scappa è un vigliacco, non un impavido corsaro. Perché tutto ciò finisca - perché il pedone, quando poggia un piede sulla striscia bianca, diventi il padrone della strada - servono norme severe e - cosa fondamentale - occorre che vengano fatte rispettare. L’Italia non può continuare a essere la terra di mezzo della sicurezza stradale. Osservate lo sguardo e i gesti ossequiosi di molti pedoni quando un automobilista si ferma davanti alle strisce per farli passare. Non esercitano un diritto; pensano di aver ricevuto un favore. È in quella patetica riconoscenza la nostra sconfitta.

27 giugno 2014 | 08:30
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_27/quei-tre-bimbi-strisce-a25fe3ae-fdba-11e3-8c6c-322f702c0f79.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Giugno 28, 2014, 11:56:24 am »

giu
26

L’educazione non è un esperimento chimico, non esistono formule scientifiche per avere successo   
Perché continuate a vantarvi dei successi dei vostri figli?

Di Beppe Severgnini

Penso d’essere stato scortese, quella sera. La mamma, affranta, mi ha nominato arbitro di «una delicatissima questione, una cosa che riempie d’angoscia tutta la famiglia». Preoccupato, ho detto d’essere solo un giornalista (un termine che di solito scoraggia confidenze). Niente da fare. La signora insisteva, e la storia è venuta fuori. La figliola diciottenne era stata ammessa in una delle migliori università d’America (Yale, diciamo) e in una delle migliori università inglesi (poniamo Oxford). La scelta angosciosa era questa: dove andare? Credo d’essere stato sgradevole, nella risposta, e non me ne pento.

    Ho spiegato pubblicamente che angosciarsi per una questione del genere era offensivo verso decine di migliaia di famiglie che, con i figli, hanno problemi veri. Mi sono anche augurato che la ragazza – ovviamente, un mezzo genio – scappasse con un batterista moldavo o un ex-sottosegretario di Forza Italia. Ma questo non l’ho detto. So di famiglie che hanno interrotto i rapporti sociali con amici i cui figli sono troppo bravi a scuola.

Insopportabili: i genitori, ovviamente; non i ragazzi, che quasi mai hanno colpe. Mi scrive in proposito Evelina Dietmann (eireen74@gmail.com): «Non tollero lo sfoggio: di conoscenze, riconoscimenti, premi, titoli o buoni voti. La palma d’oro del fastidio va ai genitori che mettono in vetrina senza filtri i meriti dei figli. “Il mio Luca a 12 anni aveva già vinto sette concorsi di poesia e due borse di studio! E sta per pubblicare il primo saggio sull’origine dell’universo! Ha un IQ 98, è membro del Mensa!”. Embeh, dovevi proprio dircelo?». L’agguerrita lettrice si chiede cosa cerchino queste persone. Sospetta che, sotto sotto, «si sentano insicure e quindi desiderose di vedere negli occhi altrui una conferma del fatto di essere speciali, diversi, migliori». Sarà. Di sicuro, una piccola dose di vanità è veniale: confina con l’amor proprio, che costituisce il carburante necessario ad andare avanti.

Vantarsi costantemente dei figli, invece, è imperdonabile. Primo: perché quasi sempre è merito loro, non merito nostro. Secondo: perché, come abbiamo detto, questa vanagloria talvolta diventa una provocazione. Giovedì scorso abbiamo parlato di quello che i genitori non dicono, ma fanno (impicciarsi dei fatti dei figli, sostanzialmente). Non è meno irritante quello che non fanno, ma dicono. Non appuntiamoci sul petto i buoni risultati d’un ragazzo come fossero medaglie; non viviamoli come sconfitte, se risultassero meno buoni. L’educazione non è un esperimento chimico, non esistono formule scientifiche per avere successo. Papà e mamme vanagloriosi ricordino: non è mai troppo tardi per una buona crisi adolescenziale. Se vostro figlio o vostra figlia, finora, l’ha evitata non è grazie a voi. Ma nonostante voi.

DA - http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-continuate-a-vantarvidei-successi-dei-vostri-figli/
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« Risposta #82 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:22:06 am »

Due volte in cinque giorni, con un’aria condizionata polare. Sabato un treno Italo da Roma a Milano, ieri un volo AirLingus da Milano a Dublino. In un caso, migrazione di tredicenni dirette al concerto degli One Direction. Nell’altro, folate di adolescenti in rotta verso la vacanza-studio irlandese. “Move Language Ahead” e “Navigando” i nomi delle organizzazioni. Gli accompagnatori avevano l’occhio vitreo di un nostromo di Conrad prima di una tempesta: li capisco.

Anche noi, quarant’anni fa, andavano in vacanza-studio. L’ordine dei fattori – allora e oggi – è chiaro: prima vacanza, poi studio (tre ore al giorno di lezione, pausa compresa). I luoghi sono gli stessi: le città di lingua inglese che d’estate si trasformano in laboratori d’Europa (alla faccia di certi britannici, per la gioia di tanti altri). L’età è simile, quel valico tra infanzia e gioventù che nella memoria assumerà contorni leggendari. Un’estate lontana, questi ragazzi del 2000 (!) ricorderanno Beatrice seduta al posto 3C, cui passavano il cellulare dopo aver scritto un messaggio (la carta ha perso fascino, non si può inoltrare e si sciupa in tasca).
 
E’ istruttivo viaggiare con gli adolescenti. E’ un esercizio di tolleranza e un corso di umiltà. I ragazzi, tra i dodici e i sedici anni, fanno cose che il resto degli umani non capisce. Ma non deve capirle. Deve accettarle, e impedire che diventino pericolose. Spesso, invece, noi adulti non sopportiamo l’impossibilità di comprensione. La distanza ci innervosisce. Non ci piace il modo sottile in cui la vita c’informa che sta arrivando qualcun altro, e non fa mai piano.

Non siamo uguali, e neppure vicini, per il fatto che andiamo in vacanza negli stessi posti e sappiamo usare lo stesso smartphone (si fa per dire, loro sono più veloci). Quarant’anni, a cavallo tra due secoli, con internet di mezzo, rappresentano un’era geologica. Noi non siamo dinosauri. Ma dobbiamo accettare che siano apparse nuove specie, che sotto quei cappellini fosforescenti e al riparo di quelle cuffie enormi ci siano teste diverse che pensano diverso. E qualcosa combineranno, se sapremo proteggerle senza gridarlo in giro.
 
Le ultime notizie sul giro di prostituzione minorile ai Parioli – lette su quest’aereo, tra questi sciami di adolescenti – sono ancora più dolorose. Un uomo adulto che non vede l’ansia e la gioia sotto quei bronci e quei primi trucchi è un malvagio (sessanta malvagi sono in giro per Roma, pronti alle vacanze, anonimi e per ora impuniti). Azzurra e Aurora – i nomi scaltri scelti dagli sfruttatori – potrebbero essere due di queste giovanissime italiane in transito. Ragazzine che gridano, spingono e ridono, in simbiosi con una felpa e quattro amici. A loro, noi adulti possiamo chiedere solo una cosa. Questa: nell’autobus verso l’aereo, perché diavolo indossate lo zaino, così da occupare il doppio dello spazio? Ma anche a questa domanda, come a tante altre, non otterremo risposta. E dobbiamo accettarlo.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/
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« Risposta #83 inserito:: Luglio 11, 2014, 11:49:35 pm »

Ragazzi, stendetevi su un prato e aprite un libro: non vi deluderà!
D’estate di sono le inclinazioni giuste (sdraio, lettino, spiaggia, prato di montagna) e le giuste inclinazioni: voglia di pensare pensieri nuovi, e provare a cambiare qualcosa della nostra vita

Di Beppe Severgnini

Arriva la stagione in cui molti cercano libri da leggere. Succede anche a Natale!, direte voi. No, a Natale i libri si regalano. L’estate è invece il tempo perfetto della lettura. Ci sono le inclinazioni giuste (sdraio, lettino, spiaggia, prato di montagna) e le giuste inclinazioni: voglia di pensare pensieri nuovi, e provare a cambiare qualcosa della nostra vita. Ogni autore, se è bravo, illumina un pezzo di mondo che, per qualche motivo, stava nella (nostra) penombra. Saggistica o narrativa, fa lo stesso: a patto che la prima sia poetica e la seconda analitica.

Molti chiedono consigli, come dicevo. Ma non esistono libri buoni per ogni umore, condizione ed età. Lodevolmente www.corriere.it/scuola sta indicando opere per ragazzi, e chiede ai colleghi del «Corriere» incipit memorabili di opere indimenticabili della nostra adolescenza. Gian Antonio Stella ha scelto «L’isola del tesoro», Barbara Stefanelli «Tonio Kröger», Maria Laura Rodotà «L’uomo senza qualità» (che io sappia è l’unica, con Daria Bignardi, capace di leggere quei due tomi durante la pubertà, senza danni apparenti).

Quando verrà il mio turno indicherò «Il castello di Blandings» di P.G. Wodehouse, l’autore che, da ragazzo, mi ha insegnato a scrivere divertendomi (e divertendo, spero). La vita è troppo strana per non sorriderne, l’ironia è un modo per accettare le imperfezioni del mondo. L’aristocrazia inglese raccontata da Wodehouse, però, è estinta. Baroni, maggiordomi e ragazze da marito, per una diciottenne di Adria e un ventenne di Aggius, sono ormai esotici come i pesci martello.

Altre letture estive per giovani adulti? Stiamo sui classici italiani.
Ai romantici e agli avventurosi, suggerisco «Una questione privata» di Beppe Fenoglio (scrivere della Resistenza senza retorica e compiacimento è difficile, ma lui c’è riuscito). A chi sta elaborando il lutto sportivo, «Azzurro tenebra» di Giovanni Arpino (resoconto della catastrofica spedizione ai Mondiali di Germania 1974, lo consiglierò a Prandelli). A coloro che aspettano (un fidanzato, una facoltà, un’occasione), «Il deserto dei tartari» di Dino Buzzati. A coloro che sospettano, «A ciascuno il suo» di Leonardo Sciascia. A chi ha un’anima provinciale e poetica, «Feria d’agosto» di Cesare Pavese. A chi ha un’anima provinciale e pratica, «La bella di Lodi» di Alberto Arbasino. A chi ha un’anima, «Le piccole virtù» di Natalia Ginzburg e i «Sillabari» di Goffredo Parise, magari nell’audiolibro letto (benissimo, come un attore non saprebbe fare) da Nanni Moretti. C’è poi un autore, un po’ fuori moda, che consiglio vivamente: Mario Soldati, passione di mia mamma Carla. Leggerlo, non so perché, riempie di gioia. Cominciate con «America primo amore», proseguite con i racconti di «La messa dei villeggianti».

Post scriptum: sono libri brevi. E’ importante. Uno non può passare tutto il tempo a leggere, d’estate.
@beppesevergnini

10 luglio 2014 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/scuola/medie/14_luglio_09/ragazzi-stendetevi-un-prato-aprite-libro-non-vi-deludera-5460d098-078b-11e4-99f4-bbf372cd3a67.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Luglio 13, 2014, 11:15:46 am »

Poche idee, molta confusione
Vaghe stelle del grillismo

Di BEPPE SEVERGNINI

Ci ha pensato la voce barbuta di Beppe Grillo a suggellare i negoziati con Matteo Renzi e il Partito democratico sulla riforma della legge elettorale. Quelli che, fino a ieri, erano interlocutori affidabili («Noi parliamo solo con Renzi») sono diventati, di colpo, avversari biechi e autoritari («Renzi è un ebetino, anzi un ebetone», «criminalità organizzata di stampo democratico», «una dittatura a norma di legge», «sbruffoni della democrazia», «vigliacchi, ipocriti e falsi»: il tutto in 1 minuto e 18 secondi).

Finale melodrammatico, ma istruttivo. Il Movimento 5 Stelle, per adesso, funziona così. Alterna toni concilianti e insulti, proposte ragionevoli e accuse scomposte. Il pretesto di quest’ultimo scontro non è importante. Se basta un disaccordo sulle preferenze o una lettera non spedita per scatenare tanta furia, non si va lontano. Serve poco che Luigi Di Maio, poi, tenti di incollare i cocci: «Beppe ha il diritto di arrabbiarsi. Ma la proposta di dialogo è sempre aperta».

Certi toni, per quanto sgradevoli, possono servire finché si tratta di intercettare il malumore (in Italia ce n’è tanto, e giustificato). Ma non aiutano a costruire un’opposizione, quindi un’alternativa, di cui c’è bisogno. Lo dimostra il voto di maggio. Il 41% raccolto dal Pd - nessuno dei 186 partiti in lizza alle Europee ha fatto meglio, ricorda il Financial Times - è certo un’apertura di credito verso il governo e una prova di fiducia verso Renzi. Ma è anche una prova di sfiducia verso i suoi avversari, nessuno escluso.

Beppe Grillo, finalmente uscito dalla fase catatonica post elettorale, deve rendersene conto, e informare il suo stato maggiore. Chi, ogni tanto, sa stupire, affascina; chi stupisce ogni giorno irrita e stanca. L’elenco delle capriole pentastellate è lungo, e non riguarda solo i rapporti con il Pd, partiti male fin dall’arrogante streaming con uno stremato Bersani. Ci limitiamo alle più spettacolari.

Il 10 luglio 2013 Grillo (accompagnato da Casaleggio e dai capigruppo alla Camera e al Senato) incontrava Giorgio Napolitano al Quirinale. Uscendo parlava di un «incontro molto piacevole», in cui «la situazione è stata condivisa dal presidente». Il 30 gennaio 2014 il M5S chiedeva l’impeachment del capo dello Stato per il reato di attentato alla Costituzione. Lo scorso 4 luglio Debora Billi, responsabile web (!) dei Cinquestelle a Montecitorio, twittava: «Se ne è andato Giorgio. Quello sbagliato. #faletti». Poi si scusava su Facebook.

Il 13 maggio Beppe Grillo tuonava contro Expo: «Va fermata, è un’associazione a delinquere!». Ieri, 7 luglio, il gruppo lombardo del M5S ha incontrato il commissario di Expo, Giuseppe Sala, «per avere aggiornamenti dal diretto responsabile in merito allo stato attuale di avanzamento dei lavori, del numero di occupati e della contrattualistica dei volontari».

Potremmo continuare, ma è chiaro. Quello di Grillo è un movimento in altalena: spinte eccessive e frenate improvvise spaventano gli attivisti (di qui le scomuniche e le espulsioni), confondono i simpatizzanti, esasperano gli avversari politici. Ma l’altalena, per quanto eccitante, resta un gioco infantile. Prima o poi bisogna scendere, e crescere.

8 luglio 2014 | 08:13
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_luglio_08/vaghe-stelle-grillismo-ff593792-065f-11e4-addf-a4fb93907d37.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Luglio 21, 2014, 05:50:57 pm »

Prandelli: «Non sono scappato, la verità è che in Italia manca amore»
Dopo l’addio alla nazionale, il tecnico spiega il fallimento mondiale in Brasile e replica alle critiche.
«Avevo Cerci, Insigne, Cassano e Balotelli: mai creata un’occasione da gol»


di BEPPE SEVERGNINI

«Prima di cominciare, posso dire una cosa?».
Certo Cesare. Non è che tu ne abbia dette molte, dal Brasile in poi.
«In questi giorni ho pensato tanto, come puoi immaginare. E una cosa mi torna in mente. Nella vita di un professionista ci sono alti e bassi, ma sono gli alti e i bassi di un privilegiato. Sono stato attaccato crudelmente. Va bene. Ma non devo sentirmi una vittima. Non ne ho il diritto. Bene, ora possiamo iniziare».
Prima domanda: ti sarebbe piaciuto allenare la Juve? I tifosi ti avrebbero accolto meglio di Allegri, hai un passato bianconero. Se solo avessi aspettato qualche giorno, a impegnarti in Turchia...
(pausa) «Per due volte sono arrivato vicino a quella panchina, ma sono orgoglioso della scelta che ho fatto di restare a Firenze. Credevo in quel progetto sportivo».
Visto il collega Antonio Conte? Peggio lo stress da vittorie o lo stress da sconfitte?
«Una volta Conte ha detto “perdere è come morire”. Quindi sì, posso credere che oggi lui viva uno stress da vittorie».
Conte è adatto alla nazionale? Potrà trasmettere quella carica incontrando i giocatori ogni mese o giù di lì?
«No, diventa difficile. Il c.t. della nazionale ha pochissimo tempo. Puoi ovviare, in parte, se hai un blocco di giocatori di una squadra... ».
Tipo il blocco Juve...
«Sì, assolutamente. Ma sono questioni che affronterà Conte, se verrà scelto».
Da uno a dieci, lo stress dell’avventura mondiale in Brasile.
«Possiamo andare oltre il livello dieci? (ride) Non parlo di stress professionale, lì le critiche feroci ci stanno. Ma quando leggi e ascolti certi attacchi di tipo personale... ».
Ci torneremo. Ma prima: se invece di avventura mondiale la chiamassimo umiliazione mondiale?
«Umiliazione? Umiliazione è anche vedere la nostra Italia che arranca in tutti i settori, purtroppo».
Tre parole per dire cosa non ha funzionato in Brasile.
«È il progetto che non ha funzionato! Pensavamo di giocare in un certo modo e non ci siamo riusciti. Pensavamo di mettere in difficoltà la Costa Rica e non ce l’abbiamo fatta. Questo era il progetto tecnico. Ed è fallito. Punto. La responsabilità è mia».
«Progetto tecnico fallito. Punto». Per chi non fa il tuo mestiere è un po’ generico.
«Non è generico. Il campionato mi ha dato indicazioni, e ho cercato di seguirle. Ho pensato che, con gente di qualità in mezzo al campo, avremmo trovato facilità di manovra e profondità con gli esterni. Con la Costa Rica non ha funzionato. Avevo Cerci, Insigne, Cassano, Balotelli, quattro attaccanti che in campionato hanno mostrato il loro valore. Non siamo riusciti a creare una palla gol e siamo andati dodici volte in fuorigioco. Ho messo quei quattro e pensavo di vincere la partita. E, ripeto, ho fallito».
Se la Federazione fosse forte, avremmo giocato in quei posti e in certi orari?
«Io mi ricordo i giornalisti italiani al sorteggio. Tre giorni a gridare “Vergogna! Ci hanno trattato come la squadra ultima al mondo!” Poi si sono dimenticati tutto».
Convocazioni: rifaresti ogni cosa?
«Sì. Con Montolivo e Giuseppe Rossi la squadra aveva dimostrato una buona identità. Dopo gli infortuni, abbiamo dovuto cambiarla».
Alla vigilia dei Mondiali, in un’intervista per «Sette», mi hai descritto Balotelli come un ragazzo che stava maturando. Mi hai spiegato quanto fosse importante per la nazionale, come giocatore e come simbolo. Cos’è successo?
«Mario è un ragazzo fondamentalmente buono. Non è un ragazzo cattivo. Ma vive in una sua dimensione che è lontana dalla realtà. Ma non vuol dire nulla. A 24 anni ha la possibilità di fare tesoro di questa grande esperienza».
Ventiquattro anni, una figlia, quattro squadre importanti: cos’altro aspetta per tornare nella realtà? Va be’. Non hai l’impressione che noi ci siamo presentati con l’usato sicuro e gli altri con il nuovo modello? Prendiamo il portiere. Buffon è bravo, e tu ne hai stima. Ma è un portiere tradizionale. Diciamo la verità: il tedesco Neuer quel gol di Ruiz l’avrebbe preso?
«Se critichiamo Buffon dopo 142 partite in nazionale non abbiamo capito cosa ha fatto... ».
Tutti siamo riconoscenti a Buffon, ma non è con la riconoscenza che si vincono i Mondiali.
«La questione è un’altra. La Germania, quando ha avuto difficoltà, si è chiesta: qual è la nostra squadra più importante? Non ha risposto Bayern o Borussia. Ha risposto “Germania” e tutti si sono messi al servizio della nazionale. Nelle squadre italiane giocano il 38% di italiani. La stessa Juve ha sei titolari stranieri. Puntare sui settori giovanili!, dicono. Ma se sono pieni di stranieri? Di cosa stiamo parlando?».
Ce lo vedi Albertini al posto di Abete alla guida della Federcalcio?
«Ho lavorato con Demetrio quattro anni. È un uomo perbene, sa il fatto suo, ha avuto esperienza internazionale come calciatore. Ma anche lui sa che non è una persona che cambia il sistema. È il nostro calcio che va rivisto. Ripeto, dobbiamo partire da una domanda: qual è la squadra più importante in Italia? Non è la tua Inter, non è la Juve, la Roma, la Fiorentina o il Milan. È la nazionale. Solo così si arriva preparati ai grandi eventi».
Ne hai fatto cenno prima. Leggendo e ascoltando certi commenti, ci sei rimasto male.
«Il diritto di critica è sacrosanto. Ma dev’essere mantenuto nei limiti della verità, della civiltà e delle proporzioni. Secondo me chi ha scritto e detto certe cose si deve vergognare».
La cosa che ti ha ferito di più?
«L’accusa di essere scappato. L’idea della fuga. Non è vero. L’ho dimostrato nella mia vita, personale e professionale. È successo a Parma, dopo il crac Parmalat: sono scappati in tanti, io sono rimasto e con la mia squadrettina siamo arrivati quinti. È successo a Firenze. Non sono scappato. Sono rimasto al mio posto da solo, con i dirigenti inquisiti in Calciopoli, e nonostante questo, senza penalizzazione, saremmo arrivati secondi in campionato».
E...
«E non sono scappato dalla federazione: siamo tutti dimissionari! Quindi io non sono scappato da nessuno. Fuga? Fuga de che?».
Tu...
«Dicono che sono un uomo di marketing. Marketing vuol dire portare gli azzurri a Rizziconi (su un campo sequestrato alla ‘ndrangheta, ndr), dai terremotati, negli ospedali dei bambini, ad Auschwitz? Se questo è marketing, Beppe, lo faccio tutti i giorni! E vorrei che altri lo facessero!».
Ma...
« ... ma hai capito cosa sta succedendo negli stadi? Una volta c’erano eroi poveri in campo e benestanti sugli spalti: applauso garantito. Oggi il contrario. In campo ci sono persone ricche e sugli spalti persone sempre più povere. Risentimento assicurato. Siamo dei privilegiati, dobbiamo essere comprensivi e generosi».
Non sarebbe stato meglio spiegare tutto questo e POI dare la notizia del trasferimento in Turchia?
«Non c’era tempo. Mi hanno chiamato dal Galatasaray, poi richiamato. “Siamo una grande società. Abbiamo messo in stand-by otto allenatori per te...”. E poi il campo. Avevo il bisogno fisico di mettere le scarpette e tornare in campo. Quando cadi dalla bicicletta da bambino devi risalirci subito. Le persone che mi vogliono bene mi vedevano in uno stato comatoso. Lo dovevo anche a loro. Vado a fare il mio lavoro, è una sfida, mi rimetto in gioco».
Non tutti hanno capito, però.
«Pensa, mi hanno accusato perfino di “non essere rimasto a elaborare il lutto”. Ma questo non è compito dei defunti!».
Ma tu non sei defunto. Sei l’allenatore del Galatasaray.
«Vero: io con il mio Galatasaray, a caccia della quarta stella, il 20° scudetto».
Penserai ogni tanto alla nazionale italiana?
«La nazionale galleggia ancora e si rimetterà a navigare. I giocatori potranno riscattarsi».
Escludi di tornare un giorno ad allenarli?
«Assolutamente. Il mio tempo azzurro è passato».

@beppesevergnini
21 luglio 2014 | 07:09
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Da - http://www.corriere.it/sport/14_luglio_21/prandelli-non-sono-scappato-verita-che-italia-manca-amore-93ab0be6-1092-11e4-beef-e3441e67d81c.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:35:29 am »

L’imperatrice di Blandings
Il mio eroe segreto? Una scrofa gigante che mi insegnò a scrivere
Le inattese conseguenze dell’incontro estivo tra un ragazzo italiano degli anni Sessanta e l’enorme e bizzoso suino creato dalla fantasia di P. G. Wodehouse
Di BEPPE SEVERGNINI

Capisco che un maiale costituisca un insolito eroe di gioventù, ma voi non conoscete l’Imperatrice di Blandings. Un suino paracadutato tra lord, case di campagna e belle fanciulle in età da marito. Tutte cose che, a dieci anni, non si conoscono, e assumono contorni fiabeschi. A metà degli anni Sessanta, inconsapevole delle conseguenze, mi ero iscritto tra gli ammiratori dei suini, trasfigurati dall’umorismo inglese. C’è chi, durante l’infanzia, si entusiasma per una strega, e chi per una scrofa: che ci volete fare.

Andiamo con ordine. L’imperatrice di Blandings era un maestoso esemplare da competizione, passione del nono conte di Ensworth, che la preferiva a fratelli eccentrici, nipoti scapestrati e giardinieri. Appare in una serie di romanzi di P.G. Wodehouse, nato nel 1881, scrittore dalla penna leggera, cantore dell’aristocrazia britannica nell’ultimo momento di splendore, i primi trent’anni del Novecento. Il personaggio più noto di Wodehouse è l’ineffabile maggiordomo Jeeves, ma ce ne sono altri, egualmente bislacchi.

Uomo divertito e divertente, Sir Pelham Grenville Wodehouse era tanto disinteressato all’attualità che, quando venne internato in Slesia dai tedeschi nel 1936, scrisse cinque esilaranti racconti radiofonici sulla vita nei campi di prigionia. Racconti prontamente utilizzati dalla propaganda nazista e poco graditi ai patriottici connazionali dell’autore. Plum, com’era soprannominato, fu poi scagionato, e venne difeso da Evelyn Waugh e George Orwell. Ma si sentì offeso e lasciò l’Inghilterra nel 1955, per non farvi ritorno.

Tutto questo, su un bambino italiano degli anni Sessanta, andava completamente perduto. P. G. Wodehouse, umorista sognatore, era solo l’anziano signore che, in seconda di copertina, batteva su una macchina da scrivere, in giacca e cravatta, con la pipa tra i denti. In Italia era pubblicato da Bietti. Una quarantina di titoli con copertine ingenue, che i cultori segnalavano con passione. Di solito i lettori erano poco più giovani dell’autore: anziane coppie che amavano una risata prima del gin & tonic e rimpiangevano una società di maggiordomi e latifondi. Ma c’erano intrusi, in quel mondo. Io ero uno di loro.

La scoperta di P. G. Wodehouse avvenne a Forte dei Marmi intorno al 1966. Con i compagni di gioco, in particolare Nicolò V., durante l’estate si parlava di corse di biglie sulla spiaggia. Dall’autunno in poi, per lettera, si passava a quello strano inglese. Se non ricordo male Nicolò preferiva i racconti del classico Jeeves, Psmith o Mister Mulliner. Io amavo la saga del Castello di Blandings, illuminata dall’imperatrice, cui accadevano cose stranissime.

«Ti ho visto! - esclamò con tono irritato Lord Ensworth - Ero in cammino verso il porcile ho potuto tener d’occhio il tuo bel contegno di gettare la tua infernale palla da tennis sulla schiena della mia scrofa! La palla da tennis, comprendi! - Lingue di fuoco si sprigionavano attraverso il pince-nez - Ma non ti rendi conto, disgraziato che non sei altro, che l’Imperatrice di Blandings è un essere dai nervi delicati, di temperamento sofistico e sempre pronto alle minime provocazioni di rifiutare il cibo?» («Lampi d’estate», pag. 83).

Ora non chiedetemi perché il nipote Roland tirasse palle da tennis su una scrofa, né perché la suddetta fosse tanto suscettibile. Non ricordo neppure il motivo per cui Clarence, nono conte di Ensworth, tenesse tanto a vincere il concorso suino, superando l’odiato rivale, Sir Gregory Parsloe, sospettato di avergli rapito l’animale («Parsloe, fuori questo maiale, dunque!», ibidem, pag. 159). Però mi divertivo. Era come se quegli anziani ragazzi, usciti da Eton e Cambridge, non riuscissero a smettere di giocare, e ci permettessero di stare con loro. Ho letto almeno trenta libri di Wodehouse, tra i dieci e i quattordici anni. Poi, intorno al 1970, l’apparizione di ragazzine italiane in minigonna ha messo in ombra le disavventure della bella Sue nella campagna inglese, tra zii collerici e corteggiatori imbranati. Ma trenta libri, a quell’età, lasciano il segno.

L’ho capito quando, ventisettenne corrispondente da Londra per il Giornale di Montanelli, mi sono trovato a descrivere gli arabeschi della politica inglese (diversi, ma non meno inutili, di quelli della politica italiana). Primo ottobre 1984, Rudloe Rd SW12, Clapham South, sul tavolo un’Olivetti Lettera 32 e una radio sintonizzata su Bbc Radio Four. Era in corso l’annuale congresso del Partito laburista, che generazioni di corrispondenti italiani s’erano sentiti in dovere di riportare. Ho pensato: «E se raccontassi questa noiosa assemblea alla maniera di Wodehouse?». Così ho fatto. E ho continuato: con la politica inglese, l’Inghilterra, Londra, gli italiani a Londra, gli inglesi e le loro delicate follie (non esaurite, peraltro). Rientrato, ho proseguito, appena il luogo e l’argomento lo consentivano. Se il mondo è strambo, ho pensato, tanto vale raccontarlo com’è.
Grazie, quindi, P. G. Wodehouse. Tra i miei coetanei c’è chi ha avuto una donna per amico. Io ho trovato una scrofa per maestra. Succede.

24 luglio 2014 | 13:29
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_24/beppe-severgnini-eroe-segreto-wodehouse-dbdfef0a-1324-11e4-bb47-dc581d38d44f.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Agosto 02, 2014, 10:16:25 am »

Ostacoli inutili
Perché è così complicato assumere una ragazza?

Di BEPPE SEVERGNINI

Assumere un ragazzo dovrebbe essere semplice: è un’ordalìa. Potrebbe essere una soluzione: è diventato un problema. Dovrebbe costituire una gioia: è una fatica. Non c’è da stupirsi se la disoccupazione giovanile italiana sia cresciuta ancora, arrivando al 43,7%. Offrire un lavoro è diventato un atto di eroismo. Cercarlo, lo è sempre stato. Stefania Chiale ha 26 anni, è piemontese, è sveglia e impara in fretta. L’ho capito nei nove mesi di stage retribuito (sei più tre). La difficoltà, in questo periodo, non è stata, per me, insegnare; o, per lei, imparare. È stata districarsi in mezzo a regole esoteriche. Una per tutte. Il datore di lavoro - il tutor aziendale, cui si aggiunge un tutor organizzativo - deve condividere una o più sedi con lo stagista. Poco importa se, nel XXI secolo, lavorare a distanza sia comune, semplice e spesso inevitabile. La normativa dello stage non lo prevede. Un registro dev’essere firmato, ogni giorno, dal tutor e dallo stagista, accanto all’orario d’entrata e d’uscita. In nove mesi, sono 578 firme.

Stefania, nel frattempo, non ha imparato solo a firmare rapidamente. Sa come preparare un’intervista e come funziona un programma televisivo, è capace di trovare fonti per un’inchiesta e organizzare un incontro pubblico. Ha condotto le interviste al Festival internazionale del giornalismo di Perugia. Ora scrive su La 27esima ora, il blog multiautore del Corriere della Sera, e per Io Donna. Con cinque coetanei, ha fondato una start-up, Good morning Italia. Ma ha bisogno, come tutti gli italiani delle sua età, di un reddito e qualche certezza. Ho già una collaboratrice; vorrà dire che ne assumerò un’altra, e mi piacerebbe avviarla al giornalismo. Uno stipendio in più, un disoccupato in meno nelle statistiche.
Sembra facile! sospirava l’omino Bialetti a Carosello.

Le possibilità sono queste: un contratto a tempo indeterminato, il nuovo contratto a termine, un contratto a progetto e l’apprendistato. Il primo non è adatto. Per la ragazza questo è un passaggio, in attesa che le redazioni riprendano ad assumere; non un’occupazione a vita. Il contratto a tempo determinato senza causale, di cui s’è tanto discusso, è poca (e carissima) cosa: un rapporto di lavoro subordinato dove, se il datore di lavoro spende 30.000 euro, il lavoratore ne prende solo 16.900. Il tradizionale contratto a tempo indeterminato, dal punto di vista aziendale, è meno oneroso.

C’è il contratto a progetto, ma non è molto più conveniente: 30 mila di costo aziendale, 17.900 al lavoratore. E sul sito delle piccole e medie imprese (www.pmi.it) mettono in guardia: «Si sottolinea che la nuova disciplina di fatto non incide sulle disposizioni applicative già fornite dal ministero con la circolare numero 29 del 2012, che individua una serie di attività a cui non si possono applicare contratti a progetto. La precisazione si rende necessaria perché il Dl modifica la precedente disposizione parlando dell’impossibilità di applicare questi contratti ai casi di compiti “esecutivi e ripetitivi”, sostituendo la precedente congiunzione “o”». Chiaro? Certo che no. E non è finita. In mancanza dei requisiti specifici - «collegamento ad un determinato risultato finale, autonoma identificabilità nell’ambito dell’oggetto sociale del committente, non coincidenza con l’oggetto sociale del committente» - è previsto che il co.co.pro venga trasformato in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Resta l’apprendistato, con la speranza che l’Ordine dei giornalisti capisca come un’esperienza del genere equivale a un praticantato. Studiamo la cosa, con l’aiuto di un bravo consulente dei lavoro. Questa fattispecie è leggermente più vantaggiosa: mantenendo il costo aziendale (30.000 euro), al lavoratore arrivano 20.430 euro.

Ma assumere una giovane, futura collega si rivela complicato (sfruttarla gratuitamente, sono certo, risulterebbe più semplice). Potremmo applicare il Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) del Terziario Confcommercio, ma appare forzato.
- Qualifica: Apprendista impiegata
- Livello da acquisire: 3° livello
- Inquadramento durante il periodo di apprendistato: 4° livello
- Orario di lavoro: 40,00 ore settimanali
- Programma formazione: vedasi piano formativo individuale allegato.
Stefania però non farà l’impiegata, sebbene questa sia la categoria Inps. Non solo. Per la sua qualifica, il Ccnl prevede una durata di 36 mesi («Non è possibile indicare una durata inferiore se non per qualifiche molto basse», mi spiegano). Senza parlare della complessità del «piano formativo individuale» e della «scheda per la rilevazione della formazione professionalizzante interna (la formazione trasversale esterna sarà certificata dall’Ente erogatore)».
Per farla breve: io vorrei dare un lavoro a Stefania, Stefania vorrebbe lavorare con me, ma siamo bloccati. Un disoccupato in più e uno stipendio in meno nelle statistiche italiane.

1 agosto 2014 | 07:35
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DA - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_01/perche-cosi-complicato-assumere-ragazza-814f3646-193b-11e4-91b2-1fd8845305fa.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Agosto 09, 2014, 05:50:32 pm »

Vanessa e Greta, figlie dell’Italia buona e non turiste del rischio

di Beppe Severgnini

«A Cesenatico non le rapivano!», scrive Riccardo su Twitter. Ed è un gentiluomo, perché aggiunge: «La loro motivazione è comunque nobilissima». Un gentiluomo isolato. Le reazioni alla scomparsa di Vanessa e Greta ad Aleppo, in Siria, sono state, in media, più crudeli. È sembrato di tornare, di colpo, ai giorni di Rossella Urru, sequestrata in Algeria nel 2011; o ai tempi delle due Simone, rapite in Iraq, dieci anni fa. Stessi giudizi frettolosi. Ai pavidi non piacciono quelli che hanno coraggio.

«Evviva l’incoscienza due ventenni senza nessun tipo di preparazione!!! Bene che vada ci toccherà pagare profumatamente e riportarle con l’aereo di Stato!», scrive un lettore tra i commenti di Corriere.it . «Due ragazze ventenni se ne vanno in Siria senza arte né parte», commenta un altro. «Va bè, non diciamo che se la sono cercata: ma possiamo pensarlo?». E arriverà di peggio, state certi. Due belle ragazze con i sorrisi aperti e i capelli lunghi, una bionda e una mora. Basta e avanza, perché si scateni l’immaginario televisivo dei superficiali.

Secondo l’Unicef la mattanza siriana ha già ucciso 11.400 bambini. Un terzo aveva meno di 10 anni. Le persone coinvolte dal conflitto sono ormai 11 milioni, quasi 5 milioni di minori. Aggiungete quasi 3 milioni di profughi fuggiti nei Paesi dell’area (Turchia, Giordania, Libano, Iraq): tra loro, un milione e mezzo di bambini. Metteteli in fila indiana: arrivano da Milano e Roma. Pensiamo poco, e non facciamo nulla, davanti a questo scandalo. Giudichiamo subito, e con sufficienza, due ragazze che davanti all’orrore hanno provato, con i loro mezzi, ad aiutare, prima in Italia poi in Siria. Inesperte? Ovvio. Impulsive? Probabilmente: chi a vent’anni non cerca di dividere il bene dal male? Incoscienti? D’accordo. Ma ammirevoli.

Il confine tra incoscienza e coraggio è spesso nascosto dalla passione. Le due ragazze ne hanno in abbondanza. Greta e Vanessa, 20 anni e 21 anni, Brembate (Bergamo) e Besozzo (Varese): la Lombardia che ogni mattina sale sul pullman per andare a scuola, e poi scopre, di colpo, la ferocia del mondo. «Lo prendo come un fatto personale», diceva Vanessa di quanto accadeva in Siria, un Paese dove aveva contatti ed era già stata. Non sono turiste del rischio, Vanessa e Greta. Sono le figlie di una buona Italia, che ora deve riportarle a casa. Senza gridare, senza accusare e, almeno stavolta, senza litigare.

7 agosto 2014 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_agosto_07/vanessa-greta-figlie-dell-italia-buona-non-turiste-rischio-7cf0b8c2-1dff-11e4-832c-946865584d19.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Agosto 09, 2014, 06:04:13 pm »

Bivacchi e tuffi nelle fontane: i turisti stranieri non ci prendono sul serio
Le vacanze sregolate da Venezia a Roma Tutto è permesso
Per molti siamo il Paese delle eccezioni, dove tutto è permesso e si può agire liberamente nell’indifferenza


Di Beppe Severgnini

Diciamolo. Cambia poco se quei due stranieri facessero sesso su un ponte a Venezia, in pieno giorno, con le natiche al vento; o se fossero impegnati a smaltire una sbronza colossale. Il ponte si chiama degli Scalzi, non degli Spogliati.

L’episodio non è isolato. Il sito del Corriere del Veneto, e altri media a ruota, hanno mostrato una sconcertante rassegna di eccessi estivi, dove gli ospiti stranieri sono protagonisti. Accampamenti sotto i colonnati, picnic con tovaglia in piazza San Marco, abbronzatura inguinale nei campielli, bivacchi notturni durante i quali è difficile immaginare che i canali non vengano usati come latrine a cielo aperto.

La città di Venezia non è immune da colpe (il turista barbaro comunque compra, e qualcuno vende). E non è la sola a subire certe assalti. Firenze e Roma sono messe meglio, ma subiscono quotidianamente quest’affronto. Non è, infatti, banale sciatteria. È mancanza di rispetto. Certe cose, a Parigi a Londra o a Siviglia, i turisti non le fanno.

Perché accade? Forse perché, all’estero, non ci prendono sul serio? O perché la vacanza italiana è, da secoli, una sospensione delle regole? La prima possibilità è sgradevole. Nasconde un’opinione che, per noi, sarebbe umiliante. L’Italia come luogo fascinoso, colorato, eccitante; ma incapace di organizzare una convivenza ordinata. Come dimostrano film e libri, amici e barzellette, la sottovalutazione della nostra vita pubblica è pari solo alla sopravvalutazione delle nostra vita privata. Qualcuno dirà: nordeuropei e americani non vedono, dietro alle convenzioni del pub, del party e della metodica sbronza tra amici, il rischio dell’alcolismo di massa? Lo vedono. Ma quelle abitudini - da Chicago a Cork, da Stoccolma a Stoccarda - sono in qualche modo codificate. Società a irresponsabilità limitata.

L’Italia, quindi, è vittima di un luogo comune? Certamente. Ma è una vittima consenziente; spesso, addirittura, complice. La vicende italiane che affiorano nei media internazionali non sono soltanto imbarazzanti: sono anche, purtroppo, simboliche e spettacolari. Dalla spazzatura sul golfo di Napoli ai maneggi del Mose a Venezia, dalle futuristiche ruberie di Milano-Expo al vergognoso abbandono della Maddalena, abbiamo la capacità di fornire fenomenali sfondi ai nostri guai. E non ci sono solo le brutte notizie. Ci sono anche le abitudini discutibili. Quelle che il turista straniero percepisce durante la visita, e metabolizza. Le discariche abusive di cui è macchiato il sud, state certi, raccolgono anche rifiuti gettati dai forestieri.

Le pessime condizioni di tanti treni locali invitano alla sciatteria; sul Frecciarossa il viaggiatore straniero non si pulisce i piedi sul sedile. Il suk automobilistico davanti alla stazione Termini di Roma - taxisti che gridano ordini e impongono misteriose gerarchie, nella totale assenza di controlli - diventa, per il turista superficiale, un invito. La città è questa, mi adatto. Poi vagli a spiegare che non si entra nelle fontane, anche se fa caldo.

L’imitazione dei cattivi comportamenti, in qualche caso, sopravvive ai comportamenti stessi. Prendiamo le autostrade. Noi italiani, grazie al «tutor», siamo diventati più disciplinati (con vantaggi per l’incolumità e il sistema nervoso). Molti automobilisti stranieri non lo hanno capito, e continuano a guidare in maniera sconsiderata. L’arroganza di tante targhe svizzere lanciate a bomba verso sud nasconde un atteggiamento coloniale. Come altri stranieri, quei signori fanno cose che, a Zurigo o a Losanna, non si permetterebbero mai. Resta la seconda possibilità, per noi più consolante. Per molti l’Italia è il luogo delle eccezioni comportamentali, il laboratorio degli esperimenti sentimentali, la palestra delle intuizioni, delle sensazioni e delle tentazioni. Un’intera bibliografia, da Goethe a «Mangia Prega Ama», è in grado di dimostrarlo. I turisti stranieri vengono da noi perché si sentono, per due/tre settimane l’anno, più liberi. Noi siamo quello che vorrebbero essere, almeno talvolta: e non osano. Fosse così, possiamo accettarlo. Ma ricordiamo ai nostri ospiti una cosa. L’Italia è davvero, con tutti i suoi difetti, un luogo fascinoso, generoso e sensuale. Per goderselo, non c’è bisogno di mostrare le natiche su un ponte.

8 agosto 2014 | 09:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_08/bivacchi-tuffi-fontane-turisti-stranieri-non-ci-prendono-serio-00d200ba-1ec8-11e4-935f-58b9b86038b5.shtml
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