LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. => Discussione aperta da: Admin - Agosto 04, 2008, 07:38:39 pm



Titolo: Beppe SEVERGNINI. -
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 07:38:39 pm
L'ondata dei dinieghi. Sono in minoranza gli ordini di buon senso

Divieti, l'estate neo-proibizionista

I diktat transpadani dimostrano impotenza: proibiamo tutto perché non riusciamo a impedire qualcosa



ROMA - Non filmare i figli in piscina! A Trento ti prendono per un pedofilo. Non darti appuntamento con gli amici in un giardino pubblico la sera! A Novara ti considerano un malintenzionato. Non berti una birra all'aperto! A Brescia passi per un ubriacone. Non fumare nei parchi-giochi! A Verona dicono che non sta bene. Non fare il bagno a Sorrento e non raccogliere cozze a Napoli! In Campania il mare di oggi è infido come le strade di ieri. Non avvicinarti alla caletta più bella dell'Asinara! Solo le vacche possono passeggiarci e lasciare enormi souvenir. Non denudarti nelle spiagge dei nudisti! A Ravenna, sul Garda e sull'Adda, come a Palazzo Chigi, ritengono che un capezzolo possa provocare turbamenti (evidentemente, non guardano la Tv). E' l'estate del divieto a go-go. Tutto ciò che si vorrebbe fare costa caro, e il resto è vietato. Non tutti i divieti, ovviamente, sono uguali. Ce ne sono d'inquietanti (Trento), d'impotenti (Novara) e di anacronistici (Ravenna). Alcuni sono segni di disperazione (Brescia); altri contengono una dose di buon senso (Verona). Non c'è dubbio comunque che l'autorità italiana — irrisa dall'inosservanza delle regole — abbia trovato, nella proibizione, una consolazione. Anzi, una ragion d'essere. Veto ergo sum. Cominciamo da Trento. In quella bella e civilissima città se inquadri con la videocamera o il telefonino una vasca piena di bambini diventi sospetto. La piscina — spiega Roberto De Carolis, direttore della società che gestisce 92 impianti sportivi — è infatti un «territorio fertile per un certo tipo di reato». Che dire? La preoccupazione è genuina, ma il rimedio è inquietante. Siamo ridotti come gli Usa, dove i bambini nudi — su una spiaggia o in una foto di famiglia — sono tabù da almeno vent'anni. Perdita dell'innocenza o paranoia collettiva? Siamo per la risposta numero due.

A Novara il sindaco Massimo Giordano impedisce di fermarsi in parchi e giardini dopo le 11 di sera, in più di due persone; a Brescia il collega Adriano Paroli vieta il consumo di alcolici sul suolo pubblico (finirà, di nuovo, come in America, la gente berrà direttamente dal sacchetto). I divieti transpadani equivalgono a una confessione d'impotenza: siccome non riusciamo a impedire qualcosa a qualcuno, proibiamo molto a tutti. Sia chiaro: i bivacchi molesti sono un marchio di questa povera estate italiana, e qualcosa va fatto. Ma per punire spacciatori, ubriaconi e piantagrane c'è — ci sarebbe — il codice penale. In Italia, evidentemente, è troppo difficile far rispettare le norme esistenti. Meglio inventarne di nuove, pur sapendo che finiranno come quelle vecchie. Altri divieti sono più tradizionali: sulla salute delle cozze, a Napoli, c'è più letteratura che su Eduardo De Filippo. Il divieto di fumo nei parchi-giochi a Verona, invece, appare ragionevole: non tanto perché i bimbi, all'aperto, siano vittime del fumo passivo; ma perché non è simpatico saltare e correre tra i mozziconi. Per lo stesso motivo, nella tollerante Sydney, hanno vietato il fumo a Bondi Beach. La spiaggia stava diventando un immenso posacenere. Il divieto logico è tuttavia in minoranza, nell'Italia neo-proibizionista (a parole). Il divieto più buffo è quello di mettersi nudi in luoghi appartati, al mare, al lago o lungo i fiumi. Oggi, siamo certi, neppure Oscar Luigi Scalfaro avrebbe nulla da dire se una dozzina di adulti consenzienti si ritrovassero per dondolare un po' di carne in pubblico. Ma sull'Adda, sul Garda e sull'Adriatico ritengono la cosa assai sconveniente: il senso del pudore cambia, certa gente mai. Un consiglio alle autorità in questione: se vi avanzano agenti in borghese, non sguinzagliateli dietro ai glutei di un vice-preside naturista. Mandateli a Novara o a Brescia dove, oggettivamente, da fare ce n'è.

Beppe Severgnini
www.corriere.it/italians
www.beppesevergnini.com


04 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. -
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:11:06 pm
Quel che ci vuole per fare un Obama

Beppe Severgnini,


Anche i più cinici, disinformati e superficiali osservatori di cose americane ormai l'ammettono: il presidente Obama qualche qualità la possiede.

Il Partito Democratico italiano, quando si riavrà dall'overdose di eccitazione e invidia, dovrà meditare. Esiste, al suo interno, un personaggio fresco, onesto e coerente? Un candidato in grado di motivare i giovani elettori? Un uomo o una donna in grado di ispirare e rassicurare? Qualcuno capace di far sembrare Silvio Berlusconi superato e ripetitivo?

Molti dirigenti del Pd pensano d'essere la persona giusta; e si domandano com'è possibile che tutti gli altri non se ne siano accorti.

Proposta: analizziamo le carte vincenti del 44° presidente, e vediamo chi le possiede.


ASPETTO Francesco Rutelli. E' vero: per stazza, capello, storia e consorte l'uomo è più clintoniano che obamiano.
Ma con un po' di palestra e qualche sorriso in più può ancora andare.

MOGLIE E FIGLI Enrico Letta. Gianna, oltretutto, non metterebbe mai quel vestito giallo.

NOVITA' Lanfranco Tenaglia. Come, non sapete chi è? Il ministro-ombra della giustizia: è nato nel 1961 come Obama.

PROGRAMMA Walter Veltroni. Le cose che dice Obama, e quelle ripetute dal leader Pd, non sono molto diverse. L'americano, però, sembra volerle fare.

CURIOSITA' Giovanna Melandri. La bionda signora, a far campagna elettorale negli Usa, c'è andata davvero, l'anno scorso. Ha capito che il partito democratico americano è una corazzata; poi è tornata a Roma a lucidare la sua scialuppa.

ECUMENISMO Arturo Parisi. Ulivista e unionista, ha sempre pensato che la sinistra non si debba dividere.
Così facendo, ha diviso la sinistra (ma questo è un altro discorso).

SIMPATIA Pier Luigi Bersani. Uno tra i pochi che, in questo casino, sembra ancora divertirsi. Piacenza non è Chicago, ma bisogna accontentarsi.

AUTOSTIMA D'Alema.

UMILTA' Rosy Bindi. Tra tanti politici cattolici che spiegano, una che ogni tanto tace.

PAZIENZA Antonio Bassolino o Riccardo Villari. Gliene dicono di tutti i colori - comprensibilmente - ma loro - incomprensibilmente - non mollano.

POPOLARITA' Romano Prodi. Be', tutti sanno chi è.

TENACIA Renato Soru. L'uomo ha la testa dura: basalto sardo, come quello lavorato dello scultore Pinuccio Sciola.

REPUTAZIONE Sergio Chiamparino. In una parte d'Italia dove il centrosinistra, da anni, prende cazzotti, ha saputo schivare e spiegare.

INNOVAZIONE Nicola Zingaretti. La provincia di Roma, di cui è presidente, lancia la rete wireless in tutti i comuni: 500 hotspot gratuiti in biblioteche, piazze e parchi. Bel progetto, a patto che non resti un progetto.

Ecco: questo ircocervo politico qualche possibilità l'avrebbe. Ma se riunisse la novità di Prodi, la popolarità di Tenaglia, la reputazione di Bassolino, la pazienza di Soru e l'umiltà di D'Alema? Be', in questo caso Berlusconi potrebbe tornare a star traquillo.

Ammesso che sia mai stato preoccupato.

da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI - Cittadini di un Paese ormai psichedelico
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 05:00:52 pm
Cittadini di un Paese ormai psichedelico




Torno dagli Stati Uniti e volevo raccontarvi di case invendute sotto il sole d'aprile, della crisi dell'auto, degli amici americani che hanno smesso di fare gli spiritosi quando parlano della nostra Fiat. Descrivere la Forgotten Coast, la "costa dimenticata" a nord-ovest della Florida, dove i rednecks della Georgia e dell'Alabama scendono al mare. Parli di "influenza suina" e ti guardano storto: hot dogs con la febbre?

Volevo raccontarvi di queste cose, ma lo farò la prossima volta. Mi sembra, rientrando in Italia, che le urgenze siano altre. Ad esempio: perché quella signorina lo chiama "papi"?

Siamo ormai un Paese psichedelico, guidato da un leader escatologico, con tratti bulimici. I fini ultimo del nostro primo ministro sono misteriosi, ma le sue trovate sono tali e tante da sconfiggere la presunta perfidia dalla stampa estera. "Divertimento dell'imperatore"? Signora Veronica, questa è pop art! Se un corrispondente straniero scrivesse che l'organizzatore del G8 cambia l'agenda per volare a Napoli e partecipare alla festa di una diciottenne in discoteca, in redazione non gli crederebbero.

Neanch'io volevo crederci, mentre scendevo sopra il Piemonte allagato, arrivando dalla notte atlantica. Confesso che non potevo immaginare la nomina di Mara Carfagna, ma poi è successo. Ero incredulo alla notizia che le gemelle De Vivo, fugaci apparizioni all'Isola dei Famosi, fossero ricevute per un'ora a Palazzo Grazioli (prima di un ricevimento a Villa Taverna dall'ambasciatore americano): ma è accaduto. Fatico ad ammettere che letteronze e troniste vengano candidate al Parlamento europeo: ma avverrà (e io non voto).

"Ciarpame senza pudore"? E perché, signora Veronica? Suo marito è l'autobiografia onirica della nazione: fa le cose che tanti sognano. Le proteste a sinistra sono sospette perché preconcette: da quelle parti contestano Berlusconi anche se si gratta il naso. Altre reazioni non ci sono. Nel Dna civile di noi italiani è iscritta la Signoria, come in quello dei russi c'è lo zar: il capo non si critica, al massimo s'invidia. "Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie": la psicologia del potere non è cambiata dai tempi dell'Ariosto. In poche ore si passa dal ricevimento per Lukashenko, l'ultimo dittatore d'Europa, al ciondolo d'oro con diamanti per la ragazzina partenopea. Indignarsi? Sentimento antico, stancante e velleitario. Vediamo di suggerire, invece, qualcosa capace di stupire ancora.

Che so, un Consiglio dei Ministri organizzato come il Grande Fratello, con tanto di televoto: sarà il pubblico a decidere quale ministro dovrà uscire dalla casa. Oppure un altro trasferimento del G8. Non a Roma, non in Sardegna, non in Abruzzo. In discoteca! I colloqui tra i leader avverranno sulla pista da ballo, mentre ministri e diplomatici si divincolano sui cubi, battendo le mani ("Rock the World, Baby!").

Sì, questa è una buona idea. Il mondo, visto quello che sta passando, ha bisogno d'allegria. Di questa materia prima, siamo i più grandi produttori mondiali. Vendiamola cara, al prezzo del petrolio.

(Dal Corriere della Sera, 30 aprile 2009)



Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Noemi, quattro cose ovvie
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 10:04:13 am
Noemi, quattro cose ovvie



Beppe Severgnini,

Un pesce rosso convinto d'essere un cardinale, gli economisti che ammettono di non averci capito niente, la politica fuori dalla nomine Rai, José Mourinho che lavora gratis. Sono molte le notizie surreali che avrebbero potuto colorare questa torrida primavera, ma è toccato a una ragazzina e ai suoi bizzarri rapporti col presidente del Consiglio.

Bizzari: ecco la parola. Potete essere di destra o di sinistra, atei e cattolici, giovani o meno giovani, ma sarete d'accordo: se uno sceneggiatore avesse scritto un film con quella trama, gli avrebbero detto "Ragazzo, hai bevuto?". Invece è accaduto. Noemi, le feste, il papi, i genitori, le smentite, i fidanzati che compaiono e scompaiono. I marziani guardano giù dicendo: "E quelli strani saremmo noi?".

Quattro punti ovvii, per ridurre i litigi e provare a ragionare. Il primo: la frequentazione tra un settantenne e una diciassettenne - al di là del ruolo di lui - è insolita. La famiglia Letizia non sembra stupita, decine di milioni d'italiani sì. Una spiegazione plausibile ancora non l'hanno avuta. Se tanti lavorano di fantasia, a Palazzo Chigi non possono stupirsi.

Ovvietà numero due. Alcune affermazioni del protagonista sono state smentite. "L'ho sempre vista coi genitori": poi Noemi - ma cosa s'è fatta? era così carina! - salta fuori alla festa del Milan, sbuca al galà della moda, compare in Sardegna. Per cose del genere, nelle altre democrazie, i potenti saltano come tappi di spumante. Noi siamo più elastici - succubi, rassegnati, distratti, disinformati: scegliete voi l'aggettivo - ma un leader politico, perfino qui, dev'essere credibile.

Ovvietà numero tre. Le abitudini e le frequentazioni di Silvio B. riguardano solo Veronica L. (che peraltro s'è già espressa con vigore sul tema)? Be', fino a un certo punto. Il Presidente del Consiglio guida una coalizione di governo che organizza il Family Day, mica il Toga Party o il concorso Miss Maglietta Bagnata. Michele Brambilla - vicedirettore del "Giornale", bravo collega e uomo perbene - spiega che, per il mondo cattolico, contano le azioni politiche, non i comportamenti coerenti. Io dico: mah!

Ovvietà numero quattro. L'opposizione, in tutte le democrazie, cerca i punti deboli dell'avversario, soprattutto alla vigilia delle elezioni. Dov'è lo scandalo, qual è la novità? Se Piersilvio s'indigna, non ha idea di cosa avrebbe passato suo padre in America, in Germania o in Gran Bretagna (dov'è inconcepibile che i capi di governo possiedano televisioni). Non solo in questi giorni: negli ultimi quindici anni.
Bene: quattro cose ovvie, in attesa di sviluppi. Intanto s'è insediato quietamente il governo Letta. Qualcuno che coordini ci vuole. C'è da lavorare, e il Capo è altrove.

Dal Corriere della Sera del 28 maggio 2009



Titolo: Beppe SEVERGNINI. Una sceneggiatura che ricorda le avventure di Topolinia
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2009, 11:44:21 am
Politica e fumetti

Una sceneggiatura che ricorda le avventure di Topolinia
 

Topolanek nudo! Sembra un allarme lanciato da Superpippo, è invece è l’argomento di cui discutiamo in Italia.
Oggi è la Festa delle Repubblica: se qualcuno avesse dubbi che la nostra democrazia sta assumendo contorni fumettistici, legga i giornali.
Che bisogno abbiamo dei Tremonti Bonds, per aiutare la finanze nazionali? Vendiamo i diritti alla Disney.

La nostra discesa verso gli inferi del ridicolo passa anche da vicende improbabili e nomi impeccabili. Mirek Topolánek, anni 53. Capo del governo a Praga fino al marzo scorso, è separato dalla moglie Pavla Topolánková; ha due figlie, due figli e due nipoti. I suoi idoli sono Churchill, Thatcher e Aznar. Le sue letture Steinbeck, Hemingway e Kundera. I suoi passatempi — informa Wikipedia — includono tennis, golf e guida nei rally. Di naturismo non si parla. Di ragazze neanche.

Villa Certosa sta assumendo, nella fantasie nazionali, tratti leggendari.
Gli amici del protagonista, cercando di minimizzare, contribuiscono ad arricchire la sceneggiatura. Marcello Dell’Utri: «C’è la gelateria. Tu vai lì, e ti servono tutto il gelato che vuoi. Gratis. Se ci pensa, è una trovata molto divertente». Flavio Briatore: «C’è il gioco del vulcano. Si chiacchiera del più e del meno e quando il gruppo si avvicina al laghetto, (Berlusconi) finge di preoccuparsi, dicendo che la Sardegna è una zona vulcanica. E a quel punto si sente un’esplosione pazzesca, ci sono effetti tipo fiamme...». Sandro Bondi, cercando di spiegare il Topolanek desnudo: «Mah... D’altra parte consideri che la villa è a pochi metri dal mare. Una mare, come lei saprà, di una bellezza assoluta».

Per descrivere le festicciole del Capo hanno tirato in ballo di tutto: da Boccaccio a Fellini a Umberto Smaila. Inesatto.
Nessuna Rimini notturna né campagna toscana, niente «Colpo Grosso» o Sodoma Gomorra all’italiana. Villa Certosa è Topolinia (qualcuno lo spieghi al «Times» di Londra).
Una città incredibile dove la Banda Bassotti tira tardi in compagnia del commissario Basettoni, Pluto veglia tra i ginepri e Macchia Nera guarda Minnie che si fa la doccia.

In attesa di sapere se il prodotto è adatto ai bambini, diciamo questo: era da tempo che la politica italiana non produceva una trama altrettanto fantasiosa.
La satiriasi del potere è un fatto storico: imperatori e satrapi, dittatori e autocrati hanno sempre amato riempire le feste di attrazioni e ragazze.
In democrazia la cosa è più complicata, ma la cinica elasticità italiana consentirebbe di raccontare molto, se non proprio tutto. L’ultimo scoglio è la coerenza ufficiale: i politici, anche i più spregiudicati, non sono ancora pronti ad ammettere quello che fanno, temendo che qualcuno lo confronti con quello che dicono.

Durerà poco: l’ipocrisia, nei fumetti, non serve. Ps L’ex primo ministro ceco Mirek Topolanek il 29 maggio ha risposto alle critiche di Silvio Berlusconi il quale, durante l'assemblea di Confesercenti, aveva parlato delle debolezze dell'Europa e della poca autorevolezza della presidenza ceca di turno: «Silvio, amico mio, chiudi la bocca!». Invito accolto, pare.



Beppe Severgnini
02 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La fulminea ascesa di miss Frangetta
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:36:27 pm
La fulminea ascesa di miss Frangetta



Beppe Severgnini,

Prima il ruvido Soru, il lepido Letta, l'americano Martina, l'ammaliante Madìa, la morbida Mosca, lo scattante Scalfarotto, il rapido Renzi. La speranza del secolo per la settimana in corso, nel Partito Democratico, si chiama Debora Serracchiani. Trentotto anni, vive in Friuli. Gioca a tennis, tifa Roma, ama "Law and order", ha due cani e tre gatti, indossa collane colorate. Bene: e poi? Nulla contro Miss Frangetta, che ha fatto il botto alle Europee e, contrapposta a Lady Brambilla, ha brillato a "Ballarò" (meno difficile, diciamolo).

Ma l'ansia con cui il Pd lancia i suoi campioni è pari alla fretta con cui li abbandona. Un buon risultato elettorale, una candidatura, qualche uscita TV: di solito basta, per sparare in alto un nome nuovo. Intanto, giù a terra, i marpioni aspettano: cadrà, e noi ci sposteremo per non farci male. La scelta della dirigenza sembra casuale. Le selezioni di X Factor sono più serie. Qualcuno dirà: è una strategia per evitare la cooptazione, dal caos uscirà il nome del futuro. Se così fosse, perché tutto quel lavorìo, quelle discussioni, quelle assemblee costituenti, quei ci-vedremo-a-Vedrò. Ora c'è "il gruppo del Lingotto".

Buona fortuna, ma occhio: Torino, a Veltroni, non ha portato bene. Mario Ajello sul "Messaggero" parla di "neopolitica". Termine impeccabile: i nei, sulla politica italiana, non mancano. L'uso emotivo delle nuove leve è tra questi. Perché gli americani insistono con le primarie (vere)? Perché sono un modo di provare un candidato. Idee, carattere, tenuta psicofisica. Obama non è uscito per caso. Viene da anni di tentativi, ragionamenti, esperimenti (www.rockthevote.com), lavoro porta a porta. L'unico "Porta a porta" che appassiona i dirigenti del Pd va in onda su Rai Uno in seconda serata. In attesa di un congresso - alleluia! - qualche dubbio è lecito. I leader democratici sembrano i cavallini meccanici che gareggiano nelle fiere di paese: vanno in testa a turno, e non si capisce perché.

Veltroni ha condotto una coraggiosa campagna elettorale, Franceschini s'è rivelato un vice sorprendente.

Ma nessuno è riuscito a emozionare gli elettori. Dario Di Vico, sul "Corriere", mostra d'aver capito perché la Lega funziona ("Fabbriche e gazebo: la Lega modello Pci").

Perché c'è, discute, semplifica, festeggia, ha una struttura chiara (un generale, quattro colonnelli, seguono ufficiali, sottufficiali e truppa). Dà spesso risposte rozze a problemi delicati: ma almeno le dà. Facebook è importante: ma anche guardarsi in faccia serve. Ecco perché la Lega sopravviverà a Bossi, mentre c'è da domandarsi se il Pdl abbia un futuro dopo Berlusconi. E il Pd? Per sopravvivere dovrebbe prima vivere: siamo in attesa. (Dal Corriere della Sera di giovedì 11 giugno) ----- "Giovani per cosa?" - Oggi alle 15 diretta-video su Corriere.it, con l'on. Alessia Mosca (Pd) e Ivan Scalfarotto, componente dell'Assemblea Nazionale del Partito Democratico.

da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Così ci guardano i media stranieri
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 12:21:04 pm
Così ci guardano i media stranieri

The plot against Italy? Il complotto contro l'Italia, come un romanzo di Philip Roth? Il G8 è stato preceduto da giudizi severi e prese in giro. Prima i media internazionali si sono divertiti con minorenni ed escort, che ormai sbucano come finferli dopo la pioggia. Poi il "Guardian", senza citare una fonte rintracciabile, ha ventilato la nostra espulsione dal G8. Quindi il "New York Times" ha suggerito a Obama di prendere il volante.

Il mondo ce l'ha con l'Italia? No. Ma un certo maligno godimento sembra evidente. Noi dimentichiamo di vivere nel luogo mitico per generazioni di viaggiatori colti - quelli che oggi scrivono e parlano nei media internazionali. Vedere ciò che avremmo potuto diventare, e non siamo diventati, dà il sapore amaro ai commenti. La delusione è il carburante della perfidia.

Ogni nazione offre una narrativa al mondo: e la nostra, da tempo, non è delle migliori. L'Italia 2009 è il surgelato dell'Italia 1994. Max contro Walter, Lega scatenata, Quirinale preoccupato, debito che sale, corrotti in festa. Poi c'è Berlusconi, che noi italiani leggiamo con occhiali speciali, anche perché ci somiglia più di quanto vogliamo ammettere (entusiasmo e incoerenza, affabilità e inaffidabilità, difficoltà a distingere tra pubblico e privato).

Ma le lenti italiane non vengono esportate: gli stranieri guardano gli affari nostri con occhi loro. Le ultime vicende sono strabilianti: sesso e potere, lusso e tivù, silenzi e bugie, famiglie difficili e ragazze facili. L'età della deferenza è finita con Diana, nelle cui lenzuola ha guardato il pianeta. Negli anni '60, Bob Kennedy poteva farsela con Jackie sotto il naso della moglie; negli anni '90 sarebbe finito sui giornali; negli anni Duemila si troverebbe il video su YouTube.

Se Gordon frequentasse un'ipotetica Noemi inglese, i tabloid lo farebbero a fettine come il tacchino servito nei picnic di Ascot. Se Barack usasse la Casa Bianca come Palazzo Grazioli, i consiglieri lo fermerebbero (vero, Ghedini?). Se Nicholas si contraddicesse come Silvio, Carla l'appenderebbe alle finestre dell'Eliseo. Noi italiani siamo diversi? Elastici, spontanei, tolleranti? Cattolici libertini? Moralisti à la carte? Benissimo. Gridiamolo al mondo: siamo un ossimoro nazionale, il primo della storia! Silvio B. è l'autobiografia onirica del Paese: fa ciò che molti sognano!

Invece, stiamo zitti: per pigrizia e pudore da una parte, per timore e servilismo dall'altra. La nostra TV - parliamo di prima serata, dopo siamo tutti liberali - complica le cose, mostrando riflessi di regime: le Istituzioni si scrivono con la maiuscola, e vanno protette, anche se ne combinano di tutti i colori.
Poi è chiaro: il mondo ride, e noi ci restiamo male.

Beppe Severgnini
DA corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Superenalotto: Sopravvivere all’improvvisa fortuna
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 11:50:47 pm
Superenalotto: Sopravvivere all’improvvisa fortuna

Sei consigli (non richiesti)

Il vincitore eviti Lehman Brothers e anche la Costa Smeralda (troppa gente indebitata»

Il vincitore del Superenalotto, oggi, vuole anonimato, non consigli. Un buon motivo per offrirgliene sei, come i numeri che l’hanno fatto vincere. Avreb­bero potuto essere 147, come i milioni che incasserà. Ma ci sentiamo buoni.



1 Mai più giochi d’azzardo, lotterie, roulette. Consentita solo una tom­bola natalizia, negli anni dispari. Un per­sonaggio di un bel libro di Joseph Con­rad — «Al limite estremo» — dopo aver vinto una lotteria in Oriente, ha creduto di poter ripetere l’impresa. S’è rovinato la vita, e s’è giocato la nave che aveva comprato. Ecco: evitare di comprare qualsiasi oggetto galleggiante, se si trat­ta del primo acquisto del genere.

2 Evitare l’euforia. Partecipare a «Do­menica in», voler ricomprare Ibrahimovic per regalarlo a Mourinho (così smette di piagnucolare), arrampi­carsi sul campanile del paese, baciare per strada la maestra delle elementari, rotolarsi nei giardini pubblici, avvin­ghiati a un bambolotto con le fattezze di Giulio Tremonti (in quanto titolare del ministero cui fanno capo i monopo­li di Stato): sono iniziative estreme e sconsigliate. Tutta l’Italia, presto, cono­scerà l’identità del vincitore. Ma, per qualche giorno, costui o costei mediti in pace sull’impiego del suo capitale.

3 Evitare la paranoia. Vincere 147 mi­lioni è meglio che avere il mal di denti, cadere dalle scale, o vedere un’al­tra fotografia di George ed Elisabetta. È vero: sarà più difficile scegliere l’auto­mobile, non dovendo guardare il prez­zo. Magari un’Alfa 147, visto che il nu­mero porta bene?

4 Scegliersi buoni consiglieri finan­ziari, in vista dell’inevitabile inve­stimento. La moglie va benissimo, così i figli o gli amici al bar. Evitare le ban­che che hanno perso denaro con sconsi­derati investimenti in Lehman Brothers, titoli islandesi, crack Madoff, hedge funds . Quindi: evitare le banche.

5 Scegliere bene le prossime vacan­ze. Un uomo o una donna molto li­quidi devono tenersi alla larga da Costa Smeralda, Portofino e Capri: troppa gen­te indebitata. Meglio l’Adriatico. Si può comprare, mandare via tutti e poi gioca­re con le paperelle.

6 Stilare un elenco di tutti i cono­scenti che si aspettano di ricevere un regalo in contanti. E poi dare i soldi a qualcun altro, che non se li aspetta, ma se li merita.

Consiglio jolly Buttare due milioni in modo sconsi­derato (molti calciatori di serie A saran­no felici di spiegare le modalità dell'ope­razione). A quel punto subentrerà il pentimento, e 145 milioni sono salvi.

Consiglio superstar Non seguite alcun consiglio. Con 147 milioni, che bisogno c’è?

Beppe Severgnini
23 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Lamento di una categoria, come l’avrebbe scritto il Va­te.
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 04:56:38 pm
IL COMMENTO

Lamento «alla Vate» di una categoria

Libera informazione e democrazia: in poesia o in prosa sono i media che controllano il potere, non viceversa

Pioggia e polemiche in tutta Italia. I media nella bufera. Lamento di una categoria, come l’avrebbe scritto il Va­te.


di BEPPE SEVERGHINI


Taci. Su le soglie / del losco non odo / parole che dici sane; ma odo parole non nuove / che parlano furie e voglie lontane. / Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. / Piove su candidate ministre e comparse, / piove su Fini scaglioso ed irto, / piove su i papi divini, / su i fatti recenti all’estero accolti, / su i colleghi ebbri / di promozioni recenti, / piove sulle nostre chiusu­re la sera, / piove sulla nostra tastiera ignuda, / su i nostri pati­menti leggeri, / su stanchi pensieri che l’anima schiude, / po’ rella, su la favola bella / che ieri c’illuse, che oggi c’illude, o Ita­lia. Odi? La pioggia cade su la solitaria apertura con un crepitio che dura / e varia nell’aria secondo le bande / più rudi, men rudi. Ascolta. Risponde al pianto il canto / delle cicale aziendali, / che il senso professionale non impaura, / né il ciel cinerino. E il Tigì ha un suono, e Chi altro suono, e il Giornale / altro ancora, strumenti diversi / sotto le stesse dita. E stremati noi siam tra destre e sinistre, / d’amare risse travolti; e il tuo volto stanco / è molle di pioggia come una sfoglia, / e il tuo bel nome sbiadisce eccome / trimestre dopo trimestre, o luogo terrestre che hai no­me Italia.


Se non siete tipi poetici, met­tiamola in modo prosaico. In una democrazia sono i media che con­trollano il potere, non il potere che controlla i media.
Vedere il giornali del Capo che assaltano i critici del Capo non è un bello spettacolo: mi dispiace, Vittorio.

E «Porta a Porta», martedì,per­ché è stato un errore? Per almeno tre motivi: ha reso retorica una cosa bella (la consegna delle prime case ai terremotati); ha mo­strato, con quegli ascolti infimi, che il monologo autocelebrati­vo ha fatto il suo tempo (forse anche a Cuba e a Caracas, certa­mente in Italia); ha mostrato che Silvio Berlusconi controlla, se vuole, tutta la televisione in chiaro (spostato «Ballarò» di Rai Tre, cancellato «Matrix» a Canale 5).

Quest’ultimo punto è fondamentale. Solo tonti, distratti e ma­lintenzionati pensano che la Tv non pesi nella formazione del consenso. Non fosse così, spiegatemi perché i candidati presi­denziali americani spendono gli ultimi soldi in martellanti spot Tv. Oppure ditemi come mai il russo Putin ha vietato ogni criti­ca dal piccolo schermo. Giornali e libri, passi. Televisione, niet.

Il nostro Capo dice: «Non possiamo più sopportare che la Rai sia l’unica televisione pubblica al mondo che attacchi il gover­no». Sincero, ma inesatto (tutte televisioni pubbliche criticano il governo). E incompleto. Avrebbe dovuto aggiungere che la te­levisione privata è sua e — ovviamente — non è autorizzata ad attaccare il proprietario.
Ergo, la TV italiana — tutta — dovreb­be star buona: solo elogi, niente critiche. Be’, non è così che funziona una democrazia. E se dicendo questo rientro nel Club dei Farabutti, così sia.


17 settembre 2009

da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. La lezione sui trans della Ventura
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2009, 10:53:59 pm
La lezione sui trans della Ventura

Quando la tv non fa il suo mestiere


«Ognuno è libero di fare quel­lo che vuole». Così Francesco Totti a «Quelli che il calcio», parlando della vicenda Marrazzo. Simona Ventu­ra gli dà ripetutamente ragione, poi fuo­ri programma spiega: «Sono tantissimi quelli che vanno coi trans, e lo sappia­mo tutti. Non è giusto che un personag­gio pubblico non possa farsi gli affari suoi come tutti gli altri». Se questa è la pedagogia televisiva italia­na, buonanotte.

A Super Totti si potrebbe obiettare che uno NON è li­bero di fare quello che vuo­le, se è costretto a nascon­derlo agli elettori, se si ridu­ce a frequentare spacciatori, se si rende ricattabile. A Su­per Simo potremmo invece ricordare che sono moltissimi — forse addirittura più numerosi — gli italiani che NON vanno coi trans, e forse han­no fatto alcune cose buone per questo povero Paese, dove la Tv pubblica di­venta veicolo di queste trovate.

Nessuno vuole usare la televisione per fare della morale (per carità!), ma cerchiamo almeno di non renderla im­morale, perché molti ragazzi la guarda­no, e rischiano di alzarsi dal divano con le idee confuse. Le grandi democrazie — vi sembrerà strano — sono tali an­che perché esiste un consenso su alcu­ne cose. Per esempio, sul fatto che il ti­tolare di una carica pubblica non deb­ba circondarsi di prostitute, frequenta­re malavitosi e pagare trans. E, se lo bec­cano, non possa trovare difensori in un programma sportivo (sportivo!) del po­meriggio.

È ipocrisia? Allora viva l’ipocrisia. Sono considera­zioni banali? Vero, ma è in­credibile come non le faccia più nessuno. Il metaboli­smo civile italiano, ormai, brucia il veleno e lo trasfor­ma in una risata. Poi non la­mentiamoci, però, se non abbiamo un bel colorito na­zionale.

Siamo convinti che Piero Marrazzo, passata la buriana, ci darebbe ragione. Sarebbe bello lo facessero anche Super Totti e Super Simo. Ma lo riteniamo im­probabile. Le celebrità italiane non si scusano; accusano, semmai, e c’è sem­pre qualche frastornato che gli dà ragio­ne.

Beppe Severgnini

10 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Per la sicurezza serve calma
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 10:23:03 am
DISTRAZIONI E CIVILTA'

Per la sicurezza serve calma (a Newark e in Veneto non c'è stata)

 di Beppe Severgnini


Attenzione a spedire oggetti insoliti, a dimenticare una borsa in stazione o a compiere gesti scaramantici su un aereo.
Potreste ritrovarvi in arresto prima di riuscire a dire «Gianni Bianchi, piacere!».

Tre buste e una scatola contenenti fili elettrici intercettate dalla sicurezza della Regione Veneto: ma le aveva spedite l’Enel.
Molto più distante, e provocando ben più clamore, un uomo è entrato da un’uscita e ha mandato in tilt l’aeroporto di Newark, che serve New York City. Evacuazione, voli bloccati, passeggeri nervosi e/o furiosi. Falso allarme: il tipo è uscito venti minuti dopo (dalla porta giusta, stavolta).

Prepariamoci. Otto anni e quattro mesi dopo l’11 settembre 2001, questa è l’anormale normalità con cui dovremo convivere.
Sembrava fosse tutto finito; anche i viaggi aerei negli Usa—per tutti gli anni Zero, un test di pazienza — stavano tornando all’antica, statunitense semplicità. È bastato un ragazzo nigeriano, riempito di teorie fasulle e vero esplosivo, per cambiare il modo di viaggiare di un miliardo di persone. Psicosi collettiva? Paranoia? È possibile. Autorità improvvisamente isteriche, dopo esser state colpevolmente distratte? È probabile. Ma mettiamoci nei panni di chi deve garantire la sicurezza di un volo, di un treno o di un ufficio pubblico: cosa deve fare se ha un dubbio o un sospetto?

La disumanità dei nostri avversari non manca di fantasia. Chi avrebbe pensato all’antrace, anni fa? I terroristi l’hanno fatto, e il rischio è stato maggiore di quello rappresentato da un ordigno nucleare artigianale (leggete l’ottimo Fisica per i presidenti del futuro di Richard Muller, tratto da un ciclo di lezioni tenute a Berkeley per studenti di discipline non scientifiche: c’è tutto).

Ormai lo sappiamo. La società occidentale ha capito che la sua virtù — l’apertura—è la sua debolezza. L’alternativa non è chiudersi (sarebbe la vittoria dei nostri nemici). L’alternativa è restare aperti con attenzione, calma e intelligenza. Non le virtù che abbiamo dimostrato alla Regione Veneto e all’aeroporto di Newark, diciamolo.

da corriere.it


Titolo: Beppe Severgnini La nostra vita senza aerei, addio frutta esotica e sushi
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2010, 10:08:14 pm
Il dialogo Il «sedentario», il «viaggiatore» e le riflessioni sulla nostra dipendenza dai jet

La nostra vita senza aerei, addio frutta esotica e sushi

Saltano i commerci e le compagnie perdono un miliardo di euro al giorno


MILANO - Voli a terra, umore pure. Non per tutti, però: chi non ama volare pregusta piccole rivincite. Chi s'affida agli aerei, invece, può riflettere sulla propria dipendenza. Immaginiamo il dialogo tra un Sedentario e un Viaggiatore, alla luce — scusate, all'ombra — della nube vulcanica islandese nei cieli d'Europa.

V. Prima le banche, adesso i vulcani. Questi islandesi: così piccoli e già così casinisti.
S. Dovreste ringraziarli, invece: vi aiutano a riflettere sulla vostra inutile frenesia. Decolla di qui, atterra di là, arriva da lì, riparti di qua. Transfer! Dovreste stamparvelo come un tatuaggio. Si può vivere senza aeroplani, credimi. L'umanità lo faceva, fino a pochi decenni fa.

V. Appunto: lo faceva. Tempo imperfetto. Lo dice il nome stesso: quel tempo andava perfezionato, e abbiamo provveduto. Io spesso vado per lavoro a New York il giovedì e torno il sabato. Stavolta non ho potuto farlo.
S. Bravo, vàntati. Non basta una telefonata? Prefisso di New York: 212.

V. Talvolta basta, talvolta no. Ma non basta per portare frutta esotica a Londra, pesce per il sushi a Milano, concertisti stranieri ad Amburgo, capi di governo a Berlino: tutte cose che in Europa abbiamo dovuto cancellare.
S. Ce ne faremo una ragione. Anche se ammetto che rinunciare al mango mi scoccia.

V. Ma non capisci che volare è viaggiare, viaggiare è conoscere, conoscere è capire, capire è agire, agire è migliorare? Sai quante persone sono già state bloccate dalla nube? Sei milioni. Sai quanto stanno perdendo le compagnie aeree? Un miliardo di euro al giorno. Sai quante merci, scambi e commerci buttati?
S. Secondo me ti interessano soprattutto le miglia aeree. Airmiles! Millemiglia! Solo mille? Perché non centomila? FF, Frequent Flyers! Dovrebbe chiamarvi Folli Frenetici, invece.

V. Dici così perché sai che la nube vulcanica passerà, e tra due o tre giorni potrai tornare a goderti i vantaggi di un mondo connesso, pieno di gente e merci che viaggiano. A proposito: ma in Islanda non avevano quei simpatici geyser d'acqua calda? Cosa gli ha preso?
S. I vantaggi di un mondo connesso! Persone e merci che viaggiano! Parli come una pubblicità della Dhl, o come George Clooney nel film «Lassù tra le nuvole». A proposito, sta ancora con la Canalis?

V. Vedi, l'incoerenza? Come credi che andasse lei da lui? A nuoto? E come veniva George da Los Angeles al lago di Como? In barca?
S. Vorrà dire che avremo una coppia in meno. Elisabetta si fidanzerà con un medico di Sassari, mamma e papà saranno contenti. Molti dei vantaggi dell'aereo, se ci pensi, sono illusori. Ci portano cose di cui possiamo fare a meno. Eli vivrà senza George. Tu resisterai senza andare a Monaco, Madrid, Marsiglia e Manchester nella stessa settimana.

V. Disfattista. Luddista. Non ti sopporto.
S. Oh, no. Tu non sopporti la tua dipendenza da quel tubo di ferro volante. Certo, ogni tanto può essere utile. Ma sai cosa ti dico? Potremmo vivere senza. Sia benedetto il vulcano Eyjafjallajokull! Grazie a lui cominceremo a capire.

V. Cominceremo a capire che ormai l'aereo è utile quanto il telefono. Scusa, dove hai preso quel libro che stai leggendo?
S. Amazon.

V. Amazon Italy non c'è. Quindi il libro è arrivato dall'estero. Uk o Usa. In aereo. Te l'avessero mandato in nave da Seattle l'avresti ricevuto fra due mesi.
S. Benissimo: l'avrei letto sessanta giorni dopo. Internet, quella sì, è indispensabile. Non il trasporto aereo. Meno commerci? Vero. Ma anche meno guerre. Gli americani non vanno in Afghanistan. I talebani non svolazzano di qui e di là combinando disastri. Eccetera.

V. Due ragazzi si conoscono in Erasmus a Vienna. Lei è finlandese, lui italiano. Si scrivono su Facebook, parlano e si vedono con Skype. Ma per baciarsi come fanno? Semplice: prendono un volo low-cost e s'incontrano. Amore a trenta euro. Fantastico no?
S. Amore a trenta euro: lo diceva anche l'Eugenio, quando arrivava al bar proveniente dalla statale.

V. Non solo luddista e antiquato: anche cinico e volgare. Continui a non capire che il mondo procede perché la gente s'incontra, si mescola, s'impegna a imparare. I fenici viaggiavano con le navi, noi con gli aeroplani: stessa roba, cambiano solo i mezzi e i tempi.
S. E se eruttassero altri vulcani? E se il terrorismo trovasse un modo di minacciare qualsiasi volo aereo? Torneremmo indietro di anni.

V. Io dovrei rinunciare alle quattrocentomila miglia che ho accumulato col programma Frequent Flyers.
S. E io al mango.

V. Sarebbe tristissimo. Malpensa ancora più deserto di quanto già sia.
S. Malpensa! Fiore all'occhiello della Lega! Quando riapre? Magari a Bossi vien voglia di mango.

Beppe Severgnini

18 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il coraggio di costruire
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2010, 03:46:33 pm
1960-2010, UN PAESE, DUE IMMAGINI

Il coraggio di costruire


Le nazioni, le famiglie e le squadre di calcio provano nostalgia per il passato prossimo. Hanno l’impressione che, prima, tutto andasse bene. Se non proprio bene, comunque meglio. L’Italia non fa eccezione. Dopo un’estate meteorologicamente incomprensibile e politicamente cattiva, dove la mondanità ha i sorrisi da Photoshop e il tormentone è la battuta di due ragazze sulla spiaggia di Ostia, è normale guardare indietro con rimpianto. Non siamo solo ripetitivi: siamo bloccati. Litighiamo per le stesse cose, nello stesso modo, con le stesse persone. L’Italia non è stata mai perfetta. Ma quasi sempre era un’imperfezione ottimista.

Nell’estate 1960 le Olimpiadi di Roma segnavano la consacrazione di un Paese che ce l’aveva fatta: quindici anni dopo una sconfitta umiliante, l’Italia faceva registrare un aumento del Pil — si tenga saldo, ministro Tremonti — del 8,3%. Mina cantava «Il cielo in una stanza» e quella stanza si poteva affittare: lo stipendio di un operaio era di 47 mila lire al mese e un giorno di pensione sull’Adriatico costava 600 lire. A Roma, quell’estate, si svolsero le Olimpiadi. David Maranis, premio Pulitzer, scrive: «Furono i Giochi che cambiarono il mondo ». Sponsorizzazioni e televisioni, russi e americani, spie e competizioni, doping e rivoluzioni, gli occhiali da sole di Livio Berruti, i piedi nudi di Abebe Bikila e la sfrontatezza di un pugile diciottenne, Cassius Clay, il futuro Mohammed Ali, la prima pop star sportiva della storia. E l’Italia era lì, tramonti romani e gente in festa, teatro di tutto questo.

Non era il paradiso. Era il solito purgatorio: ma le anime, allora, sognavano. Nel 1960 transitarono ben tre governi — Segni 2, Tambroni 1, Fanfani 3 — ma i politici, mentre litigavano, facevano: leggi, case, autostrade. Migrazioni interne, idee nuove, il cardinale Ottaviani che attaccava i socialisti «novelli anticristi». Neppure i drammatici scontri di Genova — centomila manifestanti contro il congresso del Movimento sociale italiano — riuscirono a cambiare l’umore nazionale, raccontato da Gabriele Salvatores nel suo film «1960» attraverso immagini televisive del tempo (sarà fuori concorso il 5 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia).

Il buonumore delle nazioni è una cosa seria. Non dipende solo dal fatto di vivere in tempo di pace: questa è una fortuna di cui godiamo da tempo, ma l’apprezza solo chi ha più di settant’anni, e ricorda la guerra in casa. L’umore nazionale non è neppure soltanto una questione di potere d’acquisto. Da cosa dipende, allora? Semplice: dalla sensazione d’essere dentro una storia che va avanti.

Senza questa capacità narrativa, una comunità non vive: sopravvive. Magari si diverte, spende e spande per mascherare incertezza e delusione. Ci sono abitudini italiane che hanno l’aria d’essere tattiche consolatorie. Penso alle ubique allusioni sessuali (pubblicità in testa), non seguite da un’altrettanto strabiliante esuberanza sessuale; all’ossessione per qualsiasi gadget o al fatto che metà dei maschi adulti siano diventati gourmet, gli altri ciclisti e giardinieri (la libido prende strade strane).

L’Italia del 1960 si sentiva una protagonista in cammino. I genitori faticavano pensando: i nostri figli staranno meglio. Nell’Italia del 2010 sappiamo tutti — padri, madri, figli — che la nuova generazione precarizzata starà peggio, e già ha bisogno di aiuto (per la macchina, per la prima casa). È un ribaltamento innaturale: la nazione che lo accetta è nei guai.

Beppe Severgnini

25 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_25/severgnini_eff3b32c-b005-11df-817a-00144f02aabe.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La lotteria dei test
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2010, 10:06:27 pm
La lotteria dei test


I test universitari sono un classico italiano: il proposito è lodevole, la buona volontà innegabile, il metodo sbagliato. Incapaci di soddisfare la domanda, ministri e rettori hanno deciso di ridurre l’offerta, adottando il numero chiuso. Un tempo i ragazzi italiani lottavano per entrare in aule affollate; oggi affrontano quiz esoterici. Sempre test d’ingresso sono. Siamo passati dallo stadio alla lotteria.

Si inizia oggi con medicina: 80 domande a risposta multipla, 8.775 posti a disposizione, circa 90 mila candidati, nessuna graduatoria nazionale. Poi tocca a odontoiatri, veterinari, architetti, professioni sanitarie, formazione primaria. In totale, 52.788 posti. Scienze della comunicazione, psicologia, scienze politiche e ingegneria adottano il numero programmato o prove di valutazione. Alcune università private stabiliscono il numero di posti disponibili.

Cosa non va, nel numero chiuso? Restiamo a medicina. Per cominciare, non tiene conto dei risultati delle superiori. Il motivo è noto: ci sono scuole italiane che i voti li assegnano, altre li regalano. L’università Bocconi di Milano, che prende in considerazione la media del terzo e quarto anno, è stata criticata: chi ha scelto un liceo severo, di fatto, viene penalizzato. Anche l’università americana valuta i candidati durante le superiori. Ma il meccanismo — basato sul Sat (Scholastic Assessment Test) — è nazionale, rodato (esordì nel 1901) e offre garanzie.

Seconda debolezza. I test non affiancano i colloqui attitudinali: li sostituiscono. Come accade in altri settori italiani—dagli appalti al fisco — la norma ingessata v i e n e p r e f e r i t a a l l a discrezionalità ingestibile. L’esperienza, purtroppo, porta a credere che gli attuali docenti riuscirebbero a intrufolare figli e nipoti. Avere un Ordinario per papà, in Italia, è diverso dall’avere un papà ordinario.

Resta un fatto: ogni professione richiede predisposizione e passione—e con i quiz non si vedono. È fondamentale sapere come morì Gandhi, per chi desidera diventare oculista (attentato? avvelenamento? incidente aereo? infarto?). Tutti conosciamo bravi medici che a diciott’anni, a quella domanda, non avrebbero saputo rispondere (forse nemmeno ora: attentato di un fanatico indù, 1948). Un sistema che prevedesse accesso libero, e una barriera al secondo anno, potrebbe essere la soluzione. A patto di trovare strutture e personale per accogliere le matricole (docenti, aule, laboratori, dormitori): ma dove sono? I posti- letto in «case dello studente » in Italia sono il 2%, in Francia, Germania e Spagna tra il 25% e il 40%.

Terza debolezza: il sistema non è elastico. Non tiene conto delle necessità che cambiano. Trent’anni fa, forse, sfornavamo troppi medici; oggi, di sicuro, ne produciamo troppo pochi. Se le malattie respiratorie sono la terza causa di morte in Italia, perché a Pavia ci sono soltanto tre specializzandi in pneumologia, e altri cinque tra Milano e Brescia? Dieci anni fa erano quindici a Milano e una dozzina a Pavia. Risultato: importiamo medici stranieri. La Francia modula l’accesso a medicina secondo la demografia: una buona idea.

Tre debolezze e molta ansia. Questo è il cocktail che attende centinaia di migliaia di studenti nei prossimi giorni. Vogliamo dircelo, almeno tra noi adulti (i ragazzi stanno esercitandosi ai quiz, non ci staranno a sentire)? La Repubblica fondata sullo stage — quella che propone tirocini malpagati e lavoretti precari — ai suoi figli dovrebbe almeno offrire un’università serena, e una speranza vera.

Beppe Severgnini

02 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_02/lotteria-dei-test-editoriale-severgnini_11c725cc-b652-11df-83d3-00144f02aabe.shtml


Titolo: Beppe Severgnini. Il Cavaliere spiegato ai posteri
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2010, 09:45:51 am
Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme

Il Cavaliere spiegato ai posteri

Dieci motivi per 20 anni di «regno»

Il segreto della longevità politica del premier e la pancia del Paese


«Berlusconi, perché?». Racconta Beppe Severgnini che nel suo girovagare per il mondo infinite volte si è sentito rivolgere quella domanda da colleghi giornalisti, amici, scrittori di diverso orientamento politico, animati da curiosità più che da preconcetti. E così, cercando una risposta per loro, ha cominciato a elencare i fattori del successo del Cavaliere. Umanità, astuzia, camaleontica capacità di immedesimarsi negli interlocutori. Virtù (o vizi?) di Berlusconi, ma anche del Paese che ha deciso di farsi rappresentare da lui. Disse una volta Giorgio Gaber: «Non ho paura di Berlusconi in sé. Ho paura di Berlusconi in me». Quella frase fa da epigrafe a «La pancia degli italiani. Berlusconi spiegato ai posteri», il libro di Beppe Severgnini in vendita da oggi, del quale pubblichiamo l'introduzione

Spiegare Silvio Berlusconi agli italiani è una perdita di tempo. Ciascuno di noi ha un'idea, raffinata in anni di indulgenza o idiosincrasia, e non la cambierà. Ogni italiano si ritiene depositario dell'interpretazione autentica: discuterla è inutile. Utile è invece provare a spiegare il personaggio ai posteri e, perché no?, agli stranieri. I primi non ci sono ancora, ma si chiederanno cos'è successo in Italia. I secondi non capiscono, e vorrebbero. Qualcosa del genere, infatti, potrebbe accadere anche a loro. Com'è possibile che Berlusconi - d'ora in poi, per brevità, B. - sia stato votato (1994), rivotato (2001), votato ancora (2008) e rischi di vincere anche le prossime elezioni? Qual è il segreto della sua longevità politica? Perché la maggioranza degli italiani lo ha appoggiato e/o sopportato per tanti anni? Non ne vede gli appetiti, i limiti e i metodi? Risposta: li vede eccome. Se B. ha dominato la vita pubblica italiana per quasi vent'anni, c'è un motivo. Anzi, ce ne sono dieci.

1) Fattore umano
Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «Ci somiglia, è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme. B. vuole bene ai figli, parla della mamma, capisce di calcio, sa fare i soldi, ama le case nuove, detesta le regole, racconta le barzellette, dice le parolacce, adora le donne, le feste e la buona compagnia. È un uomo dalla memoria lunga capace di amnesie tattiche. È arrivato lontano alternando autostrade e scorciatoie. È un anticonformista consapevole dell'importanza del conformismo. Loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio e la sera si porta a casa le ragazze. L'uomo è spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto. Tanti italiani non si curano dei conflitti d'interesse (chi non ne ha?), dei guai giudiziari (meglio gli imputati dei magistrati), delle battute inopportune (è così spontaneo!). Promesse mancate, mezze verità, confusione tra ruolo pubblico e faccende private? C'è chi s'arrabbia e chi fa finta di niente. I secondi, apparentemente, sono più dei primi.

2) Fattore divino
B. ha capito che molti italiani applaudono la Chiesa per sentirsi meno colpevoli quando non vanno in chiesa, ignorano regolarmente sette comandamenti su dieci. La coerenza tra dichiarazioni e comportamenti non è una qualità che pretendiamo dai nostri leader. L'indignazione privata davanti all'incoerenza pubblica è il movente del voto in molte democrazie. Non in Italia. B. ha capito con chi ha a che fare: una nazione che, per evitare delusioni, non si fa illusioni. In Vaticano - non nelle parrocchie - si accontentano di una legislazione favorevole, e non si preoccupano dei cattivi esempi. Movimenti di ispirazione religiosa come Comunione e Liberazione preferiscono concentrarsi sui fini - futuri, quindi mutevoli e opinabili - invece che sui metodi utilizzati da amici e alleati. Per B. quest'impostazione escatologica è musica. Significa spostare il discorso dai comportamenti alle intenzioni.

3) Fattore Robinson
Ogni italiano si sente solo contro il mondo. Be', se non proprio contro il mondo, contro i vicini di casa. La sopravvivenza - personale, familiare, sociale, economica - è motivo di orgoglio e prova d'ingegno. Molto è stato scritto sull'individualismo nazionale, le sue risorse, i suoi limiti e le sue conseguenze. B. è partito da qui: prima ha costruito la sua fortuna, accreditandosi come un uomo che s'è fatto da sé; poi ha costruito sulla sfiducia verso ciò che è condiviso, sull'insofferenza verso le regole, sulla soddisfazione intima nel trovare una soluzione privata a un problema pubblico. In Italia non si chiede - insieme e con forza - un nuovo sistema fiscale, più giusto e più equo. Si aggira quello esistente. Ognuno di noi si sente un Robinson Crusoe, naufrago in una penisola affollata.

4) Fattore Truman
Quanti quotidiani si vendono ogni giorno in Italia, se escludiamo quelli sportivi? Cinque milioni. Quanti italiani entrano regolarmente in libreria? Cinque milioni. Quanti sono i visitatori dei siti d'informazione? Cinque milioni. Quanti seguono Sky Tg24 e Tg La7? Cinque milioni. Quanti guardano i programmi televisivi d'approfondimento in seconda serata? Cinque milioni, di ogni opinione politica. Il sospetto è che siano sempre gli stessi. Chiamiamolo Five Million Club. È importante? Certo, ma non decide le elezioni. La televisione - tutta, non solo i notiziari - resta fondamentale per i personaggi che crea, per i messaggi che lancia, per le suggestioni che lascia, per le cose che dice e soprattutto per quelle che tace. E chi possiede la Tv privata e controlla la Tv pubblica, in Italia? Come nel Truman Show, il capolavoro di Peter Weir, qualcuno ci ha aiutato a pensare.

5) Fattore Hoover
La Hoover, fondata nel 1908 a New Berlin, oggi Canton, Ohio (Usa), è la marca d'aspirapolveri per antonomasia, al punto da essere diventata un nome comune: in inglese, «passare l'aspirapolvere» si dice to hoover. I suoi rappresentanti (door-to-door salesmen) erano leggendari: tenaci, esperti, abili psicologi, collocatori implacabili della propria merce. B. possiede una capacità di seduzione commerciale che ha ereditato dalle precedenti professioni - edilizia, pubblicità, televisione - e ha applicato alla politica. La consapevolezza che il messaggio dev'essere semplice, gradevole e rassicurante. La convinzione che la ripetitività paga. La certezza che l'aspetto esteriore, in un Paese ossessionato dall'estetica, resta fondamentale (tra una bella figura e un buon comportamento, in Italia non c'è partita).

6) Fattore Zelig
Immedesimarsi negli interlocutori: una qualità necessaria a ogni politico. La capacità di trasformarsi in loro è più rara. Il desiderio di essere gradito ha insegnato a B. tecniche degne di Zelig, camaleontico protagonista del film di Woody Allen. Padre di famiglia coi figli (e le due mogli, finché è durata). Donnaiolo con le donne. Giovane tra i giovani. Saggio con gli anziani. Nottambulo tra i nottambuli. Lavoratore tra gli operai. Imprenditore tra gli imprenditori. Tifoso tra i tifosi. Milanista tra i milanisti. Milanese con i milanesi. Lombardo tra i lombardi. Italiano tra i meridionali. Napoletano tra i napoletani (con musica). Andasse a una partita di basket, potrebbe uscirne più alto.

7) Fattore harem
L'ossessione femminile, ben nota in azienda e poi nel mondo politico romano, è diventata di pubblico dominio nel 2009, dopo l'apparizione al compleanno della diciottenne Noemi Letizia e le testimonianze sulle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli. B. dapprima ha negato, poi ha abbozzato («Sono fedele? Frequentemente»), alla fine ha accettato la reputazione («Non sono un santo»). Le rivelazioni non l'hanno danneggiato: ha perso la moglie, ma non i voti. Molti italiani preferiscono l'autoindulgenza all'autodisciplina; e non negano che lui, in fondo, fa ciò che loro sognano. Non c'è solo l'aspetto erotico: la gioventù è contagiosa, lo sapevano anche nell'antica Grecia (dove veline e velini, però, ne approfittavano per imparare). Un collaboratore sessantenne, fedele della prima ora, descrive l'insofferenza di B. durante le lunghe riunioni: «È chiaro: teme che gli attacchiamo la vecchiaia».

8) Fattore Medici
La Signoria - insieme al Comune - è l'unica creazione politica originale degli italiani. Tutte le altre - dal feudalesimo alla monarchia, dal totalitarismo al federalismo fino alla democrazia parlamentare - sono importate (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna o dagli Stati Uniti). In Italia mostrano sempre qualcosa di artificiale: dalla goffaggine del fascismo alla rassegnazione del Parlamento attuale. La Signoria risveglia, invece, automatismi antichi. L'atteggiamento di tanti italiani di oggi verso B. ricorda quello degli italiani di ieri verso il Signore: sappiamo che pensa alla sua gloria, alla sua famiglia e ai suoi interessi; speriamo pensi un po' anche a noi. «Dall'essere costretti a condurre vita tanto difficile», scriveva Giuseppe Prezzolini, «i Signori impararono a essere profondi osservatori degli uomini». Si dice che Cosimo de' Medici, fondatore della dinastia fiorentina, fosse circospetto e riuscisse a leggere il carattere di uno sconosciuto con uno sguardo. Anche B. è considerato un formidabile studioso degli uomini. Ai quali chiede di ammirarlo e non criticarlo; adularlo e non tradirlo; amarlo e non giudicarlo.

9) Fattore T.I.N.A.
T.I.N.A., There Is No Alternative. L'acronimo, coniato da Margaret Thatcher, spiega la condizione di molti elettori. L'alternativa di centrosinistra s'è rivelata poco appetitosa: coalizioni rissose, proposte vaghe, comportamenti ipocriti. L'ascendenza comunista del Partito democratico è indiscutibile, e B. non manca di farla presente. Il doppio, sospetto e simmetrico fallimento di Romano Prodi - eletto nel 1996 e 2006, silurato nel 1998 e 2008 - ha un suo garbo estetico, ma si è rivelato un'eredità pesante. Gli italiani sono realisti. Prima di scegliere ciò che ritengono giusto, prendono quello che sembra utile. Alcune iniziative di B. piacciono (o almeno dispiacciono meno dell'alternativa): abolizione dell'Ici sulla prima casa, contrasto all'immigrazione clandestina, lotta alla criminalità organizzata, riforma del codice della strada. Se queste iniziative si dimostrano un successo, molti media provvedono a ricordarlo. Se si rivelano un fallimento, c'è chi s'incarica di farlo dimenticare. Non solo: il centrodestra unito rassicura, almeno quanto il centrosinistra diviso irrita. Se l'unico modo per tenere insieme un'alleanza politica è possederla, B. ne ha presto calcolato il costo (economico, politico, nervoso). Senza conoscerlo, ha seguito il consiglio del presidente Lyndon B. Johnson il quale, parlando del direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover, sbottò: «It's probably better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», probabilmente è meglio averlo dentro la tenda che piscia fuori, piuttosto di averlo fuori che piscia dentro. Così si spiega l'espulsione e il disprezzo verso Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della libertà. Nel 2010, dopo sedici anni, l'alleato ha osato uscire dalla tenda: e non è ben chiaro quali intenzioni abbia.

10) Fattore Palio
Conoscete il Palio di Siena? Vincerlo, per una contrada, è una gioia immensa. Ma esiste una gioia altrettanto grande: assistere alla sconfitta della contrada rivale. Funzionano così molte cose, in Italia: dalla geografia all'industria, dalla cultura all'amministrazione, dalle professioni allo sport (i tifosi della Lazio felici di perdere con l'Inter pur di evitare lo scudetto alla Roma). La politica non poteva fare eccezione: il tribalismo non è una tattica, è un istinto. Pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, molti italiani avrebbero votato il demonio. E B. sa essere diabolico. Ma il diavolo, diciamolo, ha un altro stile.

Beppe Severgnini

27 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_27/severgnini-berlusconi-spiegato-ai-posteri-dieici-motivi-per-venti-anni_4f712cd0-e18e-11df-9076-00144f02aabc.shtml


Titolo: Beppe Severgnini. - Uno straniero alla Scala
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2010, 10:52:21 am
LA NOSTRA CULTURA E L'IMMAGINE DEL PAESE

Uno straniero alla Scala

Un argentino-israeliano nato da genitori russi, prima di dirigere l'opera di un tedesco, in un teatro gestito da un francese di madre ungherese e voluto da un'austriaca, legge la Costituzione italiana. Una magnifica combinazione, se non fosse per un particolare: rischiamo di diventare comparse in casa nostra.
Daniel Barenboim ha fatto bene, in attesa di lasciare il passo a Wagner e alla sua Walkiria, a citare l'articolo 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»).

Lo ha fatto davanti al presidente della Repubblica. Lo ha fatto alla Scala, prima di un'opera lirica. La Scala e la lirica sono due tra i primati che ci sono rimasti. Diciamolo: l'elenco non è lungo, ormai. Risparmiare sulla cultura, per un Paese come l'Italia, è autolesionista. Certo, il momento è economicamente difficile. Ma l'unico petrolio nazionale sta nella nostra testa. Altro, non ne abbiamo. Quando Angela Merkel è stata messa di fronte al piano di riduzione della spesa, ha detto ai suoi contabili: tagliate dovunque ma non la cultura, l'istruzione e la ricerca. Una signora tedesca cresciuta nella Germania comunista ha intuito quello che molti italiani, vissuti a bagnomaria nella bellezza, non vogliono capire. Non riusciremo a emulare i nostri precedessori, quelli che hanno arredato le nostre città, costruito i nostri teatri e scritto la colonna sonora della nostra vita insieme. Cerchiamo, almeno, di non imbarazzarli.

Era imbarazzante e imbarazzata, invece, l'assenza del ministro della Cultura alla prima della Scala. Milano, che esprime tanta storia e mezzo governo, merita rispetto. È arrivato invece il presidente della Repubblica e ha dovuto ascoltare gli stranieri che - inevitabilmente - ci impartivano una lezione. Intanto fuori, sulla piazza, una protesta comprensibile prendeva le solite, incomprensibili forme. Chi vuole un'Italia più saggia e più colta non si presenta col casco e la faccia coperta.
Stiamo attenti: perché dietro l'ammirazione per le nostre cose belle si nasconde il sospetto che non sappiamo amministrarle. E, quindi, non ce le meritiamo. Non ci sono solo i teatri. C'è Pompei devastata dall'incuria (tanto che la studiosa Mary Beard oggi sul Corriere propone di «internazionalizzare l'onere»); c'è Napoli umiliata dal pattume, le cui immagini stanno facendo, una volta ancora, il giro del mondo. Perché anche questo accade: i nostri disastri sembrano confezionati per la televisione. La nostra fama li rende spettacolari, per gli altri. E dolorosi, per noi.

La Scala è italiana. Per la storia di ieri e la fatica di oggi, per quelli che ci lavorano e sono orgogliosi di farlo. Non ci possiamo permettere che il mondo pensi: un posto troppo importante per lasciarlo agli italiani. Quello di Daniel Barenboim non è stato, come ha detto Daniele Capezzone, «un comizio antigovernativo». Era un attestato di stima. E, insieme, un avvertimento.
«I tagli alla cultura sono sempre un problema» ha commentato laconico il ministro dello Sviluppo economico. Be', se sono un problema, risolviamolo. Se occorrono denari per la Scala, troviamoli. Togliamoli alle piccole indecenze - ce ne sono, nascoste nell'intercapedine tra gli alti principi e i bassi interessi - e investiamoli in una grande eccellenza. L'Italia, tra pochi mesi, compie 150 anni. Un regalo di compleanno se lo merita. Le parole non bastano. E di quelle, state certi, ne ascolteremo tante.

Beppe Severgnini

09 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_09/severgnini-scala-barenboim_3c0f943c-035e-11e0-8ee8-00144f02aabc.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Talenti all'estero, ora potete rientrare
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2010, 06:40:33 pm
Il commento - LO DICE LA LEGGE

Talenti all'estero, ora potete rientrare

Approvazione bipartisan in Senato


«Una cartolina per tutti gli Italians del mondo». È stata salutata così, in Senato, la nuova legge sul ritorno dei talenti. Chi è nato dopo il 1° gennaio 1969, possiede una laurea, ha lavorato negli ultimi due anni all'estero e decide di rientrare in Italia godrà di un forte incentivo fiscale: i maschi verranno tassati sul 30% del reddito, le femmine sul 20%.

La condizione: avviare un'attività di impresa o di lavoro autonomo, oppure essere assunti (ecco perché la nuova legge dovrebbe piacere anche alle aziende). Legge di iniziativa parlamentare (una delle poche), bipartisan (caso raro), approvata a larghissima maggioranza cinque ore prima della riforma dell'università (una coincidenza interessante). Solo Futuro & Libertà per l'Italia (Fli), trascinata da un tonitruante Mario Baldassari («un provvedimento inutile, demagogico e ipocrita!») ha votato contro. Gli hanno risposto i colleghi Mario Ferrara (Pdl): «Questa è una buona legge». E Tiziano Treu (Pd): «Certo, è una legge parziale. Basta, però, aspettare la palingenesi che non arriva. Questo è un contributo per aumentare l'attrattività dell'Italia».

E l'Italia ne ha bisogno. I laureati italiani all'estero sono quattro volte quelli tedeschi, due volte quelli francesi, tre volte quelli inglesi o spagnoli (dati Ocse). Il nostro Paese spende circa centomila euro per portare un ragazzo o una ragazza alla laurea. Spesso il laureato parte e va all'estero (questo è un bene); ma rischia di non tornare più (questo è un male).

Qualche voce critica, in Senato, s'è sentita. Enrico Morando (Pd) ha ricordato che «in passato incentivi al ritorno non hanno avuto successo»; poi s'è detto preoccupato che questa legge ne abbia troppo: «Le fortissime agevolazioni al rientro in Italia sono estese anche ad altri cittadini dell'Unione Europea: un potenziale molto grande». A suo giudizio, la legge non è fornita di copertura: «Così ci siamo ridotti in queste condizioni di finanza pubblica!», ha tuonato tra lo stupore dei colleghi.

«Basta benaltrismi» gli ha risposto il collega di partito Francesco Sanna. «Basta dire che il problema è ben altro. Da qualche parte bisogna pure cominciare. Questa legge è una cartolina dall'Italia spedita a tanti Italians». In quanto alla copertura finanziaria - hanno ricordato Alessia Mosca e Guglielmo Vaccaro, due tra i parlamentari che più si sono battuti per questa legge - «la questione non esiste: se questi italiani non rientrassero, il fisco non avrebbe nulla. Il rientro porta comunque un gettito extra. Senza contare che rientrerebbero talenti, capaci di muovere l'economia».

«È evidente - dice Enrico Letta (Pd), primo firmatario della legge con Maurizio Lupi (Pdl) - che per rendere il Paese più mobile e più giusto nei confronti dei nostri talenti ci vogliono politiche complessive e articolate. Però questo è un primo passo confortante e una dimostrazione di responsabilità da parte di tutto il Parlamento. La classe dirigente non può più permettersi di alzare le spalle rispetto alla dissipazione delle sue migliori energie».

Un piccolo regalo di Natale per la diaspora professionale italiana? Di sicuro un gesto, dopo tante chiacchiere. Una legge per gli anni Dieci. L'unico rischio è che venga ignorata, sopraffatta dalla cagnara italiana. Approvata dalla Camera il 25 maggio, e dal Senato ieri, aspetta ora i decreti attuativi del Ministro dell'economia e delle finanze (entro sessanta giorni). A quel punto, toccherà al ministero degli Esteri e agli italiani all'estero far sapere che questa opportunità esiste: almeno fino al 31 dicembre 2013, poi si vedrà.

Beppe Severgnini

24 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_dicembre_24/talenti-estero-legge_29a92b1c-0f31-11e0-bda7-00144f02aabc.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - L'immagine imbarazzata di un Paese
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2011, 10:10:21 pm

BERLUSCONI E LE ACCUSE SUL CASO RUBY

L'immagine imbarazzata di un Paese

La sinistra italiana non hai mai voluto spiegare Silvio Berlusconi: le è bastato condannarlo. La destra, nemmeno: era troppo occupata ad applaudirlo e a difenderlo. Le notizie recenti richiedono tuttavia uno sforzo d'onestà intellettuale da parte di tutti. Nel giorno in cui il Financial Times - il più influente quotidiano economico-finanziario d'Europa - parla di «una profonda vergogna per l'Italia» non possiamo far finta di niente.

Le accuse sono gravi, lo scenario che dipingono inquietante. Prostituzione minorile. Provate a pensare a Zapatero, a Sarkozy o a Cameron sospettati di qualcosa del genere. Correrebbero a difendersi. Non con videomessaggi, giuramenti e annunci di nuovi amori. In tribunale, invece. Dove tutti potrebbero capire - finalmente - chi sono gli incoscienti: gli accusatori o l'accusato?

Non si tratta più dell'incoerenza pirotecnica tra la vita e i programmi di un leader: questo riguarda le coscienze (e la Chiesa, sempre che le interessino). Non si tratta ancora di un giudizio politico: se ne parlerà al momento del voto. Si tratta invece di accuse pesanti e precise: un'organizzazione finalizzata alla prostituzione, che utilizza il personale, gli immobili, le televisioni e gli apparati di protezione del capo del governo. È un'ipotesi sconvolgente, che va provata o smentita.

Se fosse falsa, i magistrati ne risponderanno: Silvio Berlusconi potrà affermare di essere un perseguitato, e noi gli crederemo. Se fosse vera, invece, ne risponderanno gli imputati e la loro reputazione. Ma qualcuno deve risponderne. L'incertezza, stavolta, è un prezzo che non possiamo permetterci di pagare. Se lo aspettano gli allibiti osservatori stranieri e quelli - altrettanto severi - dentro le nostre case. Ai ragazzi italiani dobbiamo una risposta: cosa ci sta succedendo?

«La settima economia mondiale ha bisogno di riforme» scrive il Financial Times: «Un giovane su quattro è disoccupato, la crescita economica è debole, gli investimenti stranieri declinano, il debito ha raggiunto i 1.800 miliardi di euro, il cancro della criminalità organizzata andrebbe rimosso e la lista potrebbe continuare», osserva il quotidiano britannico. «Ma invece di soluzioni a questi problemi, gli italiani rischiano di assistere a un'altra puntata di Berlusconi-contro-giudici».

Ecco: questo è lo spettacolo da evitare. Lo abbiamo già visto e non ne possiamo più. C'è, in queste ore, un'aria di stanchezza stupefatta che supera le ideologie e gli steccati di partito. Conosciamo i sospetti di parte della destra sui magistrati e le speranze giudiziarie di una certa sinistra impotente. Ma non si può contestare l'arbitro all'infinito; a quel punto, tanto vale rinunciare alla partita. La nostra partita, però, si chiama democrazia: dobbiamo giocarla e vincerla, soprattutto nel 150° anniversario dell'unità nazionale. L'alternativa è trasformare un compleanno in un funerale, ma non sarebbe una buona idea.
Silvio Berlusconi dovrà avere un coraggio gigantesco, perché le accuse lo sono. Ma stavolta non è possibile nascondersi: né per lui né per noi. Per tanti anni è stato il nostro complice: ci ha perdonati e incoraggiati, assolti e giustificati, illusi e rincuorati. Ma tra complicità e imbarazzo corre un confine. E ce n'è un altro, drammatico, tra imbarazzo e disgusto. Il primo è stato superato. Il secondo, in una democrazia, non andrebbe attraversato mai. Perché è umiliante, perché è pericoloso e perché ha ragione il Financial Times: l'Italia merita di meglio.

Beppe Severgnini

18 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_18/severgnini-immagine-imbarazzata-del-paese_61640dfe-22e3-11e0-b943-00144f02aabc.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Se un marziano ci vedesse oggi
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2011, 05:19:06 pm

Pianeta ItaliaPIANETA ITALIA

Se un marziano ci vedesse oggi

Siamo nelle mani di una diciottenne marocchina e di un'igienista dentale. Noi, i fondatori dell'Ue e la settima economia del pianeta. Pensate alla faccia di un marziano che sbarcasse oggi in Italia; o di uno sceneggiatore che sei mesi fa avesse proposto una trama del genere. Sconvolto, il primo. Sospettato di ubriachezza, il secondo. Inutile raccontare ancora uno stile di vita che la signora Veronica - sempre loro, le mogli - ci aveva sinteticamente anticipato. Non ce n'è bisogno. Lo stanno facendo i giornali e i telegiornali, con la gloriosa eccezione del Tg1 che nel giorno della tempesta ha aperto con «La Tunisia volta pagina» («Almeno loro...» ha commentato un lettore affranto e spiritoso). Quello che dobbiamo capire - al di là del nostro giudizio sui metodi dell'indagine - è l'enormità di quanto accade. Il chiasso del dibattito televisivo è una cortina fumogena: copre l'essenziale. Che è questo, purtroppo: il capo di governo di un importante Paese occidentale è accusato di prostituzione minorile. Ma sostiene d'essere perseguitato e non accetta di essere giudicato. Complicato? Oh yes, come diciamo a Milano. Anche perché c'è un'altra questione. Il quadro dipinto dalle intercettazioni - diventate pubbliche dopo che il fascicolo è arrivato alla giunta per le autorizzazioni della Camera - non rappresenta solo abitudini stupefacenti (a meno che il bottone dello stupore sia bloccato da altri interessi). Coinvolge istituzioni, organi elettivi, apparati dello Stato (pensate all'uso delle scorte).

I giornali non si stanno occupando di gossip, come mi scrive un giovane italiano che lavora all'estero, Tommaso C.. Raccontano l'uomo che dovrebbe guidarci (leader viene da to lead, condurre); e sta diventando, purtroppo, un esempio catastrofico. Un dettaglio che dovrebbe preoccupare genitori, insegnanti, educatori, magari anche qualche sacerdote. Moralismo! gridano gli immorali. Anche Bill Clinton trabascava con Monica Lewinsky!, aggiungono i disinformati, in cerca di prove a discarico. Be', per prima cosa Clinton s'è lasciato processare; e poi, tra un'amante occasionale e il baccanale industriale, c'è una differenza. Smettiamola di paragonare cose imparagonabili, e facciamoci invece la domanda del marziano: cosa sta succedendo all'Italia e ai connazionali tentati dall'ennesima rimozione? A furia di minimizzare, ridurremo il futuro a un'ipotesi. Invece arriva, tranquilli. A meno che abbiano ragione i Kaiser Chiefs quando cantano «due to lack of interest, tomorrow is cancelled»: per mancanza di interesse, il domani è annullato. La canzone si chiama Ruby. Speriamo sia solo una coincidenza.

Beppe Severgnini

23 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_23/se-un-marziano-ci-vedesse-oggi-beppe-severgnini_0f91b5be-26c9-11e0-bedd-00144f02aabc.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Silvio B. rispondici (anche via Twitter)
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2011, 06:38:13 pm

ITALIANS

Silvio B. rispondici (anche via Twitter)

Non capisco la passione del presidente del Consiglio per i videomessaggi. L’ho detto, lo ripeto: li trasmettono i dittatori, gli alieni e i Simpson, e lui non è nessuna di queste cose. Il videomessaggio — una dichiarazione solenne senza contraddittorio — profuma d’ansia; e gli elettori la sentono. Fossi Silvio B. mi farei intervistare. Eviterei i giornalisti dipendenti—per contratto, per questioni politiche o per disposizione naturale — e affronterei la prova con serenità. Le probabilità che questo suggerimento venga accolto sono pari a quelle di una laurea in teologia per Lele Mora. È bene prepararsi, tuttavia: l’agente potrebbe scoprire la Scolastica (non è una meteorina insolitamente studiosa) e il presidente accettare l’intervista (non è un’attività particolarmente rischiosa). Toccasse a me il compito—palazzo Chigi o palazzo Grazioli, ad Arcore c’è troppo viavai — mi presenterei con le domande arrivate via Twitter dai lettori/elettori. Eccone alcune, con tanto di firma.

Che modello offre ai giovani con i suoi comportamenti? (Nicoletta Marini-Maio). Crede che evitare un processo possa cambiare il giudizio che la Storia avrà di lei? (Alex Paglia). Io so sempre chi entra a casa mia. Possibile che lei non sappia chi entra a casa sua? (Serena Orizi). La ricerca le ha dato capelli e virilità. Lei e il Suo governo cos’avete dato alla ricerca? (Davide Schenetti).

Nel 1994 ha vinto promettendo meno tasse e riforma della giustizia. Sono passati diciassette anni: dove sono? (Marco Lazzaroni). Se ha ancora un programma, perché non lo affida a qualcun altro? (Luca Melchionna). Perché, secondo lei, nel Pdl non si solleva una sola voce contraria alla tesi di partito? (Roberto Bonacina). Le è mai venuto il dubbio che il suo entourage la stia solo sfruttando? (Armin). Ha mai chiesto consiglio a qualcuno? (Luca Geronimi). Silvio, quali erano i tuoi sogni quando avevi 17 anni? (Corrado Bontempi).

Visto che cerca accordi con Casini per le elezioni (e caccia dal Grande Fratello chi bestemmia), qual è la sua idea di famiglia? (Marco Bellabarba). Perché, visto che può, non si ritira a vita privata e si dedica ai suoi svaghi preferiti? (Arianna P.). Non pensa che un cassintegrato o disoccupato si senta offeso dagli aiutini dati alle signorine? (Alessandro P.). Prima la Minetti, poi Sara Tommasi: perché non le assume in Mediaset, se sono brave come dice? (Alessia Berra). Perché non accetta i contraddittori in tv, come accade in tutti i Paesi? (Alessandro P.). È vero che nel nuovo governo egiziano ci sarà un posto per Ruby, vista l’esperienza, come Ministro delle Mummie? (Raffaele Greco). Ha mai invidiato la capigliatura riccia di Gheddafi? (Francesco).

Ecco: queste erano alcune domande (potete controllare su Twitter cercando #intervistiamoberlusconi). Le risposte sarebbero gradite, ma temo non arriveranno. Neppure quella sulla capigliatura del Colonnello, che pure potrebbe far piacere all’alleato libico.

Beppe Severgnini

03 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_febbraio_03/severgnini


Titolo: Beppe Severgnini Ancora Slogan? Provate a Sorprenderci
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 03:56:47 pm
Il commento

Ancora Slogan? Provate a Sorprenderci

La strategia

Davanti a vicende nuove, gravi e imprevedibili, le risposte non possono essere vecchie, rituali e prevedibili


«Se non ora, quando?». Capisco lo spirito, condivido il fastidio, discuto il metodo. Ancora piazze e slogan? È il XXI secolo, ragazze!
Ho pubblicato questo commento su Twitter, ieri, e sono stato inondato di reazioni. Prevedibili, sorprendenti, irritate, irritanti, comprensive, preoccupate, ragionevoli. Molte chiedono: «Bene, lei cosa propone?». Ci arrivo, ma prima lasciatemi spiegare, allungandomi oltre i 140 caratteri di Twitter.

Davanti a vicende nuove, gravi e imprevedibili, le risposte non possono essere vecchie, rituali e prevedibili. Microfono e buone intenzioni, lettura delle dichiarazioni, studentesse e sindacaliste, francarame e facce già viste. Si finisce per far sembrare originali perfino i soliti, professionali slalom di Giuliano Ferrara, degni dei mondiali di sci in corso (dove peraltro non scendono in mutande). «Se non ora, quando?» sotto le mie finestre, in una delle 230 piazze d'Italia, quella di Crema, dove ci conosciamo tutti: duecento persone, più o meno le stesse di quand'ero studente.

Sgombriamo il campo da un equivoco. Ho scritto sul «Corriere», chiaramente e ripetutamente, che la questione legata a Ruby è seria: un capo di governo deve risponderne in tribunale e magari in qualche intervista, invece di rifugiarsi nei videomessaggi e tra le braccia di dipendenti, portavoce e consiglieri. La vicenda non riguarda infatti solo la vita privata di un uomo pubblico - che peraltro, come insegnano le grandi democrazie, è meno tutelata di quella di un normale cittadino. Di chi ci guida, infatti, dobbiamo valutare la coerenza, l'affidabilità, l'onestà, il buon senso, la responsabilità.
Le notti di Arcore (palazzo Grazioli, villa Certosa etc) non rappresentano solo un'umiliazione per le donne italiane. Hanno coinvolto organi elettivi (un premio per le favorite?); apparati di protezione (poveri carabinieri di guardia!); questioni di sicurezza (rischio di ricatti); reputazione internazionale (l'Italia derisa nel mondo); importanza dell'esempio (talmente catastrofico che i nostri ragazzi dicono «Blah!» e guardano oltre).

Rispondere a questo sfacelo con l'ennesima manifestazione? Sa di déjà vu. Un milione di donne in piazza nel mondo? A casa, in Italia, ce n'erano trenta milioni. L'Egitto, costantemente richiamato nelle menti e nei commenti? Be', andrei piano prima di celebrare un colpo di stato militare; e poi, in Medio Oriente, è bene aspettare come va a finire (Iran docet). Ma c'è di più. Come questo giornale non si stanca di ripetere, i governi cadono in Parlamento (dove s'accettano le dimissioni). L'opinione pubblica ha il diritto di farsi sentire, i magistrati devono poter lavorare. Ma diciamolo, per banale che sia: sono le urne che decidono chi governa.

La giovane precaria e la sindacalista, l'immigrata e l'attrice: sincero e addirittura commovente, in qualche caso. Ma già visto. Quelle donne avevano cose nobili da dire, ma le hanno dette nel modo consueto e nei soliti luoghi. La forza di Silvio Berlusconi è la capacità diabolica di reinventarsi e sorprenderci. Va affrontato con lo stesso metodo. Sono amico di Lella Costa, ammiro Paola Cortellesi e Anna Finocchiaro. La fantasia non gli manca di sicuro. Provino a inventarsi altro. Qualcosa che possa convincere decine di milioni di donne che non sono scese in piazza, e non lo faranno mai: eppure molte di loro, in questi giorni, sono imbarazzate e arrabbiate. Il momento più efficace, a Roma, è stato il ballo finale sul palco: perché era spontaneo, e non l'avevamo già visto.

È vero: le ragazze e le donne, in Italia, non la pensano come Nicole Minetti, che su Affaritaliani.it ha chiamato in sua difesa Cenerentola e Biancaneve (le quali probabilmente s'avvarranno della facoltà di non rispondere). Certo: concedersi a pagamento non è la nuova forma di imprenditorialità femminile, come argomentano maschi cinici in libera uscita. Ma le donne italiane devono - anzi tutti noi dobbiamo - inventare forme di protesta più originali. Dico la prima cosa che mi viene in mente: coprire l'Italia di post-it rosa, per un mese, scrivendo cosa fanno le donne vere, quelle che non hanno nessuna intenzione di sacrificarsi per i minotauri.
Perché diciamolo: il nostro labirinto è grande, e non ne contiene uno solo.

Beppe Severgnini

14 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il Fattore Donne e il Paese
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2011, 06:34:56 pm
Il Fattore Donne e il Paese

Quando non riescono ad accettare i cambiamenti, gli uomini - intesi come maschi - offrono complimenti. Quando non sanno imporsi rinunce, espongono buone intenzioni. La giornata di oggi, 8 marzo, vedrà un turbinìo di eventi, iniziative, congratulazioni e riconoscimenti del ruolo della donna. Ma le donne - intese come femmine - ormai l'hanno capito. Basta scostare le mimose, e il panorama retrostante è spoglio.

Il Corriere ieri citava la recente indagine Eurostat: siamo in coda tra i Paesi dell'Unione Europea. L'occupazione femminile diminuisce dopo il primo figlio, crolla dopo il secondo. Solo Malta è messa peggio di noi. Lo suggerisce l'osservazione, lo conferma uno studio dell'università Bocconi: senza il reticolo familiare poche nostre connazionali potrebbero lavorare. L'aiuto quotidiano dei nonni è indispensabile per trenta italiane su cento. Le danesi e le svedesi costrette a chiedere aiuto ai genitori per badare ai figli? Due su cento. Sorpresi? Probabilmente no. Chi non ha sperimentato le carriere che si bloccano alla prima gravidanza (part time e telelavoro sono temi buoni per i convegni) conosce una donna che s'è trovata in quella condizione. La buona notizia? La carovana dei grandi Paesi occidentali s'è rimessa in moto. Cerchiamo di capire dov'è il gancio da traino.

Negli Stati Uniti il presidente Obama approva il Lilly Ledbetter Fair Pay Act contro la discriminazione salariale. In Gran Bretagna il rapporto Davis chiede di portare al 25% la quota di donne nei consigli di amministrazione entro il 2015. La Francia approva una legge che porterà al 40% le donne ai vertici delle società quotate entro il 2017. In Germania, Angela Merkel ha annunciato di voler imporre quote rosa del 40% in tutte le grandi aziende. Nessuno di questi Paesi ha avuto un caso Ruby che spingesse le donne in piazza. Tutti hanno capito però che, in tempi incerti, bisogna sfruttare le risorse a disposizione. E le donne sono una risorsa immensa.

La legge in discussione in Italia prevede, per i vertici delle società quotate e delle pubbliche partecipate, una quota femminile di un terzo, da introdursi con disarmante gradualità (2021). Ma vedrete: il Paese bradipo dovrà imparare a correre. La realtà ha un'urgenza che nessun sofisma può rallentare e nessuno scandalo può oscurare. I «cuori pensanti» delle donne italiane - per citare il titolo di un libro di Laura Boella - hanno capito che un Paese senza materie prime, con infrastrutture obsolete, un debito pubblico mostruoso, un governo distratto e un'opposizione fatua non può permettersi di rinunciare al contributo delle donne. È una questione di legislazione e di coerenza, di opportunità e di comportamenti, di priorità e di serietà. Soprattutto di serietà.

Quante aziende negano alle donne i diritti che proclamano nelle conventions. Quante amministrazioni pubbliche vedono gli asili solo come voci di spesa, invece di considerarli grandi opportunità. Quanti uomini dicono quello che non fanno e fanno quello che non dicono (al momento del colloquio di lavoro, della promozione, della cooptazione). Quante donne, purtroppo, fingono di non vedere. Quanto sono sole Rita Levi Montalcini e Margherita Hack: eppure le nuove italiane chiedono modelli, non di diventare modelle. Si muove il mondo, muoviamoci anche noi. Una festa che scivolava pericolosamente verso il romanticismo commerciale - l'8 marzo come un 14 febbraio per ritardatari - conosce quest'anno un improvviso risveglio. Cerchiamo di dimostrare che è una nuova stagione anche per noi.

Beppe Severgnini

08 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La pigrizia e il cinismo
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2011, 11:00:06 am
NON ARRENDERSI ALL'ILLEGALITÀ

La pigrizia e il cinismo


Alzi la mano chi, nelle ultime settimane, non ha pensato, ascoltato, confessato: «Fatico a leggere i giornali, mi deprimono». Sentimento comprensibile, ma pericoloso. Comprensibile perché lo stillicidio di cattive notizie mette a dura prova i nervi e la pazienza. Pericoloso perché i protagonisti di quelle brutte storie proprio questo vogliono: che non scriviamo, che non leggiamo, che non pensiamo più a loro.

Il marchio delle democrazie è l'imperfezione inquieta; il segno delle autocrazie è l'ignoranza soddisfatta. Esiste un grande rischio per i buoni, e una grande opportunità per i meno buoni: le cattive notizie irritano, la tentazione di rimuoverle è forte. Sulla società occidentale - non solo quella italiana - potremmo appendere il cartello che vediamo sulle maniglie delle stanze d'albergo: «Do not disturb», non disturbare. Le cameriere al piano devono obbedire; i cittadini di una democrazia, no.

L'Italia, da qualche tempo, sembra una repubblica fondata sul lavorìo. Illegale. Da Napoli a Roma, da Parma a Palermo, da Genova a Milano: i moderni trafficanti non si fermano davanti alla possibilità di guadagno e di carriera. La nostra società sembra aver prodotto una nuova specie di piraña civili, pronti a divorare tutto quello che intravedono. Sociologi e politologi si sbizzarriscano sulle cause; gli educatori si preoccupino dei cattivi esempi. Noi giornalisti abbiamo un compito: tenere accesa la luce su ambienti e personaggi che non la amano. Perché è nel buio che campano. Di solito, alle nostre spalle.

Non tutti sono d'accordo. Mi ha scritto un sacerdote - un sacerdote! - secondo cui è inutile illudersi: la realtà va accettata. «Nelle democrazie moderne i cittadini imparano a scegliere leader che fanno sia i propri sporchi comodi, sia il bene del Paese secondo la propria personale e limitata (ma sacrosanta) visione». Gli rispondo con le parole di un suo - non un mio - collega. Il cardinale Carlo Maria Martini, nelle risposte ai lettori, ha scritto domenica sul Corriere: «La coscienza è un "muscolo" che va allenato e, come per l'atleta, l'esercizio richiede una certa disciplina».

Moralismo? No, senso morale. E buon senso. Nessuna trasformazione è possibile, nessuna Italia nuova è pensabile se non sentiremo certi comportamenti come gravi, colpevoli e pericolosi. Il cinismo - si sa - è di gran moda. Ma spesso è solo il soprabito per nascondere le nostre pigrizie. O, peggio, le nostre complicità.

Tocca ai magistrati, ovviamente, stabilire se dietro certe conversazioni (Napoli), certe dimissioni (Parma) e certe facilitazioni (Roma) ci sia un reato. Tocca al Parlamento - non ai giornali - decidere quali e quante intercettazioni si possano pubblicare. Ma non cadiamo nella rete astuta dei formalisti, secondo cui è più importante la cornice del ritratto. E il ritratto che vediamo è agghiacciante. Un Paese pronto a giustificare l'ingiustificabile, a paragonare l'imparagonabile, a perdonare l'imperdonabile, se fa comodo alla propria fazione.

Venerdì e sabato, a Venezia e a Pavia, avrò occasione di parlare ai neo-laureati. So che dimenticheranno presto le esortazioni da cui un adulto non può esimersi, in certe occasioni. Ma rivolgerò loro un invito; e vorrei lo ricordassero, almeno quello. Non diventate mai cinici, ragazzi. I protagonisti delle tristezze italiane di oggi, trent'anni fa, erano come voi: prendevano la laurea, annusavano il futuro, avevano la luce negli occhi e un'estate infinita davanti. Allora volevano cambiare il mondo; oggi, l'automobile. Meglio se blu, lussuosa e di servizio: così gliela paghiamo noi.

Beppe Severgnini

29 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_giugno_29/severgnini-pigrizia-cinismo_61827e22-a210-11e0-b1df-fb414f9ca784.shtml


Titolo: SEVERGNINI. -Ci diranno che Mario Monti è troppo poco italiano per governare...
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 12:10:07 pm
Prepariamoci.

Ci diranno che Mario Monti è troppo poco italiano per governare l’Italia. Se sarà lui, come pare, il prossimo presidente del Consiglio, ci faranno capire che non somiglia né all’uomo che l’ha preceduto, né alla nazione che dovrebbe seguirlo. Chi è reduce da una sbornia di populismo – diranno -  non può passare improvvisamente all’acqua tonica del buon senso.

Certo: il neo-senatore non somiglia  agli stereotipi che tanti di noi, e i nostri leader, hanno contribuito a incoraggiare. Rappresenta un italiano affidabile, uno dei tanti che il mondo ha imparato a conoscere e ad apprezzare. Ospedali inglesi e aziende tedesche, uffici europei e laboratori americani sono affollati di connazionali così, in grado di unire competenza, solidità e intuizione.

Il Financial Times scrive: “La nomina di un tecnocrate non eletto dal popolo è tutto tranne che l’ideale”. Certo, sarebbe meglio se la maggioranza avesse scelto il buon senso alle urne (ma dov’era?). Comunque accontentiamoci, per adesso:  dal Quirinale in giù, moltissimi italiani hanno capito che siamo in emergenza. E in un’emergenza è saggio ricorrere al pronto soccorso. E’ una forzatura democratica? E perché mai, se Monti avrà – come sembra – il sostegno della maggioranza in Parlamento?

Noi italiani siamo sempre stati bravi a trasformare una crisi in una festa. Stavolta è impossibile: basterebbe trarne una lezione. Silvio Berlusconi ha costruito la sua lunga fortuna politica assecondando qualunque nostro istinto. Ci ha detto sempre e soltanto ciò che volevamo sentirci dire. Certo, in questo modo è rimasto popolare a lungo, fino al tracollo finanziario. Ma non è così che si educano le nazioni, e le si aiuta a diventare grandi.

Qualcuno dice – all’estero e in Italia – che Mario Monti rappresenta  una fantasia in grigio, un’illusione con gli occhiali: è come vorremmo diventare, ma non riusciamo a essere. Nel momento in cui sarete costretti a metterci i soldi, la fatica e le rinunce – ci sentiamo dire in queste ore – tornerete a essere gli irresponsabili di sempre: retorici ed egoisti, convinti che la salvezza collettiva sia la somma delle furbizie individuali.

Potremmo rispondere che l’Italia, a differenza della Grecia, ha i mezzi per pagarsi la penitenza: se il debito pubblico è  spaventoso (2.000 miliardi di euro), la ricchezza collettiva delle famiglie è impressionante (8.600 miliardi). E aggiungere: ci siamo mostrati imprevidenti, ma non siamo sciocchi. Una nazione realista fino al cinismo sa che non è più tempo di scherzare. L’Europa dipende da noi e noi dipendiamo dall’Europa: dovrebbe bastare.

E’ accaduto altre volte, nella nostra storia recente, che ci siamo dimostrati capaci di sorprendenti scatti d’orgoglio. Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi non avevano un grande sostegno popolare: ma hanno chiesto e ottenuto un grande sforzo dagli italiani, tra il 1992 e il 1993. Lo stesso ha fatto Romano Prodi nella seconda metà degli anni Novanta. Non dimentichiamo come, per entrare nell’Unione Monetaria, abbiamo pagato compatti una “tassa per l’Europa” che altrove – fosse solo per il nome – avrebbe scatenato una rivoluzione.

Ogni nazione si tenga i suoi stereotipi: se non altro, indicano i rischi che corre. Ma lavori quotidiamente per smentirli: con i comportamenti, non con i gesti e le chiacchiere. Vengo dagli Stati Uniti e da Londra.  Non c’è dubbio che Mario Monti è spiazzante, per chi – nel Regno Unito o a  New York – ha deciso che noi italiani siamo tutti variazioni dei Sopranos o dei ragazzi di  Jersey Shore. E già questa è una prima, piccola soddisfazione.

Ieri e oggi #rimontiamo è la tendenza più seguita su Twitter. Non consideriamolo  un augurio. Prendiamolo come un impegno.

Beppe Severgnini

da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ma l'Europa agli inglesi sotto sotto non dispiace
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 12:16:20 am
Divorzi e miti

Ma l'Europa agli inglesi sotto sotto non dispiace

Mi auguro che indìcano davvero un referendum sull'Europa


Se la costruzione europea fosse una gara di bob - un bob piuttosto affollato, quasi un autobus - gli inglesi svolgerebbero il ruolo dei frenatori. Ruolo indispensabile, sia chiaro. Il guaio è che i nostri amici d'oltremanica non frenano dopo l'arrivo. Frenano, ogni volta, nella fase di spinta. E questo, come potete capire, innervosisce il resto dell'equipaggio.

La tendenza al melodramma - che l'Italia ha esportato ovunque con successo - non deve spingerci a dire che l'Unione Europea, così come la conosciamo, è finita. Ma non c'è dubbio che a Bruxelles, all'alba di venerdì 9 dicembre, sia accaduto qualcosa d'importante. David Cameron, utilizzando il veto, ha fatto ciò che tanti predecessori avevano soltanto minacciato. Se l'Europa intende correre, la Gran Bretagna chiede di scendere. Volendo restare nell'allegoria sportiva, potremmo ricordarle questo: saltando da un bob in corsa, si rischia di farsi male.
La costruzione europea, si sa, procede per spaventi (la seconda guerra mondiale, la crisi degli anni '70, la fine del comunismo). Solo allora trova il coraggio di lanciarsi in avanti (la comunità del carbone e dell'acciaio, il mercato unico, l'allargamento). Sta accadendo anche stavolta. Davanti alla spaventosa crisi del debito e alla palese inadeguatezza dell'euro, la UE ha deciso di darsi regole nuove e creare un'unione di bilancio. Londra, come sappiamo, ha detto no.

Se dovessi riassumere la mia perplessità in due parole, direi: che peccato. È il sentimento di qualcuno che frequenta la Gran Bretagna dal 1972, quando Eastbourne e Brighton sembravano uscire da un romanzo di Graham Greene; e da allora, anche grazie all'ingresso nella Comunità Europea (1973), l'ha vista diventare gradualmente più aperta, più brillante e sicura di sé. Conosco troppo bene gli inglesi per sottovalutarli: so che sono capaci di reinventarsi, sorprendersi e sorprenderci. Ecco perché spero che ci ripensino. A questo punto, mi auguro che indìcano davvero un referendum sull'Europa. Non solo sulla prossima unione di bilancio - che paradossalmente, grazie a loro, nascerà più in fretta - ma sull'appartenenza stessa all'Unione. Perché è ora di uscire dal grande equivoco: dentro o fuori. Neppure Andy Capp, dopo tre pinte di bitter, sceglierebbe di correre seduto sulla sponda del bob.

Se il «grande divorzio», di cui parla la stampa britannica più accorta, dovesse consumarsi, sarebbe - ripeto - un peccato. Non soltanto perché i divorzi acrimoniosi sono più frequenti dei divorzi sereni; ma perché ognuno ci perderebbe qualcosa.
Londra, con buona pace di Parigi e Berlino, è davvero la capitale d'Europa. La città più vitale, soffice, profonda, semplice, aperta, matta e mescolata di questa frangia occidentale della massa euroasiatica. L'Inghilterra è - linguisticamente, democraticamente, culturalmente, artisticamente, giornalisticamente, finanziariamente (prego notare l'ordine degli avverbi) - il nostro periscopio sul mondo. L'insularità è, ormai, soltanto uno stereotipo e un dato geografico. Il Regno Unito infatti non si è mai isolato, se non in periodi particolari della storia, come le guerre napoleoniche o l'ultimo dopoguerra. Per il resto, a diffondere il mito della «separatezza britannica» hanno pensato film e libri, le barzellette e gli stessi inglesi, orgogliosi di veder confermata la propria diversità anche quando non c'era, oppure rientrava nelle normali differenze tra le nazioni che rendono l'Europa più affascinante del Midwest americano.

Gli inglesi non sono extraeuropei. Sono ultraeuropei: amano guardare fuori. Soffrono di claustrofobia. Evelyn Waugh scrisse che i connazionali «si erano mezzi ammazzati, e qualche volta si erano ammazzati del tutto, pur di lasciare l'Inghilterra». La diffidenza verso l'Europa non è, quindi, paura di qualcosa di troppo largo, ma timore di qualcosa di troppo stretto (Bruxelles, le regole non scelte). Uno statista - e David Cameron deve ancora dimostrare di esserlo - ha il dovere di spiegare che l'unione (minuscolo) fa la forza; e quando si sceglie di stare in gruppo, sapendo di poter ottenere molto, bisogna rinunciare a qualcosa. Il giovane Primo Ministro deve guidare il paese, non seguire gli istinti di una maggioranza relativa e temporanea. Potrebbe scoprire - magari nel referendum oggi tanto temuto - che i connazionali sono più lungimiranti di quanto immagina.

Dimenticate i little Englanders, i «piccoli inglesi» terrorizzati dalle novità. Sembrano tanti perché alzano la voce, ma sono convinto che, alla prova dei fatti, costituiscano una minoranza: qualche aristocratico minore di campagna, una fetta della piccola borghesia coi suoi giornali, tanti bravi pensionati innamorati delle proprie siepi. Tutti gli altri, come scrive Will Hutton in The State We're In, sanno di essere ben attrezzati per il mercato globale. La capitale (Londra), i capitali (della City), gli aeroporti, i mestieri (dal soldato al consulente), la cultura, la musica, lo sport e la lingua sono già internazionali.

Ho usato di proposito, finora, il termine «inglesi»: scozzesi e gallesi, oltre a essere meno numerosi, la pensano diversamente. Anche molti inglesi - soprattutto tra le nuove generazioni abituate ai viaggi e agli scambi - capiscono che l'Europa è, oggi, una necessità e un'opportunità. Anche un rischio, certo. Ma si rischia di più pensando di diventare la versione locale di New York o di Hong Kong. Perché dietro New York c'è l'America, dietro Hong Kong c'è la Cina. Dietro Londra c'è il Surrey. Oppure l'Europa. Tempo di scegliere dove voltarsi.

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Beppe Severgnini

11 dicembre 2011 | 12:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_11/inglesi_non_dispiace_europa_severgnini_8379b638-23ea-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Quell'incontro con un galantuomo nel suo castello da ...
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 05:54:58 pm
La genesi dell'intervista con Vaclav Havel per «Il Giornale di Montanelli» nel 1990

Quell'incontro con un galantuomo nel suo castello da presidente

Il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale

Ho conosciuto Vaclav Havel quand’era dissidente, alla fine degli anni Ottanta. Andare a trovarlo nell’appartamento lungo la Moldava – dove riceveva volentieri i giornalisti occidentali – poteva significare guai. Per «il Giornale» di Montanelli, da Praga, ho seguito tutta la «rivoluzione di velluto» del 1989, forse la più elegante ed entusiasmante tra quelle che hanno deposto il comunismo nell’Europa centro-orientale. Vaclav Havel se ne ricordava, e una volta salito al Castello come Presidente, da galantuomo, ha mantenuto la promessa di concedermi un’intervista. La prima in Italia, credo. Questa non è la riproduzione di quell’intervista (pubblicata il 10 maggio 1990), ma la genesi – davvero bizzarra – di quell’incontro. Spero dia il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale.

Beppe Severgnini, 18.12.2011

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Praga, maggio 1990 – Fino a qualche tempo fa l'Europa orientale era un luogo tranquillo e triste, dove gli italiani andavano a cercare il socialismo e le ragazze. Non scoprivano mai il primo, ma trovavano quasi sempre le seconde. Ora è una fiera, un teatro dove va in scena un lungo dopoguerra. Difficile raccapezzarsi: gli ex-agenti segreti fanno gli steward sugli aerei, i comunisti fanno i socialdemocratici, i socialdemocratici fanno i liberali e i liberali fanno confusione. È un mondo caotico, dove tutti sono stati promossi, o rimossi, o sono in attesa di una promozione, o sono in ansia per una rimozione. I dissidenti sono diventati ministri: a Varsavia, un anno fa, l'ex-carcerato Jacek Kuron chiedeva una bottiglia di Johnny Walker per un'intervista; oggi è ministro del lavoro, e forse avrà cambiato marca. I ministri sono diventati dissidenti: a Budapest Imre Pozsgay, stella spenta socialista, è all'opposizione, praticamente solo. A Bucarest, nella chiesa italiana sul bulevard Balcescu - finalmente aperta: il conducator Ceausescu permetteva soltanto due funzioni all'anno, Pasqua e Natale - padre Molinari celebra la messa con una bellissima sedicenne romena al fianco, vestita come una novizia: riccioli biondi che sbucano dal copricapo, occhi azzurri e guance appena arrossate. Al termine tutti corrono a complimentarsi. «Cara, sei stata deliziosa - sussurra una signora italiana in visita - Sarai una meravigliosa piccola suora». La ragazza con i riccioli biondi spalanca gli occhi: «Ma io non voglio fare la suora. Io voglio fare l'attrice.» A Praga - tra tutte le città dell'est, la più educata - non si capisce molto di più, e non si fatica molto di meno. Cercare i protagonisti della rivoluzione di novembre è più che un lavoro. Più che un dovere. Più che una necessità professionale. È diventato uno sport.

Fino a sei mesi fa i dissidenti (giornalisti senza giornali, attori senza scritture e professori senza cattedre) erano a disposizione: qualcuno implorava un'intervista, qualcun altro si accontentava di una copia di Newsweek. In novembre, durante la rivoluzione, tutti ridevano in compagnia, bevendo birra chiara al caffè Slavia. In gennaio gli stessi dissidenti, diventati ministri e parlamentari, rispondevano ancora al telefono, ma le voci erano diventate improvvisamente fredde. In marzo hanno smesso di rispondere al telefono. Al loro posto parlava una moglie, una segretaria, un'amica: «Il ministro non c'è. Si rivolga all' ufficio stampa del ministero». Inutile dire «Guardi che io il ministro lo conosco. Guardi che quand'era dissidente gli portavamo tutti le sigarette». La voce a quel punto si fa annoiata, come se tutti quelli che telefonano dicessero la stessa cosa, come se tutti, un giorno, avessero portato sigarette al ministro: «Mi spiace. Si rivolga all'ufficio stampa.»

Hanno ragione i ministri di oggi, dissidenti di ieri. I giornalisti sono troppi, vogliono troppe interviste, fanno troppe domande. Abbiamo ragione anche noi però, che in dicembre incontravamo il signor Václav Klaus nel guardaroba di un teatro, e ce ne andavamo con un indirizzo scritto su un foglietto fotocopiato e ritagliato. Václav Klaus è diventato ministro delle finanze, l'uomo che dovrebbe portare il paese nell'economia di mercato: ora avrà un vero biglietto da visita, ma prima era più simpatico. La difficoltà ad orientarmi in un mondo capovolto mi ha spinto verso la nuova sede del «Forum dei cittadini» in piazza Jungamannovo, con il vecchio taccuino in mano. Adesso qualcuno si siede qui, ho gridato, e mi dice che fine hanno fatto tutti gli amici, tutta la gente che regalava il numero di telefono, tutti quelli che al caffè Slavia bevevano in compagnia.

Un funzionario si è commosso. Gentilmente, ha preso un lungo foglio uscito dalla stampante di un computer. «Prenda nota. Jiri Dienstbier, giornalista, ex bruciatorista: ora è ministro degli esteri, e questo lei lo sa. Eda Kriseova, scrittrice, autrice di «La clavicola del pipistrello»: consigliere personale del presidente. Vera Cáslavská, ginnasta olimpica: consigliere del presidente; Michal Kocab, cantante rock - sì quello che girava con gli occhiali neri e il giubbotto di cuoio. Anche lui è consigliere del presidente, e capogruppo del «Forum Civico» in Parlamento. Rita Klimova, quella che traduceva dal ceko all'inglese seduta di fianco a Havel: ambasciatore a Washington. Serve altro?». Senza più conoscenze - o meglio: le conoscenze ci sono ancora, ma sono rinchiuse nei loro uffici, difese dalle loro segretarie - sembrava impossibile arrivare fino a Václav Havel. Pur avendo il suo numero di telefono. Pur essendo stati a casa sua.

Da quando è presidente, vive braccato da giornalisti, diplomatici, politici e questuanti; tutti, rigorosamente, con il suo numero di telefono. Ma nella fiera dell'est c'è sempre una sorpresa in agguato. La mia si chiamava – pensate un po’ - Milan. Niente a che fare con il calcio. Il signor Milan Matous, che viaggia impettito verso i settanta, fuggì dalla Cecoslovacchia nel 1948 perché non voleva vivere agli ordini del comunista Gottwald. Era un atleta (nazionale di hockey su ghiaccio e componente della squadra di coppa Davis), aveva sposato un'atleta e ha una figlia atleta (Elena Matous, campionessa di sci), la quale ha sposato un altro atleta: Fausto Radici, sciatore non boemo, ma bergamasco. Negli anni Cinquanta Matous allenò la nazionale italiana di hockey su ghiaccio. Oggi vive in montagna, a Cortina d'Ampezzo, dove ha fatto amicizia con Giorgio Soavi. Questo - lo ammetto - avrebbe dovuto mettermi in allarme. Quando è tornato in patria dopo quarantadue anni - orgoglioso, con il suo vecchio passaporto - il signor Matous voleva rendersi utile. Utile con tutta la passione, il trasporto e l'irragionevolezza di un boemo che ha deciso di rendersi utile. Utilissimo, insomma. Ci siamo conosciuti per caso.

Matous aveva saputo che volevo incontrare Václav Havel, e ha detto: «Ci penso io». Ho spiegato allora che ottenere un'intervista era complicato. Milan Matous ha ascoltato, poi ha comunicato la sua decisione: sarebbe salito al castello e avrebbe convinto il presidente. Ho ringraziato, ho ripetuto che sarebbe stata una passeggiata inutile. Milan Matous ha sorriso. Il sorriso paziente di chi vive sulle Dolomiti, e sente dire a un milanese che qualcosa è impossibile. Penso che si ricorderanno per un pezzo di Milan Matous a Hradcany, dimora dei re di Boemia, residenza dei presidenti. Dopo essere arrivato fino alla segreteria di Havel, aver abbracciato la ginnasta Vera Cáslavská, aver salutato le guardie del corpo e le dattilografe, Matous ha spiegato a tutti che Havel era un uomo morale, e aveva perciò il dovere morale di concedere un'intervista al «Giornale» di Montanelli, che aveva sempre parlato bene di lui, e male dei comunisti.

Poiché gli ardimentosi sono anche fortunati, Havel è uscito in corridoio. Milan Matous è partito all'attacco: «Presidente, sul muro della sua camera, quand'era bambino, c'erano dipinti alberelli e coniglietti. » Václav Havel, che è abituato a sentirsi dire di tutto, ma non che è cresciuto tra alberelli e coniglietti, si è fermato di colpo: «È vero. Ma lei come lo sa?» «Perché li ha dipinti mia moglie, che era buona amica di sua madre», ha spiegato Matous con la logica rigorosa di chi vive sulle Dolomiti. «E adesso - ha aggiunto con un gran sorriso - lei deve dare un'intervista al Giornale, che su di lei ha scritto tante belle cose». Poiché gli Havel sono estrosi almeno quanto i Matous, l'intervista è stata concessa, e l'abbiamo pubblicata. Oggi volevamo soltanto ringraziare l'amico di Soavi, e i coniglietti del presidente.

Beppe Severgnini

18 dicembre 2011 | 14:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_18/severgnini-havel_66d3f71c-2978-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La trappola del pessimismo
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2011, 06:38:22 pm
PIÙ FIDUCIA NELLE NOSTRE RISORSE

La trappola del pessimismo

L’Italia non cambierà se non lo vogliamo. Se non ci convinciamo di essere attori. Ora un nuovo patto nazionale

Se l’Europa avanza per spaventi, l’Italia procede per ansie e furori. Stavolta appaiono più gravi e giustificati del solito. La recessione potrebbe trasformarsi in una nuova, grande depressione, uno spettro evocato da Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. E accadrà, se accettiamo che la delusione diventi rassegnazione.

L’ultimo furore collettivo risale all’inizio degli anni Novanta: le indagini di Mani Pulite rivelarono meccanismi nauseanti, destinati a finanziare i partiti e non solo. Noi italiani mostrammo in molti modi la voglia di cambiare: il tifo calcistico per i magistrati, i referendum di Mario Segni, l’appoggio alla Lega nascente, l’entusiasmo per Forza Italia. È andata male. Tutto quello che abbiamo saputo creare è una Seconda Repubblica velleitaria e costosa, oggi defunta e non rimpianta.

L’incolpevole pontiere verso il mondo nuovo, allora, fu Carlo Azeglio Ciampi. Oggi—alla guida di un’Italia confusa ma non (ancora) rassegnata — ci sono Mario Monti e Giorgio Napolitano. Ma, oggi come allora, il mondo nuovo non dipende da loro. Dipende da noi. I pontieri costruiscono i ponti, ma sono i popoli che devono attraversarli.

Il primo passo è un’ammissione: siamo reduci da anni di pigrizia e illusioni. Silvio Berlusconi è stato il prestigiatore più solerte, ma non l’unico. Il pubblico gli ha chiesto—tre volte — di presentare il numero. Un modo per assistere, applaudire o fischiare (dipende): senza prendersi responsabilità.

Ora quello spettacolo è finito: non ce lo potevamo più permettere. Non l’abbiamo capito da soli, hanno dovuto gridarcelo da lontano. Mario Monti ha fatto più in un mese che i predecessori in diciassette anni; il suo limite non è aver osato troppo, ma troppo poco sui costi della politica, le liberalizzazioni e la crescita. Ma neppure lui potrà avere successo, senza di noi. L’Italia non cambierà, se non vogliamo che cambi. Se non ci convinciamo di essere attori, non spettatori.

Se lo faremo, la ricompensa sarà rapida e robusta. Non è una leggenda auto-consolatoria: abbiamo davvero le risorse caratteriali per tirarci fuori da questa trincea, e batterci in un mondo difficile. La nostra capacità di invenzione e di reazione è indiscutibile. La nostra facilità di intuizione e adattamento è dimostrata quotidianamente da centinaia di migliaia di connazionali sparsi per il mondo. Perfino il reticolo sociale e familiare che ben conosciamo può aiutarci a costruire il futuro, dopo averci complicato il presente. Vorrei che presto, all’estero, scrivessero di noi: When the going gets tough, the Italians get going. Quando il gioco si fa duro, gli italiani cominciano a giocare.

Tutto questo però non serve — anzi, diventa un alibi — senza un nuovo patto nazionale. L’esistenza che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, se non cambiamo, non possiamo più permettercela. Se vogliamo l’istruzione, la sanità, le pensioni e la qualità di vita cui siamo abituati, dobbiamo lavorare meglio, lavorare più a lungo e smettere di ingannarci a vicenda.

Diciamolo: 235 miliardi di evasione annuale—otto volte la manovra appena votata—è una somma sconvolgente. Per coloro che non intendono sconvolgersi, aggiungiamo: insostenibile.

Un Paese dove ristoratori e gioiellieri dichiarano mediamente 38 e 44 euro di entrate al giorno; dove chiedere la fattura a un artigiano è un atto di eroismo fiscale (e dove fare l’artigiano insidiato da norme folli e pagamenti incerti è un eroismo professionale); dove un terzo delle famiglie controllate si finge povera per ottenere sconti e benefici; dove solo 9.870 persone dichiarano spontaneamente più di 200.000 euro l’anno — be’, un Paese così non può andare avanti. Ne occorre un altro.

Un Paese dove tutti paghiamo (meno) imposte; dove vengano assicurati pagamenti veloci e giustizia rapida; dove siano chiuse le falle che rischiano di affondare le nave (dalle municipalizzate a certe aziende sanitarie); dove la politica, se non riesce a dare il buon esempio, almeno eviti di provocare disgusto. Un Paese così non è impossibile, ed è alla nostra portata. Basta rispettarci e incoraggiarci a vicenda, invece di compatirci e deprimerci.

Siamo su un piano inclinato: o si sale o si scende. Voi, dove volete andare?

Beppe Severgnini

20 dicembre 2011 | 7:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_20/severgnini-trappola-pessimismo_7606956e-2ad1-11e1-b7ec-2e901a360d49.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Dall'apostrofo di Saviano all'accento di Gerry Scotti
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2011, 06:11:41 pm
Social network - Meglio un piccolo scivolone ortografico che perdere la genuinità

Perché gli errori su Twitter fanno parte del gioco

Dall'apostrofo di Saviano all'accento di Gerry Scotti

«Khadz Kamalov, un giornalista coraggioso, è stato ucciso. 70 giornalisti russi uccisi in Russia. Qual'è il peso specifico della libertà di parola?»

Mi è piaciuto il tweet newyorkese di Roberto Saviano (77.657 followers). Per la sostanza, ovviamente; ma anche per quell'apostrofo di troppo («Qual è...»). Poi l'ha corretto, ma non deve vergognarsi: anzi. Tutti sbagliamo, e su Twitter non esistono correttori automatici (per fortuna). Non solo: quell'apostrofo è la prova che RS, i tweet, se li scrive da solo. E quando non è così, vengono firmati «staff». Un compromesso accettabile, anche se Twitter dovrebbe restare il luogo del confronto diretto. Senza filtro, come le vecchie sigarette: e non fa male.Giorni fa, sulla questione, mi è capitato di polemizzare garbatamente con Stefano Gabbana (181.054 fw). Non per il profluvio di bacini Xxxx, faccine ;-))) e abuso di sostanze vocaliche (Graaaaaazieeeee! Ciaoooooo!). La mia perplessità veniva da un tweet in cui SG se la prendeva col fisco («Ladri!!!!!!»): commento poi scomparso. «Io non ho cancellato nulla - ha spiegato Gabbana - ma l'ufficio stampa mi aiuta nella gestione del profilo». Eh, no!, gli ho scritto: così non vale.

Non è purismo. È l'essenza del mezzo che non consente intermediazioni - a mio modesto e discutibile parere, almeno. Sabato - per controllare - ho scritto (twittato, se preferite): «Due no-no su TW. (1) Farselo curare dall'ufficio-stampa (2) Usarlo come un ufficio-stampa».

Le risposte arrivate non lasciano dubbi. Il più veloce, micidiale, icastico, sorprendente e ascendente tra i social network non sopporta né una cosa né l'altra. Gli uffici-stampa hanno già molti mezzi a disposizione: dai comunicati alla tivù, dalle email a Facebook. Lascino in pace Twitter e chi lo frequenta. Se la posizione - il ruolo in un'organizzazione, per esempio - impedisce di esprimere opinioni personali, benissimo: non le si esprima. Twitter non è un obbligo o una prescrizione medica, se ne può fare a meno.

In quanto alla Regola#2: non è vietato segnalare il proprio lavoro, ogni tanto. È naturale che uno scrittore annunci il suo libro, un attore parli del suo film e un uomo politico racconti le sue iniziative. Ma tutt'e tre devono ricordare che Twitter vuole - anzi, pretende - un valore aggiunto. Se scrivo: «È appena uscito il mio libro dal titolo: "Il solito romanzo noioso"», devo aspettarmi reazioni stizzite. Se invece il tweet è: «È appena uscito il mio libro, mia moglie l'ha gettato via e ha sfiorato il gatto», allora la faccenda diventa interessante (non per il felino, d'accordo).

Twitter è un esercizio nuovo e antichissimo: Callimaco, Marziale, Poliziano, Voltaire, Achille Campanile, Ennio Flaiano, Leo Longanesi e Indro Montanelli (coi «Controcorrente») se la sarebbero cavata benone. Bravi come loro, in giro, non ce ne sono più. Ma esistono molte persone brillanti con il passo breve e la battuta secca.

Prendiamo Beppe Grillo (272.117 fw), una delle twittstar italiane. I suoi tweet non sono quasi mai commenti, ma rimandi al sito http://www.beppegrillo.it. È dunque probabile che non sia il mio beppomonimo a occuparsi di TW. Ed è un peccato, perché Grillo conosce internet, e il commento fulminante non gli manca di sicuro.

Simona Ventura (71.803 fw) ha invece l'entusiasmo dei neofiti: tendo a escludere che voglia lasciare il divertimento a un ufficio-stampa. Si presenta con una foto scattata da distanze siderali dove dimostra ventidue anni, ma l'impressione - ripeto - è che si metta in gioco. A costo di cadere in qualche ingenuità. Prendiamo questo tw del 19 dicembre: «Ciao my followers... sono al concerto di Natale dei miei ragazzi... ho registrato tutto su my sky». Cosa non va? L'espressione «Ciao my followers...». È televisiva, buona per telespettatori. Chi ti segue su TW - dieci persone o centomila - va trattato diversamente.

Gerry Scotti (102.417 fw) sembra più smaliziato. «Nipote di contadino, figlio di operaio» si presenta. E poi si lancia in una sorta di micro-diario interattivo, che in fondo resta una delle funzioni di Twitter (non l'unica). Ogni tanto la fretta e la tastiera gli giocano qualche scherzo. «Vabbè, vi perdono tutti! L'avete fatto per me, lo sò» (con l'accento). Il mio preferito resta: «@Curandera83 @isabellamanzari il tuo è puro qualunquismo. Io ho segnalato un tweed di una persona che lavora per chi vuole. Se lavora». Col freddo, il tweet diventa tweed: normale!

Passiamo alla politica. Tra i più attivi c'è Nichi Vendola: viene seguito da 129.224 persone, ne segue 31.164 (il che vuol dire non seguire nessuno). Usa un ufficio-stampa? Be', venerdì 16 dicembre ha scritto 51 tweet, non tutti indimenticabili («Sul terreno delle garanzie non dobbiamo dare nulla per acquisito. Senza inseguire la destra, magari per attenuare o limitarne i danni»). Solo cinque sono marcati «a cura dello staff di @sinistraelib». Nichi V. quel giorno si è occupato, tra le altre cose, di Palestina, Stati Uniti d'Europa, piazza Tahrir, Merkel-Sarkozy, Asl di Lecce, manifestazione di Firenze, energie rinnovabili, Monti, mappamondi, condizione carceraria della stagione berlusconiana. Domanda: se non usa un ufficio-stampa, come trova il tempo di mangiare e dormire?

Chiudiamo col ministro degli esteri Giulio Terzi (13.131 fw). È stato, se non sbaglio, il primo rappresentante dal governo-badante - ops, del governo Monti - a buttarsi nella twittermischia. Non sempre autore di tweet rivoluzionari («Intendo riprendere la tradizione dell'apertura al pubblico della collezione d'arte del Ministero»), sembra però rispettare la Regola #1 (niente uffici-stampa). Anche perché scrive: «Non sono un fake...» (un falso, ndr ) e «Per me non è una moda, ritengo importante il contatto diretto con i cittadini». Il neo-ministro ha anche un vantaggio non da poco: è l'unico che può assicurare «Scritto da Terzi» e subito dopo, senza contraddirsi, aggiungere: «Lo seguo personalmente».
Pensandoci: questo è un tweet niente male. E non me l'ha scritto l'ufficio-stampa.

Beppe Severgnini

21 dicembre 2011 | 16:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_dicembre_21/errori-twitter-fanno-parte-del-gioco-severgnini_775dcfd6-2b9e-11e1-92c6-0bc88599d431.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Se la normalità diventa eroismo
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2012, 10:13:29 pm
IL CASO DE FALCO - SCHETTINO

Se la normalità diventa eroismo

Molti stranieri ci osservano e non capiscono

di BEPPE SEVERGNINI

Come moltissimi italiani, ho ascoltato con attenzione i quattro minuti di conversazione tra il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, e Gregorio Maria De Falco, comandante dalla Capitaneria di Porto a Livorno. Mi è sembrato il colloquio concitato tra un uomo di mare spaventato e inadeguato e un altro uomo di mare, competente e consapevole. Scopro perciò con stupore che De Falco è il nuovo eroe della rete (cercate su Twitter #defalco). Sono certo che l’interessato sarà altrettanto sorpreso. Come altri quella notte - sulla nave e a terra - ha fatto tutto ciò che poteva in circostanze drammatiche. Lo stesso, purtroppo, non si può dire del comandante Schettino e di altri ufficiali di bordo. Se la normalità è diventata eroica, in Italia siamo nei guai.

Ma non è così - non ancora. Milioni di connazionali - spesso per pochi soldi - fanno il proprio dovere: da nord a sud, di giorno e di notte, in terra nell’aria e per mare. Forse lo abbiamo dimenticato, se l’evidenza di questa serietà diventa fonte di stupore. O forse abbiamo bisogno di applaudire i competenti, come antidoto ai troppi superficiali. La rete, in questi giorni, pullula di antropologia spicciola e considerazioni sconsiderate. C’è chi scrive «ma quando la smetteremo di lasciare il comando ai napoletani?» (dimenticando la lunghissima e gloriosa tradizione marinara della regione); e chi, con troppa fretta e semplicismo, ha trasformato i due uomini in personaggi conradiani, rappresentazione del coraggio e dell’ignavia, della forza e della debolezza, del bene e del male. Molti stranieri ci osservano e non capiscono. Aspettatevi che dicano, nei prossimi giorni, quello che scrive Margherita Masotti (twitter/mstmgh) da Grosseto: «Chapeau a #defalco, ma è possibile che la tragica mancanza di professionalità di alcuni renda speciali le persone normali?» 122 caratteri, e c’è tutto il necessario.

17 gennaio 2012 | 18:29

da - http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_17/severgnini-normalita-eroica-defalco-schettino_9c487ef2-4126-11e1-b71c-2a80ccba9858.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - È il futuro che viene: vedrete, avrà fiato
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2012, 04:50:37 pm
È il futuro che viene: vedrete, avrà fiato (prefazione a 'Tutto questo futuro' di Ivano Fossati, Rizzoli)

Beppe SEVERGNINI

Nessuno mi aveva mai fatto notare che “le ragazze di Milano hanno passo di pianura”. Però è vero: hanno passo di pianura, ed è bello da guardare. Nessuno mi aveva detto che il mare, quando compare improvvisamente dietro una curva, è emozionante. “Fin da Pavia si sente il mare”: un lombardo lo sa bene, ma non ci pensa.

Sapete tutti che Ivano F. è un poeta, abbastanza onesto da saperlo e abbastanza saggio da dimenticarlo. Forse non avete mai riflettuto su un altro fatto: l’uomo è un musicista-paesaggista. Un pittore/fotografo capace di consegnarci il senso di un luogo con dieci parole e poche note.

Me ne sono accorto la prima volta che ho sentito “Panama”, molti anni fa. “Di andare ai cocktail con la pistola non ne posso più...” non è solo un buon attacco: è lo sfogo di un tipo umano che l’Italia continua a esportare, capace di mescolare incoscienza e avventura, egoismo ed esotismo, pressapochismo e buon cuore. “Della francese che si sente sola non ne posso più. Piña colada o coca-cola non ne posso più...”. Alle francesi, oggi, si sono aggiunte spagnole, tedesche e americane; e la piña colada è stata sostituita da caipirinha e vodka lemon. Per il resto, è cambiato poco: le città del mondo sono piene di questi italiani che navigano a vista, e ogni tanto sbattono.

Un’emigrazione tutta diversa è quella di “Last Minute”. Ci vuole talento per scrivere una canzone emozionante sugli Italians, sui viaggiatori per professione, sulle partenze obbligate - solo in apparenza comode - di una generazione cui non sappiamo dare, in Italia, il lavoro per cui s’è preparata. “Alle frontiere che passo non mi sento sicuro/nel cuore d’Europa le cose non stanno così” è un riassunto della nuova familiarità che ci regalano Schengen, l’euro e i cellulari in roaming. “Bevo con gli sconosciuti ogni sera / io qui in capo al mondo” . Quanti ne ho visti, di connazionali così, negli alberghi dell’Asia o d’America. Quante volte io stesso ho pensato “...mi manchi negli aeroporti illuminati la notte”. Poi ho chiuso la borsa, ho spento l’iPod e sono andato all’imbarco.

Meno fortunati, dopo un imbarco molto diverso, sono i protagonisti di “Pane e coraggio”, la canzone delle nuove rotte mediterranee. I migranti capiscono in fretta d’essere rimasti vittime di un miraggio (“L'Italia sembrava uno sogno, steso per lungo ad asciugare”); scoprono che “pane e coraggio ci vogliono ancora”; spiegano alle figlie “gli sguardi che dovranno sopportare”. Noi italiani dovremmo saperle bene, queste cose, visto che per un secolo lo stesso destino è toccato a noi (“Italiani d’Argentina”): però ce ne dimentichiamo.

Ma Fossati non è soltanto il fotografo musicale della distanza: sa ritrarre anche paesaggi più vicini. A chi non è capitato, una notte in Italia, di pensare che questo nostro Paese merita di meglio? “La fortuna di vivere adesso/questo tempo sbandato”: sarà solo musica leggera, caro Ivano, ma queste parole ci hanno consolato tante volte, su un treno dopo una giornata inutilmente faticosa, nel buio di un’autostrada. Quando rivediamo nei telegiornali le solite facce fameliche pensiamo che no, non possiamo accettare che la nazione sia questa. L’Italia è uno splendido palcoscenico in attesa di una rappresentazione degna. Quando inizierà - non manca molto - sappiamo a chi affidare la colonna sonora.

È il futuro che viene: vedrete, avrà fiato.

da - http://www.beppesevergnini.com/articoli.php


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Decalogo della buona nota biografica.
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2012, 11:08:41 pm
Italians

Trappole (di vanità) per curriculum

Decalogo della buona nota biografica. Vale anche come confessione

Scrivere la propria autobiografia è difficile. Quasi sempre l'autore è troppo affezionato al protagonista.

Anche scrivere il curriculum, o fornire note biografiche, presenta alcune trappole.

Per esempio la vanità e la sintesi, spesso inversamente proporzionali.


Lucy Kellaway, sul Financial Times , ricorda che Reagan si presentava così: «Ronald Reagan è il presidente degli Stati Uniti». La collega offre poi alcuni consigli, tra cui questo: «Inserire nel curriculum anche eventuali difficoltà o fallimenti» (la classe dirigente italiana potrà mettere in campo grandi titoli). Sperando d'essere utile, propongo anch'io qualche suggerimento.

Più sei importante, meno hai bisogno di parole. Le biografie sono spesso un florilegio di titoli, cariche e opere che rivelano insicurezza. Qualunque essere umano, dopo i quarant'anni, è in grado di riempire una pagina.
Una nota biografica non è un romanzo, è un riassunto. Cinque righe informano, venti annoiano, trenta allarmano, cinquanta generano sospetto.

Ci sono premi che non si devono vincere. Se accade, è bene mantenere riservata la notizia. Ce ne sono altri, invece, che è bello ottenere. In questo caso, la modestia dovrebbe impedire di divulgarlo.
Indicare un'onorificenza vale un'ammissione: «Per me è importante!» (il sottoscritto, per esempio, ricorda sempre la presidenza onoraria dell'Inter Club Kabul).

Beneficenza e opere di carità sono parti intime: se non si vedono, è meglio.

Frasi come «Il dottor T. ha condotto al successo molte società italiane e straniere» sono pericolosamente vaghe. Di cosa si occupavano queste società? Pollame, podcast o politica internazionale? Dove operavano: negli Usa o nelle isole Tonga?
Evitare i superlativi e limitare gli aggettivi. «Mario B. ha ottenuto notevolissimi successi nel campo dell'informatica» lascia sospettare che sia riuscito, tutt'al più, ad aggiustare la Xbox del figlio.

Aggiornare periodicamente la fotografia. Ci sono colleghi che usano lo stesso ritratto scattato ai tempi del governo Craxi. Quando v'incontrano, dovete sentirvi dire «lei sembra più giovane di persona!» e non «scusi, ma noi avevamo invitato suo figlio».
«Appare regolarmente in tv»: più che un titolo di merito, è un segno di disperazione. «Già presidente...»: più che un'informazione, è un rimpianto. «Ex deputato...» invece va bene: basta indicare anche l'ammontare del vitalizio.
Concedere qualche informazione personale si può: ma senza esagerare. Il nome della moglie va bene. Quello di tutti gli animali domestici, no.

Dimenticavo: alcuni di questi peccati li ho commessi. Questo decalogo vale come confessione e penitenza. Se fra una e l'altra ci sta anche un'assoluzione, be', dovete deciderlo voi.

Beppe Severgnini1 marzo 2012 | 11:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_01/trappole-vanita-curriculum-severgnini_76d8aa14-6388-11e1-b5fe-fe1dee297a67.shtml


Titolo: Lucio Dalla in un intervista del '97: "Io ho l'ambizione di non rimanere"
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2012, 04:46:35 pm
Le PREVISIONI FATTE 15 ANNI FA DAL CANTAUTORE SCOMPARSO

«Io ho l'ambizione di non rimanere»

Lucio Dalla in un intervista del '97 su cosa sarebbe rimasto nel 21° secolo: Kafka e Senna sì, i Beatles (forse) no, Andreotti sì


CATANIA, primavera 1997 - Lucio Dalla, salendo sulle strade dell'Etna, conduce la vecchia Jaguar come i Malavoglia, residenti della vicina Aci Trezza, conducevano la loro barca, la Provvidenza: sbandate improvvise, colpi di timone, sguardo all'orizzonte. Guidano meglio i piloti delle sue canzoni (Nuvolari, Senna), ma non ho il coraggio di dirglielo. Lucio Dalla, oltrettutto, ha due attenuanti: guida di notte con gli occhiali da sole; e si e' guadagnato il mio rispetto. Per ore, in una traversa della via Etnea, ha riempito la «valigia del Duemila» messagli davanti dal Corriere . Non so se l'abbia fatto volentieri. Dalla e', per temperamento e per cultura, un impasto tra Eraclito, Hegel e un imprenditore New Age: lo spettacolo di cosa succede lo affascina; le esclusioni lo infastidiscono. Se fosse San Pietro e gli venisse affidata la direzione del traffico in occasione del giudizio universale, darebbe una mano a tutti. Se lavorasse a un casello autostradale, alzerebbe le sbarre, e andrebbe a pescare.

La conversazione si svolge su un dondolo, in un cortile stretto tra case alte. Di fronte a noi un muro rosa, chiazzato di umidità e insidiato dai rampicanti. La' dove un geometra vedrebbe alti costi di manutenzione, Lucio Dalla vede «un quadro di Burri». Lo scirocco non lo infastidisce; la luce che scompare, lo entusiasma: «Il mondo si mette a posto da solo, con l'arrivo della sera». Il che e' vero, soprattutto in Sicilia, ma rende piu' difficile un'intervista come questa, dove occorre essere piu' manichei che poeti, piu' giustizialisti che giusti, piu' intellettualmente vendicativi che umanamente comprensivi. Ma Dalla non ne vuole sapere.

Vestito alla Dalla (piedi nudi, calzoni corti, maglietta larga), con gli amici nella stanza accanto, con un disco (Canzoni) che ha venduto un milione e trecentomila copie e una tournee' imminente (partenza il 9 agosto dal porto di Marsala), Lucio Dalla guarda questo muro di Catania, e ha l'aria di essere in pace col mondo. Sto per rassegnarmi. Quando, d'improvviso, benvenuto come un refolo di vento fresco che non t'aspetti, un accenno polemico. «La gente non si rende conto che sta finendo il millennio», dice. «Ne parla, si'. Ma non se ne rende conto. Manca la componente ansiogena positiva. Peccato. Sara' come arrivare a Natale senza accorgersene. E diciamocelo: quel che conta e' la vigilia. Non c'e' niente di piu' noioso del giorno di Natale».

Ecco, ci siamo: un attacco alla religione? Nemmeno per sogno. Lucio Dalla sostiene che un personaggio che transitera' trionfalmente nel prossimo millennio e' Gesu' Cristo. «Si e' circondato di gente che contava talmente poco da non esistere nemmeno. Qualche poveraccio. Una ex-puttana. Un pescatore, che probabilmente gli puzzavano anche i piedi. Cristo ha saputo essere anacronistico, ha creato codici nuovi. Come lui, San Francesco: massmediologi assoluti, uomini che avevano capito tutto.» Lucio Dalla si ferma, si rannicchia sul dondolo, guarda ancora il muro di Catania, saluta gli amici di Cattolica, da' consigli al cantante di Fano (Armando Dolci), riverisce il signor Pippo, proprietario della sala d'incisione.

«Sopravviveranno alla fine della civilta' della parola - dice - quelli che hanno inventato qualcosa, invece di copiarlo: i tragici greci, Shakespeare. E quelli che, in tutte le epoche, hanno fiutato il cambiamento. In Italia, recentemente, Calvino e Pasolini. In centroeuropa, Kafka, Thomas Mann. Musil no: troppo classico. Robert Walser, quello della Passeggiata , si', invece. Il protagonista cammina e capisce che, dietro quell'apparente tranquillita', sta per saltare tutto in aria. Sapevi che quel libro mi ha ispirato L'anno che verrà? ». No, non sapevo che lo svizzero Walser avesse ispirato al bolognese Dalla L'anno che verrà. Sapevo, pero', che Lucio Dalla ha sempre masticato il futuro (Cosa sarà, Telefonami tra vent'anni, Futura ): ecco perche' sono qui. Annuisce.

«Futura l'ho scritta dopo una visita a Berlino. Credo fosse il 1979. Berlino ovest era tutta una luce, Berlino est tutta buia. Sono andato al Check-Point Charlie. Mi sono fermato a guardare. Poi e' arrivato un taxi. Dentro c'era Phil Collins dei Genesis, che erano in citta'. E' sceso, e si e' messo anche lui a guardare, senza dire niente. Non sono andato a parlargli, anche se mi sarebbe piaciuto. Perché non avrei sopportato che, in quel momento, qualcuno fosse venuto a parlare con me. Mentre lo tento con la valigia aperta - voglio nomi, voglio condanne impietose e promozioni rapide: sono o non sono un giornalista? - Lucio Dalla continua a rifinire il concetto di partenza, come uno scultore che non sa abbandonare la sua statua.

«Diciamo che mi piacciono le palle che rimbalzano da una parete all'altra. Mi piace la gente che e' aperta al cambiamento. Mi piacciono i siciliani e i napoletani. Mi piace Ruggiero IIº e mi piace Spielberg: e' furbo, attento e poetico. Mi piace Terminator 2 : resistera'. Rossellini e Fellini? Avranno qualche difficolta'. Chi capira' il termine "paparazzi", tra vent'anni? Ammiro invece Roberto Roversi: nel 1974 aveva gia' capito come sarebbe stato il "motore del 2000"». (A proposito di motori: promossi al terzo millennio sia Nuvolari che Senna, ma forse piu' Senna di Nuvolari). Sulla musica, Dalla ha qualche incertezza in piu': forse la frequenta troppo. Non e' disposto, pero', a giurare sulla longevita' del melodramma («Un po' fumettistico»), ne' in quella del blues («Un po' retorico»). Ha qualche dubbio su Elvis Presley e sui Beatles («L'altro giorno ho comprato un loro disco, e mi e' sembrato un po' ridicolo»), e ha molti dubbi sul marketing musicale del passato prossimo («Una follia.»).

Promuove invece Pavarotti (ma non vale, sono amici) e promuove Franco Battiato (sono amici e vicini di casa, ma vale lo stesso). Dalla lo considera un genio, e ama i suoi costumi da bagno ascellari, la sua competenza musicale, le sue passioni estemporanee. Ultimamente - dice l'amico affascinato - Battiato e' stato assiduo spettatore dei tornei di boccette nei bar di Catania). Scende la sera siciliana, e il bolognese Dalla si guarda intorno soddisfatto, mostrandomi dove stanno l'ibisco e il gelsomino: «Quando vado in un posto, io divento quel posto». Crudelmente, lo induco a parlare di politica. Anche in questo campo, Lucio Dalla non intende dire chi merita di rimanere, ma chi rimarrá. Promuove insieme persone che non ama, portatrici di idee che non condivide, e personaggi che apprezza e stima («Basta che siano testimoni del tempo»).

«Votavo comunista, e avevo fiducia in Berlinguer. Non sto dicendo che fosse perfetto: sto dicendo che mi fidavo. Ma come posso negare che Giulio Andreotti rimarrà? Ha lasciato un segno profondo nell'immaginario collettivo. Ohe', parliamo di uno che e' stato al governo per decenni e andava a ritirare un premio come il Telegatto. Dico: il Telegatto. E mentre era lì faceva lo spiritoso con Ruud Gullit.» Stessa magnanima apertura verso altri protagonisti della politica italiana. Silvio Berlusconi, per esempio, rappresenta un archetipo italiano e, comunque, «aveva tutto il diritto di entrare in politica». «E Antonio Di Pietro? Un tipico italiano del sud, protagonista e generoso. A me, Di Pietro sta benissimo. Lo stesso vale per Bossi e per Craxi. E se questi personaggi hanno provocato cambiamenti e turbamenti, tanto meglio: fanno parte dello straordinario del mondo. Non e' questione di buono o di cattivo: il fatto di esistere e', di per se', una prova di inevitabilita'. C'era anche bisogno della polvere da sparo, visto che qualcuno l'ha inventata».

E cosa dice Lucio Dalla, che ha sempre votato a sinistra, dei miti sempreverdi della sinistra? Che Guevara, per esempio, restera'? «Conosco bene il Sudamerica e posso garantire che non ci sono tracce della funzione rivoluzionaria del Che Guevara. E' solo una questione iconografica.» Poster nelle camere dei ragazzi? «Piu' o meno». Mettetevi nei miei panni: cosa si puo' dire a un uomo di sinistra che mette Berlusconi e non Che Guevara nella valigia del 2000? Niente. Lo si ascolta. «Mi piacciono i vulcani, e le schegge che vanno lontano. Mi piacere guardarli, i vulcani, come Plinio. Mi piacciono i personaggi che provocano catastrofi. Anch'io nel mio piccolo, ho cercato di provocare catastrofi. Mi hanno dato il premio Montale, ma poi ho fatto Attenti al lupo col balletto. Ricordo - quando giravo l'Italia con De Gregori e cantavo vecchie canzoni - la sensazione d'essere ormai materiale trascorso . Capivo che Dario Fo con il suo Mistero Buffo era piu' rock di me. Per esserci la volta dopo, bisogna sparire e rinascere. Ecco: io ho l'ambizione di non rimanere.» Questa e' una bugia, naturalmente. Ma ha l'aria di essere la prima, e gliela lasciamo dire.

Beppe Severgnini

3 marzo 2012 (modifica il 4 marzo 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/spettacoli/12_marzo_03/severgnini-intervista-a-dalla-1997_06d98e12-6578-11e1-8a59-8bc3a463cee3.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il Gioco dell'Oca
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2012, 11:58:18 am
Il Gioco dell'Oca

MILANO - Adesso dice che la «faccenda puzza» e la Lega è vittima del «centralismo italiano». Ma i ripensamenti complottisti di Umberto Bossi appaiono poco convinti: il post scriptum di una storia politica per ora finita. E finita male, tra familiari famelici, collaboratori astuti, piccole ambizioni.
Per l'Italia del Nord, un'altra sconfitta. La Lega, su scala nazionale, non s'è mai arrampicata molto oltre il 10%, ma ha rappresentato, per molti settentrionali, il sogno di una politica diversa: comprensiva e comprensibile, interessante e disinteressata. Il federalismo, l'ambizione confusa di poter controllare le proprie vite.

Anche chi non ha mai votato Lega, e non amava le fanfaronate di alcuni dirigenti, doveva ammetterlo: c'era passione, in certi raduni. La violenza, che ha toccato movimenti secessionisti stranieri, s'è limitata alle fantasie orobiche sui «trecentomila valligiani in armi» e alle ronde di Borghezio, finite nel nulla: troppo faticose. Perfino l'incoerenza pirotecnica di Bossi - sulla secessione, gli alleati, l'inesistente Padania - aveva, comunque, un aspetto spettacolare. Ogni tanto l'uomo ci faceva arrabbiare: annoiare, mai.

Le sue proposte sono sempre state poche e poco chiare. Ma le denunce, almeno all'inizio, erano condivisibili e arrivavano al cuore di tanti lavoratori testardi e delusi, dal Monviso all'Adriatico: la voracità della spesa pubblica, l'opacità di certi ambienti romani, il favoritismo e il clientelismo come stile di vita. Le diagnosi erano sempliciste; le soluzioni, spesso, improponibili. Ma Bossi - il capo carismatico in una politica senza carisma - le urlava comunque.

Poi, nel 2004, la malattia e la privatizzazione della Lega da parte di famigliari, alleati interessati e collaboratori in carriera: il movimento s'è fermato allora. La spinta propulsiva s'è trasferita dalla testa alle gambe, pronte ad accomodarsi al banchetto della politica. Banche improbabili, debiti e fondazioni, consigli d'amministrazione e consiglieri finanziari dai tratti lombrosiani. A Bossi e ai leghisti vien voglia di ripetere il consiglio che davano, in Lombardia, ai preti di campagna: lasciate stare i soldi, finirete imbrogliati o imbroglioni.

Noi settentrionali, per carattere e cultura, siamo cauti nel concedere credito e fiducia. Quando lo facciamo, e veniamo delusi, possiamo essere crudeli. Umberto Bossi lo sa ed è per questo che oggi si leggono amarezza e preoccupazione, dietro le giustificazioni poco convinte. Prenderà voti comunque alle prossime amministrative? Forse. Ma l'uomo che ha inventato la Lega e ha contribuito a demolire un sistema, non ha saputo costruirne un altro. Questo vale anche per il suo amico, alleato e concorrente, Silvio Berlusconi; e per la sinistra, cui la Lega ha rubato le parole d'ordine per parlare alla gente semplice. Al Nord, solo macerie politiche.

Siamo tornati indietro di vent'anni. Dopo le illusioni del 1992, le delusioni del 2012. Due stagioni italiane finiscono sulla stessa istantanea: la politica con le mani sui soldi. È un perverso gioco dell'oca e siamo di nuovo alla casella di partenza. Eppure bisogna tornare a giocare. E la Lega, che è italiana come voi e come me, dovrà fare la sua parte.

Beppe Severgnini

7 aprile 2012 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_07/severgnini-gioco-oca_d602f7a6-8070-11e1-97af-a2f25e79a811.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - GOVERNO, PARTITI E OPINIONE PUBBLICA
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2012, 04:59:40 pm
GOVERNO, PARTITI E OPINIONE PUBBLICA

Un po' di misura (e più fiducia)


Ha detto ieri Mario Monti: «Gli italiani stanno dando prova di maturità e responsabilità». È vero. Ora ci si aspetta che la classe dirigente faccia lo stesso. Gli sforzi di molti, nel governo e nelle istituzioni, sono indiscutibili. Ma altrettanto sorprendenti sono le disattenzioni.

È inopportuno agitare lo spettro della Grecia, per esempio. Gli spettri si rispettano: non si stuzzicano. Il presidente del Consiglio, dopo aver ricordato l'impressionante numero di suicidi nel Paese ellenico, ha promesso: «Noi lo eviteremo». Ne siamo convinti. Ma i suicidi non vanno soltanto evitati. Come gli spettri, non bisogna neppure evocarli.

Perché spaventare una nazione spaventata? Meglio rassicurarla. E ormai c'è un solo modo per farlo: mantenere le promesse (sui tagli delle spese pubbliche, sulla riforma del lavoro) e disinnescare la frustrazione seguita alle molte, ripetute delusioni. Una frustrazione che potrebbe diventare rabbia e che comunque alimenta spinte populiste e antisistema alla Beppe Grillo. Oggi la nazione è ferma su questo spartiacque. Il timore è che, quando ne scenderà, scenda dalla parte sbagliata. Non sarebbe la prima volta, in Italia.

Le tasse si sopportano. Le provocazioni, no. L'affermazione dei leader dei principali partiti secondo cui un taglio ai finanziamenti sarebbe «un errore drammatico» è più di un'indelicatezza. È la prova di un'ignoranza degli umori del Paese, già colpito dalla cleptocrazia imperante, dalla Lombardia alla Puglia. È populista ricordare che le famiglie sono angosciate dalle spese che aumentano e dal lavoro che non c'è? E non sopportano più le litanie di una classe politica che non vuole rinunciare a niente?

L'affermazione televisiva dell'onorevole Rosy Bindi - «A una macchina in corsa puoi chiedere di rallentare, non di fermarsi. E se non arriva almeno una tranche dei rimborsi previsti, si rischia di non arrivare alla campagna elettorale» - è stupefacente. Gli italiani sono (forse) disposti a tollerare l'intollerabile, e cioè che il «finanziamento ai partiti», cancellato da un referendum nel 1993, sia rientrato dalla finestra come «rimborso elettorale». Ma non accettano che questi rimborsi siano quattro volte le spese sostenute; né che tra queste spese ci siano hotel di lusso, voli privati e inutili fondazioni. Non sopportano, in altre parole, d'essere presi in giro.

È populista ricordare al presidente del Consiglio che avrebbe dovuto accorgersi per tempo, senza l'intervento della Guardia di finanza, che due milioni e mezzo di euro - un giovane impiegato li guadagna in duecento anni - stavano andando come «contributo pubblico» alla testata giornalistica di un latitante (fino all'altro ieri)?

Mario Monti è un uomo serio, pratico e intellettualmente onesto. Ha svolto certamente un buon lavoro, da quando è a Palazzo Chigi: gli viene riconosciuto dai sondaggi italiani, dai partner europei, dai leader in America e in Asia. Ma deve capire che i segnali pubblici sono importanti quanto i colloqui privati. Abbiamo bisogno di un leader accorto e sensibile, non di un capo che preferisce l'auspicio all'incoraggiamento. Alternative, per adesso, non ce ne sono. Alle elezioni manca ancora un anno. Il presidente del Consiglio continui il suo lavoro, i partiti rinsaviscano. Non sembrano capirlo né meritarlo ultimamente: ma abbiamo bisogno di loro.

Beppe Severgnini

19 aprile 2012 | 8:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_19/un-po-di-misura-e-piu-fiducia-beppe-severgnini_454bec10-89dd-11e1-a379-94571f4a698e.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Fazio e Saviano: potete regalare anche speranze
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2012, 05:05:32 pm
«Quello che (non) ho»

Fazio e Saviano: potete regalare anche speranze

Una seconda puntata meno cupa ma la trasmissione ha deciso di restare fedele al titolo

di  BEPPE SEVERGNINI


La seconda puntata è sembrata diversa dalla prima: forse non ottimista, ma meno cupa. «Casta Diva» in apertura, un classico Saviano sulla semiotica camorrista, un Capossela ellenico, un filologico Guccini, uno svagato Papaleo, la solita impeccabile Elisa, verdurieri e marinai. Fabio Fazio più rilassato, come un gatto che ha preso la misura delle stanze. Ma «Quello che (non) ho» ha deciso di restare fedele al titolo, e di raccontare un Paese concentrato più sulle sue mancanze che sulle sue speranze.

Diciamolo: c'era bisogno di aprire la prima puntata con i suicidi in serie? Forse l'Italia frastornata e scossa avrebbe bisogno d'altro.
Non dei trastulli beceri con cui, nel passato recente, ci siamo - o ci hanno - distratti. Ma l'empatia di cui sono capaci Fazio e Saviano, forse, poteva essere utilizzata altrimenti. I suicidi sono materiale da maneggiare con cautela: il rischio dell'autosuggestione e dell'imitazione è forte. C'era bisogno di proseguire, lunedì, con la strage di Beslan del 2004? Una delle vicende più angosciose del nostro passato recente, 186 bambini trucidati in una scuola, una macchia precoce e indelebile sul secolo già segnato dall'11 settembre. Otto anni dopo, era necessario riesumare l'orrore? Si dirà che certe vicende vanno ricordate affinché non si ripetano; che i bambini sono troppo preziosi per non difenderli; che, per farlo, servono anche le parole.

Saviano: «La mafia ha saccheggiato le nostre parole»

È vero. Ma è altrettanto vero che, in ogni momento, siamo in equilibrio tra la gioia di vivere e l'orrore nella vita: e ogni tanto è bene ricordarci della prima. Questo è uno di questi momenti.

L'Italia è cambiata più in sei mesi che negli ultimi sedici anni. E potrebbe non bastare aver capito - tardi - che occorre lavorare di più e rubare di meno, perché le bufere arrivano da lontano. La televisione non dev'essere per forza consolatoria; ma neppure obbligatoriamente ansiogena.

Spero, con questo, di non essere classificato come un detrattore di Saviano, perché non lo sono. Ho voluto conoscerlo, in autunno, durante il soggiorno americano; e in precedenza, sul Corriere, avevo scritto: se ha una colpa, è avere avuto successo (una cose che il prossimo difficilmente perdona). Per questo vorrei ricordargli ciò che già sa. L'Italia, con fatica, sta cambiando; e dovremmo provare a cambiare anche noi che la raccontiamo. Deve esistere una via di mezzo, in questo benedetto Paese: non possiamo essere condannati a scegliere tra la marcia funebre e la tarantella, tra l'angoscia e la rimozione.

Neppure autori bravi e navigati come Michele Serra e Francesco Piccolo sono riusciti ad allontanare il programma da questi scogli.
«Quello che (non) ho» (2012) somiglia molto a «Vieni via con me» (2010). Ma quello era lo strappo necessario in una televisione conformista e schierata; questo è la mano in faccia di chi piange, e invece dovrebbe guardare avanti.

Saviano: «Ecco i legami Lega-ndrangheta»

Twitter, ancora una volta, ha mostrato la sua capacità di intuizione collettiva. Anche qui ci sono - a imitazione dei media tradizionali - le bande preventivamente schierate: i santificatori, per cui Fazio e Santoro non possono sbagliare nulla; e i demolitori, per cui i due sono manipolatori di folle, qualunque cosa facciano (anzi: prima che l'abbiano fatta). Ma l'etichetta #quellochenonho, soprattutto lunedì, mostrava una diffusa perplessità. Molti, pur ammirando gli interpreti, dubitano dello spartito.

La seconda puntata, come abbiamo detto, ha corretto in parte questi errori. La trasmissione «senza gioia» (Aldo Grasso) non è diventata, improvvisamente, divertente; non poteva né voleva farlo. Ma l'impressione è che autori, conduttori e ospiti abbiano capito: serenità non è sinonimo di disimpegno. Neppure per la sinistra classica, abbondantemente rappresentata in trasmissione.

Storture e assurdità ci sono ed è giusto raccontarle, visto che troppi in Italia hanno interesse a nasconderle. Ci sono nella politica ottusa (Lerner/Travaglio) e nella finanza ingorda (Paolo Rossi), nell'Europa sorda (Gramellini) e nella violenza domestica (Littizzetto, che per una volta poteva evitare le escursioni anatomiche). Ma non è il caso di abbattere una nazione abbattuta. Ci pensano già i cattivi. I buoni, soprattutto se hanno una telecamera puntata addosso, cerchino di rialzarla, e la convincano a ripartire. Si può fare.

Beppe Severgnini

16 maggio 2012 | 11:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/spettacoli/12_maggio_16/fazio-saviano-severgnini_0bc1a5dc-9f15-11e1-b258-f2fcbb76be58.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Grazie Londra: Una lezione ai pessimisti
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2012, 04:22:39 pm
Questa Olimpiade è stata un successo, per la Gran Bretagna

Grazie Londra: Una lezione ai pessimisti

La capitale aveva voglia di offrire un party al mondo. E quando si tratta di party, feste, cerimonie, gli inglesi non hanno rivali


Sono trascorse solo due settimane, li ricordate di sicuro. Quelli per cui l'Olimpiade sarebbe stata un disastro. Quelli convinti che Londra sarebbe collassata nel traffico. Quelli che, dal forfait della società incaricata della sicurezza, avevano tratto lugubri presagi. Quelli per cui la vecchia Inghilterra, per condizione e per definizione, non era preparata a ospitare i Giochi moderni. Quelli come Mitt Romney, per esempio.

Ma non c'era solo il candidato repubblicano, impegnato nel suo Gaffe Tour tra Europa e Medio Oriente, a dubitare della riuscita della XXX Olimpiade. C'erano i media di mezzo mondo, l'opinione pubblica europea, i tanti italiani che conoscono solo due sentimenti: disfattismo ed euforia. Sconfessato il primo dai fatti, ora si sono lanciati sulla seconda, senza timore del ridicolo. Concediamo a tutti un'attenuante: gli stessi inglesi, alla vigilia, non sembravano convinti. «Rescue us from the nightmare», salvateci dall'incubo, titolava una corrispondenza del New York Times da Londra. Un'insicurezza che non costituisce una novità.

I neo-inglesi post-Diana (1997) sono emotivi: sentono l'ansia della vigilia, piangono sul podio e davanti al televisore, depongono la birra e abbracciano il vicino. Quando si parla di sport, poi, sembrano stretti fra Charles Dickens and William Thackeray: Great Expectations e Vanity Fair, grandi aspettative e fiera delle vanità. Europei e Mondiali di calcio, torneo di Wimbledon, anche questa XXX Olimpiade. Prima che l'evento abbia inizio, squadre e campioni del Regno Unito sono sommersi da un fiume di elogi, complimenti, eccitazione, aspettative. I media - tutti, non solo i tabloid - passano dall'ironia al superlativo. I concorrenti britannici, comprensibilmente, diventano ansiosi, e falliscono. Stava accadendo anche stavolta. «Our greatest team», la nostra squadra più grande. Calma. Non era il marketing che doveva deciderlo. Erano i risultati e i risultati - complimenti! - sono arrivati.

Questa Olimpiade è stata un successo, per la Gran Bretagna, nonostante le spasmodiche aspettative sportive, e grazie ai dubbi organizzativi: hanno creato la giusta tensione. La nazione aveva deciso di lasciare una traccia e un'eredità; la capitale aveva voglia di offrire un party al mondo. E quando si tratta di party, feste, sfilate e cerimonie, gli inglesi non hanno rivali. Nessuno balla, sballa, marcia e recita come loro. Il Regno Unito, sfruttando il fattore-campo e una meticolosa preparazione, è diventato la terza potenza atletica mondiale. Un piazzamento da tempo abbandonato sul podio politico, militare, economico. La partenza lenta - contrapposta alla quella italiana, lanciata - rappresenta la conferma di uno stereotipo, e non è dispiaciuta agli stessi inglesi. Una forma di understatement, seguita da un'ascesa trionfale: almeno sessanta medaglie. The Guardian si spinge a scrivere: il periodo tra le ultime due Olimpiadi londinesi - 1948-2012 - verrà ricordato come The Age of Decline, l'età del declino; e ora il declino è finito (esageràti! Anzi: un-British).

Il successo, però, non si discute. Bolt, Boyle, Bond, Brenda e mister Bean: tutti i campioni in campo, nessuno ha deluso. Esibizioni mastodontiche, patriottismo spavaldo? Lasciamo queste cose a cinesi e americani, sembra dire la XXX Olimpiade che si chiude. Noi siamo inglesi, rivoluzionari mascherati. Noi vinciamo con i rifugiati somali e la nipote della regina, mettiamo in scena il National Health Service Musical e abbiamo una nuova Bond Girl del 1926. Noi vi ricordiamo che sono stati gli industriali, gli operai, i cantanti, gli attori e gli immigrati caraibici a fare del Regno Unito ciò che è (i banchieri moderni non sono ancora riusciti a disfarlo). Mentre il mondo pensa che noi aspettiamo il tè della cinque, noi cambiamo il mondo. Tra le tante medaglie d'oro, ce n'è una che non è stata assegnata: perché il vincitore era troppo evidente. Londra ha vinto la gara dell'eccentricità pratica, un ossimoro di cui va orgogliosa. Gare ben organizzate in luoghi nuovi (Olympic Park) e posti classici (Wimbledon, the Mall, Hyde Park, Horse Gards, Lord's Cricket Ground). Traffico scorrevole, anche grazie agli inglesi fuggiti in campagna, all'estero o sul divano. Tempo sorprendente (sole in agosto!).

Trasporti pubblici all'altezza e 70 mila volontari entusiasti (molti addirittura informati). Soldati gentili, felici di poter usare l'esperienza accumulata in Irlanda del Nord, Iraq e Afghanistan davanti a frotte di turiste mediterranee. Edifici bizzarri (Orbit), un sindaco-clown (Boris), colori alcolici, orrendi souvenir (informate gli stilisti dei Giochi che non siamo nel 1982). Folla felice ovunque, dopo la revisione di tante inutili precedenze («Olympic Family»! Solo i Sopranos usano il sostantivo con altrettanta disinvoltura). La fiamma olimpica, che stasera si spegne, non ha acceso solo il braciere. Ha acceso l'eccitazione e la gioia di stare insieme. Londra - città viziata da grandi eventi di ogni tipo - si è accorta che un'Olimpiade è più importante, più vasta, più eccitante, più originale. Ogni quattro anni mostra al mondo come il mondo potrebbe vivere insieme, ma non riesce (nemmeno ci prova).

Un'Olimpiade riuscita è una festa mobile, a moveable feast: più Hemingway che Dickens. Devo dirlo ai miei amici inglesi, quando rientreranno dai festeggiamenti (non oso pensare in quali condizioni). Solo due settimane: da Gosh-we'll-never-make-it! (oddio, non ce la faremo mai!) a Wow, we made it!, ehi, ce l'abbiamo fatta! Anche questa, se vogliamo, è la novità. Un tempo, davanti a un'impresa difficile, gli inglesi si preoccupavano; davanti a un'impresa riuscita, erano felici. Ma non lo davano a vedere: né prima, né dopo. Oggi non si nascondono più: tremano (prima), fremono (durante), gridano (dopo). Noi con loro: complimenti, e grazie per la bellissima festa.

Beppe Severgnini

12 agosto 2012 | 9:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://olimpiadi.corriere.it/2012/notizie/12-agosto-grazie-londra-una-lezione-ai-pessimisti-beppe-severgnini_a5ffea7e-e447-11e1-aec0-5580338e796b.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Insulto dunque Navigo
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2012, 10:30:55 am
Insulto dunque Navigo

Pierluigi Bersani ha ragione, ma sbaglia aggettivo. Chi approfitta di Internet per insultare gli avversari non è «fascista»: è un maleducato. Immaginate, tuttavia, due leader di partito che, di questi tempi, si danno del maleducato. Qualche anziana maestra capirebbe, ma pochi altri.

«Fascisti!». Nel grido bersaniano contro Grillo & C. c'è molta autobiografia. Quarant'anni fa, quando la chiesa comunista faceva sul serio, il vocabolo era una scomunica. «Fascista!». E qualsiasi discussione - dalle assemblee sindacali ai collettivi studenteschi - si chiudeva lì. La cosa grave è che a quei tempi i (neo)fascisti c'erano davvero, ed erano pericolosi; ma degli aggettivi, mussolinianamente, se ne fregavano.

Detto ciò, Bersani ha ragione. L'urlo di chi non sa più parlare sta diventando insopportabile. L'avversario non si contesta più: lo si demolisce. Non c'è solo Beppe Grillo e il suo popolo votante (in genere meno esagitato di lui). Il dibattito sui quotidiani, in questi giorni, è sconcertante; e dobbiamo ringraziare l'estate, altrimenti il tutto verrebbe amplificato in televisione.

Considerare l'insulto come la forma più genuina di democrazia, ed etichettare come pavido chi cerca di essere ragionevole, non è solo irritante: sta diventando rischioso. Se il capo di un movimento, il segretario di un partito e noti commentatori politici usano l'anatema come normale mezzo di discussione, molti si sentiranno autorizzati a fare altrettanto. Anzi, essendo semplici cittadini, andranno oltre. «Se nei comizi e sui giornali i capi si trattano a vaffa» pensano «allora alé, liberi tutti».

Liberi di insultare gli avversari, di offendere chi la pensa diversamente, di chiamare vigliacco chi prova a essere ragionevole. È un trucco, questo, che nei bar d'Italia conoscevano bene, e un tempo finiva in un brindisi e una risata. La nuova cattiveria invece aleggia a lungo, come un alito pesante, e accompagna un Paese stanco verso elezioni importanti. E mentre i capi, i segretari e gli editorialisti si incrociano nelle serate estive, e si sorridono nel gioco delle parti, i loro epigoni trasportano il livore accumulato nei social network, sui blog e nei forum.

La moderazione sta diventando un problema per tutti i siti: insulti, minacce e accuse volgari sono all'ordine del giorno (anche su « Italians », presente su Corriere.it dal 1998, abbiamo dovuto disabilitare i commenti). Quando vengono affrontati, alcuni si scusano, e ammettono di aver esagerato. Ma la maggior parte rivendica con orgoglio la propria violenza verbale. C'è da stupirsi, se per dire «non sono d'accordo» il capo grida «siete degli zombie, vi seppelliremo vivi!» e il giorno dopo «fallito, amico dei piduisti»?

Purtroppo c'è chi non ha capito che Facebook e Twitter - per citare le due piattaforme più popolari - sono mezzi di comunicazione di massa, non balconi per conversazioni private. Fino a pochi anni fa, strumenti tanto potenti erano riservati ai professionisti della comunicazione: coloro che avevano accesso a un giornale, a un microfono, a una telecamera. Oggi chiunque può diffondere un'opinione. Questo, naturalmente, è bene. La libertà in questione ha però dei limiti: nelle buone maniere, nel buon senso e nel codice penale. E qualcuno non lo capisce. Questo, ovviamente, è male.

Sia chiaro: una modica quantità di provocatori e molestatori è fisiologica. Eric Schmidt, presidente di Google, ha detto all'Aspen Ideas Festival in giugno: «Facciamocene una ragione: l'uno per cento della popolazione è pazzo. Ha vissuto nel seminterrato per anni, e la mamma gli portava ogni giorno da mangiare. Due anni fa la mamma gli ha regalato la connessione a banda larga. Mi chiedo, tuttavia, se sia una consolazione. E se non sia il caso, a questo punto, di parlare con le mamme».

Non servirebbe, probabilmente. La follia italiana supera l'uno per cento, e appare purtroppo lucida. La faziosità che, da anni, gronda dai media ha ormai allagato la vita quotidiana. La protervia con cui la classe politica italiana ha trattato i cittadini ha demolito gli argini. C'è da chiedersi, a questo punto, come sarà il raccolto.

Beppe Severgnini

27 agosto 2012 | 8:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_agosto_27/Insulto-dunque-Navigo_b8ea702c-f005-11e1-924c-1cb4b85f5a80.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Signori, una buona notizia.
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2012, 02:29:25 pm
Signori, una buona notizia. Anzi, ottima. Le cosiddette “stragi del sabato sera” sono diminuite. Molto diminuite. Nei primi otto mesi dell’anno 244 incidenti, con 154 morti e 407 feriti; e spesso non si tratta di giovani. In Romagna – in passato una delle zone più colpite – solo 15 incidenti, con 5 vittime e 24 feriti. “Una volta – scrive l’Asaps (Associazione Amici Sostenitori Polizia Stradale) – questo era il bilancio di un fine settimana qualsiasi, non di tre quarti d’annata”.
Capire perché è accaduto è fondamentale. Contiene infatti una lezione utile, anche lontano dalle strade.
Per cominciare, l’opinione pubblica ha reagito. Si sono mosse associazioni, scuole, gruppi di genitori, perfino – udite, udite – i partiti politici, senza litigare. I media – il “Corriere della Sera” ha fatto la sua parte – hanno tempestato i governanti di turno con proteste, denunce, suggerimenti. L’Asaps, fondata da un gruppo di giacche blu della Stradale, ha continuato a fornire dati e proporre soluzioni. Scrive Giordano Biserni (spero l’abbiano fatto commendatore): “Erano stanche di suonare un campanello alle 5 della mattina per dire a un papà e a una mamma che il loro ragazzo o la loro figlia non sarebbero mai più tornati a casa”.
Le istituzioni – tenetevi forte – hanno risposto. Prima una legge che stabilisce il divieto assoluto di alcol per i neo-patentati, con conseguenze pesanti per i trasgressori. Poi la determinazione di applicarla. Parlate con i ventenni: vengono fermati continuamente e sottoposti al test dell’etilometro (grazie polizia, viva i carabinieri!). Poiché i nostri ragazzi non sono stupidi, oggi fanno la cosa ragionevole: quando bevono, non guidano. Quando guidano, non bevono. Come nel resto d’Europa: né più né meno.
I controlli – diventati la regola, non l’eccezione – funzionano anche con gli adulti. Uno ci pensa prima di mettersi in macchina dopo quattro birre, due vodke o una bottiglia di vino. Non siamo diventati improvvisamente responsabili e pieni di senso civico. Conosciamo la norma, temiamo la sanzione, rispettiamo la norma. Semplice.
La cosa sconvolgente delle recenti cronache politico-giudiziarie è questa: chi è accusato di aver rubato teme, tutt’al più, di perdere il posto. Non ha paura di dover finire in galera: i contorsionismi della giustizia italiana lo impediscono. La politica gongola, e si auto-assolve. La foto di dieci pubblici amministratori in divisa carceraria sarebbe invece un grande spot contro sprechi dolosi e corruzione. In America, accade. In Italia rischia di andare in galera il collega Alessandro Sallusti: per un articolo. E’ il colmo.
Ricordate cos’è accaduto sulle strade. L’Italia e gli italiani non sono irrecuperabili. Chi dice così è perché non vuole recuperarci. Bisogna capirlo, non ha tempo: deve far bisboccia con gli amici. Con i nostri soldi, s’intende.

Beppe Severgnini

da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La speranza di sconfiggere ansie e paure
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2012, 05:54:49 pm
ELEZIONI USA

La speranza di sconfiggere ansie e paure


Ascoltate di nuovo il discorso della vittoria di Barack Obama. Anzi, riguardatelo: il presidente parla anche con le pause. E sono le pause a dare il ritmo alle frasi, alle relazioni e alle nazioni. L'America, negli ultimi anni, ha perfino esagerato: dopo aver rallentato, ha rischiato di fermarsi. È stato bello esserci, al McCormick Place di Chicago, mentre il suo presidente-pilota riaccendeva il motore. Barack Obama è stato bravo, non soltanto con le parole. Riproporre è più difficile che inventare: lo sanno gli innamorati e i governanti. Lo stato nascente non dura all'infinito. L'innamoramento diventa matrimonio, la rivoluzione diventa istituzione, il movimento politico diventa governo, compromessi e fatica quotidiana. L'America, che veniva da anni terribili, dal 2008 ha conosciuto anni faticosi. Il presidente è stato bravo, in questa campagna elettorale, perché ha saputo trasformare l'ansia in speranza, la paura in voglia, l'incertezza in un nuovo progetto. Essere rieletto in un periodo di incertezze economiche e disoccupazione è un capolavoro che è riuscito solo a Franklin Roosevelt. Un altro democratico sensibile, ma non sentimentale.

L'America ama il nuovo. È la sua forza ed è la sua tentazione. Il nuovo, stavolta, si chiamava Mitt Romney. Un mistero educato e pettinato che, dopo aver detto tutto e il contrario di tutto, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Barack Obama ha dovuto battersi non tanto contro di lui - avversario modesto, tutto sommato - ma contro la passione nazionale per il cambiamento. Palingenesi qui si chiama starting over : ed è un'espressione che capiscono anche i bambini.

Nuova avrebbe potuto apparire questa destra preconfenzionata, ma il presidente rieletto è stato bravo a svelarne la debolezza di fondo. Una destra che rovescia nella campagna elettorale centinaia di milioni di dollari di provenienza indefinita, e si affida alla lobby del gioco d'azzardo e delle armi, non è matura per guidare il Paese tra le rapide del futuro. Se i padri nobili del partito repubblicano vivono tra Wall Street e il palazzo di Donald Trump, meglio un partito orfano.

Il benessere delle nazioni non è la conseguenza preterintenzionale di qualche buon affare riuscito. È sforzo, regole e progetto: Barack Obama ha dimostrato di averne uno. È vero. È apparso spesso timido a incerto, in questi quattro anni. Non martedì, su quel podio, nel suo nuovo abito blu. Sa di non dover più rispondere, finalmente, alla parte più impaziente dell'elettorato. Deve rispondere alla storia, nel secondo mandato. E la storia lo giudicherà per quanta felicità saprà dare alla sua gente. Happiness , c'è scritto anche nella Dichiarazione d'Indipendenza. Non è un diritto ottenerla, in America. È un diritto crederci e poterci puntare. L'America multicolore ha sconfitto - forse definitivamente - l'America monocromatica. Ha vinto una giovane donna con la pelle scura, e può festeggiare coi figli nella casetta di città. Ha perso un uomo bianco di mezza età, e dovrebbe riflettere, nella sua villa dei sobborghi, prato rasato e figli lontani. Conosco facoltosi americani che dicono: «Romney? Meglio per il nostro conto in banca, forse. Ma peggio per la nazione. E il conto in banca non è tutto. Vedere gli altri soffrire, per esempio, ha un costo. E non vogliamo pagarlo». Non è socialismo: è buon cuore, buon senso e lungimiranza. L'America nuova ha battuto un'America già vista. L'unico modo per ritrovare le chiavi del futuro è coinvolgere tutti, riducendo l'ansia e la paura. Perdere il lavoro e di conseguenza l'assistenza sanitaria, per esempio, è una barbarie. Gli americani più istruiti, che in maggioranza hanno votato democratico, l'hanno capito: le lezioni europee non sono tutte sbagliate, anzi.

Il presidente Obama è stato chiaro, su quel palco. In America - nell'America che guarda avanti - non conta chi sei, cosa credi, cosa possiedi, chi ami, di che colore hai la pelle. Conta la voglia di fare e la capacità di reagire. La fatica, la lealtà e la generosità pagano. Si governa e si vive anche col cuore: testa e pancia, lasciate sole, combinano troppi guai.

Beppe Severgnini

8 novembre 2012 | 8:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_08/speranza-di-sconfiggere-ansie-paure-severgnini_b8467800-296c-11e2-b082-5e60eba3a55f.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Lettera aperta a chi oggi va in piazza
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 05:40:21 pm
Studenti e società

Lettera aperta a chi oggi va in piazza

Un ragazzo di 20 anni non ha avuto il tempo di combinare i disastri che vediamo ma non deve protestare con violenza

L'editoriale di  BEPPE SEVERGNINI

Sia chiaro. Se mai usciremo da questo pantano, sarà per merito dei nostri ragazzi. La generazione dei nostri genitori, nata nella prima metà del XX secolo, ha ricostruito l'Italia. La nostra - i numerosi, loquaci, egocentrici figli del boom, nati tra il 1945 e il 1965 - l'ha arredata in modo da starci comoda. Ma la fattura, adesso, è in mano ai nostri figli e nipoti, sotto forma di debito pubblico (prossimo alla soglia siderale di duemila miliardi), e non solo.

Non è l'apologia astuta di una nuova generazione. È un incoraggiamento per chi non ha colpe. Non ha colpe e, diciamolo, ha ragione di protestare. Un ragazzo di vent'anni non ha avuto né il tempo né il modo di combinare i disastri che vediamo. Ma non deve protestare in modo violento, quindi sbagliato. Sbagliato tre volte. Perché pericoloso. Perché inutile. Perché controproducente.

Perché controproducente? Perché i coccodrilli italiani, acquattati dentro la solita melma, non aspettano altro. Una scusa, un'occasione per dire che non serve cambiare. Un pretesto per ripetere che le carenze nazionali - dal parlamento alle Regioni, dagli appalti ai servizi pubblici - sono le inevitabili imperfezioni di una società vitale. Non è vero: i ragazzi sanno distinguere tra fisiologia e patologia, anche se non studiano medicina. Perché inutile? Perché con la violenza, in democrazia, non si risolve nulla e si complica tutto. Se chi pensa d'aver subito un torto prende un bastone, torniamo all'età della pietra. Eppure è su questo sillogismo - «sto male, quindi spacco tutto» - che si regge parte della protesta. Una strada, una ferrovia, una riforma, un finanziamento mancato: se accettassimo l'idea che il dissenso giustifica la violenza, buonanotte Italia.

Perché pericoloso? Perché ci siamo già passati, negli anni Settanta. S'è cominciato a tollerare le minacce in assemblea e a giustificare caschi e spranghe in corteo; si è finiti ad asciugare il sangue per strada. Un pessimo momento economico, una politica distante, una classe dirigente insensibile, una nuova generazione prima illusa e poi frustrata: gli elementi ci sono tutti, oggi come ieri.

Questi discorsi non piacciono ai professionisti della catastrofe. I loro partiti, i loro giornali e i loro siti vivono di allarmismo cupo. Eccitare i giovani alla violenza - o giustificarla, fa lo stesso - è gravissimo. Dopo una trasmissione televisiva ho parlato con Iacopo, 24 anni, bergamasco, studente di medicina a Parma: ho rivisto lo sguardo e ho risentito gli slogan che hanno messo nei guai tanti giovani connazionali, trent'anni fa. Nelle università, nelle scuole, sui treni e nei bar ho discusso con moltissimi altri ragazzi, quest'anno. La maggioranza ha buon senso, ma rischia di essere scavalcata e derisa, come le vicende di piazza ogni volta dimostrano. Mi ha colpito l'incontro con una giovane leader studentesca romana, che chiamerò Lucia, per non metterla in difficoltà. Raccontava la frustrazione di trovarsi schiacciata tra un mondo di adulti ipocriti e di coetanei aggressivi, in cerca di titoli e servizi nei telegiornali. Se non aiutiamo ragazze e ragazzi come lei, stiamo scrivendo la ricetta della tragedia che verrà.

Aiutare vuol dire: non tollerare la violenza, mai. Ma semplificare l'ingresso nel mondo del lavoro, aumentare le risorse all'istruzione e alla ricerca, coinvolgere una nuova generazione in ogni decisione. Mai sprecare una buona crisi. In momenti come questi bisogna investire; non quando tutto va bene. Quello che vediamo - il lavoro latitante, la politica ingorda, le istituzioni rituali e goffe - non è bello e non è giusto. I nuovi italiani, ripeto, hanno motivo di lamentarsi. Ma imparino a distinguere: alcuni adulti sono interessati solo a proteggersi («diritti acquisiti» è un'espressione da mettere fuori legge). Ma altri - perché hanno figli, un cuore, una coscienza - hanno capito. E sono pronti ad aiutare. Chiamatelo egoismo lungimirante, se volete.

Ivano Fossati ha cantato «la fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato». Un'affermazione poetica e paradossale, ma corretta. Non sono infatti le difficoltà ad affondare le generazioni, gli imperi, le società, le famiglie. Sono invece i vizi, l'arroganza, la sufficienza, la falsità. Non è un'attenuante per noi. Ma potrebbe essere una piccola consolazione per i nostri ragazzi. Quelli che rifaranno l'Italia, se non si lasciano ingannare dai violenti tra loro e dagli irresponsabili tra noi.

24 novembre 2012 | 10:49

da - http://www.corriere.it/cronache/12_novembre_24/lettera-aperta-chi-va-in-piazza-severgnini_a1baea80-3614-11e2-bfd1-d22e58b0f7cd.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Giovani, la provincia è bella e narcotica.
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2012, 05:04:12 pm
 Giovani, la provincia  è bella e narcotica.

Andate via per un po'...

BEPPE SEVERGNINI
05/12/2012

 
Quasi 300 mila followers ne fanno oggi il giornalista più seguito d'Italia, il più british, il più fulminante. Piace ai giovani, eppure Bsev dice di sè «sono quasi vecchio». Beppe Severgnini, ad un passo dai 56 anni, giornalista di Crema decollato verso grandi capitali, è in tour per presentare “Italiani di domani. Otto porte sul futuro”. Sarà a Vicenza domani per incontrare studenti e lettori, molti dei quali lo seguono da quando era corrispondente da Londra per “Il Giornale” , poi inviato, corrispondente da Washington per “ La Voce”, e dal 1995 al Corriere della Sera. Dal 1998 anima il forum italians.corriere.it che proprio ieri ha festeggiato i 14 anni.

Come sono dal vivo i giovani ai quali si rivolge nel libro?
Mi hanno lasciato sbalordito. Sono entusiasmanti e non uso in genere i superlativi. Segretamente lo speravo. Non parlo il loro linguaggio, non faccio il finto giovane perchè ho capelli metallizzati. Non uso toni paternalistici e non faccio autobiografia. Con un linguaggio chiaro e asciutto, li trovo su alcuni terreni comuni: i social network, la musica, il guardare all'estero. Questo libro nasce dopo tre discorsi all'università a Ca' Foscari, a Pavia e al Politecnico di Milano: non solo hanno ascoltato, hanno risposto con passione.

Un libro terapeutico?
Le grandi riforme partono da piccole rivoluzioni private. E quindi nel 2005 con “La testa degli italiani” mi sono occupato di fisiologia nazionale; nel 2010 con “Berlusconi spiegato ai posteri” di patologia nazionale. Ora con “Italiani di domani” proviamo a vedere che terapia si può applicare per uscire da questa situazione, a partire dai propri talenti, dalla riscoperta della tenacia come qualità che non passa di moda. Non diminuirò la disoccupazione così, ma qualche consiglio per darsi da fare c'è.

È lo sguardo internazionale che oggi fa la differenza, come il suo?
Sono 30 anni che faccio il giornalista e ho viaggiato, avendo la fortuna di cogliere insegnamenti. In questo senso gli Stati Uniti sono un Paese che non è il paradiso ma insegna molto in termini di tempismo, università, tecnologia. Là guardano sempre al futuro, noi italiani siamo tendenzialmente conservatori. Ha vinto Bersani infatti e non Renzi, per stare in casa Pd. Ha vinto una scelta rassicurante contro una spiazzante.

Giovani conservatori e choosy?
No. Ho twittato l'altro giorno la foto di una ragazza, ingegnere uscita dal Politecnico, che si veste da tigre per un evento aziendale pur di lavorare. Questo va bene. Va meno bene, per me, quella che si sveste per altri eventi a Milano... Direi che i ragazzi italiani dovrebbero essere meno legati per alcuni anni ai propri luoghi, dovrebbero scappare e poi tornare, lo dico alla voce “terra” nel libro che è un invito a lasciare la propria... Le nostre città possono essere così gradevoli da diventare narcotiche.

Vicenza, Crema, Parma sono delle gabbie?
Sono luoghi dove si vive stupendamente, mai cacciati via di casa da mamma e papà, l'auto subito: l'aperitivo con gli amici può diventare il fulcro della giornata, il fine e non la fine. Deve essere una ciliegina dopo una giornata piena di eventi e impegno, non il rito.

Delle otto “porte” sul futuro qual è la più difficile da aprire?
Quella della tolleranza. Hanno ragione i ragazzi ad essere arrabbiati per quello che vedono, penso a quanto di immondo ha prodotto la politica... Non sono le crisi che affondano le generazioni ma la pigrizia e la sciatteria, anche se qualche volta imparare il compromesso è necessario. E poi il tempismo non è facile da capire: abbiamo ragazzi in gambissima che non sanno distinguere chi vuole sfruttarli da chi vuole aiutarli. Sono una generazione di generosi: proprio oggi (ieri, ndr) è stata presentata una ricerca sui nati tra il 1981 e il 2001 dove emerge che hanno fiducia nei loro genitori, che l'80 per cento pensa che da qualche parte si arriverà, anche se solo il 20 per cento crede che potrà essere migliore dei padri.

Una generazione senza colpe, lei scrive a proposito della discesa in piazza degli studenti.
Come fa uno di 22 anni ad aver colpa di quanto c'è attorno? Non ne ha avuto il tempo. Però non deve cedere alla tentazioni: ho conosciuto una trentenne che di mestiere fa tesi di laurea. Le ho detto: sei complice di un reato. Lei: devo campare, non sai quanta richiesta c'è. Spero sia ingenuità, ma se poi le tesi le pagano i genitori...
Lavoro: è il tema centrale? Qui in Veneto il lavoro coincide con l'identità.
È una forma raggiungibile di felicità in terra:io sono molto fortunato in questo col mestiere che faccio. Ai giovani dicono: capite il vostro talento, questo dà valore aggiunto in un mercato così difficile.

Come voteranno questi ragazzi alle prossime elezioni?
Quelli di centrosinistra Pd o Sel, quelli di centrodestra non sanno dove sbattere la testa. E se non sono nè di qua nè di là rappresentano l'elettorato mobile che sente molto la sincerità o la passione della proposta politica. A Milano ero con Michael Slaby, 35 anni, lo stratega digitale della campagna di Obama: dice che gli elettori sentono subito l'ipocrisia e la falsità. E nella politica italiana ce n'è proprio tanta.

DA - http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/179_interviste/440175_giovani_la_provincia__bella_e_narcotica_andate_via_per_un_po/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il Professore «tradotto»
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:51:19 pm
Il difficile equilibrio delle parole

La convenienza e la salita

Il Professore «tradotto»

Le espressioni-chiave del bilancio di fine anno


Breve frasario montiano-italiano, resosi necessario dopo la conferenza-stampa di fine d'anno, in cui s'è detto molto ma non s'è capito altrettanto.

Convenienze
«Mi è abbastanza chiaro quale sarebbe la mia convenienza e dove mi porta la mia coscienza».
ovvero
Speriamo di non essermi giocato il Quirinale.

Eccetera, eccetera
«La convenienza è non fare strettamente niente, e sento dire che un giorno potrei accedere a eccetera eccetera eccetera...».
ovvero
Un eccetera eccetera eccetera con i corazzieri! Lo so, lo so: me l'hanno detto sia Bersani sia Napolitano.

Assalti alla diligenza
«È un imperativo morale, non so in che misura ci sarà un seguito concreto»
ovvero
Ma avete visto i centristi? Che maniere! Per l'assalto alla diligenza, nel Far West, si aspettava almeno che fosse partita.

Arrabbiature
«Devo dire una parola di gratitudine ma anche di sbigottimento nei confronti del mio predecessore, Silvio Berlusconi»
ovvero
Vorrei non farlo arrabbiare, ma come si fa?

Comprensione mentale
«Faccio fatica a seguire la linearità del suo pensiero (...) Un quadro di comprensione mentale che a me sfugge»
ovvero
Non ci sta più con la testa.

Fioriture
«Una fioritura sulla quale il centrodestra ha una fantasia molto più pregevole del centrosinistra»
ovvero
Nel Pdl ormai ne combinano di tutti i colori.

Che ti è successo?
«Le parole pesano anche in Parlamento e ne deve essere cosciente chi le dice e chi le ascolta»
ovvero
Onorevole Alfano, ma cosa le è successo?

Citofonare «partiti»
«L'intesa era: voi occupatevi delle questioni economiche e noi partiti ci occupiamo delle istituzioni»
ovvero
Mancate riforme? Niente modifica della legge elettorale? Io che c'entro? Parlate coi partiti.

Filarsi l'Italia
«Abbiamo avuto per anni un governo italiano che è stato in seria, seria difficoltà a far sentire la propria voce in Europa»
ovvero
Tremonti, diciamolo, non se lo filava nessuno.

Costi e festini
«Il più grande costo della politica non è quello dei festini...»
ovvero
Comunque, immagino, dovevano costare parecchio.

Meglio di no
«Sto per emettere un'agenda erga omnes»
ovvero
Chi ci sta, ci sta. Se Berlusconi e Vendola non ci stanno, meglio.

Il pallone
«Non sono super partes, ma extra partes»
ovvero
Io vi presto il pallone. Giocate, divertitevi, menatevi tra di voi. Poi mi fate sapere.

Cosa aspettate?
«Se una o più forze politiche con credibile adesione a quest'agenda manifestassero il proposito di candidarmi a presidente del Consiglio, valuterei la cosa, ecco...»
ovvero
Avanti, cosa aspettate?

Sono qui
«A nessuno si può impedire di fare questo e, se permette, a nessuno diverso da me si può poi dare la decisione se eventualmente io sarei disponibile o no»
ovvero
Insomma, è un'ora che ve lo dico: io sono qui.

Imparzialità
«Non mi sento minimamente non terzo»
ovvero
Mi sento imparziale.

Addio, Colle
«La sua domanda precorre tempi che probabilmente non si verificheranno mai»
ovvero
L'ho già detto: per il Quirinale la vedo dura, a questo punto.

Se proprio insistete...
«Sarei anche un pronto ad assumere, un giorno, forse, se le circostanze lo volessero, le responsabilità che mi venissero affidate dal Parlamento...»
ovvero
Certo, se insistono...

Pink&Green
«Nell'agenda Monti c'è molto pink e molto green»
ovvero
Vedete quanto sono attento, ragazze? Vedete come sono ambientalista, ragazzi?

Calvario a Natale
«Non credo che servano "discese in campo", espressione che trovo orrenda. Abbiamo bisogno semmai di "salite in politica"»
ovvero
La politica è una cosa alta e difficile, signori! Diciamo pure, un calvario. Ma a Natale uno, a queste cose, non ci pensa.

Beppe Severgnini

24 dicembre 2012 | 10:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_24/convenienza-salita-professore-tradotto-beppe-severgnini_f638fb9e-4da5-11e2-bb70-cf455d3f8a01.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La generazione trasparente
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2013, 10:39:43 pm
I PARTITI NON PARLANO DEI GIOVANI

La generazione trasparente


Nessuno potrà accusare il futuro governo di non aver mantenuto le promesse verso i giovani italiani: perché queste promesse nemmeno sono state fatte. I nuovi elettori, almeno fino a oggi, sono i grandi esclusi della campagna elettorale. Come se la politica fosse una discoteca, e gli energumeni sulla porta non volessero lasciarli entrare. Troppo educati, ragazzi, questo posto non fa per voi.

Le cinque alleanze in competizione sembrano ispirate a Gangnam Style : si agitano, gesticolano, si divincolano, spingono cercando la luce del riflettore. I giovani connazionali guardano, attraverso i vetri del televisore, e commentano amari sui social network. Molti sono tentati di non votare, e farebbero male: è quello che i buttafuori della politica aspettano, in modo da controllare il gioco con facilità.

Le tradizionali reti sociali - quelle che hanno mantenuto finora la pace precaria nelle strade - si stanno progressivamente strappando. Le famiglie hanno esaurito la pazienza e stanno finendo i soldi: lo dimostrano i negozi «compro oro», il mercato immobiliare e l'andamento dei consumi di beni durevoli. La disoccupazione giovanile (15-24 anni) tra chi cerca un lavoro è al 37%, mai così alta dal 1992. E se questa è la media nazionale, immaginate cosa (non) accade nell'Italia del sud. La percentuale di laureati italiani che cercano fortuna all'estero, in dieci anni, è passata dall'11% al 28%. Non è più sana voglia di esplorare; è una diaspora, pagata con risorse pubbliche.

Davanti a fenomeni di questa portata, a cinque settimane dal voto, uno s'aspetta che la politica rifletta, decida, proponga piani precisi e misure concrete: un Paese non può, infatti, giocarsi un'intera generazione. Ma non accade. I candidati discutono appassionatamente di imposte e di pensioni. Parlano, quindi, a chi un lavoro ce l'ha o l'ha avuto. Chi rischia di non averlo non conta, pare.

Gli italiani con meno di trent'anni stanno diventando una generazione trasparente. Li attraversiamo con lo sguardo, anche quando diciamo di tenere a loro. Un atteggiamento pericoloso: la frustrazione potrebbe trasformarsi in rabbia e avere conseguenze drammatiche. Le avvisaglie ci sono. Gli spaccatutto non hanno trovato alleati. Per adesso. Ma ne cercano sempre, e le cose potrebbero cambiare.

La bulimia televisiva degli stagionati protagonisti - Silvio Berlusconi 63 ore, Mario Monti 62 ore, Pier Luigi Bersani 28 ore (dal 2 dicembre al 14 gennaio) - rischia di diventare una provocazione. Antonio Ingroia va in televisione e subito s'azzuffa; Beppe Grillo s'azzuffa senza andarci. Solito spettacolo, soliti discorsi. L'Italia politica del 2013 sembra la cittadina del film Groundhog Day - Ricomincio da capo . Il protagonista, Bill Murray, ogni mattina si sveglia ed è sempre lo stesso giorno.

I proclami giovanilistici del governo Monti si sono ridotti alla reintroduzione dell'apprendistato e a un'Agenda digitale di difficile applicazione. Il Movimento 5 Stelle propone «un sussidio di disoccupazione garantito», ma non spiega con quali soldi finanziarlo. La destra non parla di giovani e non li candida, per far posto ai pretoriani del capo. Neppure la sinistra, che pure qualche volto nuovo lo presenta, propone misure radicali per i giovani connazionali. Il prestito d'onore, suggerito da Anna Finocchiaro, è un cerotto su una frattura. Occorrono flessibilità in entrata e in uscita, semplicità normativa, vantaggi fiscali e contributivi.

Un'assunzione, oggi, è un atto di eroismo; deve diventare un'operazione conveniente per tutti. Se, per far questo, occorre tagliare la spesa pubblica, si tagli: dicendo dove, come e quando. Lasciando stare l'istruzione, che costa allo Stato italiano quanto gli interessi sul debito pubblico, 4,5% del prodotto interno. Con una differenza: gli interessi sul debito servono a tappare le falle del passato, l'istruzione è il motore per costruire il futuro.

Se vogliamo mani nuove e robuste sul volante italiano, non offendiamo i guidatori di domani: altrimenti ci lasceranno a piedi, e avranno ragione. Soprattutto, non diciamo di volerli aiutare, quando per loro non siamo disposti a rinunciare a niente. «L'amore trasparente non so cosa sia», cantava Ivano Fossati.

Beppe Severgnini

20 gennaio 2013 | 8:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_20/la-generazione-trasparente-severgnini_4dda67d4-62d2-11e2-b1d5-38c6a83a1ea2.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Inizia oggi un viaggio da Trieste a Trapani in treno...
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2013, 05:26:25 pm
Trieste-Mantova: il carnevale triste dove non ridono neanche le maschere

Inizia oggi un viaggio da Trieste a Trapani in treno, in 2a classe.

In 10 giorni cercherà di esplorare, lungo i binari e le stazioni, gli umori del Paese alla vigilia delle elezioni


Ci sono due ragazzini a Trieste, lui vestito da cow-boy e lei da squaw, che acquistano il biglietto ferroviario per Venezia. Alice e Nicola, trentacinque anni in due, vogliono il loro scampolo di Carnevale. È martedì grasso nell’angolo di un paese smagrito, dove le notizie arrivano impreviste e si depositano, come la neve qui fuori. Un pontefice certamente va, un governo probabilmente viene, banchieri e manager s’avvicinano al carcere, Sanremo mescola tutto.

Roberto Cosolini, sindaco di Trieste, è venuto alla stazione a salutarci. In città qualcuno lo chiama Obelix, e ci sta: li scelgono tutti imponenti, i primi cittadini a Trieste. Porta un loden montiano che, su di lui, sembra una tenda alpina. Partiamo da qui e andiamo a Trapani, gli diciamo: sempre in treno, seconda classe. Ci lancia uno sguardo tra la sorpresa e l’invidia. Questa è una città dove si parte e si arriva. Ma Trieste lo sa da sempre, di vivere al capolinea. L’Italia, non ancora. Qualcuno s’illude, e ci illude, che possiamo sempre rimandare.

Chiediamo al sindaco, eletto con il Partito democratico, qual è l’atmosfera pre-elettorale. «Un sentimento che direi di scazzatura», risponde. «Una via di mezzo tra delusione e sfiducia. Quando uno dei contendenti la butta in burla, è un danno per tutti». Ma qui siete al Nord, siete di frontiera, siete disincantati. «Qui siamo atleti che devono correre insieme i 100 metri — le politiche tra pochi giorni—e i 400 metri—le amministrative in aprile, che in una regione autonoma sono fondamentali. Non è atletica. È uno sport da matti».

Trieste-Trapani. Tre in treno nelle tundra del Triveneto. Con me viaggiano Gianni Scimone, le cui riprese potete vedere ogni giorno su Corriere. it, e Soledad Ugolinelli, che si occupa di organizzazione e logistica (incarico interessante, in un Paese non sempre logico). Nel 2011 abbiamo attraversato insieme l’Europa, da Mosca a Lisbona; nel 2012 l’America, dall’Atlantico al Pacifico. Niente oceani, oggi. Il Regionale veloce 2210 delle ore 9.18 scivola in un paesaggio surreale, intonato alla giornata. Nicola e Alice si baciano davanti al castello di Miramare: storicamente impeccabile. Meno coerenti le penne indiane di lei, in controluce sullo sfondo dell’Adriatico.

L’ultimo giorno di Carnevale. La sensazione che stia finendo qualcosa. A Venezia Santa Lucia —neve e sale per terra, acqua color acciaio—neppure le maschere hanno l’aria allegra. Allestimento del divertimento, niente di più. Una folata di amiche da San Giovanni in Persiceto, abiti settecenteschi, passa e saluta. Ragazzine dell’Accademia di Belle Arti, per cinque euro, dipingono trucchi sul volto dei passanti. «Visto per cosa ho studiato? », dice Michela Fiini, da Brescia. Le chiedo quali maschere dipingerebbe sul volto dei cinque candidati alla presidenza del Consiglio. «Grizzly, panda, ornitorinco, papera e maiale», risponde, attribuendo a ognuno il suo animale.

Se l’Italia del 2012 amava definirsi sobria (non lo era), questa del 2013 non osa dirsi spaventata: ma lo è. La gente risponde, incurante della telecamera, con una compostezza innaturale. Mentre ragazzi in costume transitano seri, e piccoli orientali spingono grandi valigie tra mucchi di neve, penso quanto starebbe bene, adesso, se dagli altoparlanti della stazione uscisse un verso di Franco Battiato: «Mister Tamburino non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare».

La canzone si chiama «Bandiera bianca». Così, per vostra informazione, mentre il treno Freccia Bianca 9722 corre verso Vicenza e Verona. Poi saliamo sull’inzaccherato regionale 20703: sembra un codice di avviamento postale. Ci lascerà a Mantova: prima tappa. Alle elezioni mancano undici giorni, Trapani è lontana milleseicento chilometri.

Beppe Severgnini

13 febbraio 2013 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-trieste-mantova-severgnini_25e1f6b2-75aa-11e2-a850-942bec559402.shtml


Titolo: SEVERGNINI. - Mantova-Genova, l’inverno padano e i sondaggi (quasi) impossibili
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2013, 05:22:34 pm
Mantova-Genova, l’inverno padano e i sondaggi (quasi) impossibili

Continua il viaggio del Corriere: da Trieste a Trapani in treno, in 2 a classe, per esplorare, lungo i binari e le stazioni, gli umori del Paese alla vigilia delle elezioni


Mantova sta in un golfo nel gran mare di Lombardia. La stazione ferroviaria è un ormeggio gelato, e spesso succede di rimanerci oltre il dovuto. Qui s’incontrano Trenord e Trenitalia, e i risultati sono talvolta esoterici. Infatti, perdiamo il regionale per Cremona: non lo vediamo partire, il binario 5 è un parallelo lontano. Stefano Scansani, firma nobile della Gazzetta di Mantova, cerca sadicamente di convincerci a servirci di «servizi sostitutivi di autobus». L’appalto, dice, è stata vinto da una ditta pugliese, gli autisti conoscono poco la zona e quando la nebbia è fitta invitano i passeggeri a indicargli la strada. Ma i passeggeri, spesso, sono lavoratori stranieri, e non ne hanno la minima idea. Ieri gli operai della cartiera Burgo, prossima alla chiusura, hanno sfrattato il responsabile del personale, traslocando scrivania e mobilio sulla neve. La Banca Agricola Mantovana è nel gruppo Monte Paschi di Siena (sufficiente?). Il settore chimico stenta, i proprietari voglio mollare il Mantova Calcio. La Sala degli Sposi in palazzo Ducale, principale attrattiva turistica, è chiusa dal giorno del terremoto.

Per la città dei Marcegaglia e dei Colaninno, una strana vigilia elettorale. Beppe Grillo, lunedì, ha riempito piazza Sordello, nonostante la neve. Cose del genere riescono solo al Festivaletteratura, che io sappia: e l’umore è diverso. Il treno per Modena delle 11.31 è lento, pulito, dipinto con colori montessoriani (giallo limone, azzurro cielo, verde pisello); nei campi innevati schizzano lepri soddisfatte. Più numerose degli elettori, pare. Tra Mantova e Modena, infatti, la maggioranza è formata da immigrati: come intervistare sul voto chi non vota? Qualche studente sale in stazioni dai nomi letterari — Borgochiesanuova, Romanore, Reggiolo — e si arrotola nel sedile, cuffie in testa e libri in braccio. Francesca, una ragazza di Suzzara con occhi chiari e un cognome da debito pubblico (Zilioni), il 24 febbraio voterà Pd. Saverio Todaro, impiegato, voterà Grillo. Nicola Caviano viene da Caserta ed è qui «per la ricostruzione post-terremoto». Non dice per chi vota, ma è convinto: «Il meno rosso, da queste parti, è arancione».

A Modena arriviamo con quindici minuti di ritardo, e manchiamo la coincidenza: due treni persi in metà giornata (uno per colpa nostra, uno per colpa loro): non male. Saliamo sul Freccia Bianca delle 13.41 diretti a Piacenza. Bersanlandia ci accoglie gelida: non è questione di ospitalità, ma di temperatura. Nell’attesa chiediamo ai presenti «Dovete scommettere dieci euro sul prossimo presidente del Consiglio: su chi li mettete?». Due rispondono Bersani, uno Berlusconi, due Grillo, due non rispondono: sono inglesi di passaggio e la notizia che il segretario del Pd sia di Bettola — pochi chilometri da qui, direzione sud — non sembra scuoterle più di tanto.

Si riparte sul regionale 20388 delle 15.15, direzione ovest: temperatura subtropicale all’interno, fuori neve a perdita d’occhio. Voghera o Volgograd, vien da chiedersi. La conversazione da scompartimento — quella che induce alla confidenze — non esiste; lo spazio aperto e l’inverno inducono al sospiro e al monosillabo. A Voghera, in attesa del treno, due solide quarantenni mi confessano di non essere né casalinghe né di Voghera: sono liguri, lavorano in tribunale e ogni giorno si fanno più di due ore di treno. Saliamo insieme sull’Intercity 673, che arriva a Genova con venti minuti di ritardo. Ieri mattina eravamo a Trieste, in due giorni abbiamo trovato un altro mare. Un altro umore, non ancora.

Beppe Severgnini

13 febbraio 2013 (modifica il 14 febbraio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-mantova-genova-severgnini_b972568a-762f-11e2-a850-942bec559402.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - ... Ma rimpiange Renzi, il «bischero nuovo»
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2013, 12:10:00 pm
Livorno -Perugia, dove la sinistra vuole vincere

Ma rimpiange Renzi, il «bischero nuovo»

In treno raccogliendo le opinioni politiche dei passeggeri


Di BEPPE SEVERGNINI

Livorno è una città sottovalutata. È aperta al mare e alla polemica, entrambi affascinanti. Il taxista che ci accompagna in stazione ricorda quanto partiva in moto per Trieste con un thermos di ponce, amatissimo intruglio alcolico locale; e quasi si commuove. A Livorno, nel 1921, è nato il Partito Comunista Italiano. La città è di sinistra per carattere e storia, il posto giusto per chiedere a tutti coloro che non scappano davanti a un microfono: come sarebbero queste elezioni se Matteo Renzi fosse al posto di Pierluigi Bersani?

Entriamo in stazione, ci aspetta il treno regionale veloce 3114: il primo aggettivo è indiscutibile, poiché andiamo a Firenze. Dice un ragazzo, impiegato pendolare: Matteo Renzi? La sinistra che mi piace è un’altra, quella che non privatizza il trasporto municipale. Dice una ragazza, Lisa Cappagli, studentessa d’architettura: non so se voto per Matteo Renzi, ma voto. Dice la terza ragazza, Cristina Garcia, diciannove anni, barista a Pisa: chi è Matteo Renzi?

Arriviamo a Santa Maria Novella, il sindaco oggi non è Firenze; però in città arriva Massimo D’Alema, e potrebbe non essere una coincidenza. Claudio Cornini sembra un gentiluomo di campagna britannico, con un capello floscio, ritto davanti al tabellone delle partenze. Fa il banchiere di mestiere, e dice: quando si tratta di aziende pubbliche decotte, la sinistra manca di coraggio. Poi guarda se sbuca l'orario del suo treno, come se fosse una quaglia nella brughiera.

E’ interessante discutere di politica nelle stazioni e sui treni della Toscana: sembra l’unica regione d’Italia dove l’argomento non è considerato un ostacolo alla digestione. Sarà il sole o il dondolìo dei vagoni in collina, ma la gente parla e sorride. Claudio Mamoli, 67 anni, architetto e nonno di Todi: «Renzi candidato premier? Avrebbe spaccato il partito Democratico». Poi riprende a leggere Le Monde Diplomatique, edizione italiana a cura de Il Manifesto. Antonio Carloni, 31 anni, fotografo di Cortona: «Con Mattei Renzi? Il Pd al 60 per cento!». Poi guarda i presenti: «Va be’, forse ho esagerato».

I treni sono una droga leggera: ci si abitua in fretta a queste conoscenze temporanee, alle confidenze senza conseguenze, al rollio logico e meccanico. Gli inglesi, dei treni, amano la prevedibilità: li aspettano al passaggio (trainspotting), ne studiano gli orari e ne apprezzano i riti (rail buffs). Su un treno italiano, invece, non c’è nulla di prevedibile. Nessuno fa mai quello che ti aspetti. Il tipo più schivo, convinto a parlare, si rivela logorroico; la donna più dura si mostra premurosa. Controllori e poliziotti non ci chiedono neppure il permesso alle riprese, di cui siamo regolarmente muniti. Gli sguardi dicono: chi viaggia per dieci giorni ascoltando opinioni politiche è un eroe, un masochista o un matto. Comunque sia, merita solidarietà.

Matteo Renzi, poi, è un buon argomento di conversazione. In Toscana basta il nome per suscitare reazioni: passionali o polemiche, piene di sostegno o di sarcasmo, mai indifferenti. Il sentimento più comune, anche tra coloro che non l’avrebbero votato, è il rimpianto. Con lui in campo ci si sarebbe divertiti: almeno, ripetono in molti, un bischero nuovo. Invece siamo condannati alla ripetizione; e la Toscana è allergica alla noia, come i gatti all’acqua.

Alla stazione di Perugia ritrovo un po’ di ragazzi conosciuti in passato al Festival di Giornalismo. Cecilia, pugliese di Grottaglie; Sara, abruzzese di Pescara; Carmen e Luca, calabresi di Rossano; Diego e Francesco, umbri del capoluogo. Non la pensano allo stesso modo, ma tutti voteranno a sinistra, pare di capire. Dicono cose realistiche. «Certo, se hai un bella idea e non la sai comunicare...». «Se ci fosse stato Renzi, ci saremmo risparmiati il ritorno di Berlusconi». «Non ci sono i soldi per i sogni di Vendola!».

Vuoi vedere che la sinistra si è stancata di perdere? Sarebbe una novità.

15 febbraio 2013 (modifica il 16 febbraio 2013)

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-livorno-perugia_853ddb4e-77b7-11e2-a4c3-479aedd6327d.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Questa rabbia non è populista ma conta e vota
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2013, 12:11:14 pm
Questa rabbia non è populista ma conta e vota

La ragazza bruna si chiama Esmeralda e guarda sospettosa la telecamera. Per forza: ne ha viste fin troppe. Salta fuori infatti, dopo quindici minuti di conversazione, che ha partecipato a «Uomini e donne» su Canale 5. Per scherzo, dice. Poi si è fidanzata davvero. Lui, se non ho capito male, si chiama Nicola. Lei va a trovarlo a Roma per San Valentino. Il programma politico della signorina E. è piuttosto semplice: «Tutti a zappare la terra, i parlamentari, così capiscono il valore della fatica». Brusio di approvazione nello scompartimento dell'Intercity 511 Torino-Salerno, appena partito da Genova.

Non liquidatelo come populismo ferroviario. E se lo fosse, ricordate che vota anche quello, e conta. Eccome se vota, eccome se conta.

L'Intercity 511 è un treno antico di migrazioni interne, e ne conserva il carattere. Un fascinoso frullatore italiano, capace di mettere insieme geografia, reddito, istruzione e storia. Il carrello delle bibite supera valigie, cani e bambini. Non è quello moderno sui Freccia rossa («Un drink di benvenuto, signore?»). È il carrello per antonomasia, spinto da un signore col cappello e una certa difficoltà a trovare il resto. «Coca fresca! Birre! Tramezzini, patatine e caffè!». Osservo i biscotti Tuc nel loro pacchetto giallo: una presenza rassicurante. Scende il prodotto interno lordo, in Italia, ma ogni mattina su questo treno salgono i Tuc.

Oggi, in Liguria, chiediamo opinioni su Beppe Grillo, ex-ragazzo del posto. Le potete ascoltare, come ogni giorno, nel video su corriere.it . Diciamo solo che ci si poteva aspettare più affetto. Nel carattere ligure c'è una certa diffidenza, e non risparmia neppure i propri figli.

Anna Maria Giuganino immagina un grosso successo per il Movimento 5 Stelle: ma senza il suo voto. Grillo non avrà neppure quello di Stefano Concas, studente di economia: non gli piace che il capo rifiuti il confronto televisivo. Franco Lorenzani, esaurite le lamentele sui bagni chiusi, sostiene che a Genova i partiti tradizionali - leggi Pd - non se la passano male, grazie al sindaco Marco Doria. Elio e Angela Picco, coniugi polemicissimi, non capiscono invece perché Grillo non si candidi, e mandi avanti gli altri. Riassumendo: il M5S prenderà molti voti anche in Liguria, certamente; ma non su questo treno.

Non c'è nulla di eroico nello scendere l'Italia in seconda classe e ascoltare; ma è salutare. Lo scompartimento induce alla conversazione e la costrizione del luogo - come hanno dimostrato, tra gli altri, Totò e Agatha Christie - rivela i caratteri. La misteriosa sparizione di tre carrozze, stamattina, e la conseguente rinumerazione delle rimanenti, avrebbe portato alla nevrosi i viaggiatori dell'Europa del Nord. Non gli italiani che qui si battono con posti sbagliati e immense valigie, si informano, si guardano, si consolano a vicenda.

«Sapesse, signora...!» sarebbe un buon motto da cucire sulla bandiera. Perché la signora, in fondo, lo sa.

Una coppia napoletana - madre e figlia - legge Diva e donna , viaggia con fiori e sacchetti pieni, si dice possibilista sul ritorno di Berlusconi e decide di prendersi cura della nostra alimentazione: appaiono piccoli panini misteriosi con cubetti di pancetta, focacce alle erbe e mandarini. Fuori, nel sole, la Liguria scoscesa corre verso la Toscana. Il capotreno ha un'aria stanca e filosofica. Confessa il suo amore per questi vecchi scompartimenti, ma è perplesso dalla geografia ferroviaria su questa costa: «Le gallerie sono piccole, sono sempre quelle di una volta. Ogni tanto guardo e penso: riusciremo a infilarci lì dentro e uscirne fuori?».

Vorrei dirgli: è la stessa domanda che ci facciamo tutti prima delle elezioni, ma è meglio non pensarci e andare avanti.

Beppe Severgnini

15 febbraio 2013 (modifica il 16 febbraio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-genova-livorno-severgnini_5ccb97f0-773f-11e2-a4c3-479aedd6327d.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La tentazione dell'astensione?
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2013, 12:18:14 pm
Pescara - Benevento

La tentazione dell'astensione?

Continua il viaggio in treno per raccogliere gli umori degli italiani alla vigilia del voto


Salire sul Freccia Bianca 9803 diretto a Foggia, dopo due giorni di su e giù dai regionali tra Livorno e Pescara, è come passare da una barca remi a un cabinato. Tavolino! Sedile spazioso! Rumore contenuto! Finestrino pulito! Stordito da tanto lusso, nella quieta ferroviaria festiva, apro il giornale e leggo di terremoti in zona, scandali dovunque, condanne, colossali fandonie. Poi guardo le facce intorno a me: sanno tutto.



Partenza ore 12.40. Prima non ci sono treni utili, ma è un vantaggio. Pescara va esplorata, e la domenica mattina è il momento ideale. E’ una città di mare che non dimentica di essere sul mare; una città aiutata dalla geografia e portata alla fantasia (D’Annunzio, Flaiano); una “P City” piena di potenziale. Ma come le consorelle alfabetiche - Perugia, Pisa, Parma, Pavia, Padova - rischia di impigrirsi, complicare e rimandare. Eppure avrebbe tutto per essere felice.

Il treno corre lungo l’Adriatico, entra in Molise. Il mare è grigio-azzurro, gli stabilimenti balneari bianchi e vuoti aspettano momenti migliori. Sirena Beach, Bagni Blu Tuf, poi la città di Termoli: un’altra T in questo viaggio da Trieste a Trapani. Nell’entroterra, a pochi chilometri, c’è Montenero di Bisaccia, patria del desaparecido politico Antonio Di Pietro. Dune, spiagge, pini marittimi. Tutto diventa più spazioso, più calmo, diverso. Da queste parti, invisibile, passa la frontiera del sud.

Il Gargano appare nella foschia, oltre campi piatti e vigne. Matteo Di Palma, 20 anni, studia infermieristica a Modena, torna a Manfredonia per votare. Spiega che Trenitalia, presentando la tessera elettorale, offre andata e ritorno col 70% di sconto. Arriviamo a Foggia, dove sono stato recentemente per questioni libresche, ospite del liceo “Lanza”. Penso agli studenti che ho conosciuto e al curioso destino del sud italiano: se le città non cambiano, i ragazzi non restano; se i ragazzi non restano, le città non cambiano. Uno strano “Catch 22” mediterraneo, dal quale dovremmo provare a uscire.

Decido di importunare l’intera carrozza 7 del treno 9354 diretto a Benevento per un sondaggio: andrete a votare il 24 e 25 febbraio? Il livello di tollerenza verso l’importuno è alto; la percentuiale di astensione annunciata è bassa. Gli astenuti dichiarati non superano il 10%. Certo: chi annuncia pubblicamente di astenersi lo farà, quasi certamente. Mentre chi promette di andare alle urne potrebbe cambiare idea, oppure mentire in cerca di approvazione. Tra le persone anziane si nota un certo orgoglio elettorale; tra i più giovani un vago, rassegnato senso del dovere.

Nicola Guaraniella, barese, 36 anni, ritiene che la vera spaccatura non sia generazionale, ma tra persone informate (voteranno) e persone disinformate (potrebbero astenersi). Francesca Ruggeri viaggia con il marito e due bimbi verso Roma, dove si reca periodicamente per motivi sanitari. Non intendeva votare, dice, ma ha cambiato idea. Andrà alle urne, sperando che serva a qualcosa; ma non ci conta. Quando racconta le difficoltà familiari, con la bambina in braccio, e giudica chi eleggeremo, non s’arrabbia. Diventa triste. “A niente. Non vogliono rinunciare a niente”.

Entriamo in Campania, attraversiamo un angolo verde d’Irpinia, arriviamo a Benevento, equidistante tra Tirreno e Adriatico. In stazione, poliziotti e suore nel deserto domenicale. Appena fuori i manifesti elettorali con i nomi e le promesse di sempre. Sui giornali Crosetto Carfagna Caldoro Cosentino Di Girolamo e Nitto Paola che dice a Enrico Letta “Come osa?”. “La crisi spegne la movida in centro. Ridotta la vigilanza”, annuncia l’edizione locale del “Mattino”. “Più fallimenti e meno divorzi: colpa della crisi”, titola “Il Sannio”. Più calma e più matrimoni, dunque. Ma arrivarci così non va bene.

Beppe Severgini
@beppesevergnini

18 febbraio 2013 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-Pescara-Benevento_e51923f8-7996-11e2-9a1e-b7381312d669.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Benevento-Taranto, tra Vendola e l'Ilva
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2013, 11:34:00 pm
Benevento-Taranto, tra Vendola e l'Ilva


Ho sviluppato un'antipatia feroce per zio Giuseppe, continuamente evocato al telefono dalla mia dirimpettaia tra Benevento e Bari (via Foggia). Non c'è campagna elettorale che tenga: gli audiomolestatori sono tra noi, e non parlano di politica. Chiamano cinque parenti, quattro colleghi, vecchi amici. Non si tratta di telefonate urgenti; solo un modo di passare il tempo e infastidire il prossimo. Trenitalia non dovrebbe distribuire ai passeggeri la rivista «La Freccia», bensì un bavaglio. Molti di noi saprebbero come usarlo.

Più educato e interessante si rivela Pablo, barboncino vendoliano, interista e barese. La sua accompagnatrice, Angela Paltera, sostiene che lo porterà alle urne: forse un modo di tirarsi su di morale. Il viaggio prosegue loquacemente - se allo zio Giusepe serve un biografo, siamo pronti - e Bari ci attende nel sole. Palme, stazione ocra, donne rapide e brune, poliziotti ubiqui che chiedono l'autorizzazione alle riprese.

Sul binario, ritto e solitario come un uomo di Magritte, aspetta Enzo Bartalotta. Si presenta come pubblicitario con sedi a Milano, Londra, Padova e Noci (Bari), esperto di «processi psicometrici junghiani»; nonché responsabile del Movimento 5 Stelle per il suo Comune. Spiega: «Beppe Grillo non va in televisione perché ha paura di vincere troppo». Vendola? «I pugliesi hanno capito di non capire. C'è tanto fumo dietro le parole del governatore. Non avrà successo».

Chiediamo ancora di Nichi, vagabonda gloria locale. La signora Paltera e Pablo, sul treno da Benevento, tifavano per lui. Anna Mele, impiegata, lo ama meno: «Prevedo voto di protesta. C'è molto scontento in giro, e Vendola non lo intercetta». Scontento in genere o sull'operato del governatore? «L'uno e l'altro». Più generosa Annabella De Robertis, classe 1991, studentessa di lettere classiche. «Per i giovani pugliesi, Vendola qualcosa ha fatto. Ha reso possibili piccoli sogni». Tant'è vero che lei intende restare a Bari: «Non è male come si dice». Arrivano altri e il marciapiede davanti alla stazione si trasforma in un talk show. Il consigliere comunale Massimo Maiorano si avvicina e canta le lodi del trasporto su ferro.

Il nostro prossimo treno, parte dal «binario tronco Taranto», situato tra il binario 3 e binario 4. Per saperlo, però, bisogna essere Harry Potter. L'indicazione è vaga, le valigie ingombranti: arriviamo trafelati mentre il capotreno si sbraccia e grida «Su! Su!». A lui non chiederemo né di Vendola né di Taranto: manca il fiato.

Dopo Acquaviva delle Fonti e Gioia del Colle - la toponomastica pugliese è poetica - il regionale 3163 scende verso il Mar Ionio tra ulivi, viti, cieli profondi e tetti piatti. La nostra presenza non passa inosservata: due ragazzine s'allarmano, il capotreno saluta, un'insegnante osserva. Il treno è corto, pulito, colorato, efficiente; al centro dei vagoni dispone di vezzose postazioni a bovindo. È stato acquistato coi soldi dell'Unione Europea, ci informa un ragazzo.

L'immensa acciaieria Ilva di Taranto, cupa regina delle cronache giudiziarie e sanitarie, appare di colpo sulla sinistra. Chiudere o non chiudere? Un giovane avvocato spiega: «Nessun partito ha preso una posizione precisa. È come scegliere tra salute e lavoro, non se la sentono». Una forestiera che lavora in città: «Non c'è più artigianato, l'agricoltura è in ginocchio. La presenza dell'Ilva è un danno. Ma la chiusura sarebbe un danno maggiore». Una voce dal fondo del vagone: «Ma che campagna elettorale. Da noi si parla solo di Sara Scazzi e dell'Ilva! Cronaca nera».

Ci ascolta Rosa Salemme: «È da ventisette anni che respiro l'aria di Taranto. Noi consideriamo l'Ilva come inevitabile: non è così, dobbiamo cominciare a immaginare un'alternativa. Andate al quartiere Tamburi, sta proprio sotto le ciminiere: è arancione». Tamburi a Taranto arrivando da Trieste e andando a Trapani: le T-junctions cominciano a diventare tante.

Beppe Severgnini

19 febbraio 2013 | 12:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/benevento-taranto190213_3c407914-7a56-11e2-896e-599d001aa8d7.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Con le battute non si governa
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2013, 11:51:15 am
I PERICOLI DEL FENOMENO GRILLO

Con le battute non si governa

Comunque vada e chiunque vinca, saranno ricordate come le elezioni di Beppe Grillo. Citarne gli alleati non significa sminuirne l'abilità. Perché non c'è dubbio: la campagna elettorale del Movimento 5 Stelle è stata condotta, con metodo e determinazione, dagli avversari. Ogni volta che un'amministrazione affogava nei debiti e negli scandali, ogni volta che una banca si copriva di vergogna, ogni volta che un partito sperperava denaro pubblico, cosa facevano gli elettori? Registravano mentalmente la casa politica dei responsabili. E concludevano: basta, di questa gente non se ne può più. Tutti i leader dei movimenti di protesta sognano d'essere scelti e votati per il programma: ma non è così. O è vero solo in parte. Il sostegno al Movimento 5 Stelle somiglia a quello che ha portato in alto la Lega, vent'anni fa. Molti elettori di Umberto Bossi erano disposti a sorvolare sulle sue fanfaronate; e sapevano poco di federalismo. Capivano però che la Lega era nuova, ed era invisa al potere politico del tempo. Qualcosa del genere è accaduto di nuovo nel 1994: un voto a Forza Italia, a qualcuno, è sembrato un voto contro il sistema dei partiti che aveva prodotto Tangentopoli.

Questo è un merito di Beppe Grillo: aver sottratto voti all'astensione. Il Movimento 5 Stelle - piaccia o non piaccia - sta fornendo un canale di sfogo alla rabbia e alla frustrazione. I partiti tradizionali non sono stati capaci di indicarne un altro. Non solo. Se abbiamo evitato sassi e bastoni in campagna elettorale è anche grazie a Grillo. A questo siamo ridotti: a dover lodare il confuso populismo.

Perché di questo si tratta. Il guru - che non è candidato - rifiuta le interviste perché non sarebbe facile, da solo e senza suggeritori, difendere certe affermazioni, o spiegare il proprio generico programma. «Uscire dall'euro». E come, di grazia? «Introdurre un sussidio di disoccupazione garantito». Con che soldi? «Investimenti nella ricerca universitaria». Bene, ma non è il caso di essere precisi? Un conto è adattare un copione, di piazza in piazza; un altro offrire piani realistici e rispondere a ragionevoli obiezioni. Ci sono poi gli eletti del Movimento 5 Stelle, che saranno numerosi, e con cui dovremo fare i conti. È vero, far peggio di alcuni parlamentari uscenti appare impossibile. Ma il dubbio rimane. Le «Parlamentarie», con cui sono stati scelti, hanno coinvolto 32 mila persone: un numero irrisorio. Prendiamo l'Umbria, dove sono passato nel mio viaggio politico e ferroviario da Trieste a Trapani. Tiziana Ciprini, con 84 preferenze è stata la più votata tra gli 81 candidati, ed è capolista alla Camera. Ha 37 anni, una laurea in Psicologia ed è dipendente della Regione. Tra le sue proposte, al primo posto: «Rivoluzione culturale: abbandono del sistema della delega e del menefreghismo civico e promozione di sistemi, metodi e stili di vita basati sulla partecipazione». Mah.

C'è un aspetto scenografico e narcisistico, nella dirigenza politica italiana: c'è sempre stato. L'opinione pubblica non solo lo accetta, ma lo invoca, rinunciando alle precauzioni elementari in una democrazia. Pretendiamo invece dettagli, assicurazioni, spiegazioni. Chi non risponde in campagna elettorale - ai potenziali elettori, ai giornalisti, alle critiche - non risponderà mai più. Vladimir Ilyich Lenin, nel 1923, poteva emettere il «comunicato politico numero cinquantatré»; non Beppe Grillo nel 2013. I leader carismatici devono essere controllati, per il nostro e per il loro bene. Se rinunciamo a farlo, aspettiamoci amare sorprese.

Beppe Severgnini

21 febbraio 2013 | 9:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_21/con-battute-non-governa_8ce1c560-7be8-11e2-9e78-60bc36ab9097.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Nasce il ministero contro gli sprechi
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2013, 07:03:54 pm
Catania-Palermo sul treno deserto

Nasce il ministero contro gli sprechi

Lettori appassionati! Discussioni accese! Siciliani in fermento!

Nulla di tutto questo

La Sicilia senza luce è irriconoscibile. Lasciamo Catania nel primo pomeriggio, sotto un cielo opaco e strano, in una calma innaturale. Porterà un violentissimo nubifragio - città allagata, macchine sommerse, passanti travolti - ma il regionale 3853 lo anticipa, ci scivola sotto e si dirige nell’entroterra. Un treno impeccabile, pulito, puntuale, l’unico per Palermo: vuoto.

E’ difficile, a tre giorni dalle elezioni, raccontare una giornata vuota: di avvertimenti, di avvenimenti, di passeggeri, di discussioni. Ma questa è un’isola di sorprese; e il nostro viaggio politico e ferroviario da Trieste a Trapani deve raccontare quel che trova. Oggi, poco o niente. Elettori appassionati! Discussioni accese! Siciliani in fermento! Nulla di tutto questo. Davanti dalla stazione di Catania il furgone del gelataio - “Gelsi" e "Fragola” - fiuta grami affari. Dentro, in biglietteria, Salvatore Zuccaro cerca di farci coraggio da dietro un vetro: “Qui c’è poca cultura del treno. A Palermo ci vanno in autobus o in auto. Perché diciamolo: è poco comodo, non tutti i treni sono come questo”.

Il nostro treno, in effetti, è impeccabile: se Trenitalia conoscesse in anticipo i nostri spostamenti, potrei sospettare che è stato messo qui per compiacere la telecamera. Invece scopro che il regionale è sempre questo, ed è spesso vuoto. Siamo in otto, macchinista e capotreno compresi. I vagoni sembrano gli spogliatoi di una piscina durante il corso di nuoto: azzurri, vuoti, in attesa.

Il treno sale verso Enna e dentro un paesaggio incantevole: verde, mosso, montagne basse e poche case. Per ingannare il tempo, e fornire un’occupazione ai pochi passeggeri, convoco nei sedili centrali - disposti convenientemente ad anfiteatro - un Consiglio dei Ministri. Ognuno si scelga un dicastero e dica cosa farebbe, come prima cosa.

Dopo una breve contesa sul ministero dei Trasporti - erano in tre, lo volevano in due - la discussione comincia, sotto gli occhi divertiti del capotreno. Antonella Calamera, di Bompensiero (Caltanissetta), studentessa di storia a Messina, sceglie il ministero dell’Istruzione: vuole soldi per borse di studio e scuole che non cadano a pezzi. Non le sembra d’aver sentito parlare di questi temi, in campagna elettorale. Salvatore Torretta dice di appartenere alla “grande famiglia delle ferrovie”. In quanto ministro dei Trasporti pensa all’Alta Velocità in Sicilia; ma teme che finisca come il Ponte sullo Stretto. Salvatore Distefano, ex commercialista, è il più entusiasta: sceglie il dicastero del Tesoro e chiede di diventare ministro alle Uscite. Addetto a calcolare gli sprechi, dice soddisfatto.

Il treno si ferma alla stazione di Enna (vuota) e a Caltanissetta Xirbi (deserta); solo a Termini Imerese, tornati verso il mare, qualcuno sale. Il capotreno Paolo Minagra, giacca d’ordinanza e jeans, non è contento: in Sicilia, per le note difficoltà finanziarie della Regione, sono stati tagliati molti treni locali, il rischio che questo faccia la stessa fine. “E poi noi vogliamo l’auto, sempre l’auto! Partire da sotto casa e posteggiare davanti alla destinazione, a costo di lasciarla in tripla fila”. Noi chi? chiedo. Noi italiani? Mi guarda sorpreso: “Noi siciliani!".

Arriviamo a Palermo con cinque minuti di ritardo: nessun cartello con il nome della città, un dettaglio che sarebbe piaciuto a Buzzati. Serata fresca, luci gialle. Il neo-ministro delle Uscite, fedele al suo mandato, ci indica come lasciare la stazione. Una ragazza ingiubbottata vede la cinepresa, si stacca dai suoi quattro amici e pretende una domanda. Butto lì: “Veniamo da Catania, abbiamo preso il treno. Abbiamo fatto bene?”. “Da Catania? Treno?!”. Scoppia in una risata convulsa. Se è un benvenuto a Palermo, non ci dispiace. E’ bello vedere qualcuno allegro, a poche ore da elezioni come queste.

Beppe Severgnini
21 febbraio 2013 (modifica il 22 febbraio 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/catania-palermo-severgnini_bdbe0ce0-7c63-11e2-9e78-60bc36ab9097.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - I PERICOLI DEL FENOMENO GRILLO
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:49:09 pm
I PERICOLI DEL FENOMENO GRILLO

Con le battute non si governa

Comunque vada e chiunque vinca, saranno ricordate come le elezioni di Beppe Grillo. Citarne gli alleati non significa sminuirne l'abilità. Perché non c'è dubbio: la campagna elettorale del Movimento 5 Stelle è stata condotta, con metodo e determinazione, dagli avversari. Ogni volta che un'amministrazione affogava nei debiti e negli scandali, ogni volta che una banca si copriva di vergogna, ogni volta che un partito sperperava denaro pubblico, cosa facevano gli elettori? Registravano mentalmente la casa politica dei responsabili. E concludevano: basta, di questa gente non se ne può più. Tutti i leader dei movimenti di protesta sognano d'essere scelti e votati per il programma: ma non è così. O è vero solo in parte. Il sostegno al Movimento 5 Stelle somiglia a quello che ha portato in alto la Lega, vent'anni fa. Molti elettori di Umberto Bossi erano disposti a sorvolare sulle sue fanfaronate; e sapevano poco di federalismo. Capivano però che la Lega era nuova, ed era invisa al potere politico del tempo. Qualcosa del genere è accaduto di nuovo nel 1994: un voto a Forza Italia, a qualcuno, è sembrato un voto contro il sistema dei partiti che aveva prodotto Tangentopoli.

Questo è un merito di Beppe Grillo: aver sottratto voti all'astensione. Il Movimento 5 Stelle - piaccia o non piaccia - sta fornendo un canale di sfogo alla rabbia e alla frustrazione. I partiti tradizionali non sono stati capaci di indicarne un altro. Non solo. Se abbiamo evitato sassi e bastoni in campagna elettorale è anche grazie a Grillo. A questo siamo ridotti: a dover lodare il confuso populismo.

Perché di questo si tratta. Il guru - che non è candidato - rifiuta le interviste perché non sarebbe facile, da solo e senza suggeritori, difendere certe affermazioni, o spiegare il proprio generico programma. «Uscire dall'euro». E come, di grazia? «Introdurre un sussidio di disoccupazione garantito». Con che soldi? «Investimenti nella ricerca universitaria». Bene, ma non è il caso di essere precisi? Un conto è adattare un copione, di piazza in piazza; un altro offrire piani realistici e rispondere a ragionevoli obiezioni. Ci sono poi gli eletti del Movimento 5 Stelle, che saranno numerosi, e con cui dovremo fare i conti. È vero, far peggio di alcuni parlamentari uscenti appare impossibile. Ma il dubbio rimane. Le «Parlamentarie», con cui sono stati scelti, hanno coinvolto 32 mila persone: un numero irrisorio. Prendiamo l'Umbria, dove sono passato nel mio viaggio politico e ferroviario da Trieste a Trapani. Tiziana Ciprini, con 84 preferenze è stata la più votata tra gli 81 candidati, ed è capolista alla Camera. Ha 37 anni, una laurea in Psicologia ed è dipendente della Regione. Tra le sue proposte, al primo posto: «Rivoluzione culturale: abbandono del sistema della delega e del menefreghismo civico e promozione di sistemi, metodi e stili di vita basati sulla partecipazione». Mah.

C'è un aspetto scenografico e narcisistico, nella dirigenza politica italiana: c'è sempre stato. L'opinione pubblica non solo lo accetta, ma lo invoca, rinunciando alle precauzioni elementari in una democrazia. Pretendiamo invece dettagli, assicurazioni, spiegazioni. Chi non risponde in campagna elettorale - ai potenziali elettori, ai giornalisti, alle critiche - non risponderà mai più. Vladimir Ilyich Lenin, nel 1923, poteva emettere il «comunicato politico numero cinquantatré»; non Beppe Grillo nel 2013. I leader carismatici devono essere controllati, per il nostro e per il loro bene. Se rinunciamo a farlo, aspettiamoci amare sorprese.

Beppe Severgnini

21 febbraio 2013 | 9:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_21/con-battute-non-governa_8ce1c560-7be8-11e2-9e78-60bc36ab9097.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La maschera e le macerie
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 06:23:03 pm
LIMITI ED ERRORI DEL SUCCESSO M5S

La maschera e le macerie

Beppe Grillo sembra affezionato alla parola «macerie». L'ha usata più volte, per descrivere la situazione italiana attuale e quella che verrà. In una intervista alla Bbc sostiene che «destra e sinistra si metteranno insieme e governeranno un Paese di macerie di cui sono responsabili». Ma durerà poco, prevede: un anno, al massimo. Poi «ci saranno nuove elezioni e una volta ancora il Movimento 5 Stelle cambierà il mondo».

In attesa di cambiare il mondo, vien da dire, proviamo a cambiare l'Italia? La demolizione talvolta è necessaria, per poter ricostruire; e Grillo certamente non s'è tirato indietro, quando si trattava di manovrare la benna. L'hanno aiutato, nell'operazione, i partiti tradizionali, incapaci di recepire la richiesta - anzi, la supplica - di cambiamento che saliva dalla Nazione. Abbiamo cominciato vent'anni fa, con il voto alla Lega iconoclasta e il plebiscito nei referendum di Mario Segni; poi l'apertura di credito verso Silvio Berlusconi e la speranza nell'Ulivo nascente. Ogni volta, all'illusione, è seguita la delusione.

Perché non finisca così anche stavolta - il tempo passa, la stanchezza cresce, l'Italia scivola indietro in ogni classifica internazionale - il Movimento 5 Stelle deve fare la sua parte. Nessuno può imporgli di governare; nessuno deve suggerirgli se allearsi e con chi allearsi. Ma tutti possiamo ricordargli questo: non ha solo diritti, ormai. Ha anche qualche dovere.
Incassare il successo elettorale significa legittimare le regole e le istituzioni attraverso cui quel successo è arrivato. Opposizione, governo, appoggio esterno: il Movimento ora deve cambiare passo. Non è tollerabile giocare con il futuro del Paese, che è il futuro di tutti. Siamo legati all'Europa, abbiamo obblighi precisi. L'incertezza ha un costo, e lo stiamo già pagando. Se la strategia di Grillo è aumentare quest'incertezza, far crescere quei costi, provocare altre macerie economiche e politiche, lo dica. Chi ci rimarrà sotto, almeno, saprà chi ringraziare.

Sono materie, queste, su cui il leader - non eletto, ricordiamolo - ha il dovere di consultare i suoi 163 parlamentari (109 deputati, 54 senatori). Non sono automi; non li può «cacciare a calci», come ieri ha minacciato di fare «se cambiano casacca» (alla faccia dell'articolo 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). Hanno in media 39 anni (32 alla Camera, 46 al Senato); le donne sono il 36 per cento; i laureati l'88 per cento. Molti appartengono alla generazione Erasmus, che conosce e rispetta l'Europa. È difficile credere che vogliano le macerie, come biglietto da visita internazionale.

Per finire, una preghiera. Il Movimento 5 Stelle è ormai un protagonista della vita italiana. Deve mostrarsi e spiegarsi in Italia. Le riunioni segrete e le mascherate - letterali - del capo possono far sorridere, all'inizio; ma poi diventano patetiche. L'insulto come metodo di discussione non è liberatorio: è imbarazzante e volgare. L'abitudine a parlare solo con i media stranieri non è sofisticata, ma provinciale. Sapere quali sono le intenzioni di un sesto del Parlamento italiano leggendo le anticipazioni di un'intervista di Beppe Grillo alla rivista tedesca Focus è umiliante: per lui, per noi, per tutti.

Beppe Severgnini
@beppesevergnini

4 marzo 2013 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_04/severgnini-maschera-e-le-macerie_b64fe0ec-8491-11e2-aa8d-3398754b6ac0.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - L'anarchia della balena
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 04:35:58 pm
GRILLO E LA RIVOLTA DELLA RETE

L'anarchia della balena

Beppe Grillo ha buttato la rete nel malcontento italiano, e la pesca elettorale è stata abbondante. Perché il malcontento è grande e giustificato; perché il pescatore è stato abile a manovrare la barca. Ha saputo mescolare rivendicazioni e rimostranze, solidarietà e sarcasmo, tempismo e tecnologia. Non è il primo a esercitarsi in questo tipo di attività, nella politica italiana ed europea. Ma nessuno aveva ottenuto risultati così clamorosi. Perché nella rete di Grillo non c'è pesce: c'è una balena. Come definire, altrimenti, quasi nove milioni di elettori che hanno investito nel Movimento 5 Stelle molte speranze, lo hanno incaricato di rappresentare le proprie delusioni e ora s'aspettano che trovi soluzioni? Come classificare un numero di parlamentari capace di rendere difficilissima una maggioranza di governo?

Per il gran pescatore politico, passata l'euforia, si pone un problema. Gigantesco, come la sua conquista. La balena non si può tirare a bordo: la barca si rovescerebbe. Ma non si può lasciare lì a lungo, prigioniera nella rete. Perché prima o poi il cetaceo elettorale si sveglia. E allora, per chi sta in superficie, sono guai. I primi segni del risveglio della balena sono evidenti. I voti che hanno consentito a Pietro Grasso di arrivare alla presidenza del Senato erano prevedibili. La psicologia, talvolta, può più della strategia: chi era tanto orgoglioso di mostrarsi alle famiglie nel Parlamento degli italiani, non poteva avallare il «Tanto peggio, tanto meglio!» invocato dal pescatore-capo chiuso nella sua villa sul mare. E poi diciamolo. Se Beppe Grillo è un «portavoce» - così si definisce - il suo ruolo è comunicare la volontà degli eletti; non imporre la propria.

Il segnale inequivocabile del risveglio della balena è però un altro. Dopo il comunicato di centosedici parole («Trasparenza e voto segreto»), con cui Grillo rimette bruscamente in riga gli eletti del M5S, il blog s'è rivoltato. Moltissimi hanno protestato, anche per la rinuncia alla diretta-video della discussione alla vigilia del voto. Altrettanti si sono detti delusi e amareggiati. Vogliamo un movimento nuovo dove si decide insieme, hanno scritto (prima di essere in parte rimossi). Non un partito dove il capo emette comunicati, non risponde alle critiche e lascia intendere: pensatela come volete, basta che la pensiate come me.

La balena s'è svegliata, e dimostra di avere una certa personalità, come il capitano Achab imparò a sue spese con Moby Dick. Cosa farà il mastodonte, è presto per dirlo. Mentre Mario Monti mulina la piccozza, dimostrando di conoscere poco le tecniche di pesca, Silvio Berlusconi e il Pdl appaiono preoccupati. Ma come potevano pensare che la balena dormisse a lungo? Il problema è che nessuno ha idea, oggi, di quale direzione prenderà. Non Bersani, non Monti, non Berlusconi. Neppure Beppe Grillo. Non basta aver l'aspetto del lupo di mare. Bisogna esserlo davvero.

Beppe Severgnini
@beppesevergnini

18 marzo 2013 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_18/l-anarchia-della-balena-beppe-severgnini_92cdeb30-8f8d-11e2-a149-c4a425fe1e94.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - L'anarchia della balena
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2013, 06:03:50 pm
GRILLO E LA RIVOLTA DELLA RETE

L'anarchia della balena

Beppe Grillo ha buttato la rete nel malcontento italiano, e la pesca elettorale è stata abbondante. Perché il malcontento è grande e giustificato; perché il pescatore è stato abile a manovrare la barca. Ha saputo mescolare rivendicazioni e rimostranze, solidarietà e sarcasmo, tempismo e tecnologia. Non è il primo a esercitarsi in questo tipo di attività, nella politica italiana ed europea. Ma nessuno aveva ottenuto risultati così clamorosi. Perché nella rete di Grillo non c'è pesce: c'è una balena. Come definire, altrimenti, quasi nove milioni di elettori che hanno investito nel Movimento 5 Stelle molte speranze, lo hanno incaricato di rappresentare le proprie delusioni e ora s'aspettano che trovi soluzioni? Come classificare un numero di parlamentari capace di rendere difficilissima una maggioranza di governo?

Per il gran pescatore politico, passata l'euforia, si pone un problema. Gigantesco, come la sua conquista. La balena non si può tirare a bordo: la barca si rovescerebbe. Ma non si può lasciare lì a lungo, prigioniera nella rete. Perché prima o poi il cetaceo elettorale si sveglia. E allora, per chi sta in superficie, sono guai. I primi segni del risveglio della balena sono evidenti. I voti che hanno consentito a Pietro Grasso di arrivare alla presidenza del Senato erano prevedibili. La psicologia, talvolta, può più della strategia: chi era tanto orgoglioso di mostrarsi alle famiglie nel Parlamento degli italiani, non poteva avallare il «Tanto peggio, tanto meglio!» invocato dal pescatore-capo chiuso nella sua villa sul mare. E poi diciamolo. Se Beppe Grillo è un «portavoce» - così si definisce - il suo ruolo è comunicare la volontà degli eletti; non imporre la propria.

Il segnale inequivocabile del risveglio della balena è però un altro. Dopo il comunicato di centosedici parole («Trasparenza e voto segreto»), con cui Grillo rimette bruscamente in riga gli eletti del M5S, il blog s'è rivoltato. Moltissimi hanno protestato, anche per la rinuncia alla diretta-video della discussione alla vigilia del voto. Altrettanti si sono detti delusi e amareggiati. Vogliamo un movimento nuovo dove si decide insieme, hanno scritto (prima di essere in parte rimossi). Non un partito dove il capo emette comunicati, non risponde alle critiche e lascia intendere: pensatela come volete, basta che la pensiate come me.

La balena s'è svegliata, e dimostra di avere una certa personalità, come il capitano Achab imparò a sue spese con Moby Dick. Cosa farà il mastodonte, è presto per dirlo. Mentre Mario Monti mulina la piccozza, dimostrando di conoscere poco le tecniche di pesca, Silvio Berlusconi e il Pdl appaiono preoccupati. Ma come potevano pensare che la balena dormisse a lungo? Il problema è che nessuno ha idea, oggi, di quale direzione prenderà. Non Bersani, non Monti, non Berlusconi. Neppure Beppe Grillo. Non basta aver l'aspetto del lupo di mare. Bisogna esserlo davvero.

Beppe Severgnini
@beppesevergnini

18 marzo 2013 | 9:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_18/l-anarchia-della-balena-beppe-severgnini_92cdeb30-8f8d-11e2-a149-c4a425fe1e94.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Gli stellati che non brillano in educazione
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:33:32 pm
Regole e metodi

Gli stellati che non brillano in educazione

La fuga di Grillo dopo le consultazioni

Si fossero comportati così Berlusconi, Bersani o Monti avreste detto, giustamente: l'arroganza del potere davanti alle regole


«Per sfuggire ai giornalisti, ai cameramen e ai fotografi che lo inseguivano a bordo di moto e scooter, l'auto di Beppe Grillo, uscita dal Quirinale, è passata 3-4 volte col rosso, ha preso la corsia preferenziale di corso Rinascimento e ha effettuato un paio di inversioni a U dove non era consentito».

Dettaglio della cronaca di ieri, che sottoponiamo agli elettori del Movimento 5 Stelle. Si fossero comportati così Berlusconi, Bersani o Monti avreste detto, giustamente: l'arroganza del potere davanti alle regole. Poiché lo ha fatto Beppe Grillo, nessuna obiezione. O almeno non ne abbiamo ancora lette, tra le migliaia di commenti sulla giornata. Anzi: traspare un certo orgoglio davanti alle gesta del capo, campione di slalom urbano e variazioni democratiche (a quale titolo era al Quirinale? Non si sa).

Grillo capisce di comunicazione, non c'è dubbio. Ma quello che capisce lui ormai lo abbiamo capito anche noi. L'uomo ha intuito il valore della scarsità in tempi di eccesso. Meno si fa sentire, più viene ascoltato. Meno si fa vedere, più diventa prezioso. Le fotografie artigianali col cellulare e le immagini ballonzolanti di una diretta streaming diventano gioielli, per i media ricchi di canali d'uscita e poveri di informazioni in entrata. Produrre vetro e venderlo come diamante: il sogno erotico-professionale di ogni uomo di marketing.

Capiamo che ogni paragone tra Grillo e Berlusconi possa risultare indigesto ai sostenitori del primo. In effetti i personaggi non potrebbero essere più diversi, come storia, psicologia, ideologia e tricologia. Ma come venditori sono entrambi dei fuoriclasse. E, quando si tratta di non rispondere, sono due campioni. Perché diciamolo: tra un blog senza contraddittorio e un videomessaggio non c'è poi molta differenza.

Detto ciò: che Grillo ci provi, non è bello; ma ci sta. La delusione è vedere i suoi elettori entusiasti di queste tattiche. Non dev'essere per forza così, lo hanno dimostrato loro stessi. Dopo essersi ribellati in Rete al diktat del capo, che minacciava punizioni per i voti in Senato a Pietro Grasso, gli stellati - gli elettori del Movimento 5 Stelle - hanno ottenuto subito un risultato. Grillo ha ammorbidito i toni, nessuna punizione o espulsione. Perché non far sentire la propria voce anche in materia di trasparenza, comunicazione, accessibilità?
Risposta facile: poiché in Italia, in queste materie, siamo immaturi. Gli elettori di un partito ragionano come tifosi di una squadra: i propri colori vanno difesi sempre e comunque, alla faccia dell'evidenza, della logica e del buon senso. Pensate ai comunisti degli anni 70, ai socialisti degli anni 80, ai leghisti negli anni 90, agli azzurri berlusconiani negli ultimi vent'anni. Gli stellati sono nel solco della tradizione: una brutta tradizione, però.

Prendiamo le inesattezze - al limite della falsità - ripetute come un mantra, sperando che diventino verità. Ieri la coppia Crimi-Lombardi ha spiegato: abbiamo chiesto l'incarico al presidente Napolitano «in quanto primo partito del Paese». Questo, semplicemente, non è vero. Non solo il M5S ha 162 parlamentari su 945, ma è il secondo partito anche come numero di voti: 8.784.499 contro 8.932.615 del Partito democratico. Ma chi l'ha fatto notare, in Rete, è stato sbeffeggiato. Gli stellati più educati si sono limitati a dire: al primo posto Pd si arriva calcolando anche le circoscrizioni estere, e quelle non contano. Perché? «Perché Striscia ha dimostrato che sono truccate», spiega @ludopice. E va be'.

Gli esempi non sono limitati alla giornata di ieri. Abbiamo visto conferenze stampa col divieto di porre domande. Interviste riservate alla stampa straniera. La tattica - un po' leninista, diciamolo - di pretendere ogni apertura dal sistema che si cerca di infiltrare e conquistare; chiudendo invece la porta sulla propria organizzazione e i propri metodi.
Tutto questo cambierà solo quando iscritti, elettori e simpatizzanti del M5S lo chiederanno: non prima. Ci sono persone giovani, oneste e preparate, all'interno del Movimento. Hanno l'autorità, la serenità e il tono per chiedere un cambio di passo. Non devono farlo per compiacere i media. Devono farlo per diventare grandi: ormai è ora.

Beppe Severgnini

22 marzo 2013 | 8:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_22/stellati-educazione-severgnini_be29a214-92bd-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il contatto con la realtà
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2013, 11:01:01 pm
LE MOLTE COSE DA FARE IN FRETTA

Il contatto con la realtà

Omissioni, guasti, irresponsabilità, lentezze, esitazioni, calcoli strumentali, tatticismi, sperimentalismi, sterilità, autoindulgenza, nulla di fatto, corruzione, sordità e dispute banali. Sono le precise parole usate da Giorgio Napolitano per definire l'operato della classe politica, nell'ordine in cui sono state pronunciate. Davanti a lui, i parlamentari applaudivano freneticamente. Delle due l'una: o avevano capito, e si concedevano un applauso liberatorio; oppure non avevano capito, e si esibivano in un applauso di circostanza.

Esiste, a dire il vero, una terza possibilità: che avessero capito, e abbiano già dimenticato. L'incarico a Enrico Letta non ha ancora 48 ore, e già si sentono i soliti commenti bellicosi, le consuete dichiarazioni stentoree, i proclami con le condizioni irrinunciabili per aderire a un governo che - lo sappiamo - non ha alternative. A sinistra e a destra, molti sono intenti a piantare paletti, come in un film di vampiri.

La pazienza degli italiani è antica, e la nostra saggezza è spesso preterintenzionale. Ma la pazienza, prima o poi, finisce; e la saggezza rischia di diventare rassegnazione. In febbraio, il voto massiccio al Movimento 5 Stelle è stato un urlo, un monito e una richiesta di aiuto. Molti elettori capivano che una moderna democrazia non può affidarsi alle idee, ai metodi e al personale politico messo in campo da Beppe Grillo. Eppure lo hanno votato. Ma quando una democrazia è costretta a scegliere l'incompetenza come antidoto all'inefficienza è messa male. Molto male.

Questa è l'ultima spiaggia della Penisola: più in là c'è solo il mare in tempesta. Il voto - in queste condizioni sociali ed economiche, con questa legge elettorale - è un azzardo pericoloso. Ci sono molte cose da fare molto in fretta: la storia non aspetta i dibattiti ideologici sul come tagliare le tasse. Lavoro per i più giovani, cassa integrazione, crediti per le imprese, l'Iva che il 1° luglio - in assenza d'iniziative - salirà d'un punto, affossando definitivamente i consumi. Sono cose che sappiamo tutti, eletti ed elettori. Quindi, avanti: si cambia.

I saggi nominati dal presidente Napolitano si sono rivelati concreti. In poco tempo hanno prodotto poche pagine di buone idee: nel Paese pleonastico, una piccola rivoluzione. Se siamo tutti d'accordo, cosa ci vuole per sostituire questo Senato-fotocopia con un Senato delle Regioni, più utile e agile? Per ridurre e regolare il finanziamento pubblico ai partiti? Per abolire le inutili Province? Sono riforme sostanziali, simboliche e salutari. L'Italia ha voglia di novità. È primavera: bisogna cambiare aria nelle stanze del cervello.

Capiranno, i partiti, che hanno un'opportunità e nessuna alternativa? Il recente passato induce alla cautela. La grottesca irriconoscenza verso Mario Monti - che ha sbagliato a candidarsi, ma era stato chiamato al governo d'urgenza, come un medico al pronto soccorso - s'è mescolata infatti con una furbesca amnesia (chi aveva ridotto l'Italia così, se non l'inefficienza dei partiti e dell'amministrazione?). Ora hanno l'opportunità di giudicare e decidere: non la sprechino.

Enrico Letta è un uomo competente, calmo e relativamente giovane. Le prime due qualità gli serviranno per navigare; la terza caratteristica è stata valutata con favore dall'Europa, che non può smettere di guardarci. Ma non vuole vedere un altro film di vampiri. Roba vecchia: e non c'è mai il lieto fine.

Beppe Severgnini

26 aprile 2013 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_26/contatto-realta_c25b67b8-ae2a-11e2-b304-d44855913916.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il Grillo canta, non insulta!
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2013, 04:39:33 pm
Il Grillo canta, non insulta!


Dopo un fondo sul “Corriere”, una partecipazione a “Ballarò” e una a “Otto e mezzo”, dove ho espresso opinioni sul Movimento 5 Stelle, ho raccolto una cascata di commenti aggressivi, volgari o minacciosi. Soprattutto su www.beppegrillo.com (ma gli insulti non erano vietati?), sul canale Youtube Rai (chi lo modera?), su Facebook e Twitter. Esagero? Cosa direste, se qualcuno scrivesse di voi “Non vale nemmeno il prezzo del colpo che meriterebbe ampiamente di ricevere in mezzo agli occhi”?

 

Sono spaventato? No. Offeso? Nemmeno. Dispiaciuto? Certo. Perché questo è ormai il dibattitto pubblico in Italia. E il web – l’ho scritto, lo ripeto – non è un’attenuante: è un’aggravante. Internet è troppo importante, affascinante e libera perché bande di incoscienti, travestiti da libertari, possano rovinarla.

 

Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio diranno: e noi cosa ci possiamo fare? Rispondo: molto, potete fare. Potreste dire a vostri sostenitori, per esempio, che reagire così a ironie o critiche è assurdo. Potreste aggiungere che una formazione politica nuova e originale – il Movimento 5 Stelle – non può e non deve ospitare attacchi personali di questo tipo (il commento citato sopra è ancora sul blog www.beppegrillo.com – firmato andrea f. 26.04.13 12:30).

 

Soprattutto, caro Grillo, lei potrebbe evitare d’aizzare i suoi elettori. Se dopo una frase scherzosa – “Il dibattito in streaming tra Enrico Letta e Vito Crimi? Come mettere di fronte Bayern Monaco e Sambenedettese: quasi scorretto!” – lei pubblica una mia foto, titola “Mescolarsi vuol dire sporcarsi di merda”, storpia il mio nome e quello del “Corriere”, insulta Lilli Gruber e dice che, in altri tempi, io avrei “decantato il Duce, Pinochet e Gromiko”, è chiaro: i suoi elettori penseranno che è legittimo spingersi più in là (oltre a chiedersi chi diavolo era Gromiko).

 

Non sono preoccupato, ripeto, non denuncerò nessuno e so che molti altri italiani hanno ricevuto il “trattamento a cinque stelle”. Ma credo sia venuto il momento di dirlo: adesso, basta. Non si può vivere d’insulti. Cominci lei, Grillo. Ricordi d’essere un leader cui nove milioni di persone hanno dato fiducia. Il desiderio di stupire, e il fastidio per il dissenso, porta a considerare ogni avversario un nemico, ogni obiezione un’offesa, ogni dubbio un tradimento.

 

Ho letto “Il Grillo canta sempre al tramonto”: non mi pare d’aver trovato una liberatoria dell’insulto. Il Movimento 5 Stelle – come la Lega, in tempi recenti – è servito a incanalare pacificamente la protesta e l’insofferenza: lo riconosco. E, per adesso, non vedo un collegamento tra toni minacciosi ed episodi di violenza. Ma è tempo di voltare pagina. L’Italia ora ha un governo, e ha bisogno di un’opposizione battagliera e informata. Tocca a voi. Le urla, le minacce e le volgarità non sono degne del più originale movimento politico di questo secolo. L’Italia si cambia con le idee in testa, non con la bava alla bocca.

 

Aspetto una risposta. Ma le risposte, come i sorrisi, dalle vostre parti sono merce rara.

 

(dal Corriere della Sera 9.5.2013)

 
Beppe Severgnini

da - http://italians.corriere.it/2013/05/09/il-grillo-canta-non-insulta/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - L'ALIMENTO MALSANO DEL POPULISMO
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2013, 06:17:18 pm
L'ALIMENTO MALSANO DEL POPULISMO

Oltre il limite della decenza

Beppe SEVERGNINI

«Quando vedo il ministro Kyenge non posso non pensare a un orango». È incoraggiante sapere che il senatore Roberto Calderoli pensa, ogni tanto.
Non abbastanza, però. Se riflettesse, l'inventore del Porcellum , nefasta legge elettorale, capirebbe che zoologia e politica non vanno d'accordo. Se s'informasse, e sapesse cosa dicono di lui e di noi nel mondo, il vicepresidente del Senato lascerebbe l'incarico e chiederebbe scusa.
Non solo a Cécile Kyenge, ma agli italiani che rappresenta.

L'intervista al Corriere , ieri, ci presenta invece un uomo inconsapevole, che con ogni affermazione aggrava la propria posizione: «Amo gli animali. E poi il mio era un giudizio estetico, non politico». Non faccia l'ingenuo, il senatore Calderoli: non può non sapere che certi accostamenti fanno parte dell'arsenale dei razzisti. L'impressione è un'altra. Superato lo stupore per la reazione pubblica, il leader leghista ha capito che quell'uscita offensiva gli serve a riconquistare il centro della scena, dove la Lega ultimamente è transitata solo per litigi grotteschi, appropriazioni indebite e scandali in famiglia.

Se questo sospetto fosse fondato, sarebbe grave. Significa che tutto vale, per alcuni personaggi e per certi movimenti, quando serve a raccattare qualche applauso e un po' di consenso. La Lega non è sola, infatti, a scegliere questa strategia: altri, in questi mesi e anni, l'hanno utilizzata con cinismo. Il disagio della maggioranza degli italiani non conta; l'imbarazzo internazionale nemmeno. L'importante è eccitare le proprie truppe.

Chi lo conosce lo sa: Roberto Calderoli è tutt'altro che uno sprovveduto. Quella frase - come altre simili che l'hanno preceduta - rappresenta una sorta di istinto calcolato, comune ai populisti di tutto il mondo. Non importa se un'affermazione è volgare, aggressiva, imbarazzante. Basta che piaccia ai potenziali elettori.

È un calcolo pericoloso. Perché le parole sono semi: chi li sparge non può disinteressarsi di cosa crescerà. Se i capi si permettono di paragonare una donna di colore a un orango, i seguaci si riterranno autorizzati a giudicare una persona per il colore della sua pelle. Si sentiranno giustificati quando la liquideranno con una battuta, la offenderanno con un paragone, la umilieranno con uno sguardo o un «tu» ingiustificato.

Leader viene da to lead, condurre. Chi comanda deve guidare, non seguire; consigliare, non assecondare; ispirare, non istigare. Non è fastidiosa «correttezza politica» quella che spinge i media di tutto il mondo, in queste ore, a riportare e deprecare la vicenda Calderoli. È la consapevolezza che tutti i faticosi passi avanti contro il razzismo rischiano di diventare inutili. L'Italia è un grande, generoso Paese europeo; non può ragionare come un piccolo, astioso retrobottega.

Ho ascoltato l'audio del comizio di Roberto Calderoli a Treviglio, pubblicato da Corriere.it: la frase non gli è sfuggita, era il terminale di un ragionamento. È grave che gli uomini politici - non solo leghisti - considerino i comizi una zona franca, dove l'eccesso e l'offesa servono per conquistarsi l'applauso. È un errore di giudizio pari a quello di chi considera Internet un posto senza regole. Comizi, piazze, blog e social network sono luoghi pubblici, dove occorre tenere comportamenti decenti. Perché il contrario di decenza è indecenza. Ne circola abbastanza, di questi tempi, per aggiungerne altra.

16 luglio 2013 | 7:57
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Beppe Severgnini@beppesevergnini

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_16/oltre-limite-decenza_fced56d2-edd8-11e2-98d0-98ca66d4264e.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Soltanto un giornale russo difende Berlusconi
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:40:38 am
Visti dall'estero

Il mondo ci guarda (e non capisce): quello che pensano e dicono di noi

Per tedeschi o americani è sospetta ogni interferenza sui magistrati.

Soltanto un giornale russo difende Berlusconi


Giovedì sera, pochi minuti dopo la pronuncia della Corte di cassazione, sulle frequenze di Bbc World Service è andata in onda una curiosa conversazione. Lucio Malan, senatore del Pdl, spiegava con convinzione che la condanna era ingiusta e Silvio Berlusconi era innocente.
Il conduttore, serafico, ha ribattuto: «Mi scusi, ma come può dir questo? Tre gradi di giudizio hanno stabilito il contrario».

Nella sua semplicità, lo scambio illustra il nostro vero, grande rischio nazionale: all'estero non capiscono. Non capisce l'opinione pubblica internazionale. Non capiscono i giornali, le televisioni, le radio e i siti web. Non capiscono i conservatori, i liberali e i socialisti. Nessuno capisce come, in una democrazia, una parte del potere politico possa rivoltarsi contro il potere giudiziario, pur di difendere il proprio capo.

È un coro unanime. The Independent (inglese): «Berlusconi come Al Capone». Süddeutsche Zeitung (tedesco): «Machiavelli di celluloide». Libération (francese): «Berlusconi, naufragio all'italiana». Washington Post (americano) si chiede quale villa Berlusconi sceglierà per la reclusione. The Guardian, da Londra: «Silvio Berlusconi ai domiciliari, forse nella villa del bunga-bunga». El País, da Madrid: «È così la vecchia volpe (el viejo zorro), grande conoscitore dell'idiosincrasia italiana, ha ottenuto quello che sarebbe difficilmente immaginabile in ogni altro Paese del mondo: convertire i panni sporchi giudiziari in combustibile per l'ultima tappa della carriera politica. La cosa più allucinante, e anche la più triste per l'Italia, è che il trucco funziona».

Vignette, grafici, cronologie giudiziarie, commenti. Nel duello, riassunto da Luigi Ferrarella, «tra la volontà della magistratura di applicare a Berlusconi le regole valide per tutti e la sua pretesa di esserne esonerato a causa del consenso», i media del mondo non sembrano aver dubbi: stavolta, e non per la prima volta, stanno con la magistratura.

Il potere giudiziario - da Washington a Londra, da Berlino a Tokyo - è considerato l'arbitro della vita civile. Un arbitro discusso e discutibile: ma comunque l'arbitro. E se tre arbitri, uno dopo l'altro, decidono che una persona è colpevole, significa colpevolezza: il giudizio umano, oltre, non può andare. Le nostre diatribe italiane sull'accanimento giudiziario risultano incomprensibili. «Berlusconi è stato indagato e processato come nessun altro!», protestano i sostenitori in Italia. La reazione, fuori d'Italia, si può riassumere così: «Bene. Ora processate anche gli altri».

Opinioni brutali? Considerazioni sempliciste? Ma l'opinione pubblica internazionale è, spesso, brutale e semplicista. Pensate a quanto sappiamo noi sul funzionamento della democrazia americana o tedesca (l'equilibrio tra i poteri, i controlli incrociati). I cittadini tedeschi e americani sanno altrettanto (poco) della democrazia italiana. Sanno però che il legislatore legifera, il governo governa e il potere giudiziario giudica. Ogni interferenza appare sospetta. Le norme spinte in Parlamento per alleggerire la propria posizione processuale, durante gli anni di governo: questo sì, di Silvio Berlusconi, viene spesso ricordato.

All'agenzia Nuova Cinao al quotidiano giapponese Asahi Shimbun non interessa se la magistratura italiana ha un'agenda politica. Quest'ultimo si limita a scrivere che «un ex premier è stato condannato per frode fiscale» (è l'unico che non mette il nome di Berlusconi nel titolo). Solo il quotidiano russo Kommersant si schiera dalla parte del condannato. Titola: «Berlusconi non è stato scomunicato dalla politica» e definisce la sentenza «scandalosa» perché mira a terminarne la carriera politica.

La vulgata berlusconiana, raffinata negli anni dai media di proprietà, è che esista una cricca di italiani - giornalisti, accademici, qualche politico - in grado di influenzare le opinioni nei luoghi che contano, Londra e New York in particolare. Considerato l'accesso alle informazioni nel XXI secolo, questa spiegazione appare surreale, astuta o infantile (fate voi). È più logico e più semplice accettare l'evidenza. Sono ormai molti, all'estero, a condividere l'opinione sintetizzata in un titolo dell' Economist nel 2001: Berlusconi è inadatto a guidare l'Italia.

Certo, i media più influenti - quelli che i mercati consultano e gli investitori ascoltano - non hanno mai mostrato indulgenza per il personaggio. Dopo otto di governo inefficace, quattro anni di scandali sessuali, una dozzina di processi, sette prescrizioni e una condanna, sembrano aver perso la pazienza. «Cala il sipario sul buffone di Roma», è il titolo spietato del Financial Times . Il New York Times, secondo cui la vicenda «mette il fragile governo italiano sulla strada della crisi», scrive: «È opinione diffusa che Mr. Berlusconi voglia conservare un ruolo pubblico nella speranza di esercitare l'influenza politica di cui ha bisogno per proteggere i propri interessi economici».

Certo dev'essere sgradevole, per un elettore di centrodestra, leggere opinioni tanto sfavorevoli; ed è doloroso, per ogni italiano, sapere che l'opinione negativa su un leader ricade anche, inevitabilmente, sul Paese che rappresenta. Ma bisogna prenderne atto, e mantenere la calma.

Se un uomo mite come Sandro Bondi evoca «il rischio di guerra civile» non dobbiamo stupirci se i media internazionali ci trattano talvolta con fastidio. Una dichiarazione irresponsabile, dal satellite e sulla banda larga, viaggia più veloce del magnifico lavoro di tanti connazionali, in ogni campo. Pdl significa Popolo della Libertà, non Perdere di Lucidità. Qualcuno, nel partito, trovi il coraggio di spiegare al padre-padrone che non può trascinare con sé tutta l'Italia. I nostri amici nel mondo non capirebbero; e i nostri avversari non aspettano altro.

4 agosto 2013 | 9:36
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Beppe Severgninibeppesevergnini

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_04/berlusconi-mondo-non-capisce-pensano-dicono-noi_5e036ed8-fccb-11e2-ac1e-dbc1aeb5a273.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ero a Madonna di Campiglio e li ho incrociati.
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:10:02 pm
AGO
14

Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi
Noi maschi dovremmo occuparci di più del femmicidio

di Beppe Severgnini


Ero a Madonna di Campiglio e li ho incrociati. Professionisti di mezza età con redditi da adulti e vezzi da giovani: un’auto veloce, un’attenta trasandatezza nei vestiti, le salite in bici come nuova sfida, il calcio o il tennis praticati con agonistica serietà, i risultati esibiti come prove di gioventù residua. Chiacchiere notturne di amori e viaggi. L’estate come stagione speciale, un catalogo di possibilità tra città vuote e spiagge piene; e la montagna dell’infanzia, dove tornare da vincitori.

Non ho incontrato Vittorio Ciccolini con Lucia Bellucci, ma avrei potuto. A Campiglio come in tante località turistiche italiane, belle e borghesi.

Una coppia italiana in rotta verso un ristorante: lei, estetista, sorridente sotto tanti capelli; lui, avvocato, concentrato come il protagonista di un telefilm. Finito male, purtroppo: Vittorio, veronese di 45 anni, ha ucciso Lucia, pesarese di 31 anni. L’ha strangolata, l’ha accoltellata, ha cercato di metterne il corpo nel bagagliaio della Bmw cabrio, non c’è riuscito e ha guidato col cadavere a fianco fino a Verona. Poi ha chiuso macchina e vittima nel garage della madre. Arrestato, ha confessato: «Ho fatto una cavolata». Chiamala cavolata.

La sociologia dell’orrore è rovesciata: i mostri non sono semplificazioni lombrosiane, personaggi abbruttiti e abitualmente violenti. Molti studiano, lavorano, guadagnano, si vestono bene. Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi.

Noi maschi dovremmo occuparci di più del femmicidio: parlarne, scriverne, domandare, provare a capire. Anche a costo di dire e scrivere leggerezze. È invece un dramma confinato in un universo femminile: ne parlano le donne, ne scrivono le donne, le fotografie sono quasi sempre delle vittime e non dei carnefici. È come se noi uomini volessimo prendere le distanze da qualcosa che non capiamo e di cui abbiamo paura.

Ha ragione Giulia Bongiorno, che suggerisce di evitare “l’ultimo incontro” che spesso il maschio ossessivo pretende: perché potrebbe diventare l’ultimo per davvero. Intervistata da Giulia Dedionigi su Corriere.it, l’avvocato penalista annuncia che assisterà i famigliari della ragazza uccisa a Campiglio. E consiglia alle donne di non minimizzare, di interpretare i segnali in modo razionale:

«un approccio pressante non è più corteggiamento, ma un’indicazione che qualcosa comincia a non andare».

L’avvocato Bongiorno ha ragione: ma non è facile.

Sul sito dello Studio Legale Corcioni di Verona, dove l’omicida lavorava, una biografia esemplare nella sua normalità. «Vittorio Ciccolini – Nato a Verona il 20 luglio 1968, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Modena il 4 marzo 1997 con la votazione di 110/110, titolo della tesi Problemi in tema di colpevolezza. Ha superato l’esame di Stato presso la Corte d’Appello di Venezia. È iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona e alla Camera Penale Veronese. Si occupa di affari penali, anche in qualità di difensore d’ufficio, ed è costantemente impegnato in vari approfondimenti della materia. Sue passioni, oltre il diritto, sono la lettura di testi filosofici del Maestro di Königsberg (der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir), la pratica del tennis a buon livello, dello sci e la ricerca di funghi (stagione permettendo, Boletus edulis e Cantharellus cibarius)».

Filosofia e micologia. Kant e funghi. Sci e tennis. Codici e processi. E poi, una sera d’agosto del 2013, un giro in Val Rendena, simile a tanti altri. Raccontano i camerieri della locanda “Mezzosoldo” di Pinzolo al cronista dell’Adige: «Hanno mangiato tagliata con verdure e bevuto due bottiglie di Marzemino, lui assecondava in tutto le richieste di lei e poi andava continuamente in bagno». Sono usciti dal locale e hanno parlato a lungo nel parcheggio. Poi sono partiti. Il finale, purtroppo, lo sappiamo.

È in questa normalità che noi maschi dobbiamo scavare. 762 donne uccise dal 2009: una ogni tre giorni. Non chiamiamoli “omicidi passionali”: la passione non c’entra. Non chiamiamoli raptus: sono atti spesso prevedibili e talvolta preparati. Sono azioni covate tra ossessione, orgoglio ed egoismo, che sfociano in un epilogo orrendamente semplice. «Ogni delinquente va soggetto, nel momento del delitto, a una specie di prostrazione della volontà e della ragione, alle quali subentra invece una puerile, fenomenale leggerezza…».

Vi sembra eccessivo ricorrere a Fedor Dostoevskij per cercare di capire un avvocato di Verona che in una notte d’estate uccide e si distrugge? Non lo è. I démoni purtroppo sono tra noi, e dentro di noi.

twitter @beppesevergnini

da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/noi-maschi-dovremmo-occuparci-di-piu-del-femmicidio/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - LAMPEDUSA È UN’EMERGENZA COMUNE
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2013, 05:29:44 pm
LAMPEDUSA È UN’EMERGENZA COMUNE

Il muro europeo dell’indifferenza


L’Europa non sa più emozionare, dicono. Se fosse vero, sarebbe grave. Di sicuro, l’Europa non sa più emozionarsi: e non è meno grave. La tragedia a puntate nel Canale di Sicilia non viene percepita come un dramma comune. Non saranno agenzie come Frontex o programmi come Eurosur, da soli, a trovare le soluzioni per affrontare una migrazione epocale dall’Africa e dal Medio Oriente. Saremo noi, mezzo miliardo di europei. Ma gli europei per ora sanno poco, pensano in fretta, agiscono tardi.

L’anatomia continentale, in fondo, è semplice. Le istituzioni Ue rispondono - direttamente o indirettamente - alle opinioni pubbliche nazionali, le opinioni pubbliche nazionali rispondono ai propri occhi e alla propria pancia. Ciò che vedono e sentono è fondamentale. I soccorsi internazionali, dopo il terremoto dell’Aquila (2009), sono arrivati perché la comunità degli europei ha saputo, ha visto, ha capito e ha risposto. La distesa di bare posata oggi sulla porta dell’Europa - i morti accertati dopo i recenti naufragi sono più numerosi delle vittime in Abruzzo - non è bastata a smuovere gli uomini e le donne del continente. I cadaveri dei bambini che galleggiano nell’acqua non hanno toccato il cuore di irlandesi e olandesi, inglesi e polacchi, tedeschi e spagnoli.


L’America ha invece mantenuto la capacità di emozione collettiva. La lingua comune e alcuni media - dal New York Times ai network televisivi, da Usa Today a National Public Radio - hanno conservato una capacità di mobilitazione. Vent’anni fa, l’intervento in Somalia seguì alcune sequenze traumatiche in televisione; la risposta militare in Afghanistan è figlia delle immagini sconvolgenti dell’11 settembre. Un disastro naturale - pensate all’uragano Sandy, un anno fa - viene percepito come un problema federale; quindi, per definizione, collettivo. La risposta adeguata di Barack Obama, in quel caso, s’è rivelata fondamentale per la rielezione. La risposta inadeguata di George W. Bush all’uragano Katrina (2005) ha segnato quella presidenza.


In Europa non avviene. Emozioni e reazioni, punizioni e premi, sconfitte e vittorie: tutto è locale. Abbiamo messo insieme i mercati, non il cuore e il futuro. I media, diversi per lingua, sono divisi. Internet è potente e ubiqua, ma dispersiva: permette la parcellazione dei problemi e, quindi, delle risposte. Ognuno dei 28 Paesi dell’Unione è assorbito dalle proprie ansie: il deficit, la disoccupazione giovanile, il finanziamento del Welfare, i partiti xenofobi. Anche le migrazioni, certo: ognuno le sue. La Grecia guarda al confine turco. Germania e Polonia ai movimenti dall’Est. In Nord Europa e nelle isole britanniche discutono di migrazioni, in questi giorni. Ma non quelle in corso dall’Africa e dalla Siria attraverso il mare. Quelle attese di romeni e bulgari, che dal 1° gennaio potranno muoversi liberamente nella Ue.


Gli spagnoli, dieci anni fa, gridavano che i cadaveri marocchini sulle coste erano un dramma di tutti: nessuno li stava a sentire. Oggi tocca a noi sperimentare la sordità dell’Europa. Giorgio Napolitano ha ragione quando ricorda, angosciato, che nel Canale di Sicilia è in corso una tragedia collettiva, e tutti devono sentirsi coinvolti. Che malinconia: abbiamo bisogno di un uomo di 88 anni, che ha sperimentato dove conduce l’apatia europea, per ricordarci l’evidenza. Abbiamo messo in comune la moneta, non la coscienza. Ma sono le coscienze che cambiano la storia.

14 ottobre 2013
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Beppe Severgnini

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_14/muro-europeo-dell-indifferenza-a55d1e30-3490-11e3-b0aa-c50e06d40e68.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - BERLUSCONI come Kurtz di Conrad
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2013, 10:25:36 pm
BERLUSCONI come Kurtz di Conrad

«Cuore di tenebra», il potere senza eredi

Non c’è spazio per il pensiero critico, nell’accampamento del Colonnello-Cavaliere. Solo per devozione, obbedienza, riconoscenza

Nel racconto Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Kurtz è un mercante d’avorio, inviato in Africa da una società belga: potente e spietato, si ritira gradualmente dalla civiltà, circondato dagli indigeni che lo adorano e lo considerano un semidio. Nel film Apocalypse Now l’azione si sposta nella giungla del Sud-est asiatico, durante la guerra del Vietnam: l’inquietante Colonnello Kurtz, interpretato da Marlon Brando, si rifugia nella parte remota di un fiume e diventa un rinnegato.
C’è perfino un videogioco ( Spec Ops: the Line ), ambientato in una spettrale Dubai. Gli autori, riconoscendo il debito, hanno chiamato il protagonista Colonel John Conrad.

Da Forza Italia al Pdl e ritorno: «Silvio risorgerai»
di Nino Luca

Kurtz non è solo un personaggio letterario.
È una tentazione perenne del potere. L’isolamento, la scelta di non misurarsi col mondo, il disinteresse per il futuro, la convinzione di costituire l’inizio e la fine. Denaro e carisma creano e mantengono una corte di adoratori e adulatori, disposti a rinunciare alla propria autonomia in cambio di incarichi, benefici e prossimità al capo. Sanno che criticarlo è impossibile: sarebbero disprezzati ed estromessi.

Non è Kurtz, Silvio Berlusconi: non ancora. Ma l’incapacità di organizzare una successione è diventata inquietante. Gli eredi politici vengono illusi e liquidati uno
a uno, appena manifestano segni di indipendenza. Sul Corriere di ieri Pigi Battista ha abbozzato un elenco: Antonio Martino, Marcello Pera, Pierferdinando Casini, Giulio Tremonti, Roberto Formigoni, Gianfranco Fini, ora Angelino Alfano. Ormai è chiaro. Non c’è spazio per il pensiero critico, nell’accampamento del Colonnello-Cavaliere. Solo per devozione, obbedienza, riconoscenza.

È un problema che ogni leader politico dovrebbe porsi, ma raramente avviene. Personalità, fascino e consapevolezza di sé - diciamo pure egocentrismo - sono necessari per sfondare. Sono le qualità che l’elettorato moderno chiede, non solo in Italia. Ma questi stessi elementi rendono difficile la successione: il leader carismatico vede l’erede come la prova della propria mortalità politica, e finisce per detestarlo. Lui o lei - pensate a Margaret Thatcher - si considera la misura di tutte le cose, e ci sarà sempre qualcuno, intorno, pronto ad assecondarlo. Per interesse, per debolezza, per gratitudine, per una combinazione di questi motivi.
La deriva conradiana non è un rischio limitato alla politica. In Italia Kurtz si nasconde nell’università e nell’industria, nella grande distribuzione e nella finanza, perfino nello sport e nel volontariato. Ma nella politica il fenomeno è particolarmente evidente e grave. Perché non c’è solo Berlusconi, e non c’è solo la destra.

Kurtz, da noi, non è solo un colonnello, bensì un maggiore, un capitano, un ufficiale di complemento: pensate a Marco Pannella, ad Antonio Di Pietro, a Umberto Bossi e al loro tramonto solitario. Pensate a Nichi Vendola, agli incarichi che accumula e agli errori che commette. Pensate a Mario Monti e al capitale politico che sta sprecando. Pensate a Beppe Grillo, autodefinitosi furbescamente «il portavoce» del movimento, quando ne è il padre-padrone, come dimostrano i recenti interventi in materia di cittadinanza e legge elettorale. Il M5S, senza di lui, non sarebbe nato; e tutto lascia credere che a lui non sopravviverà. È uno spettacolo collettivo che Matteo Renzi - instancabile, carismatico, ambizioso - deve osservare con attenzione. L’Arno non è il Mekong né il fiume Congo, e lui non deve cadere nella trappola di Kurtz.

Perché il giudizio su un leader si misura anche - anzi, soprattutto - sulla sua generosità: su quanto è capace di costruire e lasciare dopo di sé. L’Italia ha bisogno di una destra moderna, democratica ed europea: ne ha bisogno anche chi non la voterà mai. Una formazione politica che non dipenda dai destini, dagli umori e dalla risorse di un uomo solo. Silvio Berlusconi non ha il diritto di pensarci: ne ha il dovere. «Dopo di me, il diluvio!» è un pessimo motto. Dopo di sé meglio una pioggia leggera, poi nuovi fiori.

18 novembre 2013
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BEPPE SEVERGNINI @beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_18/cuore-tenebra-potere-senza-eredi-3df1d436-501d-11e3-b334-d2851a3631e3.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - CHI STRUMENTALIZZA IL VERO DISAGIO
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 11:02:41 pm
CHI STRUMENTALIZZA IL VERO DISAGIO

La geografia del malessere


Tutti abbiamo incontrato, negli ultimi giorni, persone preoccupate e deluse. Lavorano negli ospedali, sui treni, nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche e nelle caserme. La sera tornano in appartamenti di periferia, salgono per scale bisognose di manutenzione, parcheggiano davanti a una villetta a schiera. Di loro non ha parlato nessuno.

Abbiamo parlato tutti, invece, dei Forconi. Un nome bucolico e minaccioso, una miscela di frustrazione e prepotenza, la capacità di sfruttare l’ansia iconografica dei media. Non sono molti, qualche migliaio. Ma uno scontro di piazza produce immagini più interessanti di una riunione intorno al tavolo della cucina, cercando di far quadrare i conti.

Se l’Italia non esplode è per merito di milioni d’italiani seduti intorno a milioni di tavoli in milioni di cucine: ma non bisogna abusare della loro pazienza. Finché la protesta rimane in certe mani, ed esce da certe bocche, resta confinata al folklore: le divisioni grottesche intorno alla «marcia su Roma» lo dimostrano. I partiti politici non credano, tuttavia, di liquidare l’accaduto come uno sfogo. Indulgenti verso i Forconi, o mescolati tra loro, ci sono italiani normali: umiliati dalle autorizzazioni, assillati dai pagamenti, asfissiati dalle imposte.

Sono passati dieci mesi dal trionfo elettorale del Movimento 5 Stelle, e qualcuno sembra aver dimenticato la lezione. Esiste un’Italia che non ce la fa più: economicamente, fiscalmente, psicologicamente. Appena trova un megafono per gridare «Basta!» lo afferra. È una fortuna che, negli ultimi vent’anni, siano stati megafoni e non manganelli: dal referendum di Segni alla Lega di Bossi, dalle promesse di Berlusconi ai vaffa di Grillo.

Nessuno di questi, per motivi diversi, ha saputo diventare un partito: con le sue regole, i suoi ricambi, i suoi recuperi. Eppure tocca proprio a loro - ai partiti - creare il ponte tra le cose chieste e le cose fatte. Accade dovunque. Quando le democrazie hanno cercato alternative, hanno trovato guai. Come minimo, hanno perso tempo. La protervia, la pigrizia e l’egoismo famelico dei partiti italiani non costituiscono un’attenuante: non provino a tirarsi indietro. Matteo Renzi non ha solo il diritto di guidare il Partito democratico: ne ha il dovere. A Milano, ieri, non è stato «incoronato», come s’è letto. La corona spetta ai re; ai servitori toccano secchio e straccio, perché c’è molto da pulire e riordinare. Cambierà anche a destra e al centro? Si spera. Perché se i partiti non fanno il lavoro, ci penserà qualcun altro. E potrebbe risultare meno innocuo dei Forconi, meno velleitario di Beppe Grillo.

In una delle sue poesie più belle, The Second Coming , W.B. Yeats scrive: «I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata». In democrazia i migliori sono - dovrebbero essere - coloro che sono stati eletti per scavare nella complessità e uscirne con qualche soluzione. I peggiori non sono necessariamente cattivi, ma non hanno la preparazione, la disciplina e i mezzi per risolvere i problemi che si accumulano. Hanno invece passione, rabbia, energia. In mancanza di meglio, qualcuno potrebbe accontentarsi. Sarebbe un errore. Chi pensa che i problemi d’Italia si risolvano con sputi, vaffa e forconi, prenda un libro di storia, e capirà come può andare a finire. Male. Molto male.

16 dicembre 2013
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Beppe Severgnini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_16/geografia-malessere-ed877a4a-6616-11e3-8b64-f3a74c1a95d8.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Quant’è romano un italiano?
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:46:44 pm
Un collega della televisione olandese, Rop Zoutberg, chiede di registrare un’intervista sul Lungotevere, da utilizzare in un servizio ispirato a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Il clima è più nederlandese che italiano – sole ghiacciato, acqua grigioverde – e la domanda d’apertura lo conferma: “Cos’hai in comune con Jep Gambardella e con Roma?”. La prima parte della risposta è facile: più capelli e meno cinismo in testa. La seconda, invece, è complicata. Quant’è romano un italiano?

La prendo alla larga. Dico, indicando il fiume che schiaffeggia l’isola Tiberina, che Roma è la nave-scuola d’Italia: da lei abbiamo imparato a ingioiare molto e digerire tutto. Roma è la Grande Metabolizzatrice: datele tempo e ogni cosa verrà consumata e messa in circolo. Imperatori e papi, arte e ideologia, divertimento e sacrificio, genio e politica. Gli attori di oggi non si illudano: saranno presto le comparse di ieri, puntolini nella storia.

Invito il collega olandese, arrivato da poco in Italia, a non farsi ingannare da una città che, anche in questo, è assai italiana: gode a spiazzare chi osserva, si compiace della confusione altrui. Se qualcuno ci prende, invece, Roma si preoccupa. “La grande bellezza” poteva girarla soltanto un forestiero e piace soprattutto ai forestieri: perché offre un’interpretazione, di cui i residenti non hanno bisogno. Ogni romano ha la sua Roma in testa, e ci lavora dall’infanzia.

Anche “Otto e mezzo” (1963) è un capolavoro che solo un non-romano poteva girare: però ai romani piace. Il motivo è semplice. Federico Fellni dipingeva una città e una nazione in ascesa, mentre Paolo Sorrentino (2013) racconta una città e una nazione in stallo. Il primo genera indulgenza; l’altro, disagio. I personaggi del giro di Gambardella sono come le statue del Pincio: stanno lì a ricordare che in Italia e a Roma è successo di tutto, ma potrebbe anche non succedere niente. 

I nobili sfiniti, i naufraghi della sinistra presuntuosa, le donne aggrappate alle conoscenze e al botulino. Non sono più protagonisti, ma nuotano intorno al protagonisti del nuovo potere, che li usa per arredare le serate. Crede, con questo, di aver conquistato Roma; ne è invece rapidamente sedotto. Piazza del Quirinale intasata di auto blu per la “cerimonia degli auguri” (non erano solo ambasciatori!) vuol dire due cose: chi comanda continua a non capire, e Roma detta tempi e modi. Meridionali e settentrionali, forzisti e leghisti, ex-comunisti e neo-liberisti, conservatori e grillini (Laura Bottici, questore M5S al Senato, pure lei al Colle in auto blu). Date un titolo a un italiano e scriverà un romanzo: il suo.

La Grande Bellezza italiana assiste a tutto questo, impotente ma non sconfitta. La falsifichiamo, la calpestiamo, la inganniamo: ma è sempre lì, in attesa. Un olandese intirizzito sul Tevere in dicembre la coglie meglio di tanti di noi: omini agitati e immobili, come in quadro di  Hieronymous Bosch.

 
(dal Corriere della Sera”)

 Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI - Non tradite questi ragazzi. I troppi ostacolo al lavoro ...
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2014, 10:43:49 pm
EDITORIALE

Non tradite questi ragazzi
I troppi ostacolo al lavoro giovanile

Le discussioni sulla legge elettorale, per quanto indispensabili, rischiano di esasperare gli italiani. Chi ha due figli a casa, che da mesi cercano inutilmente un impiego, non può apprezzare gli esoterismi del sistema spagnolo o le discussioni sul modello tedesco modificato. Occorre, nel 2014, sbloccare il mercato del lavoro. Tutti i partiti, a parole, dicono di rendersene conto. Talvolta sono le parole sbagliate - Jobs Act ! ancora inglese, perché? E soprattutto, quali sono i contenuti? - ma è chiaro: il 41% di disoccupazione giovanile ha smesso d’essere una preoccupazione. È una bomba sociale a orologeria.
Chiunque abbia provato ad assumere un ragazzo conosce l’odissea cui sono costretti datore di lavoro e lavoratore.

L’apprendistato - il fiore all’occhiello del governo Monti, in Germania la porta d’ingresso al mondo del lavoro - deve passare sotto le forche caudine di dodici (12!) autorizzazioni. Il part time non ha mai preso piede (e molte aziende non lo concedono). I contratti a progetto sono spesso una farsa, che nasconde la totale assenza di un progetto. I contratti a termine riguardano ormai cinque rapporti di lavoro su sei: ma generano quel precariato cronico che sta azzoppando due generazioni. Restano i classici contratti a tempo indeterminato. I neolaureati che entrano così in azienda sono scesi dal 20% del 2004 al 5% del 2012: una percentuale irrisoria.

Perfino lo stage - la cui importanza non dev’essere sottovalutata: nove ragazzi su dieci passano di qui - è stato burocratizzato. La legge 148/2011 prevede che il datore di lavoro sia solo il tutor (sic) di un rapporto tra un’associazione di categoria e lo stagista. I due sono costretti a operare fianco a fianco: la legge ignora che, nel XXI secolo, il lavoro si svolge spesso a distanza e in movimento. Lo stagista, infine, deve pagare imposte sul reddito anche su un compenso di 500 euro mensili. Davvero questo Stato vorace vuole aiutare i ragazzi italiani? È necessario un Codice del Lavoro semplificato, integrato nel Codice Civile, tradotto - quindi, chiaro e traducibile - in inglese, come chiede l’Unione Europea. Un progetto è stato presentato nel 2009 da 54 senatori, e il Senato nel 2010 ha approvato una mozione in tale senso. L’idea è stata lodata da tutti, a destra (Berlusconi), a sinistra (Renzi) e nel sindacato (Uil). Tanto per cambiare, non è accaduto nulla.
I sindacati devono fare la loro parte. Non possono continuare a difendere i buchi neri delle aziende municipalizzate e, in genere, a proteggere chi è già protetto, ignorando chi è da sempre ignorato: i milioni di lavoratori atipici che si dibattono tra contratti astrusi. Centinaia di norme, infatti, si sono stratificate nel tempo, e oggi la legislazione del lavoro è così complessa da risultare comprensibile solo agli esperti.

La via d’uscita? Esiste, e se n’è parlato. Un contratto unico di ingresso, nessuno inamovibile, ma garanzie crescenti nel tempo, condizionate alla disponibilità del lavoratore alla riqualificazione e alla ricollocazione. Lungo il percorso, un servizio di orientamento professionale, capillare ed efficace.

Si può fare, il governo Letta ha la sua grande occasione. Gli inglesi, anche grazie al nudging (incoraggiamento individuale), ci stanno riuscendo. Noi italiani non siamo né più pigri né più stupidi. Siamo solo legati. E come i contorsionisti del circo, in questo modo, stiamo affondando. Ma i contorsionisti, alla fine, si liberano e riemergono. Noi rischiamo di restare, malinconicamente, sul fondo.

07 gennaio 2014
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Beppe Servegnini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_07/non-tradite-questi-ragazzi-8a561da4-7760-11e3-823d-1c8d3dcfa3d8.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Qualità e debolezze di un leader Le tentazioni del potere
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2014, 11:37:30 am
Qualità e debolezze di un leader

Le tentazioni del potere

«Ci metterò tutta l’energia, l’entusiasmo e il coraggio che ho», ha detto Matteo Renzi, accettando l’incarico di formare il governo. Affermazione rassicurante, ma prevedibile: a 39 anni, energia ed entusiasmo non mancano; e il coraggio, siamo certi, si trova. Il nuovo presidente del Consiglio dovrà fare di più. Dovrà tirar fuori le sue qualità e vincere le proprie debolezze: perché la sua prima volta è forse la nostra ultima spiaggia.

L’Italia è l’unico Paese d’Europa che ha visto calare il prodotto lordo pro capite - un comune indicatore di benessere - dall’introduzione dell’euro sui mercati (1999). Non possiamo, perciò, prendercela con la nuova moneta: ce l’avevano anche gli altri. Dobbiamo prendercela con le nostre pigrizie e le nostre ipocrisie, che la politica ha accarezzato, invece di combattere.

Come ogni nuovo capo di governo, Renzi godrà di cento giorni di luna di miele con l’opinione pubblica. Forse qualcuno di meno, considerato il modo irrituale (e sbagliato) nel quale ha sloggiato il predecessore. In questo (poco) tempo dovrà dimostrare di avere obiettivi chiari, sfruttare le nostre risorse (indiscutibili) ed evitare tentazioni (inevitabili).

Le tentazioni del carattere, per cominciare. Matteo Renzi, secondo le migliori tradizioni regionali, è impulsivo e impaziente. Due caratteristiche utili, in mezzo a tanta rassegnazione: a patto di non esagerare. L’Italia è stordita dagli annunci: ha bisogno di fatti. Ieri il presidente del Consiglio incaricato ha promesso la riforma del lavoro in marzo, la riforma della Pubblica amministrazione in aprile e la riforma del Fisco in maggio. Tre mesi per tre cose che aspettiamo da trent’anni? Auguri.

Matteo Renzi dovrà guardarsi dalla popolarità. Un leader deve condurre: non seguire umori, applausi e sondaggi. Deve passare alla storia, non passare l’estate. Per far questo, occorre resistere alle lusinghe degli adulatori: a Roma sono molti, abili e instancabili. Renzi si circondi di persone capaci, oneste e sincere: ne avrà bisogno. La palude italiana - evocata nel giorno del congedo di Enrico Letta - non è popolata solo di aironi e fenicotteri: ci sono rospi, bisce e coccodrilli. Alcuni già si muovono a pelo d’acqua, cercando di avvicinare la nuova preda. Stia attento ai conflitti d’interesse, il nuovo capo: chi comanda non può fare affari, neppure per interposta persona.

Se mescolerà entusiasmo e prudenza, Matteo Renzi potrà andare lontano: il coraggio e l’ambizione non gli mancano. Neppure la consapevolezza che l’Italia sta accumulando ritardi drammatici, in molti campi. È inutile proporre rimedi ordinari in tempi straordinari. Ma bisogna correre insieme, per una volta.

Non si può molestare gli italiani con imposte confuse e continue, invocando l’emergenza finanziaria, e ignorare che il Fondo Unico Giustizia, incaricato di raccogliere i beni confiscati alle mafie, dispone di «978 milioni di risorse liquide, 2,1 miliardi di risorse non liquide (titoli, ndr ) e circa 30 miliardi d’aziende e beni immobili», come ha riferito il sottosegretario Luigi Casero in Parlamento e Gian Antonio Stella ha riportato sul Corriere . Con quei soldi sapete quanti asili, scuole, strade e argini si sistemano? E quanti ragazzi si assumono?

Il compito che attende Matteo Renzi e la politica italiana è impegnativo, ma non impossibile. Gli elettori, davanti a un governo serio, si comporteranno seriamente. Ma guai a illuderli e deluderli, com’è accaduto tante volte in passato. Perché la speranza delusa si chiama rabbia. Qualcuno che la raccoglie e la sfrutta si trova sempre.

18 febbraio 2014
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Beppe Severgnini@beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_18/tentazioni-potere-6765dad4-9865-11e3-8bdc-e469d814c716.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - GLI AFFONDI CONTRO RENZI E IL NUOVO GOVERNO
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:20:03 pm
GLI AFFONDI CONTRO RENZI E IL NUOVO GOVERNO

Ma i grillini pensano di essere Grillo?
Provocazioni e battute: deputati e senatori M5S provano a usare in Aula le armi del loro leader. Ma con risultati deludenti

Dare a qualcuno del «figlio di troika» è più che offensivo: è una battuta scadente. Ovviamente il parlamentare che l’ha pronunciata nell’aula di Montecitorio - Carlo Sibilia del Movimento 5 Stelle - non se ne rende conto. Si ritiene, probabilmente, spiritoso e irresistibile.

È triste, per non dire patetico, che la nostra classe politica - vecchia e nuova - conosca solo i due estremi: l’inciucio o l’insulto, la retorica o lo sberleffo, la prosopopea o la volgarità (Samuele Segoni, M5S, 30 gennaio). Se si sforza, arriva al sarcasmo, che comunque è sgradevole: ironia inacidita. L’ironia - quella vera - è invece la sorella laica della misericordia. Permette di ridere della commedia umana. E quella che va in scena nel Parlamento italiano, come sappiamo, ha pochi rivali.

Il discorso programmatico di un emozionato Matteo Renzi, ieri, conteneva troppi annunci e pochi dettagli, è vero. Ma bisogna riconoscere al giovane presidente del Consiglio di possedere la tecnica raffinata della presa in giro (essere fiorentini aiuta). Lo stesso non si può dire dei suoi detrattori. Se pensano che essere sgradevoli equivalga a essere popolari, si sbagliano. Il popolo sa sorridere, ridere e far ridere: eccome.

A discarico dei parlamentari grillini bisogna dire che ci mettono la faccia. Ma chiamare il nuovo capo di governo «un venditore di pentole» (Andrea Colletti, M5S) è banale; nonché offensivo verso i venditori di pentole, degnissimo mestiere. Definirlo «un grande bugiardo, un Wanna Marchi della politica» (Vincenzo Santangelo, sempre M5S) è grave e un po’ pavido, quando si è protetti dall’immunità parlamentare.

Aggressività e spontaneità non sono sinonimi. E per scherzare, ripeto, bisogna esserne capaci. L’ironia è come il bisturi di un chirurgo: o si sa maneggiarlo, oppure si rischia di fare e farsi male. L’impressione è che i deputati M5S vogliano scimmiottare il padre-padrone. Ma Beppe Grillo è un comico esperto, un gran professionista, e un uomo intelligente. Non a caso resta lontano dal Parlamento, dov’è impossibile far pagare il biglietto per le proprie esibizioni.

25 febbraio 2014 (modifica il 26 febbraio 2014)
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Beppe Severgnini@beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_25/severgnini-insulti-grillini-b99f5e46-9e33-11e3-a9d3-2158120702e4.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Sono stato a Ferrara lunedì e c’era il sole.
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:40:30 pm
Sono stato a Ferrara lunedì e c’era il sole. Una piccola città italiana in un mattino di primavera è un capolavoro che dovremmo issare come una bandiera, per dire al mondo che siamo meglio di quanto crede. L’occasione era l’iniziativa “Di sana e robusta costituzione”, lanciata dall’Osservatorio Adolescenti dell’assessorato ai giovani, in collaborazione con le Pediatrie di Comunità dell’Asl. Ho incontrato cinquecento ragazzi in un teatro ma non il vescovo, monsignor Luigi Negri. Peccato, perché so che i giovani interessano anche a lui.
 
Qualche mese fa ha definito le adunate nella spettacolare piazza del Duomo “un postribolo a cielo aperto”. Tornando a casa la notte, ha raccontato d’aver sorpreso “persone intente in atti di promiscuità. Ho visto scene di sesso tra due ragazzi e un gruppo, evidentemente ubriaco, coinvolto in atteggiamenti orgiastici. Io non ho mai visto un postribolo. Ma l’idea era quella”.
 
Ora, mi risulta che quegli “street bar” (li chiamano così, in ferrarese moderno) siano di proprietà della Curia: quindi, se sono tanto demoniaci, basta non affittarli. Ma la questione supera l’aspetto immobiliare. Mi sembra, per cominciare, che la presenza in piazza escluda il vagabondare in auto tra le strade del ferrarese, tra platani e fossi, dove per anni è avvenuta un’ecatombe di ragazzi. Meglio bevuti e vivi che morti, per cominciare.
 
Certo, se non fossero bevuti è meglio. In questo, Ferrara non è sola. Una generazione cui non sappiamo offrire una prospettiva – due ventenni su tre sono disoccupati, non dimentichiamolo mai – si consola come può. Non mi piace e non giustifico: cerco di spiegare, che è un’altra cosa.
 
L’aperitivizzazione di una generazione è sotto gli occhi di tutti.  Lunghe giornate vuote si accendono grazie a fumo e alcol in compagnia, con la complicità di un buon clima e di un bel posto. I ragazzi italiani – monsignor Negri dovrebbe saperlo – si ubriacano anche in posti brutti e solitari. Ma di lì cercano di scappare. A Ferrara, e nelle altre città-gioiello, rimangono. Ma così facendo scambiano il porto col mare, e potrebbero pentirsene.
 
Il mare è quello che, a una certa età, bisogna provare: sfidando le tempeste, temendo la bonaccia, evitando il naufragio. Sono le città degli studi, i luoghi dei viaggi e dei primi lavori,  l’Europa delle conoscenze e delle esplorazioni.  Il porto è invece il luogo da cui si parte e dove si torna, per riposare, rifornirsi: e ripartire. Una città come Ferrara  è un porto perfetto, anche perché è vicino al mare. Ma, ripeto, non è il mare.
 
L’ho già scritto, lo ripeto: non c’è nulla di più triste, arrivati a una certa età, che capire di non essersi mai mossi. Di aver girato in tondo nel porto, accettando le sue piccole consolazioni: i soliti amici con cui tirare tardi,  birra e corteggiamenti, un lavoro qualunque basta che arrivi. Non è un invito a scappare. E’ un invito ad andare perché poi sarà bello tornare. Il nostro viaggio non è infinito:  per restar fermi avremo molto tempo, dopo.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Detesto l’espressione “i panni sporchi si lavano in famiglia!
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:26:48 pm
Detesto l’espressione “i panni sporchi si lavano in famiglia!”

Bisogna sempre e soltanto parlare bene dell’Italia all’estero? Questo patriottismo è compatibile con il giornalismo? La risposta è semplice: un doppio no. Se ami il tuo Paese – anche se ami il Paese di un altro – si capisce: e sei autorizzato a criticarlo per migliorarlo. Se lo racconti per mestiere, e non sei un diplomatico o un ministro, hai il dovere di farlo. “Right or wrong my country” (giusto o sbagliato è il mio Paese) suona bene, ma funziona male.

Una delle frasi più irritanti del lessico nazionale è “non diciamolo, per carità di patria”. Quale carità? Quale amore? Se ami qualcuno vuoi che si riprenda; non ti giri dall’altra parte facendo finta di niente. Quasi peggio è l’espressione “i panni sporchi si lavano in famiglia!”. Che ipocrisia. Chi sostiene questo i panni sporchi non li lava proprio, e gira con gli indumenti che mandano cattivo odore. Ogni tanto il bucato serve, e il bucato ha bisogno della luce del sole.

Ho dovuto ripetere queste cose per restare calmo, e devo restare calmo dopo aver letto certi commenti a un mio pezzo sul “New York Times”, dove scrivo come “contributing opinion writer” (si dice così, gli americani sono precisi nelle definizioni professionali). Il pezzo ha per titolo “Why No One Goes to Naples”, perché nessuno va a Napoli, e racconta l’allegra catastrofe del turismo meridionale. Mi dispiace? Molto. Devo far finta di niente? Manco per sogno.

Il pezzo inizia così: “E’ primavera: nell’Italia del Sud il sole splende, il cielo è blu, il clima è mite e l’aria profuma di fiori. Il cibo è buono, il vino costa poco, la gente è cordiale e la bellezza è dovunque. Ma dove sono i turisti?”. I turisti, spiego, non ci sono. Solo il 13% degli stranieri si spinge a sud di Roma. Siamo passati dal primo al quinto posto nella classifica delle destinazioni turistiche; non abbiamo, di fatto, un ministro del turismo; il portale Italia.it è stato un costoso, prevedibile disastro; l’Enit (Ente Nazionale Italiano Turismo) impiega la quasi totalità dei fondi – 17 milioni su 18 – in stipendi e spese amministrative; la delega alle Regioni ha prodotto duplicazioni e sprechi, come la faraonica sede della Regione Campania a Manhattan (caritatevolmente chiusa nel 2009).

Devo andare avanti? In una settimana, nell’estate 2013, dagli aeroporti tedeschi sono partiti 223 voli per le Baleari e 17 per l’Italia meridionale. So che alcune regioni (la Puglia) fanno meglio di altre (la Calabria): ma i numeri e i fatti sono quelli che ho riportato. Mi è spiaciuto che Nichi Vendola, in diretta tv (Ballarò, martedì), mi abbia fatto passare per un nemico del sud: perché davvero non lo sono. Non devo scrivere certe cose, altrimenti i turisti stranieri non arrivano? Errore: forse ne arriveranno di più. E chissà che qualcuno, al governo e dintorni, decida di occuparsi della questione, invece di scattare selfie alle fiere del turismo.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/04/17/detesto-lespressione-i-panni-sporchi-si-lavano-in-famiglia/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Una vergogna da riscattare
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:59:14 pm
Gli ultrà e il caso coppa Italia, l’immagine che il paese non merita
Una vergogna da riscattare

Di Beppe Severgnini

Che umiliazione, per il presidente del Consiglio e per il presidente del Senato: ostaggi di un energumeno in diretta televisiva. Che pena per le autorità sportive riunite all’Olimpico: impotenti davanti alla loro sconfitta. Che tristezza per i bambini che accompagnavano le squadre in campo: un giorno speciale rovinato così. Che vergogna per tutti noi, ammutoliti davanti ai televisori.

Lo spettacolo offerto, all’Italia e al mondo che ancora ha voglia di guardare, dalla finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli non è soltanto squallido. Puzza di pessimo passato prossimo. Quello che tutti, da Palazzo Chigi in giù, dicono di volersi lasciare alle spalle. Abbiamo una sola possibilità per redimerci. Fare in modo che cose del genere non accadano mai più. Il 3 maggio 2014 sia il capolinea della nostra vigliaccheria.

Basta sociologia, basta letteratura, basta piagnistei, basta paura. Basta leggi cervellotiche dai nomi complicati. Basta palliativi come il Daspo. Ha ragione Mario Sconcerti: allontanare i violenti dagli stadi è come tenere i ladri fuori dai supermercati. Ma questi ultimi si processano e si puniscono; per i violenti del calcio troviamo sempre qualche giustificazione. Sono passionali, sono spettacolari, sono divertenti, sono della nostra squadra! Storie: sono dei delinquenti, e noi siamo i loro ostaggi.

Gli stadi sono luoghi della vita italiana, e le partite sono momenti di festa: contenitori di ricordi, esercizi di umiltà, lezioni di vittoria e sconfitta. È intollerabile che qualcuno violenti tutto questo. Che giochi alla guerra perché, in fondo, si diverte. Il nostro silenzio è diventato assenso. Politica e forze di polizia, magistratura e autorità sportive, società e tifoserie: siamo tutti pavidi, patetici amanti del calcio.

È ora di reagire: l’Italia non è il pietoso impasto di fumogeni e arroganza che abbiamo visto sabato. L’Italia non è odio e pallottole e bande dementi. L’Italia non è questa. L’Italia è ancora il posto dove nessuno tiene armi in casa, e basta un sorriso a smontare la diffidenza. Prendete un treno, parlate con i viaggiatori. Gli italiani sono gente che fatica ma non odia, che sbaglia ma non distrugge, che sogna e ha pudore di ammetterlo.

Come può, quest’Italia normale, riconquistare lo sport che ama di più? Esiste un modo? Certo che esiste. Abolire qualsiasi reticolato, transenna, ingresso separato, treno speciale, presenza massiccia delle forze dell’ordine (hanno di meglio fare). Lo stadio è una festa, e alle feste non si va scortati dalla polizia. I biglietti si acquisteranno in rete o al botteghino, senza formalità, come al cinema o per un concerto. Ma se qualcuno sgarra - insulta, esplode, minaccia, colpisce, ferisce - dev’essere immediatamente fermato e punito. Come accade in una piazza o in qualunque altro posto.

I luoghi dello sport non sono extraterritoriali. Sono, ripetiamo, luoghi della vita. Tra i più belli, oltretutto. Lo sanno bene negli Stati Uniti, dove lo sport è una grande festa, una magnifica coreografia, un enorme business. Lo hanno capito in tutta Europa. Come hanno fatto gli inglesi a debellare gli hooligan ? Processi per direttissima negli stadi. Pene proporzionate, rapide, certe. Invece, in Italia, le pene sono sempre teoricamente drammatiche, praticamente lentissime, assolutamente incerte.

Abbia coraggio, Matteo Renzi, che ama il calcio e ha visto da vicino, sabato, cosa ne abbiamo fatto. Basta scenografie di guerra preventiva, basta impunità, nessuna nuova legge: basta e avanza il codice penale. Basta volere.
È una riforma che non costa niente, e cambierebbe tutto.

5 maggio 2014 | 07:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_05/vergogna-riscattare-4ce22310-d411-11e3-9778-04e759d64fc3.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Immaginate. Una sera d’estate, dieci anni fa.
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2014, 06:37:33 pm
Immaginate. Una sera d’estate, dieci anni fa. Cena con gli amici, bevete troppo, salite in auto, perdete il controllo e demolite un negozio di abbigliamento. Storia imbarazzante, non è bene che si sappia in giro, anche se è passato molto tempo. Vi rivolgete al giudice e chiedete che la notizia non sia più reperibile: esiste il diritto di dimenticare, ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione Europea! Google e gli altri motori di ricerca dovranno accettare la vostra richiesta di rimuovere il link a quella vicenda.

C’è un particolare, tuttavia. Il Corriere della Sera, nelle pagine locali, aveva pubblicato la notizia, con tanto di fotografia («Serata allegra, finale tragicomico: finisce in vetrina tra i manichini»). Chiedereste, in nome del diritto all’oblio, che ogni copia del giornale venga distrutta? Probabilmente no.

Voi direte: «Le notizie pubblicate sulla carta sono difficilmente reperibili, dopo qualche tempo. È colpa dei motori di ricerca se ogni informazione diventa accessibile!». Ragionamento zoppo. Se esiste un diritto all’oblio, dev’essere universale, non legato alle modalità di recupero delle informazioni. Modalità che possono cambiare. Se il Corriere rendesse accessibile in formato digitale la sua raccolta ultracentenaria, cosa accadrebbe? Chiedereste di bruciare i nostri archivi?
Speriamo di avervi convinti.

La pronuncia della Corte di Giustizia, che riconosce il diritto a essere dimenticati, nasce da lodevoli intenzioni: ma risulta impraticabile e inopportuna. Se dovessimo prenderla alla lettera, finirebbe il giornalismo e - perché no - la storia, e il diritto di raccontarla. Verrebbe limitata la libertà di espressione, come ha scritto a caldo il New York Times. La nostra vicenda collettiva diventerebbe la somma aritmetica di tanti profili Facebook. Ognuno scriverà solo quel che gli fa comodo, cercando di riuscir bene nella fotografia.

È umana la voglia di essere ricordati: i social network campano su questo. È altrettanto comprensibile il desiderio di essere dimenticati, talvolta. Incidenti professionali, errori, eccessi, perfino relazioni sentimentali: non fa piacere, al nuovo fidanzato, vedere la compagna abbracciata a numerosi predecessori. Ma abbiamo inventato qualcosa che non si può disinventare. Internet è il genio uscito dalla bottiglia. Si può controllare, ma non si riesce a riportarlo dentro.

Google, e gli altri giganti della Rete, hanno colpe: ma non sono queste. Non avrebbero dovuto mettere a disposizione dei governi ogni informazione su di noi, per esempio. Ma non possiamo chiedergli di dimenticare gli ultimi vent’anni, solo perché sono in grado di ricordarli. Tutti noi, ogni giorno, utilizziamo i motori di ricerca. Se sapessimo di trovare solo ciò che fa piacere agli interessati - pensate a politici, produttori, ristoratori - rinunceremmo a consultarli.

Cancellare i link «inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti», come chiede la Corte, è una pia illusione. Chi stabilisce l’adeguatezza e la rilevanza di un’informazione? Un giudice, ogni volta? E se anche i 28 Paesi dell’Unione Europea decidessero d’imbarcarsi in quest’impresa, come impedire che i cittadini europei si rivolgano ai motori di ricerca americani? Introduciamo una censura di tipo cinese? Perché in tanti la farebbero, quella ricerca. Alcuni, magari, vogliono che qualcosa di sé venga dimenticato. Ma molti, state certi, sono curiosi di sapere qualcosa degli altri.

La possibilità di conoscere e rintracciare informazioni non è una caratteristica da Grande Fratello: è una conquista. Orwelliana è invece è la pretesa di essere dimenticati. Non siamo avatar, che possiamo annullare premendo «Canc». Siamo persone con un passato, un presente e un futuro, inesorabilmente collegati. Dentro Internet corre la vita. La vita non si ferma con le forzature.

16 maggio 2014 | 08:11
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Da -http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_16/passato-non-si-cancella-un-clic-1c87a630-dcb9-11e3-a199-c0de7a3de7c1.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - New York Times valutare la strategia digitale del giornale.
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2014, 06:09:08 pm
Il New York Times ha chiesto a un gruppo dei suoi giornalisti di valutare la strategia digitale del giornale.
Tempo, sei mesi. Il rapporto (“Innovation”), lungo 90 pagine, è appena uscito. Il Nieman Journalism Lab di Harvard l’ha definito “uno dei documenti-chiave di questa era dei media”.
Importante: il NYT è una delle testate dove l’accesso a pagamento dopo un certo numero di articoli (paywall) funziona.
L’allontanamento della direttrice Jill Abramson non ha nulla a che fare con i conti, ma con la gestione dei giornalisti.
Che non sono, come qualche editore vuol credere, semplici impiegati: siamo professionisti da maneggiare con cura.


Cosa contiene il rapporto? Molte cose interessanti. Ne segnaliamo otto.

1)      Il giornalismo del NYT è eccellente, ma non viene distribuito efficacemente. L’importanza della homepage è diminuita: solo un terzo dei utenti/lettori la visita, gli altri arrivano sugli articoli attraverso motori di ricerca e condivisione.

2)      La prima pagina di carta assorbe troppe energie e attenzioni. Gli incarichi migliori, nel giornale, sono assegnati a giornalisti con poca conoscenza digitale, “mentre i colleghi più bravi in materia sono ridotti a spostare pezzi da una pagina all’altra”.

3)      La diffusione e la condivisione dei contenuti viene lasciata alla parte tecnico-amministrativa, ma confezionare, promuovere e condividere richiede supervisione editoriale. Un suggerimento: i giornalisti presentino, insieme al pezzo, cinque tweet per lanciarlo.

4)      Molti giornalisti sono convinti che il Social Media Team serva a promuovere il loro lavoro. Il suo compito invece è raccogliere informazioni.

5)      La news room deve collaborare con la parte business della testata, pur rispettando le divisioni dei ruoli: guai a mescolare pubblicità e giornalismo. Meglio abbandonare, però, espressioni come “Church and State” (Chiesa e Stato), d’uso comune al NYT. Proiettano un’idea di separazione, mentre l’obiettivo è comune.

6)      Ci sono 14,7 milioni di articoli negli archivi del NYT, dal 1851. Questo materiale va usato, perché non ce l’ha nessun altro. “Dobbiamo essere insieme una newsletter e una biblioteca”, scrive il rapporto. Bisogna imparare a riconfezionare i vecchi contenuti. Flipboard ha ottenuto un grande successo, nel 2013, offrendo i migliori obituaries (articoli commemorativi di un defunto) pubblicati sul New York Times. Domanda: perché non l’ha fatto il New York Times?

7)       Non c’è ragione per cui i Ted Talks (con biglietti fino a $7.500!) non siano stati creati dal NYT, che ha il marchio, i nomi, la qualità e l’esperienza.

8)      Esperimenti e innovazione sono affidati a pochi desk (grafici, design, social team). I giornalisti sono tagliati fuori. Spesso, ben felici di esserlo.

Hanno scritto molto altro, i colleghi di New York: ma ci siamo capiti.

(Dal Corriere della Sera)

Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. I leader vengono votati per quello che sono, ma anche per ...
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2014, 10:58:47 pm
I leader vengono votati per quello che sono, ma anche per quello che NON sono

L’importante è che Matteo Renzi, adesso, non si consideri l’unto del Signore: abbiamo già dato. Non dovrebbe accadere. L’uomo ha neuroni vivaci e sa – se ancora lo conosco, se adulatori e servitori non l’hanno cambiato – qual è stata, finora, la chiave del suo successo.

I leader politici vengono votati per quello che sono, certo. Ma anche per quello che NON sono. Bossi e Berlusconi, negli anni Novanta, perché non erano politici democristiani. Prodi perché non era Berlusconi. Berlusconi, di nuovo, perché non era D’Alema. Monti perché non era Berlusconi. Letta perché non era Monti. E Renzi perché non somiglia ad alcuna di queste persone. E’ nuovo e diverso. E, sotto sotto, anche i più cinici tra noi si rendono conto che occorre un approccio diverso e nuovo per disincrostare questo benedetto Paese.

Vengo da diciotto giorni negli Stati Uniti d’America, e là accade lo stesso. Jimmy Carter – come ha ricordato Joe Klein tempo fa su “Time” – venne scelto perché non era Richard Nixon, Ronald Reagan perché non era Jimmy Carter, Bill Clinton perché non era George H. Bush, George W. Bush Bush perché non era Bill Clinton, Barack Obama perché non somigliava, neppure lontanamente, ad alcuno dei predecessori.

Non sempre gli interessati se ne rendono conto. Pensano d’essere arrivati in vetta esclusivamente per quello che sono. Speriamo, ripeto, che Matteo Renzi non cada nella trappola. E’ stato intellettualmente onesto, finora: prima del 25 maggio ha detto di avere una legittimazione costituzionale, ma non popolare. Ecco perché teneva tanto alle Europee: chiedeva un’investitura agli elettori. L’ha ottenuta.

Se ci siamo dimostrati più sensati di francesi e inglesi -  troppo emotivi, l’ho sempre detto – è anche merito suo. Ha ragione, il presidente del Consiglio, quando dice che l’Europa, riveduta e corretta, resta un grande investimento e un’ottima assicurazione. Ma ripeto: il giovane inquilino di Palazzo Chigi ricordi che non s’arriva al 41% solo per quello che si è, si fa o si propone. Conta anche quello che non si è, non si fa e non si dice. L’attuale forza di Renzi è anche questa: non essere un uomo cauto che attende volentieri (Letta); non essere un professore con i numeri nel cuore (Monti); non essere un signore che promette, non mantiene e traffica (Berlusconi); non essere un populista che urla e straparla (Grillo).

La prossima volta sarà diverso.  Matteo Renzi verrà votato per quello che ha fatto e ha dimostrato di essere. Quindi, al lavoro. Le promesse sono state voluminose, nei primi mesi del governo. E, per adesso, restano tali. Lo scadenziario iniziale – una mega riforma al mese! – era volonteroso, ma utopistico. Ma ora le elezioni ci sono state: basta annunci. L’Italia è stordita dagli annunci. Ha bisogno di fatti, per dimostrare a se stessa, all’Europa e al mondo di essere finalmente cambiata.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini


Da - http://italians.corriere.it/2014/05/29/i-leader-vengono-votati-per-quello-che-sono-ma-anche-per-quello-che-non-sono/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 09:11:17 am
Il commento

Dopo i «100 motivi per amare l’Italia» Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna
L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione

Di Beppe Severgnini

Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili.

Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.
1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.
2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.
3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?
4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.
5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.
6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.
7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.
8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.
9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.
10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.

4 giugno 2014 | 13:35
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_04/dopo-100-motivi-amare-l-italia-ecco-almeno-10-motivi-vergogna-a04ae7c2-ebda-11e3-85b9-deaea8396e18.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Uno sfregio da cancellare
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2014, 06:49:29 am
Uno sfregio da cancellare
Abbiamo tre città, in Italia, che lasciano il mondo a bocca aperta: Venezia, Firenze e Roma. La bocca del mondo, oggi, s’è chiusa in una smorfia.

Di Beppe Severgnini

Quello che è accaduto intorno al Mose — nome biblico, un’offesa nell’offesa — non è solo grave: è irresponsabile. Se una nazione potesse citare i suoi cittadini per danno d’immagine, i responsabili del saccheggio lagunare dovrebbero vivere nell’angoscia. Ma non lo faranno, perché non capiscono. L’angoscia è un sentimento, non una percentuale. Venezia è la città irrepetibile, quella che convince ogni turista d’essere un poeta. Credo che molti stranieri, dopo una settimana di visita, partano convinti d’essersi aggirati dentro una ricostruzione. Troppa delicatezza in così poco spazio. Un’immensa reputazione e una città fragile: il posto più sbagliato dove tollerare gli ingordi. I professionisti del cinismo sono già all’opera, nei media e in politica: non esageriamo, così fan tutti, la corruzione è antica come il mondo! Vero: ma quand’è metodica e sfacciata diventa un’umiliazione. Quando avviene a spese di un luogo tanto speciale e indifeso appare più grave e volgare. La bellezza è una responsabilità. L’Italia, in queste ore, appare al mondo come un Paese d’irresponsabili. Venezia è il nostro vestito più bello, Expo-Milano il nostro vestito nuovo, Siena il nostro vestito più ricco. Sfregiati, tutti, da persone senza scrupoli. In Veneto lo conoscono bene lo sguardo di chi esce dalla stazione di Santa Lucia e scivola nella città d’acqua: è lo sguardo dei bambini, e lo abbiamo scoperto negli occhi delle star di Hollywood, degli oligarchi russi, delle carovane cinesi, dei viaggiatori inglesi che pensano di aver visto tutto. No, non avevano visto Venezia. In queste ore tutti costoro stanno seguendo, avidi, i resoconti della nostra vergogna. Non perché ci odiano. Al contrario: perché ci ammirano e ci invidiano. Perché l’Italia è la grande evocatrice: tutto quello che ci riguarda fa sognare chi legge, guarda, ascolta, cerca, beve, assaggia. L’Italia è sede ufficiosa del congresso perpetuo delle tentazioni. Noi siamo quello che tutti vorrebbero essere, almeno talvolta: e non osano. Intuitivi, emotivi, immediati, sorprendentemente generosi. Non ladri.

Non esiste un’aggravante specifica, nel codice penale: ma chi ha macchiato il nostro vestito più bello dev’essere punito. Non è giustizialismo: è giustizia.

Vedrete: qualcuno, con meno amore, ripeterà quello che Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera negli anni Sessanta e ripetè in un polemicissimo documentario Rai del 1969: occorreva togliere Venezia all’Amministrazione comunale per affidarla ad un organismo internazionale, come l’Onu, in grado di avere mezzi economici e la sensibilità culturale per salvarla. Seguì una querela da parte degli amministratori veneziani, e Montanelli confessò ai lettori: «Fu allora che feci atto di rinunzia a Venezia e giurai a me stesso di non occuparmene mai più, convinto com’ero, e come sono, che una città si può salvare solo a condizione che i suoi abitanti vogliano salvarla. I veneziani di oggi vogliono salvare solo la propria bottega. Quando la decadenza di una città, che fu potenza mondiale, entra anche nella spina dorsale degli uomini non c’è più nulla da fare». Diciamo che non è vero. Diciamo che qualcosa, ancora, possiamo fare per salvare la città ferita e la reputazione macchiata. Ma dobbiamo fare in fretta. Il mondo vuole sapere (cosa, quando, quanto, come). E ha ragione. Venezia è dei galantuomini, non di Galan e dei suoi uomini.

6 giugno 2014 | 08:37
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_06/sfregio-cancellare-5d99eb50-ed40-11e3-8271-5284bdbf132d.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ieri le canzoni da tradurre, oggi le fiction sottotitolate.
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 10:59:09 am
Luci Gutiérrez ha scritto un libro a fumetti in cui usa doppi sensi e disegni per facilitare lo studio
English is very sexy
Ieri le canzoni da tradurre, oggi le fiction sottotitolate.
Così cambia l’apprendimento


Non servono i grandi numeri per spiegare l’ossessione collettiva per l’inglese. Mettiamola così: è una lingua che permette di capire qualcosa dovunque e di dire qualcosa a chiunque. D’accordo: ci sono zone rurali del Giappone, picchi andini e uffici italiani dove l’inglese non serve a niente.
Ma «ok», forse, lo capiscono anche lì.

La necessità d’impararlo è talmente ovvia che l’attenzione s’è spostata: dal perché al come. L’ultimo, interessante tentativo è English is not easy, di una spregiudicata autrice spagnola, Luci Gutiérrez (appena pubblicato da Bur/Rizzoli): 340 pagine di vignette, irriverenza e sesso a scopo didattico. Per capirci: ai miei tempi, per spiegare il verbo essere, l’esempio era «The rabbit is in the room» (mai capito perché i conigli inglesi non passassero più tempo all’aperto). Nel nuovo libro leggo: «Mr Sweat is in Mrs Sweat», con una penetrante rappresentazione dell’unione coniugale.

Ma prima di tornare a English is not easy, spiegare la piccola bugia del titolo e azzardare qualche consiglio, ripercorriamo la storia dell’apprendimento della lingua in Italia.

Partiamo dal fascismo, quando francese e tedesco la facevano da padroni, e l’inglese era particolarmente inviso. Benito Mussolini e i suoi cantori si battevano contro gli influssi della perfida Albione («Basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote!», da «Il Popolo d’Italia») e, zelanti, imposero di tradurre ogni espressione straniera. In qualche caso il tentativo riuscì («tramezzino» invece di «sandwich»). Più spesso fallì miseramente. Se oggi trovate qualcuno che dice «bevanda arlecchina» invece di «cocktail», non c’è dubbio: è già ubriaco.

L’inglese diventò, per alcuni, la lingua della libertà e della silenziosa ribellione, un modo di reagire alla prosopopea del regime. Cesare Pavese lo studiò diligentemente per arrivare a tradurre Herman Melville, Beppe Fenoglio lo coltivò fino a renderlo protagonista de Il partigiano Johnny («Lo spettacolo dell’8 settembre locale, la resa di una caserma con dentro un intero reggimento davanti a due autoblindo tedesche not entirely manned, la deportazione in Germania in vagoni piombati avevano tutti convinto, familiari ed hangers-on, che Johnny non sarebbe mai tornato…»). Ci pensò la storia a dimostrare che quegli scrittori avevano visto lungo. La guerra, la liberazione, l’arrivo degli alleati e delle loro abitudini resero l’inglese di moda. Alberto Sordi in Un americano a Roma è un brillante autodidatta. Così le signorine toscane o napoletane che approfondivano le conoscenze nelle pinete di Livorno o nei vicoli di Forcella.

All’inizio degli anni Sessanta il fenomeno diventò collettivo. Famiglie dove il frigorifero era il frigidaire e un abito sciupato era fané spedirono i figli a studiare inglese, considerato la lingua del futuro. Lo era davvero, a dimostrazione che la borghesia italiana ha conosciuto fasi di lungimiranza. Nel 1964 mi venne annunciato che avrei frequentato — nel pomeriggio, due volte la settimana — la Scuola Interpreti di Crema. A sette anni non sapevo cosa fossero gli interpreti, né cosa facessero: se mi avessero iscritto alla Scuola Intagliatori non avrei sollevato obiezioni. Trovavo il posto interessante. Gli insegnanti erano gentili e nei libri di testo tutti facevano cose bizzarre: i conigli entrano in salotto (vedi sopra), le lucertole stazionavano sulle staccionate («the lizard is on the fence») e nessuno parlava d’altro.

Gli anni Settanta furono, per molti, il periodo degli esperimenti. Per alcuni furono i corsi estivi in Inghilterra: a sedici anni, pur di avvicinare una ragazzina svedese a Eastbourne, avrei imparato lo swahili o l’alfabeto dei segni. Lo sforzo di ripetere «Where do you come from?» mi pareva lieve come i suoi capelli biondi nel vento della Manica. Furono nuove, intense esperienze linguistiche, nel buio delle discoteche; ma non erano quelle che intendevano i nostri genitori. I quali, a casa, tentavano d’imparare l’inglese con altri mezzi. Era il tripudio dei dischi e delle audiocassette. Si ascoltava la prima lezione, magari la seconda; poi l’intero corso veniva riposto e dimenticato. In alcune case italiane questi reperti esistono ancora. Apri un armadio e ti rovinano addosso, come una slavina.

Negli anni successivi — nel totale disinteresse della Rai, che non ha mai pensato di replicare Non è mai troppo tardi per i nuovi analfabeti senza inglese — i metodi si sono moltiplicati. Alcuni piuttosto bizzarri. Il bulgaro M. G. Lozanov propose il sistema Suggestopedics: gli alunni stavano sdraiati a semicerchio e ascoltavano la voce suadente del docente che leggeva un testo con un sottofondo di musica classica. Sono comparsi corsi per ipnosi, corsi telefonici, corsi da spiaggia. Un amico sperimentò un corso di cassette da ascoltare nel sonno: non ha imparato l’inglese, ricorda, ma non ha mai dormito così bene. Giuseppe Prezzolini scrisse: «Chiedo una legge che consideri colpevoli di “truffa continuata” tutti quelli che pubblicano avvisi o attaccano manifesti che promettono di far parlare l’inglese, il francese, il tedesco o qualsiasi altra lingua entro una giornata» (Modeste proposte, 1975). Se gli avessero dato retta, le carceri sarebbero state affollate.

Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, l’inglese ha rotto gli argini, penetrando in ogni anfratto della vita ottica diventavano «Occhial House» (Milano), i fruttivendoli impazzivano per il genitivo sassone («Nonsolopere’s», Udine) e una macelleria in Sardegna esibiva l’insegna «Fleshes’ King» (forse per i cannibali di passaggio, perché flesh è carne viva, mentre la carne animale è meat). Nel 1992 pubblicavo L’inglese. Lezioni semiserie (oggi alla trentesima edizione!) ed elencavo centinaia di termini inglesi ormai comprensibili a tutti, da after-shave a zoom. L’inglese di base non c’era più bisogno d’apprenderlo. Bastava mettere in ordine quello che avevamo imparato.

Negli anni Duemila, come sappiamo, la banda larga e i viaggi low-cost hanno accelerato il fenomeno: evitare l’inglese è oggi impossibile. E tutti hanno capito una cosa: capirlo è più difficile che leggerlo o parlarlo. È il concetto espresso dal senatore Antonio Razzi in una recente, memorabile intervista con Silvia Nucini di «Vanity Fair»: «Quando vado agli incontri internazionali mi parlano in inglese e gli dico: férmate un poco, famme riflettere». Il problema è impostato correttamente. Capire è difficile per cinque motivi:
1) L’ascoltatore non ha alcun controllo sulla velocità altrui.
2) Un testo scritto si può rileggere. Un discorso, in genere, si ascolta una volta sola.
3) Chi parla ha un accento. Chi scrive, no.
4) Un testo è un testo. Un discorso può invece essere disturbato (pensate al telefono).
5) Chi parla lingue come l’italiano, il francese o lo spagnolo — nelle quali la velocità di pronuncia corrisponde grosso modo al numero di sillabe — si trova in difficoltà quando deve affrontare lingue stress-timed come l’inglese, dove la durata della frase corrispondente al numero degli accenti con i quali chi parla sceglie di scandirla. In parole povere: non tutte le parole inglesi hanno un accento tonico, e quelle non accentate vengono «mangiate» tra le altre. Prendiamo due frasi, suggerite dal mio traduttore, Giles Watson:

Small cats eat less = quattro sillabe, quattro accenti Archibald Macallister is travelling to Benbecula = sedici sillabe, quattro accenti (sottolineati)

Per capire l’inglese occorre, in sostanza, apprendere un nuovo ritmo e nuovi automatismi. Prendete i verbi frasali, lo spartiacque tra chi l’inglese lo sa e chi in inglese s’arrangia. Solo l’uso e l’abitudine permettono di capire e utilizzare «get on», «get off», «get by», «get away», «get up», «get down», «get together», «get through», «get (something) across». Il mio campo-scuola fu la traduzione dei testi delle canzoni rock e pop, spesso esoterici; il mio esame d’abilitazione, a diciassette anni, Thick as a Brick dei Jethro Tull. Oggi è tutto più facile. Gli strumenti sono molti ed efficaci. L’importante è legare l’apprendimento ai propri interessi. Un pescatore guardi programmi di pesca, un appassionato di basket ascolti telecronache originali della Nba: non viceversa.

Utilissimo è il cinema. In Italia siamo stati rallentati dall’abitudine al doppiaggio e viziati dalla bravura dei nostri doppiatori. Oggi, finalmente, abbiamo la possibilità di ascoltare film e serie televisive in originale, su dvd, sul satellite o sul digitale terrestre: telecomando, opzione lingua, ed è fatta. Basta vincere l’iniziale pigrizia. Utilissimi i sottotitoli: all’inizio in italiano; appena possibile, in inglese. Kevin Spacey/Frank Underwood, protagonista di House of Cards, non è certo un maestro di vita, ma può diventare un ottimo insegnante.

Per esempio:
«A great man once said, everything is about sex. Except sex. Sex is about power».

«Sex», di nuovo: e cosa vuol dire l’avete capito tutti. Lo ha capito anche Luci Gutiérrez che, come dicevamo, ne ha rovesciato in abbondanza dentro English is not easy, opera impudica e brillante. L’unica inesattezza, ripeto, sta nel titolo: l’inglese è facile. Come gli inglesi, del resto. Il trucco, in entrambi i casi, è lo stesso: mai prenderli troppo sul serio.

Beppe Severgnini

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Da - http://lettura.corriere.it/english-is-very-sexy/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Eric Schmidt, il grande capo di Google, non è un ...
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:09:05 pm
Eric Schmidt, il grande capo di Google, non è un americano facile da intervistare: Bruce Springsteen è più simpatico, Jezz Bezos più divertente, Scarlett Johansson più attraente. Ma ha un merito: a domanda, risponde. Ogni tanto, per controllare una risposta, cerca su Google; ma questo è comprensibile. 
 
Nell’intervista di martedì sul “Corriere” abbiamo affrontato diversi temi (Italia, Europa, Usa, editoria, sorveglianza di massa). Uno non ha trovato spazio quel giorno sul giornale, e vorrei tornarci sopra. Il tema è questo: studiare, oggi, serve ancora? L’università non è diventata un parcheggio? Costoso e coperto negli USA, non custodito in Italia (infatti ci soffiano alcuni dei laureati migliori).   
 
“Per qualcuno l’educazione superiore non è un buon modo di usare il proprio tempo: si sbaglia”, aveva detto Schmidt nel 2013 alla SXSW, importante fiera di tecnologia. “Se tutto ciò a cui tenete sono i soldi, dovreste andare al college. Se tutto ciò a cui tenete è la cultura e la creatività, dovreste andare al college. Se tutto ciò a cui tenete è divertirvi, dovreste andare al college. Andate al college. Non potrei essere più chiaro di così”.

Un altro uomo Google, Laszlo Bock, direttore del personale, ha spiegato perché questo non basta, però. Cosa cerca la società nei nuovi assunti? “Primo: capacità cognitiva, che non è quoziente di intelligenza (IQ). E’ capacità di imparare. Abilità di trattare informazioni al volo, e combinarle. Secondo: capacità di leadership. Quando sei parte di un gruppo, sai farti avanti e condurre? E, quand’è necessario, sei capace di tirarti indietro e lasciar condurre altri?”.

Occorrono responsabilità e umiltà: insieme. Ecco perché i migliori prodotti delle business schools spesso arrivano a un certo punto e non oltre: non accettano il fallimento, non sanno trarne un insegnamento. “Se tutto va bene, si considerano dei geni. Se le cose si mettono male, la colpa è di qualche idiota, del mercato, delle risorse che mancano”.

Lo studio, in sostanza, è utile; ma non basta. Come ha riassunto Tom Friedman sul “New York Times”: il mondo del lavoro vuole sapere cosa sapete, non dove l’avete imparato. Detto ciò, Schmidt non ha dubbi. Martedì mi ha detto: “Le persone che criticano il college vengono da un altro pianeta”. “Da secoli l’università è il luogo adatto a ragazzi tra i 18 e i 22 anni, non ancora maturi per il mondo del lavoro. In Italia dovreste saperlo: a Bologna è nato il primo ateneo.

E chi va al college poi guadagna di più. Storia ed economia, quindi, sono dalla mia parte. Non solo: lo studio insegna l’ambiguità. Ci insegna che potrebbe esserci un’altra possibilità. Ci allena a pensare. Preferiamo gente che dice ‘Non sono d’accordo con te, ma capisco possa accadere’ o gente che, quando non è d’accordo, prende una pistola e ti spara?”.

La risposta è facile. Non ho dovuto neppure cercarla su Google.

 

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Quello che i genitori non dicono (ma fanno)
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2014, 10:38:44 am
Quello che i genitori non dicono (ma fanno)

Piccola storia istruttiva di fine d’anno scolastico. Mi scrive un papà preoccupato: “Mia figlia Alessandra deve presentare per la maturità una tesina su Expo, spiegare cosa un Evento di questa portata può generare su base mondiale. Ha trascorso pomeriggi interi in biblioteca per cercare di documentarsi e consultato vari siti. Ci siamo rivolti a te per varie ragioni: sicuramente negli archivi del RCS sono custoditi documenti di primissimo piano a cui non abbiamo accesso nell’istante.  Alessandra ha una particolare stima e terrebbe molto a un tuo personale intervento (infatti, se glielo consenti, sarebbe suo sommo piacere di apporre il tuo nome come Persona alla quale si è rivolta per la stesura). Nel pomeriggio, appena rientrerà a casa da scuola, ti faremo avere la bozza di quanto è riuscita di mettere insieme fino ad oggi per un tuo graditissimo giudizio professionale.”
 
Qualche dubbio, confesso, l’ho avuto subito; chi abusa delle maiuscole (Evento, Persona) mi mette sempre agitazione. Anche i modi della richiesta mi sono sembrati bizzarri (“Le chiediamo un contributo tangibile come contenuto e stesura”). Ma io cerco di accontentare i lettori, nei limiti del possibile. “Mi faccia scrivere da sua figlia”, ho risposto. Sottinteso: una ragazza di diciannove anni capisce al volo che, per la maturità, non ha bisogno di “documenti di primissimo piano” (!) “custoditi negli archivi RCS” (?).  Un padre, non sempre.
 
E’ seguito uno scambio di mail, sempre con papà. Alessandra – nome di fantasia – non ha mai scritto. Forse non aveva intenzione di chiedermi aiuto; forse era imbarazzata dall’approccio paterno. Meno insolito di quanto immaginiate. Modernità, per tanti genitori, è impicciarsi quando non devono.
 
Ho peccato anch’io, in materia. Ma quanto vedo e sento in giro va oltre. Ragazzoni che arrivano per i test universitari con i genitori. Venticinquenni che si presentano ai colloqui di lavoro scortate da papà. Madri che telefonano dieci volte al giorno mentre la figlia lavora. Papà che hanno scoperto WhatsApp e chattano come adolescenti col figlio trentenne, il quale risponde a monosillabi e faccine imbarazzate.  Lo so, è difficile tagliare il cordone ombelicale: ma quello italiano è diventato lungo come una matassa, e rischia di strangolarci tutti.
 
Cosa spinge papà e mamme a questi errori? L’amore, ovviamente. L’ansia: se i pargoli non hanno più bisogno di noi, stiamo invecchiando. La leggerezza. La complicità dei figli stessi, talvolta, che s’impigriscono e accettano/chiedono aiuto. Un po’ di presunzione. La convinzione che l’esperienza, in un paese labirintico come il nostro, sia indispensabile. Errore. L’esperienza è un antipasto preparato da qualcun altro. Si può assaggiare o rifiutare, ma non bisogna mai consumarne troppo, anche quand’è offerto con amore. Altrimenti passa l’appetito per la vita, che è il pasto promesso ad ognuno.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini
Da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Morsi e rimorsi
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2014, 05:31:35 pm
Morsi e rimorsi
Di BEPPE SEVERGNINI

A casa di Cesare Prandelli, sulle colline dietro Firenze, c’è un busto con due medaglie al collo: argento per gli Europei 2012, bronzo per il terzo posto nella Confederations Cup 2013. Per la terza medaglia, dovrà aspettare. Oggi ci sentiamo tutti come quel busto: lontani, incolpevoli, in attesa di una bella notizia che non è arrivata.

Sono arrivate, invece, le dimissioni di Prandelli. Il commissario tecnico lascia, lunghe rughe bresciane che parlano più delle parole. Un gesto certamente dignitoso, probabilmente inevitabile, di cui dovremmo imitare il garbo e la misura. È fallita una Nazionale, non una nazione. L’hanno capito inglesi e spagnoli. Passato il fastidio, lo capiremo anche noi.

Consoliamoci: i Mondiali sono comunque memorabili. Tutti ricordiamo dov’eravamo quando gli azzurri hanno vinto molto bene o perso molto male. Prandelli, in quattro anni, ha messo in piedi l’unica squadra italiana capace di giocarsela all’estero: esce con onore. Lo stesso non si può dire per il morsicatore Luis Suárez. Capirà, nel lungo riposo forzato che l’aspetta, che le bandiere non si possono onorare con i piedi e disonorare con i denti.

Morsi e rimorsi. L’esultanza di Gigi Buffon per la doppia parata. Gli occhi tristi di Balotelli in panchina. Il cerchio - poco magico, assai furente - che circondava l’arbitro messicano Rodriguez dopo l’espulsione frettolosa di Marchisio. Il nome completo è Marco Antonio Rodriguez Moreno: un altro arbitro Moreno, come nel 2002 (eliminazione discutibile con la Corea del Sud). Il ritorno di quel nome può essere ironico, il ritorno di certe lamentele sarebbe patetico.

Abbiamo perso: succede. Leggete Azzurro tenebra di Giovanni Arpino. L’epigrafe è un riassunto: «Il ricordo comincia con la cicatrice». Il libro è il resoconto della disastrosa spedizione ai Mondiali di Germania nel 1974. Quarant’anni dopo, ci risiamo: là Chinaglia e qui Balotelli, allora Rivera e oggi Pirlo, un tempo Valcareggi e adesso Prandelli. Ma l’Italia, allora, mostrava ben altre ferite. Non i morsi di un avversario isterico, ma quelli di un nemico vigliacco, il terrorismo. Abbiamo saputo curarle, dovremmo esserne orgogliosi.

Se la vittoria è collettiva - la festa, i brindisi, le bandiere - la sconfitta è individuale. Ieri sera l’Italia era percorsa da tante, piccole, inconfessabili elaborazioni del lutto sportivo. Accettiamolo, senza tragedie, come ha fatto Cesare Prandelli. Se lo sport è pieno di valori, ecco il primo: ogni tanto si perde.

Così il nostro Brasile è passato. Guarderemo le partite degli altri e cercheremo di affrontare i nostri problemi quotidiani. Li conosciamo, non avrebbe senso elencarli qui, oggi. Sono tanti e complessi, ma risolvibili. «Noi del football siamo tanti e siamo soli», diceva il protagonista di Giovanni Arpino. Noi italiani, invece, siamo insieme. Niente Azzurro tenebra, stavolta. Semmai azzurro livido, come i segni sulla spalla di Chiellini. Passerà.

25 giugno 2014 | 08:14
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Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Travolti e uccisi, regole mai rispettate Quei tre bimbi ...
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 11:42:32 am
Travolti e uccisi, regole mai rispettate
Quei tre bimbi sulle strisce


Di BEPPE SEVERGNINI

Le strisce pedonali rappresentano un tabù per gli automobilisti in tutti i Paesi civili, e una decorazione nel resto del mondo. In Italia non sono né una cosa né l’altra. I pedoni non sanno cosa aspettarsi, e le conseguenze sono spesso drammatiche. Mercoledì sera, la terza, tragica dimostrazione in pochi giorni. In provincia di Reggio Emilia, davanti a una caserma dei carabinieri, una ragazza albanese ha investito tre pedoni: un bambino di tre anni, Salvatore, è morto sul colpo, la madre è in gravi condizioni. Ferita anche la sorella.

Domenica sera, a Ravenna, era toccato a un bimbo di tre anni, Gionatan, ucciso da un’auto sulle strisce pedonali sotto agli occhi dei genitori e del fratellino. L’uomo alla guida dell’auto, che era fuggito, è stato arrestato dopo due giorni. Si tratta di un 37enne, incensurato, di origine bulgara. Martedì a Jesolo è stata travolta e uccisa, sempre sulle strisce pedonali, una bambina di otto anni, Anna, che stava attraversando con la madre. A investirla un albergatore italiano della zona.

Se ne parla solo perché le tragedie ravvicinate hanno coinvolto tre bambini. In sostanza, occorrono tre piccole vittime perché le nostre coscienze abbiano un sussulto. Il reato di omicidio stradale, di cui molto s’è parlato, sembra esser stato inghiottito nell’anfratto tra il governo Letta e il governo Renzi. Il primo dell’anno, in seguito alla morte di una bambina romana, l’allora ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, aveva assicurato: «Entro gennaio porterò in Consiglio dei ministri un pacchetto di norme sulla giustizia contenente anche l’introduzione del reato di omicidio stradale».

Sei mesi e diversi morti dopo, veniamo a sapere dal viceministro ai Trasporti, Riccardo Nencini, che per la modifica al Codice della strada ci sono «tempi strettissimi, e le cose cambieranno». Spiega che si stanno esaminando due possibilità: «L’inserimento del reato di omicidio stradale» oppure «l’ergastolo della patente, se uccidi qualcuno non guidi più». «Presto - assicura - decideremo con il premier quale seguire». Presto. Quando? Per gli streaming il tempo si trova, per le strisce evidentemente no.

Non è populismo: è indignazione. Quella che ha portato, dopo anni di assurde mattanze notturne, a introdurre norme rigorose per i neopatentati e controlli a tappeto per fermare chi guida ubriaco. Un ragazzo oggi sa che, se beve, lo beccano; e, se lo beccano, perde la patente. Risultato: il numero delle vittime delle cosiddette «stragi del sabato sera» è precipitato. La prova che, quando vogliamo, siamo un Paese civile. E chi, arrivato al potere, mormora che gli italiani sono irrecuperabili, mente. Semplicemente, non ha voglia di recuperarci.

Due dei recenti omicidi stradali - come vogliamo chiamarli? - sono stati commessi da stranieri. Evitiamo accuse generiche, piagnistei, sociologia spicciola o buonismi inutili. Diciamo che le regole esistono e valgono per tutti: cittadini e nuovi arrivati. Ma questi ultimi, inevitabilmente, guardano a noi per capire come comportarsi. Se un automobilista su tre piomba sulle strisce cercando di anticipare i pedoni, il messaggio è chiaro: questa regola esiste, ma non vale niente.

«Auto pirata» è un termine vecchio, irritante e assolutorio: chi investe un pedone e scappa è un vigliacco, non un impavido corsaro. Perché tutto ciò finisca - perché il pedone, quando poggia un piede sulla striscia bianca, diventi il padrone della strada - servono norme severe e - cosa fondamentale - occorre che vengano fatte rispettare. L’Italia non può continuare a essere la terra di mezzo della sicurezza stradale. Osservate lo sguardo e i gesti ossequiosi di molti pedoni quando un automobilista si ferma davanti alle strisce per farli passare. Non esercitano un diritto; pensano di aver ricevuto un favore. È in quella patetica riconoscenza la nostra sconfitta.

27 giugno 2014 | 08:30
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_27/quei-tre-bimbi-strisce-a25fe3ae-fdba-11e3-8c6c-322f702c0f79.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Perché continuate a vantarvi dei successi dei vostri figli?
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 11:56:24 am
giu
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L’educazione non è un esperimento chimico, non esistono formule scientifiche per avere successo   
Perché continuate a vantarvi dei successi dei vostri figli?

Di Beppe Severgnini

Penso d’essere stato scortese, quella sera. La mamma, affranta, mi ha nominato arbitro di «una delicatissima questione, una cosa che riempie d’angoscia tutta la famiglia». Preoccupato, ho detto d’essere solo un giornalista (un termine che di solito scoraggia confidenze). Niente da fare. La signora insisteva, e la storia è venuta fuori. La figliola diciottenne era stata ammessa in una delle migliori università d’America (Yale, diciamo) e in una delle migliori università inglesi (poniamo Oxford). La scelta angosciosa era questa: dove andare? Credo d’essere stato sgradevole, nella risposta, e non me ne pento.

    Ho spiegato pubblicamente che angosciarsi per una questione del genere era offensivo verso decine di migliaia di famiglie che, con i figli, hanno problemi veri. Mi sono anche augurato che la ragazza – ovviamente, un mezzo genio – scappasse con un batterista moldavo o un ex-sottosegretario di Forza Italia. Ma questo non l’ho detto. So di famiglie che hanno interrotto i rapporti sociali con amici i cui figli sono troppo bravi a scuola.

Insopportabili: i genitori, ovviamente; non i ragazzi, che quasi mai hanno colpe. Mi scrive in proposito Evelina Dietmann (eireen74@gmail.com): «Non tollero lo sfoggio: di conoscenze, riconoscimenti, premi, titoli o buoni voti. La palma d’oro del fastidio va ai genitori che mettono in vetrina senza filtri i meriti dei figli. “Il mio Luca a 12 anni aveva già vinto sette concorsi di poesia e due borse di studio! E sta per pubblicare il primo saggio sull’origine dell’universo! Ha un IQ 98, è membro del Mensa!”. Embeh, dovevi proprio dircelo?». L’agguerrita lettrice si chiede cosa cerchino queste persone. Sospetta che, sotto sotto, «si sentano insicure e quindi desiderose di vedere negli occhi altrui una conferma del fatto di essere speciali, diversi, migliori». Sarà. Di sicuro, una piccola dose di vanità è veniale: confina con l’amor proprio, che costituisce il carburante necessario ad andare avanti.

Vantarsi costantemente dei figli, invece, è imperdonabile. Primo: perché quasi sempre è merito loro, non merito nostro. Secondo: perché, come abbiamo detto, questa vanagloria talvolta diventa una provocazione. Giovedì scorso abbiamo parlato di quello che i genitori non dicono, ma fanno (impicciarsi dei fatti dei figli, sostanzialmente). Non è meno irritante quello che non fanno, ma dicono. Non appuntiamoci sul petto i buoni risultati d’un ragazzo come fossero medaglie; non viviamoli come sconfitte, se risultassero meno buoni. L’educazione non è un esperimento chimico, non esistono formule scientifiche per avere successo. Papà e mamme vanagloriosi ricordino: non è mai troppo tardi per una buona crisi adolescenziale. Se vostro figlio o vostra figlia, finora, l’ha evitata non è grazie a voi. Ma nonostante voi.

DA - http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-continuate-a-vantarvidei-successi-dei-vostri-figli/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Due volte in cinque giorni, con un’aria condizionata polare.
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2014, 12:22:06 am
Due volte in cinque giorni, con un’aria condizionata polare. Sabato un treno Italo da Roma a Milano, ieri un volo AirLingus da Milano a Dublino. In un caso, migrazione di tredicenni dirette al concerto degli One Direction. Nell’altro, folate di adolescenti in rotta verso la vacanza-studio irlandese. “Move Language Ahead” e “Navigando” i nomi delle organizzazioni. Gli accompagnatori avevano l’occhio vitreo di un nostromo di Conrad prima di una tempesta: li capisco.

Anche noi, quarant’anni fa, andavano in vacanza-studio. L’ordine dei fattori – allora e oggi – è chiaro: prima vacanza, poi studio (tre ore al giorno di lezione, pausa compresa). I luoghi sono gli stessi: le città di lingua inglese che d’estate si trasformano in laboratori d’Europa (alla faccia di certi britannici, per la gioia di tanti altri). L’età è simile, quel valico tra infanzia e gioventù che nella memoria assumerà contorni leggendari. Un’estate lontana, questi ragazzi del 2000 (!) ricorderanno Beatrice seduta al posto 3C, cui passavano il cellulare dopo aver scritto un messaggio (la carta ha perso fascino, non si può inoltrare e si sciupa in tasca).
 
E’ istruttivo viaggiare con gli adolescenti. E’ un esercizio di tolleranza e un corso di umiltà. I ragazzi, tra i dodici e i sedici anni, fanno cose che il resto degli umani non capisce. Ma non deve capirle. Deve accettarle, e impedire che diventino pericolose. Spesso, invece, noi adulti non sopportiamo l’impossibilità di comprensione. La distanza ci innervosisce. Non ci piace il modo sottile in cui la vita c’informa che sta arrivando qualcun altro, e non fa mai piano.

Non siamo uguali, e neppure vicini, per il fatto che andiamo in vacanza negli stessi posti e sappiamo usare lo stesso smartphone (si fa per dire, loro sono più veloci). Quarant’anni, a cavallo tra due secoli, con internet di mezzo, rappresentano un’era geologica. Noi non siamo dinosauri. Ma dobbiamo accettare che siano apparse nuove specie, che sotto quei cappellini fosforescenti e al riparo di quelle cuffie enormi ci siano teste diverse che pensano diverso. E qualcosa combineranno, se sapremo proteggerle senza gridarlo in giro.
 
Le ultime notizie sul giro di prostituzione minorile ai Parioli – lette su quest’aereo, tra questi sciami di adolescenti – sono ancora più dolorose. Un uomo adulto che non vede l’ansia e la gioia sotto quei bronci e quei primi trucchi è un malvagio (sessanta malvagi sono in giro per Roma, pronti alle vacanze, anonimi e per ora impuniti). Azzurra e Aurora – i nomi scaltri scelti dagli sfruttatori – potrebbero essere due di queste giovanissime italiane in transito. Ragazzine che gridano, spingono e ridono, in simbiosi con una felpa e quattro amici. A loro, noi adulti possiamo chiedere solo una cosa. Questa: nell’autobus verso l’aereo, perché diavolo indossate lo zaino, così da occupare il doppio dello spazio? Ma anche a questa domanda, come a tante altre, non otterremo risposta. E dobbiamo accettarlo.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ragazzi, stendetevi su un prato e aprite un libro: non vi...
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2014, 11:49:35 pm
Ragazzi, stendetevi su un prato e aprite un libro: non vi deluderà!
D’estate di sono le inclinazioni giuste (sdraio, lettino, spiaggia, prato di montagna) e le giuste inclinazioni: voglia di pensare pensieri nuovi, e provare a cambiare qualcosa della nostra vita

Di Beppe Severgnini

Arriva la stagione in cui molti cercano libri da leggere. Succede anche a Natale!, direte voi. No, a Natale i libri si regalano. L’estate è invece il tempo perfetto della lettura. Ci sono le inclinazioni giuste (sdraio, lettino, spiaggia, prato di montagna) e le giuste inclinazioni: voglia di pensare pensieri nuovi, e provare a cambiare qualcosa della nostra vita. Ogni autore, se è bravo, illumina un pezzo di mondo che, per qualche motivo, stava nella (nostra) penombra. Saggistica o narrativa, fa lo stesso: a patto che la prima sia poetica e la seconda analitica.

Molti chiedono consigli, come dicevo. Ma non esistono libri buoni per ogni umore, condizione ed età. Lodevolmente www.corriere.it/scuola sta indicando opere per ragazzi, e chiede ai colleghi del «Corriere» incipit memorabili di opere indimenticabili della nostra adolescenza. Gian Antonio Stella ha scelto «L’isola del tesoro», Barbara Stefanelli «Tonio Kröger», Maria Laura Rodotà «L’uomo senza qualità» (che io sappia è l’unica, con Daria Bignardi, capace di leggere quei due tomi durante la pubertà, senza danni apparenti).

Quando verrà il mio turno indicherò «Il castello di Blandings» di P.G. Wodehouse, l’autore che, da ragazzo, mi ha insegnato a scrivere divertendomi (e divertendo, spero). La vita è troppo strana per non sorriderne, l’ironia è un modo per accettare le imperfezioni del mondo. L’aristocrazia inglese raccontata da Wodehouse, però, è estinta. Baroni, maggiordomi e ragazze da marito, per una diciottenne di Adria e un ventenne di Aggius, sono ormai esotici come i pesci martello.

Altre letture estive per giovani adulti? Stiamo sui classici italiani.
Ai romantici e agli avventurosi, suggerisco «Una questione privata» di Beppe Fenoglio (scrivere della Resistenza senza retorica e compiacimento è difficile, ma lui c’è riuscito). A chi sta elaborando il lutto sportivo, «Azzurro tenebra» di Giovanni Arpino (resoconto della catastrofica spedizione ai Mondiali di Germania 1974, lo consiglierò a Prandelli). A coloro che aspettano (un fidanzato, una facoltà, un’occasione), «Il deserto dei tartari» di Dino Buzzati. A coloro che sospettano, «A ciascuno il suo» di Leonardo Sciascia. A chi ha un’anima provinciale e poetica, «Feria d’agosto» di Cesare Pavese. A chi ha un’anima provinciale e pratica, «La bella di Lodi» di Alberto Arbasino. A chi ha un’anima, «Le piccole virtù» di Natalia Ginzburg e i «Sillabari» di Goffredo Parise, magari nell’audiolibro letto (benissimo, come un attore non saprebbe fare) da Nanni Moretti. C’è poi un autore, un po’ fuori moda, che consiglio vivamente: Mario Soldati, passione di mia mamma Carla. Leggerlo, non so perché, riempie di gioia. Cominciate con «America primo amore», proseguite con i racconti di «La messa dei villeggianti».

Post scriptum: sono libri brevi. E’ importante. Uno non può passare tutto il tempo a leggere, d’estate.
@beppesevergnini

10 luglio 2014 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/scuola/medie/14_luglio_09/ragazzi-stendetevi-un-prato-aprite-libro-non-vi-deludera-5460d098-078b-11e4-99f4-bbf372cd3a67.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Poche idee, molta confusione Vaghe stelle del grillismo
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 11:15:46 am
Poche idee, molta confusione
Vaghe stelle del grillismo

Di BEPPE SEVERGNINI

Ci ha pensato la voce barbuta di Beppe Grillo a suggellare i negoziati con Matteo Renzi e il Partito democratico sulla riforma della legge elettorale. Quelli che, fino a ieri, erano interlocutori affidabili («Noi parliamo solo con Renzi») sono diventati, di colpo, avversari biechi e autoritari («Renzi è un ebetino, anzi un ebetone», «criminalità organizzata di stampo democratico», «una dittatura a norma di legge», «sbruffoni della democrazia», «vigliacchi, ipocriti e falsi»: il tutto in 1 minuto e 18 secondi).

Finale melodrammatico, ma istruttivo. Il Movimento 5 Stelle, per adesso, funziona così. Alterna toni concilianti e insulti, proposte ragionevoli e accuse scomposte. Il pretesto di quest’ultimo scontro non è importante. Se basta un disaccordo sulle preferenze o una lettera non spedita per scatenare tanta furia, non si va lontano. Serve poco che Luigi Di Maio, poi, tenti di incollare i cocci: «Beppe ha il diritto di arrabbiarsi. Ma la proposta di dialogo è sempre aperta».

Certi toni, per quanto sgradevoli, possono servire finché si tratta di intercettare il malumore (in Italia ce n’è tanto, e giustificato). Ma non aiutano a costruire un’opposizione, quindi un’alternativa, di cui c’è bisogno. Lo dimostra il voto di maggio. Il 41% raccolto dal Pd - nessuno dei 186 partiti in lizza alle Europee ha fatto meglio, ricorda il Financial Times - è certo un’apertura di credito verso il governo e una prova di fiducia verso Renzi. Ma è anche una prova di sfiducia verso i suoi avversari, nessuno escluso.

Beppe Grillo, finalmente uscito dalla fase catatonica post elettorale, deve rendersene conto, e informare il suo stato maggiore. Chi, ogni tanto, sa stupire, affascina; chi stupisce ogni giorno irrita e stanca. L’elenco delle capriole pentastellate è lungo, e non riguarda solo i rapporti con il Pd, partiti male fin dall’arrogante streaming con uno stremato Bersani. Ci limitiamo alle più spettacolari.

Il 10 luglio 2013 Grillo (accompagnato da Casaleggio e dai capigruppo alla Camera e al Senato) incontrava Giorgio Napolitano al Quirinale. Uscendo parlava di un «incontro molto piacevole», in cui «la situazione è stata condivisa dal presidente». Il 30 gennaio 2014 il M5S chiedeva l’impeachment del capo dello Stato per il reato di attentato alla Costituzione. Lo scorso 4 luglio Debora Billi, responsabile web (!) dei Cinquestelle a Montecitorio, twittava: «Se ne è andato Giorgio. Quello sbagliato. #faletti». Poi si scusava su Facebook.

Il 13 maggio Beppe Grillo tuonava contro Expo: «Va fermata, è un’associazione a delinquere!». Ieri, 7 luglio, il gruppo lombardo del M5S ha incontrato il commissario di Expo, Giuseppe Sala, «per avere aggiornamenti dal diretto responsabile in merito allo stato attuale di avanzamento dei lavori, del numero di occupati e della contrattualistica dei volontari».

Potremmo continuare, ma è chiaro. Quello di Grillo è un movimento in altalena: spinte eccessive e frenate improvvise spaventano gli attivisti (di qui le scomuniche e le espulsioni), confondono i simpatizzanti, esasperano gli avversari politici. Ma l’altalena, per quanto eccitante, resta un gioco infantile. Prima o poi bisogna scendere, e crescere.

8 luglio 2014 | 08:13
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_luglio_08/vaghe-stelle-grillismo-ff593792-065f-11e4-addf-a4fb93907d37.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Prandelli
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2014, 05:50:57 pm
Prandelli: «Non sono scappato, la verità è che in Italia manca amore»
Dopo l’addio alla nazionale, il tecnico spiega il fallimento mondiale in Brasile e replica alle critiche.
«Avevo Cerci, Insigne, Cassano e Balotelli: mai creata un’occasione da gol»


di BEPPE SEVERGNINI

«Prima di cominciare, posso dire una cosa?».
Certo Cesare. Non è che tu ne abbia dette molte, dal Brasile in poi.
«In questi giorni ho pensato tanto, come puoi immaginare. E una cosa mi torna in mente. Nella vita di un professionista ci sono alti e bassi, ma sono gli alti e i bassi di un privilegiato. Sono stato attaccato crudelmente. Va bene. Ma non devo sentirmi una vittima. Non ne ho il diritto. Bene, ora possiamo iniziare».
Prima domanda: ti sarebbe piaciuto allenare la Juve? I tifosi ti avrebbero accolto meglio di Allegri, hai un passato bianconero. Se solo avessi aspettato qualche giorno, a impegnarti in Turchia...
(pausa) «Per due volte sono arrivato vicino a quella panchina, ma sono orgoglioso della scelta che ho fatto di restare a Firenze. Credevo in quel progetto sportivo».
Visto il collega Antonio Conte? Peggio lo stress da vittorie o lo stress da sconfitte?
«Una volta Conte ha detto “perdere è come morire”. Quindi sì, posso credere che oggi lui viva uno stress da vittorie».
Conte è adatto alla nazionale? Potrà trasmettere quella carica incontrando i giocatori ogni mese o giù di lì?
«No, diventa difficile. Il c.t. della nazionale ha pochissimo tempo. Puoi ovviare, in parte, se hai un blocco di giocatori di una squadra... ».
Tipo il blocco Juve...
«Sì, assolutamente. Ma sono questioni che affronterà Conte, se verrà scelto».
Da uno a dieci, lo stress dell’avventura mondiale in Brasile.
«Possiamo andare oltre il livello dieci? (ride) Non parlo di stress professionale, lì le critiche feroci ci stanno. Ma quando leggi e ascolti certi attacchi di tipo personale... ».
Ci torneremo. Ma prima: se invece di avventura mondiale la chiamassimo umiliazione mondiale?
«Umiliazione? Umiliazione è anche vedere la nostra Italia che arranca in tutti i settori, purtroppo».
Tre parole per dire cosa non ha funzionato in Brasile.
«È il progetto che non ha funzionato! Pensavamo di giocare in un certo modo e non ci siamo riusciti. Pensavamo di mettere in difficoltà la Costa Rica e non ce l’abbiamo fatta. Questo era il progetto tecnico. Ed è fallito. Punto. La responsabilità è mia».
«Progetto tecnico fallito. Punto». Per chi non fa il tuo mestiere è un po’ generico.
«Non è generico. Il campionato mi ha dato indicazioni, e ho cercato di seguirle. Ho pensato che, con gente di qualità in mezzo al campo, avremmo trovato facilità di manovra e profondità con gli esterni. Con la Costa Rica non ha funzionato. Avevo Cerci, Insigne, Cassano, Balotelli, quattro attaccanti che in campionato hanno mostrato il loro valore. Non siamo riusciti a creare una palla gol e siamo andati dodici volte in fuorigioco. Ho messo quei quattro e pensavo di vincere la partita. E, ripeto, ho fallito».
Se la Federazione fosse forte, avremmo giocato in quei posti e in certi orari?
«Io mi ricordo i giornalisti italiani al sorteggio. Tre giorni a gridare “Vergogna! Ci hanno trattato come la squadra ultima al mondo!” Poi si sono dimenticati tutto».
Convocazioni: rifaresti ogni cosa?
«Sì. Con Montolivo e Giuseppe Rossi la squadra aveva dimostrato una buona identità. Dopo gli infortuni, abbiamo dovuto cambiarla».
Alla vigilia dei Mondiali, in un’intervista per «Sette», mi hai descritto Balotelli come un ragazzo che stava maturando. Mi hai spiegato quanto fosse importante per la nazionale, come giocatore e come simbolo. Cos’è successo?
«Mario è un ragazzo fondamentalmente buono. Non è un ragazzo cattivo. Ma vive in una sua dimensione che è lontana dalla realtà. Ma non vuol dire nulla. A 24 anni ha la possibilità di fare tesoro di questa grande esperienza».
Ventiquattro anni, una figlia, quattro squadre importanti: cos’altro aspetta per tornare nella realtà? Va be’. Non hai l’impressione che noi ci siamo presentati con l’usato sicuro e gli altri con il nuovo modello? Prendiamo il portiere. Buffon è bravo, e tu ne hai stima. Ma è un portiere tradizionale. Diciamo la verità: il tedesco Neuer quel gol di Ruiz l’avrebbe preso?
«Se critichiamo Buffon dopo 142 partite in nazionale non abbiamo capito cosa ha fatto... ».
Tutti siamo riconoscenti a Buffon, ma non è con la riconoscenza che si vincono i Mondiali.
«La questione è un’altra. La Germania, quando ha avuto difficoltà, si è chiesta: qual è la nostra squadra più importante? Non ha risposto Bayern o Borussia. Ha risposto “Germania” e tutti si sono messi al servizio della nazionale. Nelle squadre italiane giocano il 38% di italiani. La stessa Juve ha sei titolari stranieri. Puntare sui settori giovanili!, dicono. Ma se sono pieni di stranieri? Di cosa stiamo parlando?».
Ce lo vedi Albertini al posto di Abete alla guida della Federcalcio?
«Ho lavorato con Demetrio quattro anni. È un uomo perbene, sa il fatto suo, ha avuto esperienza internazionale come calciatore. Ma anche lui sa che non è una persona che cambia il sistema. È il nostro calcio che va rivisto. Ripeto, dobbiamo partire da una domanda: qual è la squadra più importante in Italia? Non è la tua Inter, non è la Juve, la Roma, la Fiorentina o il Milan. È la nazionale. Solo così si arriva preparati ai grandi eventi».
Ne hai fatto cenno prima. Leggendo e ascoltando certi commenti, ci sei rimasto male.
«Il diritto di critica è sacrosanto. Ma dev’essere mantenuto nei limiti della verità, della civiltà e delle proporzioni. Secondo me chi ha scritto e detto certe cose si deve vergognare».
La cosa che ti ha ferito di più?
«L’accusa di essere scappato. L’idea della fuga. Non è vero. L’ho dimostrato nella mia vita, personale e professionale. È successo a Parma, dopo il crac Parmalat: sono scappati in tanti, io sono rimasto e con la mia squadrettina siamo arrivati quinti. È successo a Firenze. Non sono scappato. Sono rimasto al mio posto da solo, con i dirigenti inquisiti in Calciopoli, e nonostante questo, senza penalizzazione, saremmo arrivati secondi in campionato».
E...
«E non sono scappato dalla federazione: siamo tutti dimissionari! Quindi io non sono scappato da nessuno. Fuga? Fuga de che?».
Tu...
«Dicono che sono un uomo di marketing. Marketing vuol dire portare gli azzurri a Rizziconi (su un campo sequestrato alla ‘ndrangheta, ndr), dai terremotati, negli ospedali dei bambini, ad Auschwitz? Se questo è marketing, Beppe, lo faccio tutti i giorni! E vorrei che altri lo facessero!».
Ma...
« ... ma hai capito cosa sta succedendo negli stadi? Una volta c’erano eroi poveri in campo e benestanti sugli spalti: applauso garantito. Oggi il contrario. In campo ci sono persone ricche e sugli spalti persone sempre più povere. Risentimento assicurato. Siamo dei privilegiati, dobbiamo essere comprensivi e generosi».
Non sarebbe stato meglio spiegare tutto questo e POI dare la notizia del trasferimento in Turchia?
«Non c’era tempo. Mi hanno chiamato dal Galatasaray, poi richiamato. “Siamo una grande società. Abbiamo messo in stand-by otto allenatori per te...”. E poi il campo. Avevo il bisogno fisico di mettere le scarpette e tornare in campo. Quando cadi dalla bicicletta da bambino devi risalirci subito. Le persone che mi vogliono bene mi vedevano in uno stato comatoso. Lo dovevo anche a loro. Vado a fare il mio lavoro, è una sfida, mi rimetto in gioco».
Non tutti hanno capito, però.
«Pensa, mi hanno accusato perfino di “non essere rimasto a elaborare il lutto”. Ma questo non è compito dei defunti!».
Ma tu non sei defunto. Sei l’allenatore del Galatasaray.
«Vero: io con il mio Galatasaray, a caccia della quarta stella, il 20° scudetto».
Penserai ogni tanto alla nazionale italiana?
«La nazionale galleggia ancora e si rimetterà a navigare. I giocatori potranno riscattarsi».
Escludi di tornare un giorno ad allenarli?
«Assolutamente. Il mio tempo azzurro è passato».

@beppesevergnini
21 luglio 2014 | 07:09
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Da - http://www.corriere.it/sport/14_luglio_21/prandelli-non-sono-scappato-verita-che-italia-manca-amore-93ab0be6-1092-11e4-beef-e3441e67d81c.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il mio eroe segreto? Una scrofa gigante che mi insegnò a...
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:35:29 am
L’imperatrice di Blandings
Il mio eroe segreto? Una scrofa gigante che mi insegnò a scrivere
Le inattese conseguenze dell’incontro estivo tra un ragazzo italiano degli anni Sessanta e l’enorme e bizzoso suino creato dalla fantasia di P. G. Wodehouse
Di BEPPE SEVERGNINI

Capisco che un maiale costituisca un insolito eroe di gioventù, ma voi non conoscete l’Imperatrice di Blandings. Un suino paracadutato tra lord, case di campagna e belle fanciulle in età da marito. Tutte cose che, a dieci anni, non si conoscono, e assumono contorni fiabeschi. A metà degli anni Sessanta, inconsapevole delle conseguenze, mi ero iscritto tra gli ammiratori dei suini, trasfigurati dall’umorismo inglese. C’è chi, durante l’infanzia, si entusiasma per una strega, e chi per una scrofa: che ci volete fare.

Andiamo con ordine. L’imperatrice di Blandings era un maestoso esemplare da competizione, passione del nono conte di Ensworth, che la preferiva a fratelli eccentrici, nipoti scapestrati e giardinieri. Appare in una serie di romanzi di P.G. Wodehouse, nato nel 1881, scrittore dalla penna leggera, cantore dell’aristocrazia britannica nell’ultimo momento di splendore, i primi trent’anni del Novecento. Il personaggio più noto di Wodehouse è l’ineffabile maggiordomo Jeeves, ma ce ne sono altri, egualmente bislacchi.

Uomo divertito e divertente, Sir Pelham Grenville Wodehouse era tanto disinteressato all’attualità che, quando venne internato in Slesia dai tedeschi nel 1936, scrisse cinque esilaranti racconti radiofonici sulla vita nei campi di prigionia. Racconti prontamente utilizzati dalla propaganda nazista e poco graditi ai patriottici connazionali dell’autore. Plum, com’era soprannominato, fu poi scagionato, e venne difeso da Evelyn Waugh e George Orwell. Ma si sentì offeso e lasciò l’Inghilterra nel 1955, per non farvi ritorno.

Tutto questo, su un bambino italiano degli anni Sessanta, andava completamente perduto. P. G. Wodehouse, umorista sognatore, era solo l’anziano signore che, in seconda di copertina, batteva su una macchina da scrivere, in giacca e cravatta, con la pipa tra i denti. In Italia era pubblicato da Bietti. Una quarantina di titoli con copertine ingenue, che i cultori segnalavano con passione. Di solito i lettori erano poco più giovani dell’autore: anziane coppie che amavano una risata prima del gin & tonic e rimpiangevano una società di maggiordomi e latifondi. Ma c’erano intrusi, in quel mondo. Io ero uno di loro.

La scoperta di P. G. Wodehouse avvenne a Forte dei Marmi intorno al 1966. Con i compagni di gioco, in particolare Nicolò V., durante l’estate si parlava di corse di biglie sulla spiaggia. Dall’autunno in poi, per lettera, si passava a quello strano inglese. Se non ricordo male Nicolò preferiva i racconti del classico Jeeves, Psmith o Mister Mulliner. Io amavo la saga del Castello di Blandings, illuminata dall’imperatrice, cui accadevano cose stranissime.

«Ti ho visto! - esclamò con tono irritato Lord Ensworth - Ero in cammino verso il porcile ho potuto tener d’occhio il tuo bel contegno di gettare la tua infernale palla da tennis sulla schiena della mia scrofa! La palla da tennis, comprendi! - Lingue di fuoco si sprigionavano attraverso il pince-nez - Ma non ti rendi conto, disgraziato che non sei altro, che l’Imperatrice di Blandings è un essere dai nervi delicati, di temperamento sofistico e sempre pronto alle minime provocazioni di rifiutare il cibo?» («Lampi d’estate», pag. 83).

Ora non chiedetemi perché il nipote Roland tirasse palle da tennis su una scrofa, né perché la suddetta fosse tanto suscettibile. Non ricordo neppure il motivo per cui Clarence, nono conte di Ensworth, tenesse tanto a vincere il concorso suino, superando l’odiato rivale, Sir Gregory Parsloe, sospettato di avergli rapito l’animale («Parsloe, fuori questo maiale, dunque!», ibidem, pag. 159). Però mi divertivo. Era come se quegli anziani ragazzi, usciti da Eton e Cambridge, non riuscissero a smettere di giocare, e ci permettessero di stare con loro. Ho letto almeno trenta libri di Wodehouse, tra i dieci e i quattordici anni. Poi, intorno al 1970, l’apparizione di ragazzine italiane in minigonna ha messo in ombra le disavventure della bella Sue nella campagna inglese, tra zii collerici e corteggiatori imbranati. Ma trenta libri, a quell’età, lasciano il segno.

L’ho capito quando, ventisettenne corrispondente da Londra per il Giornale di Montanelli, mi sono trovato a descrivere gli arabeschi della politica inglese (diversi, ma non meno inutili, di quelli della politica italiana). Primo ottobre 1984, Rudloe Rd SW12, Clapham South, sul tavolo un’Olivetti Lettera 32 e una radio sintonizzata su Bbc Radio Four. Era in corso l’annuale congresso del Partito laburista, che generazioni di corrispondenti italiani s’erano sentiti in dovere di riportare. Ho pensato: «E se raccontassi questa noiosa assemblea alla maniera di Wodehouse?». Così ho fatto. E ho continuato: con la politica inglese, l’Inghilterra, Londra, gli italiani a Londra, gli inglesi e le loro delicate follie (non esaurite, peraltro). Rientrato, ho proseguito, appena il luogo e l’argomento lo consentivano. Se il mondo è strambo, ho pensato, tanto vale raccontarlo com’è.
Grazie, quindi, P. G. Wodehouse. Tra i miei coetanei c’è chi ha avuto una donna per amico. Io ho trovato una scrofa per maestra. Succede.

24 luglio 2014 | 13:29
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_24/beppe-severgnini-eroe-segreto-wodehouse-dbdfef0a-1324-11e4-bb47-dc581d38d44f.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Perché è così complicato assumere una ragazza?
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 10:16:25 am
Ostacoli inutili
Perché è così complicato assumere una ragazza?

Di BEPPE SEVERGNINI

Assumere un ragazzo dovrebbe essere semplice: è un’ordalìa. Potrebbe essere una soluzione: è diventato un problema. Dovrebbe costituire una gioia: è una fatica. Non c’è da stupirsi se la disoccupazione giovanile italiana sia cresciuta ancora, arrivando al 43,7%. Offrire un lavoro è diventato un atto di eroismo. Cercarlo, lo è sempre stato. Stefania Chiale ha 26 anni, è piemontese, è sveglia e impara in fretta. L’ho capito nei nove mesi di stage retribuito (sei più tre). La difficoltà, in questo periodo, non è stata, per me, insegnare; o, per lei, imparare. È stata districarsi in mezzo a regole esoteriche. Una per tutte. Il datore di lavoro - il tutor aziendale, cui si aggiunge un tutor organizzativo - deve condividere una o più sedi con lo stagista. Poco importa se, nel XXI secolo, lavorare a distanza sia comune, semplice e spesso inevitabile. La normativa dello stage non lo prevede. Un registro dev’essere firmato, ogni giorno, dal tutor e dallo stagista, accanto all’orario d’entrata e d’uscita. In nove mesi, sono 578 firme.

Stefania, nel frattempo, non ha imparato solo a firmare rapidamente. Sa come preparare un’intervista e come funziona un programma televisivo, è capace di trovare fonti per un’inchiesta e organizzare un incontro pubblico. Ha condotto le interviste al Festival internazionale del giornalismo di Perugia. Ora scrive su La 27esima ora, il blog multiautore del Corriere della Sera, e per Io Donna. Con cinque coetanei, ha fondato una start-up, Good morning Italia. Ma ha bisogno, come tutti gli italiani delle sua età, di un reddito e qualche certezza. Ho già una collaboratrice; vorrà dire che ne assumerò un’altra, e mi piacerebbe avviarla al giornalismo. Uno stipendio in più, un disoccupato in meno nelle statistiche.
Sembra facile! sospirava l’omino Bialetti a Carosello.

Le possibilità sono queste: un contratto a tempo indeterminato, il nuovo contratto a termine, un contratto a progetto e l’apprendistato. Il primo non è adatto. Per la ragazza questo è un passaggio, in attesa che le redazioni riprendano ad assumere; non un’occupazione a vita. Il contratto a tempo determinato senza causale, di cui s’è tanto discusso, è poca (e carissima) cosa: un rapporto di lavoro subordinato dove, se il datore di lavoro spende 30.000 euro, il lavoratore ne prende solo 16.900. Il tradizionale contratto a tempo indeterminato, dal punto di vista aziendale, è meno oneroso.

C’è il contratto a progetto, ma non è molto più conveniente: 30 mila di costo aziendale, 17.900 al lavoratore. E sul sito delle piccole e medie imprese (www.pmi.it) mettono in guardia: «Si sottolinea che la nuova disciplina di fatto non incide sulle disposizioni applicative già fornite dal ministero con la circolare numero 29 del 2012, che individua una serie di attività a cui non si possono applicare contratti a progetto. La precisazione si rende necessaria perché il Dl modifica la precedente disposizione parlando dell’impossibilità di applicare questi contratti ai casi di compiti “esecutivi e ripetitivi”, sostituendo la precedente congiunzione “o”». Chiaro? Certo che no. E non è finita. In mancanza dei requisiti specifici - «collegamento ad un determinato risultato finale, autonoma identificabilità nell’ambito dell’oggetto sociale del committente, non coincidenza con l’oggetto sociale del committente» - è previsto che il co.co.pro venga trasformato in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Resta l’apprendistato, con la speranza che l’Ordine dei giornalisti capisca come un’esperienza del genere equivale a un praticantato. Studiamo la cosa, con l’aiuto di un bravo consulente dei lavoro. Questa fattispecie è leggermente più vantaggiosa: mantenendo il costo aziendale (30.000 euro), al lavoratore arrivano 20.430 euro.

Ma assumere una giovane, futura collega si rivela complicato (sfruttarla gratuitamente, sono certo, risulterebbe più semplice). Potremmo applicare il Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) del Terziario Confcommercio, ma appare forzato.
- Qualifica: Apprendista impiegata
- Livello da acquisire: 3° livello
- Inquadramento durante il periodo di apprendistato: 4° livello
- Orario di lavoro: 40,00 ore settimanali
- Programma formazione: vedasi piano formativo individuale allegato.
Stefania però non farà l’impiegata, sebbene questa sia la categoria Inps. Non solo. Per la sua qualifica, il Ccnl prevede una durata di 36 mesi («Non è possibile indicare una durata inferiore se non per qualifiche molto basse», mi spiegano). Senza parlare della complessità del «piano formativo individuale» e della «scheda per la rilevazione della formazione professionalizzante interna (la formazione trasversale esterna sarà certificata dall’Ente erogatore)».
Per farla breve: io vorrei dare un lavoro a Stefania, Stefania vorrebbe lavorare con me, ma siamo bloccati. Un disoccupato in più e uno stipendio in meno nelle statistiche italiane.

1 agosto 2014 | 07:35
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DA - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_01/perche-cosi-complicato-assumere-ragazza-814f3646-193b-11e4-91b2-1fd8845305fa.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Vanessa e Greta, figlie dell’Italia buona e non turiste ...
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 05:50:32 pm
Vanessa e Greta, figlie dell’Italia buona e non turiste del rischio

di Beppe Severgnini

«A Cesenatico non le rapivano!», scrive Riccardo su Twitter. Ed è un gentiluomo, perché aggiunge: «La loro motivazione è comunque nobilissima». Un gentiluomo isolato. Le reazioni alla scomparsa di Vanessa e Greta ad Aleppo, in Siria, sono state, in media, più crudeli. È sembrato di tornare, di colpo, ai giorni di Rossella Urru, sequestrata in Algeria nel 2011; o ai tempi delle due Simone, rapite in Iraq, dieci anni fa. Stessi giudizi frettolosi. Ai pavidi non piacciono quelli che hanno coraggio.

«Evviva l’incoscienza due ventenni senza nessun tipo di preparazione!!! Bene che vada ci toccherà pagare profumatamente e riportarle con l’aereo di Stato!», scrive un lettore tra i commenti di Corriere.it . «Due ragazze ventenni se ne vanno in Siria senza arte né parte», commenta un altro. «Va bè, non diciamo che se la sono cercata: ma possiamo pensarlo?». E arriverà di peggio, state certi. Due belle ragazze con i sorrisi aperti e i capelli lunghi, una bionda e una mora. Basta e avanza, perché si scateni l’immaginario televisivo dei superficiali.

Secondo l’Unicef la mattanza siriana ha già ucciso 11.400 bambini. Un terzo aveva meno di 10 anni. Le persone coinvolte dal conflitto sono ormai 11 milioni, quasi 5 milioni di minori. Aggiungete quasi 3 milioni di profughi fuggiti nei Paesi dell’area (Turchia, Giordania, Libano, Iraq): tra loro, un milione e mezzo di bambini. Metteteli in fila indiana: arrivano da Milano e Roma. Pensiamo poco, e non facciamo nulla, davanti a questo scandalo. Giudichiamo subito, e con sufficienza, due ragazze che davanti all’orrore hanno provato, con i loro mezzi, ad aiutare, prima in Italia poi in Siria. Inesperte? Ovvio. Impulsive? Probabilmente: chi a vent’anni non cerca di dividere il bene dal male? Incoscienti? D’accordo. Ma ammirevoli.

Il confine tra incoscienza e coraggio è spesso nascosto dalla passione. Le due ragazze ne hanno in abbondanza. Greta e Vanessa, 20 anni e 21 anni, Brembate (Bergamo) e Besozzo (Varese): la Lombardia che ogni mattina sale sul pullman per andare a scuola, e poi scopre, di colpo, la ferocia del mondo. «Lo prendo come un fatto personale», diceva Vanessa di quanto accadeva in Siria, un Paese dove aveva contatti ed era già stata. Non sono turiste del rischio, Vanessa e Greta. Sono le figlie di una buona Italia, che ora deve riportarle a casa. Senza gridare, senza accusare e, almeno stavolta, senza litigare.

7 agosto 2014 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_agosto_07/vanessa-greta-figlie-dell-italia-buona-non-turiste-rischio-7cf0b8c2-1dff-11e4-832c-946865584d19.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Bivacchi e tuffi nelle fontane: i turisti stranieri non...
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 06:04:13 pm
Bivacchi e tuffi nelle fontane: i turisti stranieri non ci prendono sul serio
Le vacanze sregolate da Venezia a Roma Tutto è permesso
Per molti siamo il Paese delle eccezioni, dove tutto è permesso e si può agire liberamente nell’indifferenza


Di Beppe Severgnini

Diciamolo. Cambia poco se quei due stranieri facessero sesso su un ponte a Venezia, in pieno giorno, con le natiche al vento; o se fossero impegnati a smaltire una sbronza colossale. Il ponte si chiama degli Scalzi, non degli Spogliati.

L’episodio non è isolato. Il sito del Corriere del Veneto, e altri media a ruota, hanno mostrato una sconcertante rassegna di eccessi estivi, dove gli ospiti stranieri sono protagonisti. Accampamenti sotto i colonnati, picnic con tovaglia in piazza San Marco, abbronzatura inguinale nei campielli, bivacchi notturni durante i quali è difficile immaginare che i canali non vengano usati come latrine a cielo aperto.

La città di Venezia non è immune da colpe (il turista barbaro comunque compra, e qualcuno vende). E non è la sola a subire certe assalti. Firenze e Roma sono messe meglio, ma subiscono quotidianamente quest’affronto. Non è, infatti, banale sciatteria. È mancanza di rispetto. Certe cose, a Parigi a Londra o a Siviglia, i turisti non le fanno.

Perché accade? Forse perché, all’estero, non ci prendono sul serio? O perché la vacanza italiana è, da secoli, una sospensione delle regole? La prima possibilità è sgradevole. Nasconde un’opinione che, per noi, sarebbe umiliante. L’Italia come luogo fascinoso, colorato, eccitante; ma incapace di organizzare una convivenza ordinata. Come dimostrano film e libri, amici e barzellette, la sottovalutazione della nostra vita pubblica è pari solo alla sopravvalutazione delle nostra vita privata. Qualcuno dirà: nordeuropei e americani non vedono, dietro alle convenzioni del pub, del party e della metodica sbronza tra amici, il rischio dell’alcolismo di massa? Lo vedono. Ma quelle abitudini - da Chicago a Cork, da Stoccolma a Stoccarda - sono in qualche modo codificate. Società a irresponsabilità limitata.

L’Italia, quindi, è vittima di un luogo comune? Certamente. Ma è una vittima consenziente; spesso, addirittura, complice. La vicende italiane che affiorano nei media internazionali non sono soltanto imbarazzanti: sono anche, purtroppo, simboliche e spettacolari. Dalla spazzatura sul golfo di Napoli ai maneggi del Mose a Venezia, dalle futuristiche ruberie di Milano-Expo al vergognoso abbandono della Maddalena, abbiamo la capacità di fornire fenomenali sfondi ai nostri guai. E non ci sono solo le brutte notizie. Ci sono anche le abitudini discutibili. Quelle che il turista straniero percepisce durante la visita, e metabolizza. Le discariche abusive di cui è macchiato il sud, state certi, raccolgono anche rifiuti gettati dai forestieri.

Le pessime condizioni di tanti treni locali invitano alla sciatteria; sul Frecciarossa il viaggiatore straniero non si pulisce i piedi sul sedile. Il suk automobilistico davanti alla stazione Termini di Roma - taxisti che gridano ordini e impongono misteriose gerarchie, nella totale assenza di controlli - diventa, per il turista superficiale, un invito. La città è questa, mi adatto. Poi vagli a spiegare che non si entra nelle fontane, anche se fa caldo.

L’imitazione dei cattivi comportamenti, in qualche caso, sopravvive ai comportamenti stessi. Prendiamo le autostrade. Noi italiani, grazie al «tutor», siamo diventati più disciplinati (con vantaggi per l’incolumità e il sistema nervoso). Molti automobilisti stranieri non lo hanno capito, e continuano a guidare in maniera sconsiderata. L’arroganza di tante targhe svizzere lanciate a bomba verso sud nasconde un atteggiamento coloniale. Come altri stranieri, quei signori fanno cose che, a Zurigo o a Losanna, non si permetterebbero mai. Resta la seconda possibilità, per noi più consolante. Per molti l’Italia è il luogo delle eccezioni comportamentali, il laboratorio degli esperimenti sentimentali, la palestra delle intuizioni, delle sensazioni e delle tentazioni. Un’intera bibliografia, da Goethe a «Mangia Prega Ama», è in grado di dimostrarlo. I turisti stranieri vengono da noi perché si sentono, per due/tre settimane l’anno, più liberi. Noi siamo quello che vorrebbero essere, almeno talvolta: e non osano. Fosse così, possiamo accettarlo. Ma ricordiamo ai nostri ospiti una cosa. L’Italia è davvero, con tutti i suoi difetti, un luogo fascinoso, generoso e sensuale. Per goderselo, non c’è bisogno di mostrare le natiche su un ponte.

8 agosto 2014 | 09:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_08/bivacchi-tuffi-fontane-turisti-stranieri-non-ci-prendono-serio-00d200ba-1ec8-11e4-935f-58b9b86038b5.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - «Capitano, mio capitano» Quell’attimo fuggente che commuove
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2014, 05:51:36 pm
«Capitano, mio capitano» Quell’attimo fuggente che commuove
Il professore Keating, un maestro di vita.
Perché ci rattrista la scomparsa dell’attore

di Beppe Severgnini

Vi siete mai chiesti perché il finale di L’attimo fuggente, ogni volta, ci commuove? Ricordate? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!».

Perché quella scena, invece di apparire enfatica, è così potente e universale? La ricordano in Asia, la citano in America, la riproduciamo in Europa nei convegni aziendali: l’amministratore delegato vorrebbe ispirare come il professor Keating, e rischia d’irritare come il pedante sostituto in cattedra.

La risposta è semplice. Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di un maestro. Sempre, dovunque, a ogni età. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’incoraggiamento.

«Maestro» era l’appellativo di Gesù Cristo nei Vangeli. L’omaggio dei contemporanei ai grandi del Rinascimento. Oggi il vocabolo non se la passa bene. Banalizzato a scuola - dove qualche folle pensa sia meno prestigioso di «docente» - e inflazionato nella vita quotidiana. Quando non possiamo vezzeggiare il prossimo con un titolo di studio, o adularlo con qualche carica altisonante (vicepresidente! egregio direttore!), ricorriamo a «maestro». Pittori di provincia, poeti dilettanti, cattedratici sgonfi, allenatori in pensione: un inchino verbale non si nega a nessuno.

Non è un titolo ambito, maestro. Pochi sembrano interessati a conseguirlo. «C’è una grande gioia a incoraggiare il talento» diceva John Travolta, accademico sovrappeso e alcolizzato in una canzone per Bobby Long ; e cambiava la vita della ragazzina bionda e confusa che seminava dubbi e mutande per la casa (Scarlett Johansson). Quanti professori universitari, oggi, hanno voglia di diventare maestri? Ordinari, certo. Maestri, chissà. Quanti datori di lavoro pensano di dover dare, invece di continuare a chiedere; e insegnare, invece di limitarsi a giudicare? Quanti imprenditori e professionisti passano competenze e opportunità alle nuove generazioni, invece di considerarsi l’inizio e la fine di ogni cosa?

Essere un maestro è un impegno: un’auto-certificazione di generosità. Esiste uno speciale egoismo contemporaneo che ha preso forme accattivanti. Qualcuno lo chiama individualismo; altri, realismo. Molti teorizzano la necessità di viziarsi, di salvaguardarsi, di pensare a sé. «Fatevi le coccole» è una delle più fastidiose espressioni pubblicitarie degli ultimi anni: le coccole si fanno ai bambini e a chi si ama, non a se stessi. Esiste l’onanismo del cuore, e non è bello da vedere.

I maestri, di cui Robin Williams fornisce una poderosa interpretazione, non fanno coccole: offrono aiuto e suggerimenti e ispirazione. Segnalano svolte e insegnano prospettive. Indicano una via e la illuminano: può essere una scala verso il cielo, se uno crede all’aldilà o ai Led Zeppelin; o un passaggio sicuro nel bosco delle decisioni difficili. I maestri - quelli veri - non chiedono niente di cambio. Non sono life coaches. La ricompensa è l’onore di trasmettere qualcosa, il piacere di aiutare chi viene dopo. Piacere gratuito; quindi, impopolare.

Ci sono rischi, ovviamente. La domanda di maestri ha creato un’offerta vasta, varia e insidiosa. La parodia del carisma può ingannare chi cerca e ha fretta di trovare. Psicologi e filosofi trasformati in santoni; leader politici impegnati nella costruzione del monumento personale; spericolati improvvisatori new age; sacerdoti che posano da guru; gruppi e sette che dispensano dal pensare e, nel calore del gruppo, addormentano le coscienze. Non salite sul banco, davanti a questi personaggi, come gli studenti del professor Keating; nascondetevi sotto, e tappatevi le orecchie.

Gli attimi fuggono, i gesti rimangono. Ecco perché il mondo s’è commosso, come non si vedeva da tempo in occasione della scomparsa di un attore. Non è solo la strabiliante abilità di Robin Williams che ci mancherà; non è tanto la sua strepitosa galleria di personaggi. Ci mancherà qualcuno che ci ricordi con passione, a colori, con poesia quanto abbiamo bisogno di maestri.

Capitano, mio capitano! tu lo insegnavi: qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo.

Beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/spettacoli/14_agosto_13/capitano-mio-capitano-quell-attimo-fuggente-che-commuove-0d6f3e48-22ae-11e4-9eb4-50fb62fb3913.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Alla ricerca della fiducia
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 06:49:08 pm
Alla ricerca della fiducia

Di Beppe Severgnini

Ferragosto è una festività romana, cristiana, italiana. Il riposo di Augusto (feriae Augustii) è diventato, per tradizione, quello di tutti noi. Un riposo che dovrebbe essere sereno. Quest’anno la meteorologia, l’economia e le armi l’hanno reso, invece, ansioso. Ansia comprensibile: basta che non diventi rassegnazione.

Matteo Renzi, al governo da sei mesi, appare preoccupato. L’insistenza con cui chiede ottimismo inizia a somigliare a quella dei predecessori. Alcuni scatti denotano nervosismo. Non ne ha motivo. Non si cambia l’Italia in sei mesi (né l’economia, né l’umore). Occorre procedere per gradi: spiegando, semplificando, rassicurando. L’ottimismo a comando non esiste.

Ha ragione, il giovane presidente del Consiglio, a ricordare che non siamo soli a faticare. Ieri è stato diffuso il dato della crescita del Pil per l’eurozona: solo 0,7% su base annua. Fa altrettanto bene, Renzi, a ricordare che siamo un grande Paese - la terza economia del continente, la seconda industria dopo la Germania - e abbiamo motivi d’essere orgogliosi. Fa meno bene a derubricare la preoccupazione come rassegnazione, e a liquidare i critici come «gufi».

Sono frasi buone per Twitter o per la campagna elettorale. Ma col primo non si governa, e la seconda appare esclusa (proprio da lui). Forse il premier dovrebbe limitare gli obiettivi e, già che c’è, le dichiarazioni, le celebrazioni e le inaugurazioni, che costringono a essere enfatici e un po’ generici. Qualcuno l’ha fatto notare: se quel paragone tra la ripresa e l’estate l’avesse tirato fuori Silvio Berlusconi («Non è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo, ma arriva») sarebbe stato deriso.

Matteo Renzi è determinato. Ha costretto il Senato elettivo ad abolire se stesso, ed è come convincere i pesci rossi a togliere il tappo dell’acquario: non facile. Perché non anticipa, come suggerito sul Corriere da Ferrera, Giavazzi e Alesina, la riforma sul lavoro? Introducendo un contratto a tutele crescenti dimostrerebbe al mondo che facciamo sul serio. Le preoccupazioni, nelle istituzioni internazionali e sui mercati, ci sono: è infantile nasconderselo. Mario Draghi ha chiesto «un segnale importante a settembre»? Bene: noi mandiamolo prima.

Gli italiani che oggi si riuniscono a pranzo vogliono essere ottimisti. Il nostro vocabolario del disagio è ridotto, rispetto a quello di inglesi, tedeschi o francesi (niente gloom , nessuna Angst , poco malaise ). Siamo una nazione reattiva. Siamo stati troppo poveri per sentirci depressi. Abbiamo resilienza, fantasia e coraggio. Ma non possiamo accettare che chi sta al governo dica va tutto bene! e chi sta all’opposizione risponda va tutto male! (salvo scambiarsi i ruoli alla prima occasione).

Non è giusto costringere gli italiani a scegliere tra trionfalismo e disfattismo. Molti di noi sono pronti a investire, a provare, ad assumere: ma occorrono norme e garanzie, non polemiche e promesse. La fiducia non si pretende, si conquista. Matteo Renzi deve capirlo.

Ferragosto è un ottimo momento per ripartire. Tre splendidi racconti di Cesare Pavese sono riuniti sotto il titolo La bella estate. Siamo ancora in tempo. Con qualche dichiarazione in meno e un po’ di concretezza in più, potrebbe diventare la stagione della riscossa.

15 agosto 2014 | 09:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_15/alla-ricerca-fiducia-305d750a-2443-11e4-a121-b5affdf40fda.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. La decapitazione: i mostri dell’orrore e la scelta di non ...
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:11:33 pm
I video e la Rete
La decapitazione: i mostri dell’orrore e la scelta di non essere complici
Mostrare o non mostrare il filmato dell’esecuzione di James Foley?
I limiti della condivisione, il diritto alla libertà e il gioco dei terroristi

Di BEPPE SEVERGNINI

La decapitazione di James Foley, recitata come la scena di un film, è sconvolgente: attori goffi, orrore vero. Un giornalista quarantenne, insaccato in una veste arancione, scannato nel deserto da un uomo - definizione che non merita - bardato di nero. Gesto mostruoso e preistorico; strumenti sofisticati e nuovi. Colori, luce, inquadratura, movimenti, tempi: tutto appare studiato per essere visto e diffuso. Se così fosse - e così è, quasi certamente - perché aiutare i carnefici? Gli abbiamo già fornito la tecnologia. Vogliamo diventare i loro portavoce? Questa è la domanda che si pongono molti in queste ore: i governi occidentali, i macchinisti della rete (Google per YouTube, Twitter), le grandi testate, le televisioni, chiunque abbia un collegamento internet veloce. #ISISMediaBlackout è diventato virale.

La dichiarazione recita così: «Quando terroristi o criminali di guerra disperatamente pubblicizzano i loro crimini, non aiutateli. Quando i social media, giornalisti e osservatori condividono immagini macabre per riportare i fatti, svolgono lavoro di PR per costoro. Descrivete i loro crimini, non pubblicate la loro propaganda».

Molti hanno aderito, altri hanno protestato: in nome della libertà. Libertà assoluta di sapere, di vedere, di esprimersi, di decidere. Chi ha ragione?
«Che i terroristi di Isis, da tempo abili nell’uso dei social network, possano contare su piattaforme gratuite per rilanciare i loro tremendi messaggi, e lo facciano sfruttando il passaparola degli utenti, è una distorsione terribile», scrive Marta Serafini sul blog «6 Gradi» di Corriere.it. E aggiunge: «Certo si lascia ad aziende e società commerciali una responsabilità enorme». E’ così, ma è inevitabile: strumenti nuovi, fenomeni nuovi, decisioni nuove. Scappare non serve: la realtà è più veloce di noi, e ci costringe ogni volta a scegliere.

Alcune testate di lingua inglese (New York Times , Wall Street Journal , Financial Times ) hanno messo la notizia della decapitazione in basso, carattere piccolo, con foto d’archivio? Sembra un eccesso di zelo, e una curiosa scelta giornalistica. YouTube e Twitter hanno rimosso il filmato dell’esecuzione? E prima che ciò accadesse diversi media - tra cui il Corriere della Sera - hanno evitato di pubblicarlo? E’ giusto. Non perché lo ha chiesto la Casa Bianca. E’ giusto perché diffondere quel video è l’obiettivo dei carnefici: ostacolarli è un dovere. Le foto del massacro nella scuola di Beslan (2004)? Le immagini dei resti delle vittime dell’aereo abbattuto sull’Ucraina il 18 luglio? Sconvolgenti: ma servivano a raccontare due follie, e a evitarne altre.

I libertari assoluti non ci stanno: bisogna guardare/ascoltare/leggere tutto per poter decidere! Rimuovere quel video? Una censura. Domanda: condividiamo forse filmati pedopornografici prima di condannare la violenza sessuale sui bambini? Saremmo contenti se le immagini strazianti di un nostro familiare venissero date in pasto alla morbosità del mondo? Perché di questo si tratta, parliamoci chiaro. Assuefatti al sangue e alla violenza cinematografica - che l’America vezzeggia e vende senza scrupoli, non dimentichiamolo - vogliamo di più: sangue e coltello veri, non succo di pomodoro e lame di gomma. Anni fa a Los Angeles ho conosciuto Judeah Pearl, uomo dolce e mente finissima (studioso della causalità, ha vinto nel 2012 il Turing Prize, il Nobel dell’informatica). E’ il padre di Daniel, il giornalista americano decapitato in Pakistan nel 2002 da al-Qaeda. Chiediamo a lui se è nobile e utile, in nome della libertà d’espressione, scambiarsi il filmato dell’esecuzione di James Foley.

Leggo tra i commenti su Corriere.it: «Mostrare, assolutamente mostrare anzi da far vedere in TV in fascia protetta, che tutti vedano cosa vuol dire decapitare un uomo usando un coltello, che sentano le urla, il rumore gorgogliante dei fiotti di sangue che zampillano, e lo sguardo lucido e soddisfatto del carnefice che tiene per le mani la testa sgocciolante e che soprattutto si rendano conto di quanto tempo ci vuole e di quanto sia lungo l’orrore, e poi vediamo quanti simpatizzanti restano».

Resterebbero e aumenterebbero, vorrei dire al lettore. Tra di noi, infatti, non ci sono solo Di Battista inadeguati e presuntuosi («Quando non hai mezzi per combattere una guerra regolare, resta solo il terrorismo»). Ci sono persone che, davanti a problemi complessi, s’accontentano di risposte semplici e orrende (il mondo è ingiusto? Un genocidio lo purificherà!). Perché, noi che impediamo la propaganda nazista, dovremmo tollerare - anzi, sostenere - quella dell’estremismo islamico?

«L’orrore, l’orrore!», evocato dal protagonista di «Cuore di tenebra», aleggia sempre sul mondo: sta agli uomini liberi portare, faticosamente, la luce. Decidendo cosa fare e cosa non fare; cosa dire e cosa non dire; cosa ascoltare e cosa non ascoltare; anche cosa guardare e cosa non guardare. Papa Francesco ha ragione. E’ in corso «una terza guerra mondiale a puntate», e non è finita. Ma la vinceremo, anche questa volta.

21 agosto 2014 | 07:37
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_21/decapitazione-mostri-dell-orrore-scelta-non-essere-complici-58dd4d7a-28f3-11e4-8091-161094bc7e0e.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il merito delle scoperte è solo degli esploratori
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2014, 06:27:45 pm
Il merito delle scoperte è solo degli esploratori

Al seminario Ambrosetti di Cernobbio, lontano dalla logorrea di Roberto Casaleggio e dai fantasmi di Matteo Renzi, sedeva una coppia di Los Angeles. Sembrava uscire dal film “The Social Network”. Lei si chiama Nanxi Liu, e ha co-fondato Enplug Inc., una società che ha creato una rete di grandi schermi pubblici interattivi (per aeroporti, stazioni, impianti sportivi). Lui è Daniel Rudyak e ha fondato Cortex Composites. Ha brevettato un nuovo cemento leggero che si vende a rulli, come un tappeto, e s’indurisce quand’è idratato. Hanno decine di milioni di dollari di fatturato e quarantasei anni: in due.

Daniel racconta che l’idea del cemento portatile gli è venuta nel traffico, bloccato per due ore dietro una betoniera (se non è vera, è ben trovata). Nanxi spiega, con candore impressionante, come si butta  a conoscere persone che le sembrano importanti. Le avvicina in pubblico, si presenta. “Si comincia con un chiacchierata ” dice con un sorriso radioso “poi finiscono a investire nella società”.

Nanxi spiega che ogni business, in qualche modo, copia altri business, ma non è un problema. Non c’è neppure bisogno di diventare perfetti: basta essere il 10% migliori dei concorrenti. Daniel ricorda tutti i “no” che ha raccolto prima di trovare investitori (“Non è un problema, basta continuare a chiamare”) e afferma: “I brevetti servono solo a guadagnare un po’ di tempo”. Li ascoltavamo. Si può conoscere il gusto del futuro dell’America, ma fa impressione vederlo stampato in due occhi asiatici e in un sorriso esteuropeo.

La buona notizia è: quei ragazzi non sono più soli. Sul palco, di fianco a Nanxi e Daniel, c’erano un inglese e tre italiani. Il veneto Francesco Nazari Fusetti, classe 1987, fondatore di Charity Stars (aiuta le organizzazioni no-profit a raccogliere fondi attraverso aste di beneficienza, trattenendo il 15%). Il triestino Beniamino Pagliaro, anche lui 27 anni, che con cinque coetanei ha creato Good Morning Italia, la migliore rassegna-stampa in circolazione (da poco a pagamento, con successo). Il bresciano Davide Dattoli, inventore di Talent Garden: luoghi di lavoro condivisi in diverse città d’Italia (“un ecosistema dove menti brillanti e creative possano aiutarsi e competere allo stesso tempo, svilupparsi e diventare grandi”).

Casi isolati? Non più. Questa giovane imprenditoria, fantasiosa e ammirevole, sta sfondando. Non grazie a leggi lungimiranti, a investitori intelligenti, a coraggiose associazioni industriali. I maestri dei nuovissimi imprenditori sono altri: internet e disperazione. Uno e l’altra mettono idee in testa e ali ai piedi. Invece di elemosinare un lavoro che non c’è, ragionano molti ragazzi, tanto vale rischiare.

Ce la faranno? Sono convinto di sì. Una generazione così non si vedeva dagli anni Sessanta: fame e freni, oggi come allora, fanno miracoli. Se dovesse andar bene, vedrete: affamatori e frenatori – in politica, nell’amministrazione, nelle organizzazioni di categoria – proveranno a prendersi il merito. Ma noi non gli crederemo, stavolta. Il merito delle scoperte è solo degli esploratori.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/09/11/27951/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Lentezza FALSO MITO Tutto va veloce (come i treni)
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2014, 06:25:16 pm
Lentezza FALSO MITO
Tutto va veloce (come i treni)

Di Beppe Severgnini

Nel 2015, con il Frecciarossa 1000, si andrà da Milano a Roma in 2 ore e 20. Bene. Perché la velocità non è solo fretta e non è sempre frenesia. E la lentezza, in Italia, è spesso un alibi per la pigrizia. a pagina39 Nel 2015 arriverà il Frecciarossa 1000, e andremo da Milano a Roma in 2 ore e 20 minuti. Qualcuno dirà che non è necessario, e si lancerà nel consueto «elogio della lentezza». Vada a ripeterlo ai passeggeri del Regionale 29075 Udine-Trieste (via Cormons): 1 ora e 22 minuti per percorrere 82 km, ma ieri avevamo venti minuti di ritardo.

La velocità non è solo fretta e non è sempre frenesia. È una condizione per vivere, lavorare e produrre nel XXI secolo. Non una condizione esclusiva: si può leggere un lungo romanzo su un treno che corre. La lentezza, in Italia, è spesso un alibi per la pigrizia. Non possiamo permettercela. Internet sta imprimendo l’accelerazione provocata, cent’anni fa, dal telegrafo senza fili, dalla radio e dagli aerei. Nessuno scriverà un nuovo Manifesto del Futurismo, nessuno vuole «uccidere il chiaro di luna». Ma qualche vecchia abitudine forse sì.
La banda larga mobile, l’alta velocità ferroviaria e alcuni strumenti diagnostici sono esempi quotidiani di rapidità: domandate a chi li utilizza se intende rinunciarvi. Se è contento d’aspettare cinque minuti per caricare un sito internet. Se vuol tornare a impiegare dieci ore per andare da Milano a Roma.

Se l’Italia si trova dov’è, e non dove dovrebbe essere, è anche per la mancanza di velocità. I bradipi nazionali sono ubiqui e astuti. Nel lavoro, nei trasporti, nelle procedure e nelle autorizzazioni: troppe cose sono rallentate. È inutile riempirsi la bocca con le opportunità per i giovani, se un ragazzo che lavora viene pagato dopo mesi (senza spiegazioni: dipende dell’umore della contabilità aziendale). Ci sono attività che richiedono lentezza: sesso e cibo, per dirne due. Slow Food , perciò, va bene. Slow Trains , Slow Reforms , Slow Jobs ? Possiamo farne a meno.

24 settembre 2014 | 08:49
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Titolo: Beppe SEVERGNINI. - L’epitaffio dello scontrino ai tempi del bancomat
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:36:47 pm
L’epitaffio dello scontrino ai tempi del bancomat
Considerato inefficace, il Parlamento studia il suo abbandono.
Il pagamento elettronico saprà però creare un nuovo rapporto tra fisco e cittadini?

Di Beppe Severgnini

Prima di scrivere un epitaffio è sempre bene attendere il decesso: e lo scontrino ha la pelle dura. Ma nel «rapporto sulla realizzazione delle strategie di contrasto all’evasione fiscale», presentato in Parlamento in questi giorni, la prognosi è chiara. «In prospettiva, gli sviluppi sul fronte della tracciabilità potranno comportare l’abbandono di alcuni strumenti risultati inefficaci (come i misuratori fiscali e le ricevute fiscali), con minori oneri per le imprese ed il progressivo abbandono di controlli massivi sul territorio da parte dell’Amministrazione finanziaria». In italiano corrente vuol dire: un giorno (imprecisato) faremo a meno dello scontrino. Sempre più persone pagano con Bancomat e carta di credito, anche nella versione «senza contatto» («contacless», in milanese moderno): per effettuare un acquisto, basta avvicinare la carta all’apposito lettore. «Pos» è ormai un’espressione di uso corrente. Quasi nessuno sa che significa «Point Of Sale», punto di vendita. Ma tutti si rendono conto di due cose: non è gratis per gli esercenti (da €25 a €180 l’anno, più il costo delle singole transazioni); e rende superfluo lo scontrino. Non lo rimpiangeremo. Lo scontrino è il simbolo leggero della sfiducia profonda: del fisco nei confronti di commercianti, ristoratori e clienti; di commercianti, ristoratori e clienti nei confronti del fisco; di clienti, ristoratori e commercianti tra loro. Intorno allo scontrino, o all’assenza del medesimo, si è sviluppata negli anni un’abbondante letteratura. Ai giornali arrivano continue segnalazioni in proposito: ogni località turistica sembra aver elaborato variazioni sul tema. Una delle più popolari è consegnare un «pre-conto». Identico, nell’aspetto e nella ritualità, al conto vero e proprio; ma fiscalmente nullo. Una piccola, spettacolare ipocrisia. L’equivalente moderno del conto scarabocchiato sulla tovaglia di carta. L’idiosincrasia nazionale verso scontrini e affini ha raggiunto vette comiche sublimi. Nel film «Qualunquemente», opera iperrealista di Antonio Albanese, il tenente Cavallaro, al termine di un pranzo di famiglia, chiede la ricevuta fiscale: i clienti del ristorante, gli anziani nel vicino caffè, i bagnanti sulla spiaggia ammutoliscono. Ricevuta fiscale?! Cetto La Qualunque deve reggersi forte, prima di convincere la cassiera incredula a estrarre l’apposito blocchetto, e soffiar via la polvere depositatasi negli anni. Sarebbe bello se l’abitudine al pagamento elettronico portasse nuovi rapporti tra fisco e cittadini: ma non è detto. Lo scontrino, in questi anni economicamente burrascosi, non viene odiato solo perché costituisce una forma di controllo, in Italia storicamente e antropologicamente inviso. Viene odiato anche perché ci ricorda tutto quello che non va nel Paese: l’astuzia inutile, il sospetto metodico, la slealtà come abitudine. Certo, si potrebbe ricominciare, in una società senza furbastri e senza scontrini: pagare meno, pagare tutti. Ma questo, ci rendiamo conto, è un sogno. Come ottenere spontaneamente uno scontrino in certi caffè all’aperto frequentati da stranieri.

3 ottobre 2014 | 11:15
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_03/epitaffio-scontrino-tempi-bancomat-526fb35a-4adc-11e4-9829-df2f785edc20.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Quel milione di bambini nato da coppie Erasmus
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:21:21 pm
Quel milione di bambini nato da coppie Erasmus
È facile attaccare l’Ue, ma dobbiamo essere meno cinici di chi ci guida
Di Beppe Severgnini

Potremmo chiamarla, o chiamarlo, «The Million Euro Baby», se il titolo non fosse così cinematografico. La Commissione europea ha calcolato che un terzo degli studenti Erasmus ha conosciuto il partner durante l’esperienza all’estero. «Stimiamo che da queste coppie, a partire dal 1987, sia nato un milione di bambini», ha dichiarato Androulla Vassiliou, commissaria uscente per l’Istruzione, la Cultura e la Gioventù.

Secondo voi, quanti leader politici hanno commentato la notizia con orgoglio? Quanti hanno capito che altri programmi Ue producono norme europee, mercati europei, prodotti europei; mentre il programma di scambi universitari Erasmus, da ventotto anni, produce europei. Un sostantivo, senza aggettivi. E costa lo 0,7% della politica agricola comune.

«The Million Euro Baby». Nessun governante, nei 28 Paesi, ha ricordato il traguardo, che io sappia. Tanti, invece, sono impegnati a scaricare sull’Unione responsabilità e colpe: anche responsabilità nazionali, anche colpe che i governi dovrebbero assumersi. La Conferenza di alto livello sul lavoro, in programma oggi a Milano, offrirà probabilmente ulteriori, malinconici esempi di questa tendenza.

L’Europa è diventata il capro espiatorio delle inadempienze nazionali. È facilissimo attaccarla: non può difendersi. Un club non può farci niente, se i soci vanno in giro a parlarne male. Ma i soci del club europeo non sono soltanto i governanti, di ogni nazionalità e credo politico. Siamo tutti noi e dovremmo essere meno cinici di chi ci guida.

Certo è facile, per Matteo Renzi, ripetere «Non sarà l’Europa a dirci quello che dobbiamo fare!». Certo è utile, per David Cameron, rispondere: «Tengo mille volte più alla Gran Bretagna che all’Europa». Certo è comodo, per Manuel Valls, dire: «La Germania deve cambiare tono!» invece di metter mano alla mastodontica spesa pubblica francese (56% del Pil). Ma tutti e tre, e altri, dovrebbero chiedersi: cosa faremmo, senza il fiato dell’Europa sul collo?

La risposta, per l’Italia, è facile: eviteremmo la fatica del cambiamento e torneremmo a spendere come cicale. Un ex-presidente del Consiglio, privatamente, giorni fa lo ha ammesso: «Senza lo scudo delle norme di bilancio Ue, chi governa l’Italia non potrebbe resistere alla pressioni di sindacati, industriali, amministrazioni locali, interessi vari». Senza i vincoli europei - ricordiamolo - il debito pubblico italiano è schizzato dal 50% del Pil nel 1974 al 122% del 1994. Ora siamo al 132%. Non è poco: la Francia è al 92% e la Germania al 78%. Ma almeno, grazie ai guardiani di Bruxelles, non ci siamo finanziariamente suicidati.

È irritante aver bisogno di guardiani? Ovvio. Si può evitare? Certo, basta mostrare di poterne fare a meno. Se facessimo le riforme che promettiamo - lavoro, giustizia, fisco, scuola - il cielo economico sopra l’Italia schiarirebbe all’improvviso. Non dimentichiamo che 600 miliardi del nostro debito pubblico sono in mano a fondi stranieri. Se decidessero che parliamo tanto e facciamo poco - se concludessero che di noi non ci si può fidare - sarebbero guai seri. Chiedete a Silvio Berlusconi: ne sa qualcosa, il 2011 non è così distante.

Il deficit al 3% non è un dogma, si può modificare. E, come ha ricordato Pier Carlo Padoan aprendo il convegno anglo-italiano di Pontignano (Siena), «alcuni Paesi europei pensano di aver fatto tutto e non è così». La possente ed egocentrica Germania, convitato di pietra d’ogni incontro europeo, potrebbe usare l’enorme surplus commerciale, creare domanda, liberalizzare il mercato interno dei servizi. Questo, tuttavia, non autorizza i politici europei, di ogni colore e latitudine, a parlare con sarcasmo e disprezzo dell’Unione Europea. È una questione di rispetto e di lungimiranza.
L’Europa dobbiamo farla migliore: non disfarla.

8 ottobre 2014 | 14:34
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_08/quel-milione-bambini-nato-coppie-erasmus-1e05c204-4ee6-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Genova, il grande esempio di tanti ragazzi
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2014, 02:54:32 pm
Genova, il grande esempio di tanti ragazzi
Di Beppe Severgnini

Le trecce bionde sporche di melma, le mani che impugnano pale e scope. La città più vecchia d’Italia appare, di colpo, ringiovanita. Fradici e instancabili, organizzati via Facebook e WhatsApp, i ragazzi di Genova sanno cosa fare; una vera protezione civile, senza maiuscole. Non offendiamoli con la nostra retorica. Non sono «angeli del fango», non sono eroi. Sono italiani. Hanno testa, cuore e braccia: e sanno farli funzionare insieme.

Sanno che qualcuno tenterà di usare la loro generosità colorata per coprire responsabilità politiche, incoscienza amministrativa, ritardi e inadempienze. Non gl’importa. Sono arrivati perché Genova ha bisogno d’aiuto. È un’occasione di riscatto e una dichiarazione pubblica. Non tutti sono rassegnati, in questo Paese.

I nuovi italiani sono, nella grande maggioranza, come loro. Vorrebbero rendersi utili, ma non riescono. Non riescono perché non gliene diamo la possibilità. Il torrente Bisagno, con la sua naturale ferocia, li ha mobilitati. Noi adulti, nel nostro insondabile egoismo, non siamo stati capaci. Non abbiamo neppure il coraggio che viene dalla necessità. Non riusciamo a dire ai nostri ragazzi che abbiamo bisogno di loro. Che, senza le idee e le energie di una nuova generazione, l’Italia è condannata.

L’età media, nel nostro Paese, è 44,5 anni. In Francia 40,9. Negli Usa 37,6. In Israele 29,9. Non sono molti, i ragazzi italiani. Almeno, teniamoli da conto. Aiutiamoli ad aiutarci.

Per farlo c’è un modo solo, e ha un nome: incoraggiamento. Incoraggiare un ragazzo vuol dire farlo lavorare: e pagarlo. Vuol dire fornirgli prospettive chiare e meccanismi funzionanti (oggi esistono 50 tipi di contratti di lavoro, e Garanzia Giovani non garantisce un bel niente, come ha spiegato Dario Di Vico sul Corriere di ieri). Vuol dire creare concorsi trasparenti e procedure semplici. Dalla sanità all’università, dal giornalismo all’industria, non accade.

Chiunque ha lavorato con persone più giovani ha capito che mescolare età e talenti è un investimento reciproco. Alcune combinazioni - esperienza ed entusiasmo, prudenza e incoscienza, cautela e spontaneità - permettono d’arrivare lontano. Basta partire.

Matteo Renzi scrive su Facebook: «Vedo i ragazzi che spalano il fango dalle strade e a loro va il mio grazie». Certo: grazie. Ma se non vuol restare soltanto una parola, quel ringraziamento deve diventare velocità, chiarezza, sincerità. E - ripetiamo - incoraggiamento. La sfiducia è più insidiosa del fango: non si vede. La rinuncia di una generazione è più pericolosa di un torrente: non si sente. Vedremo solo le conseguenze, ma sarà tardi.

@beppesevergnini
13 ottobre 2014 | 08:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_13/genova-grande-esempio-tanti-ragazzi-3a5f24fc-5299-11e4-8e37-1a517d63eb63.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - A piedi in città
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2014, 03:17:44 pm
A piedi in città
La lezione dei nostri figli, che camminano più di noi Uno su 3 va a scuola senza usare mezzi di trasporto

Di Beppe Severgnini

Un terzo dei bambini e dei ragazzi fino a 13 anni va a scuola a piedi. Un terzo degli studenti fa lo stesso per raggiungere istituti superiori e università. Gli adulti che arrivano a piedi sul luogo di lavoro sono tre volte di meno. Solo l’11,5 per cento del totale. Nel dato diffuso dall’Istat in occasione della Giornata nazionale del camminare (oggi) è contenuta una lezione interessante. Questa: i nostri figli e nipoti sanno trarre insegnamenti utili da tempi grami.

Provate a pensare: perché un ragazzo sceglie di andare a scuola a piedi? Ha ragionato sulla riduzione dell’inquinamento e la qualità della vita nelle aree urbane? Possibile, ma non probabile. Se va a scuola a piedi è perché si fa più presto ed è più divertente: meglio chiacchierare con gli amici che sopportare un genitore nervoso imbottigliato nel traffico. Zaini pesanti? Si adotta il trolley. Logico, se ci pensate.

Quella logica di cui noi adulti, spesso, non siamo capaci. Molti miei coetanei non sanno camminare: se muovono i piedi, devono correre. Una splendida attività, sia chiaro, per cui è bene tuttavia consultare tendini, mogli e cardiologi. Camminare è un’azione antica come l’uomo. Quando si è alzato in piedi, nella notte dei tempi, non ha ballato la rumba o chiesto se qualcuno gli dava un passaggio. È andato da un posto all’altro. Se non è stato divorato, è pure tornato indietro.

I ragazzi camminano, e arriveranno lontano. La generazione nata alla fine del XX secolo sta recuperando abitudini antiche: andare a piedi è una di queste. Anche andare in bicicletta. Usare i mezzi pubblici. Non acquistare un’auto, condividerla («car sharing», in milanese moderno): da Enjoy a BlaBlaCar è tutto un fiorire d’iniziative. Tempi economicamente impegnativi e genitori psicologicamente fragili hanno compiuto il miracolo.

I ragazzi inventano attività nuove, grazie a Internet. E reinventano cose vecchie: lavorare insieme, iniziare un’impresa, camminare.

Non è un’apologia della decrescita felice: essere più poveri non è mai bello. È, invece, una constatazione ammirata. Gli italiani di domani usano anche le idee di ieri per affrontare le difficoltà di oggi. Chiamare «vintage» l’usato, per esempio, è geniale: una spolverata di modernità sul giubbotto dello zio. La parsimonia dei giovani clienti ha portato produttori e distributori a ragionare di più su quello che vendono. Alimentarsi con attenzione ha costretto l’industria a essere meno opaca (ai tempi dei social network gli errori si pagano, dall’amministratore delegato in giù).


Molti di questi comportamenti sono legati alla necessità. Ma non possiamo farcene un merito, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e Sessanta. Aver tollerato l’espansione di una generazione di precari - senza tutele, con pochi soldi, con scarse prospettive di impiego tradizionale - non è un motivo di merito. Resta un fatto: alcuni buoni comportamenti sono figli (illegittimi) delle nostre cattive decisioni.

I ragazzi sono avanti, anche quando sono indietro. Una generazione tanto poco teorica, e così pratica, non si vedeva in Italia da cinquant’anni. Come abbia fatto a crescere nelle nostre case - ideologicamente cariche, inutilmente dogmatiche - non si sa. Ma sta accadendo. E il grande aiuto che possiamo darle è: lasciamola fare. Lasciamola camminare da sola, e decidere dove vuole andare.

Per tornare da dove siamo partiti. Non accompagniamo i ragazzi a scuola in auto, se è possibile evitarlo. Non portiamo i figli all’università sul sellino dello scooterone. È un errore educativo e un azzardo stradale. Ma avete visto come guidano la moto, certi cinquantenni?
Twitter: @beppesevergnini

12 ottobre 2014 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_12/a-piedi-citta-bambini-camminano-piu-degli-adulti-beppe-severgnini-dati-istat-118f9924-51dd-11e4-b208-19bd12be98c1.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Quell’indice dell’ignoranza primato senza gloria
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:26:52 pm
Un sondaggio condotto in 14 Paesi ci assegna l’ingloriosa medaglia
Quell’indice dell’ignoranza primato senza gloria
La maggioranza crede che gli immigrati siano il 30%, mentre sono il 7%. La scarsa conoscenza della realtà è funzionale alla cattiva politica

Di Beppe Severgnini

Ho capito che qualcosa non andava domenica 12 ottobre, durante una lettura pubblica dei giornali organizzata al Museo Diocesano di Milano. Ho domandato ai presenti: «Quanti sono, secondo voi, gli immigrati in Italia?». Sguardi interrogativi, qualche sorriso imbarazzato. «Chi pensa rappresentino metà della popolazione, alzi la mano». Con mia grande sorpresa, diverse mani alzate. «Chi ritiene siano il 30%?». Altre mani alzate. «Chi crede, invece, che gli immigrati rappresentino il 15% degli abitanti?». Ancora mani alzate.
In realtà, gli immigrati in Italia costituiscono il 7% della popolazione.

Ad ascoltare la lettura dei giornali la domenica mattina, in un museo di Milano, vanno persone istruite e informate: eppure. Non è superficialità né sciatteria. Non dipende da scarsa dimestichezza con numeri e statistiche. Si tratta, invece, di una percezione sbagliata. Anzi, di una trasposizione: le preoccupazioni diventano realtà.

Non sono rimasto stupito, perciò, quando ho letto i risultati di un sondaggio Ipsos Mori, condotto in 14 Paesi. Titolo: The Ignorance Index. Questo «indice dell’ignoranza» vede noi italiani ingloriosamente primi. Meglio di noi Usa, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada, Belgio, Australia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Germania, Svezia (la nazione più informata).

Qualche esempio delle risposte in Italia? «Quanti sono i musulmani residenti?». Risposta: il 20% della popolazione! (In verità sono il 4%). «Quanti sono gli immigrati?» Risposta: 30% (in realtà 7%). «Quanti i disoccupati?» Risposta: 49% (in effetti 12%). «Quanti i cittadini con più di 65 anni?». Risposta: 48% (sono il 21%, e già assorbono una fetta sproporzionata della spesa sociale).

Sono dati allarmanti. Perché la discussione pubblica italiana parte di qui: da una somma di percezioni clamorosamente sbagliate. La politica - che pure dovrebbe conoscere la situazione - non si premura di ripetere i dati corretti. Usa la nostra ignoranza, invece. Ci costruisce sopra proposte, programmi, allarmi, proteste. Immaginate Matteo Salvini che, davanti una distesa di bandiere verdi, proclama: «Gli immigrati in Italia sono solo il 7%! I musulmani il 4%!». Calma, fratelli leghisti. Non lo farà mai. Le sue fortune politiche sono costruite sull’ansia. Tutto ciò che concorre ad aumentarla è benvenuto.



Non c’è solo la Lega, non c’è solo l’immigrazione e non c’è solo l’Italia, ovviamente. Prendiamo il numero delle gravidanze durante l’adolescenza. Gli americani pensano che il fenomeno interessi il 25% delle teenager: in pratica che un’adolescente su quattro, ogni anno, metta al mondo un figlio! Il dato corretto è 3% (allarmante, ma non catastrofico). Prendiamo gli omicidi. Il 49% della popolazione nei Paesi esaminati pensa siano in aumento, il 27% crede siano in diminuzione. In effetti gli omicidi sono in calo ovunque. Ma se gli elettori pensano il contrario, state certi: qualcuno incoraggerà queste paure e ci costruirà sopra un programma politico.

I media hanno responsabilità, ovviamente: se informiamo male, o non informiamo, la gente rischia di credere alla prima sciocchezza che sente. Ma non è solo colpa dei media. Spesso si tratta di quella che gli psicologi chiamano «ignoranza razionale»: si decide di non voler sapere. Pensate a certi quotidiani o a certi commentatori. Chi li legge/li ascolta/li guarda non vuol essere informato: chiede solo di essere confermato nei propri pregiudizi.

I pregiudizi, infatti, rassicurano: evitano il fastidio del dubbio. Le idee confuse consolano: permettono di lamentarsi senza protestare, di commiserarsi senza impegnarsi. «Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno», cantava Francesco Guccini. Ma in quella canzone, Incontro , si racconta di amanti sensibili e rassegnati, non di cittadini emotivi e disinformati. La fine di una coppia, non il declino di una nazione.

2 novembre 2014 | 10:58
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_02/quell-indice-dell-ignoranza-primato-senza-gloria-dde872cc-6275-11e4-9f8e-083eb8ae3651.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - PR vuol dire Public Relations, non Piccoli Rottweiler
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:33:00 am
PR vuol dire Public Relations, non Piccoli Rottweiler

Qualche anno fa, pensando di scoraggiare gli scocciatori, avevo pubblicato un elenco di uffici stampa, centri studi, organizzazioni, ditte e sette che mi riempivano l’in-box di mail non richieste. Pessima idea. Gli scocciatori, infatti, non si scoraggiano. Si eccitano, invece, e si moltiplicano. L’indirizzo del Corriere, nonostante firewall, filtri e altre diavolerie, oggi è assalito da sciami di messaggi non autorizzati, non graditi e assolutamente inutili.

Questi messaggi si riconoscono perché: (1) Riguardano argomenti a noi totalmente estranei, a dimostrazione che hanno sparato nel mucchio (2) Iniziano tutti con “Gentilissima/o”, non seguito da nome e cognome (3) Sono pieni di allegati pesanti e colorati (4) Nel soggetto portano scritte maiuscole (URGENTE!) (5) Di solito arrivano due volte, come se il sadico mittente non s’accontentasse di scocciare: vuole proprio rompere.

Ho provato a reagire, qualche volta. Ho chiamato il numero indicato sul fondo (ci sono sempre numeri, email, siti, indirizzi postali, Facebook, Twitter, Pinterest: i molestatori non si nascondono, sembrano orgogliosi della propria crudeltà). Pessima idea. Mi risponde una voce stupita. “Be’, lei è nel nostro elenco”. “E come ci sono finito, di grazia, nell’elenco di www.pulcinimarziani.com?”. Risposta A: “Non so”. Risposta B “Noi compriamo elenchi, e lei stava dentro”. Risposta C (la migliore): “Ma come, non le interessa il pollame extraterrestre?”.

Voi direte: quante storie! Esiste il tasto cancella/delete. Vero: ma uno non vuole passare la giornata cestinando mail non richieste, rischiando di buttar via quelle importanti. E poi: infilarsi nella casella privata di una persona, senza autorizzazione, è una forma di prepotenza. Lo stesso vale per le telefonate promozionali che arrivano a casa: uno non sa se provar pena per chi è obbligato a farne, o per se stesso, costretto a riceverne (di solito mentre sta mangiando, dormendo, amando, o è in altro gerundio affaccendato).

Certo, sono prepotenze minuscole. Ma tante minuscole prepotenze, tutte in fila nella stessa inbox, fanno una prepotenza maiuscola. PR vuol dire Public Relations, non Piccoli Rottweiler: vi prego, abbiate pietà di noi. (dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/11/06/pr-vuol-dire-public-relations-non-piccoli-rottweiler/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Siamo più pessimisti, ci mancano i sogni
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:50:06 am
LO STUDIO
Siamo più pessimisti, ci mancano i sogni
L’Italia in fondo alla classifica di 142 Paesi. Spagnoli e francesi temono meno il futuro

Di Beppe Severgnini

Era l’ultima certezza: nonostante tutto siamo un popolo resiliente e tenace, capace di reagire alle difficoltà! Il timore è che non sia più così. Forse stiamo perdendo anche l’ottimismo. Il rapporto Prosperity Index 2014, appena pubblicato dal Legatum Institute, ogni anno mette a confronto 142 Paesi. Nell’indice di prosperità siamo scesi al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013. L’Italia registra i picchi negativi alle domande «L’economia andrà meglio?» e «È un buon momento per trovare lavoro?»: siamo 134° su 142 Paesi. Siamo più pessimisti di spagnoli (132°), francesi (120°) e ucraini (107°). Uscendo dall’Europa, più di peruviani (36°) e thailandesi (quarti!). Le grandi masse cinesi e indiane (rispettivamente 54° e 67°) sono più ottimiste di noi.

Sorprendente? Non tanto. L’ottimismo delle nazioni non è legato ai numeri, ma alle prospettive. Non ai fatti, ma alle percezioni e alle aspettative. Gli umani sono esseri sognatori e misurano la felicità sul progresso. È un grande sabato del villaggio globale: e in Italia stiamo perdendo il gusto del dopo. Kazaki (30°) e uruguayani (43°) non stanno meglio di noi, oggettivamente; ma sono convinti che oggi sia meglio di ieri e domani sarà meglio di oggi. Queste cose contano, nella vita delle persone, delle famiglie e delle nazioni.

I più grandi masticatori di futuro vivono negli Usa. Non dipende solo dall’economia e dall’occupazione (248.000 nuovi posti di lavoro in settembre). Vecchi residenti o nuovi arrivati, gli americani sono convinti di poter condizionare il proprio futuro. Gli Stati Uniti sono una nazione fondata sul trasloco, nuove residenze e nuove conoscenze. Ogni presidenza è una catarsi; ogni elezione un inizio; ogni lavoro una sfida. Il fallimento, che in Italia è un marchio d’infamia, negli Usa vuol dire: almeno ci ho provato.

Non possiamo, né dobbiamo, scimmiottare l’America. Ma dobbiamo ammettere che il nostro realismo è diventato cinismo, e il cinismo ci sta conducendo al pessimismo. I continui, pessimi esempi pubblici - 5,7 miliardi l’anno il costo della corruzione, stimano Guardia di Finanza e Corte dei Conti - contribuiscono a questo umore. Altrove non accade. I Paesi che hanno una libertà di informazione simile alla nostra non hanno la nostra corruzione; e i Paesi che hanno la nostra corruzione non hanno la nostra libertà di informazione. Una consapevolezza scoraggiante, quella italiana.

L’economia e l’occupazione influiscono sull’umore collettivo; e l’umore collettivo, lentamente, diventa narrativa nazionale. Quali Paesi possiedono oggi la capacità di vedere se stessi come protagonisti di una storia che va avanti? Dell’America, abbiamo detto. Cina e India, in competizione tra loro e col resto del mondo, hanno una visione epica di questo momento storico.


In Europa è una tranquilla consapevolezza che accomuna Germania e Polonia, Irlanda e Regno Unito. Perfino la Russia ha un’idea di se stessa. Putin, in cerca di consenso, ha rispolverato i miti sovietici. In mancanza di meglio, molti connazionali gli hanno creduto.

L’Italia ha saputo raccontarsi negli anni Sessanta, quando l’economia tirava e le famiglie sognavano (sì, anche grazie a un’automobile o a un elettrodomestico). A metà degli anni Ottanta, quando ha intravisto il sorpasso dell’Inghilterra. Nei primi anni Novanta, quando ha provato a battersi contro il malaffare. Negli anni Duemila, quando la maggioranza ha creduto al «contratto con gli italiani» di Silvio Berlusconi. Tre illusioni e tre delusioni, seguite da questi anni di crisi economica.
Facciamo fatica a sognare ancora.

(ha collaborato Stefania Chiale)
@beppesevergnini
4 novembre 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_04/siamo-piu-pessimisti-ci-mancano-sogni-55020128-63ef-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il merito delle scoperte è solo degli esploratori
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 05:47:48 pm
Il merito delle scoperte è solo degli esploratori

Al seminario Ambrosetti di Cernobbio, lontano dalla logorrea di Roberto Casaleggio e dai fantasmi di Matteo Renzi, sedeva una coppia di Los Angeles. Sembrava uscire dal film “The Social Network”. Lei si chiama Nanxi Liu, e ha co-fondato Enplug Inc., una società che ha creato una rete di grandi schermi pubblici interattivi (per aeroporti, stazioni, impianti sportivi). Lui è Daniel Rudyak e ha fondato Cortex Composites. Ha brevettato un nuovo cemento leggero che si vende a rulli, come un tappeto, e s’indurisce quand’è idratato. Hanno decine di milioni di dollari di fatturato e quarantasei anni: in due.

Daniel racconta che l’idea del cemento portatile gli è venuta nel traffico, bloccato per due ore dietro una betoniera (se non è vera, è ben trovata). Nanxi spiega, con candore impressionante, come si butta a conoscere persone che le sembrano importanti. Le avvicina in pubblico, si presenta. “Si comincia con un chiacchierata” dice con un sorriso radioso “poi finiscono a investire nella società”.

Nanxi spiega che ogni business, in qualche modo, copia altri business, ma non è un problema. Non c’è neppure bisogno di diventare perfetti: basta essere il 10% migliori dei concorrenti. Daniel ricorda tutti i “no” che ha raccolto prima di trovare investitori (“Non è un problema, basta continuare a chiamare”) e afferma: “I brevetti servono solo a guadagnare un po’ di tempo”. Li ascoltavamo. Si può conoscere il gusto del futuro dell’America, ma fa impressione vederlo stampato in due occhi asiatici e in un sorriso esteuropeo.

La buona notizia è: quei ragazzi non sono più soli. Sul palco, di fianco a Nanxi e Daniel, c’erano un inglese e tre italiani. Il veneto Francesco Nazari Fusetti, classe 1987, fondatore di Charity Stars (aiuta le organizzazioni no-profit a raccogliere fondi attraverso aste di beneficienza, trattenendo il 15%). Il triestino Beniamino Pagliaro, anche lui 27 anni, che con cinque coetanei ha creato Good Morning Italia, la migliore rassegna-stampa in circolazione (da poco a pagamento, con successo). Il bresciano Davide Dattoli, inventore di Talent Garden: luoghi di lavoro condivisi in diverse città d’Italia (“un ecosistema dove menti brillanti e creative possano aiutarsi e competere allo stesso tempo, svilupparsi e diventare grandi”).

Casi isolati? Non più. Questa giovane imprenditoria, fantasiosa e ammirevole, sta sfondando. Non grazie a leggi lungimiranti, a investitori intelligenti, a coraggiose associazioni industriali. I maestri dei nuovissimi imprenditori sono altri: internet e disperazione. Uno e l’altra mettono idee in testa e ali ai piedi. Invece di elemosinare un lavoro che non c’è, ragionano molti ragazzi, tanto vale rischiare.

Ce la faranno? Sono convinto di sì. Una generazione così non si vedeva dagli anni Sessanta: fame e freni, oggi come allora, fanno miracoli. Se dovesse andar bene, vedrete: affamatori e frenatori – in politica, nell’amministrazione, nelle organizzazioni di categoria – proveranno a prendersi il merito. Ma noi non gli crederemo, stavolta. Il merito delle scoperte è solo degli esploratori.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/09/11/27951/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il garante europeo della privacy «A rischio i nostri dati...
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:57:37 pm
Il garante europeo della privacy
«A rischio i nostri dati su Google»
Il magistrato Giovanni Buttarelli è il nuovo garante europeo della protezione dei dati personali: «Anche i colossi Usa dovranno adeguarsi alle nostre regole»

Di Beppe Severgnini

Ieri il Parlamento europeo e il Consiglio Ue hanno formalizzato la nomina di Giovanni Buttarelli come European data protection supervisor (Edps), garante europeo della protezione dei dati personali. Magistrato ordinario dal 1986, Buttarelli (classe 1957, nato a Frascati) è stato segretario generale dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali in Italia dal 1997 al 2009, e vice dell’Ufficio europeo dal 2009. È la sua prima intervista nel nuovo incarico. Risponde in collegamento Skype da Bruxelles.

Privacy. Lei lo pronuncia all’inglese (pri-va-cy) o all’americana (prai-va-cy)?
«Tutt’e due, a seconda della collocazione geografica del discorso».

C’è chi ha commentato la sua nomina come «un successo italiano». È corretto?
«Sì. Credo sia un’occasione da capitalizzare come sistema-Paese. L’Italia è sottorappresentata nelle istituzioni europee a livello amministrativo-burocratico. Questa è un’importante carica dal punto di vista gerarchico. Siamo un Paese fondatore dell’Ue. Possiamo e dobbiamo fare e contare di più nei processi decisionali».

«Il Garante europeo della protezione dei dati è un’istituzione sempre più importante, ma ancora da costruire a pieno. Ragione in più per scegliere un leader carismatico», ha detto Eva Joly, membro della commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo. Lei è un leader carismatico, dottor Buttarelli?
«I requisiti prevedevano la scelta di una persona capace di rappresentare la protezione dei dati ai più alti livelli internazionali. Mi auguro che la scelta abbia avuto successo. C’è una top ten list di esperti credibili nel mondo, ed è una lista abbastanza attendibile».

Molto bene. Ma non ha risposto alla domanda. Lei è un leader carismatico?
«Credo di avere attendibilità a livello internazionale per far passare questi principi su scala non solo europea. In questa materia non basta il politico affascinante che seduce, ci vuole un lavoro di lungo respiro. Sono qui dopo un investimento di oltre vent’anni».

Lei si chiede in un tweet, in inglese: «Big data (una raccolta di dati tanto grande e complessa da richiedere strumenti differenti da quelli tradizionali, ndr) è una sfida troppo grande per la protezione dei dati? La riforma Ue è abbastanza robusta/flessibile per affrontare la questione su scala mondiale?». Può rispondere a se stesso, se vuole.
«Sì, la riforma europea è la risposta alla rivoluzione Big data. Non è necessario ripensare i principi di tutela dei diritti, bensì applicarli in modo completo. Ci vuole una privacy digitale, dinamica, fresca, sburocratizzata e soprattutto attenta alle nuove tecnologie. Non possiamo pensare che ogni nuova tecnologia detti soluzioni nella forma “prendere o lasciare”. C’è anche una valutazione di sostenibilità, di accettabilità etica. Non possiamo avere diritti fondamentali low cost».

Una priorità?
«Nel post-mondo della sorveglianza globale, la riforma della privacy dev’essere assolutamente approvata entro il prossimo anno, in modo definitivo: è la mia priorità delle priorità. Applicheremo queste leggi nel mondo a chiunque offrirà beni e servizi a individui in Europa, o li profilerà. Anche se solo due dei venti big data player sono stabiliti nell’Unione. I dati sono il petrolio del futuro, il sangue vitale dei processi decisionali, ma possono essere anche un’arma nucleare».

Non rischiamo il «tecnopanico», come l’ha definito Jeff Jervis?
«Io non ho una “Googlefobia”. Spero che il dialogo transatlantico prosegua e il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership, Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ndr ) veda presto la luce: è il trattato dei trattati. Ma non a spese dei diritti fondamentali».

Lei è d’accordo nel separare il motore di ricerca dai servizi commerciali di Google?
«Non è una mia competenza. Diciamo però che abbiamo chiesto alle autorità che si occupano di antitrust di incorporare i principi di privacy nelle loro attività».

Il Corriere in estate ha intervistato Eric Schmidt, il numero uno di Google. Ci ha detto: «Google oggi è il posto più sicuro dove mettere i propri dati». È d’accordo?
«Sicuro per chi? Per chi li maneggia o per gli utenti? Se parlava degli utenti, non sono d’accordo. Credo che i nostri dati saranno sempre di più nelle nuvole, ma i nostri diritti devono stare con i piedi per terra. Non devono essere virtuali. C’è ancora poca trasparenza sull’uso delle informazioni personali, anche per giuste finalità di law enforcement ».

The Economist sostiene che dobbiamo farci un esame di coscienza: le iniziative contro Google non sono un modo per difendere l’arretratezza tecnologica europea?
«Un autorevolissimo esponente americano mi ha detto: “Per i prossimi 5-6 anni il dialogo sarà tra la Silicon Valley e Bruxelles. Bruxelles il centro di gravità delle regole, la California il centro delle tecnologie. Washington vedrà passare questi flussi del dialogo”. L’Europa ha l’obbligo, in base al nuovo trattato di Lisbona, di legiferare. Non è una facoltà o una scelta. E credo che Google come tutti gli altri grandi player abbia tutto l’interesse ad avere regole armonizzate. Oggi dialoga con 28 Paesi, domani avrà un solo interlocutore europeo».

La sua immagine dei flussi tra la California e Bruxelles è affascinante, ma a Washington, che sta nel mezzo, c’è gente abile nell’acchiappare le informazioni che passano. Dica la verità: quando ha letto dello scandalo Nsa/Datagate è rimasto sorpreso, almeno dalle dimensioni del fenomeno?
«Tutti i servizi del mondo che fanno attività di intelligence devono spiare. Come magistrato ritengo che, se lo fanno sobriamente, in un quadro di maggiore trasparenza, ne guadagnano loro stessi. L’appetito bulimico delle informazioni non giova. La trasparente sobrietà aiuta ad avere credibilità nei confronti del cittadino. C’è un accordo in definizione con gli Stati Uniti (Umbrella agreement). Mi auguro di collaborare alla sua conclusione entro il prossimo anno».

Diritto all’oblio. Che senso ha l’intervento della Corte di giustizia, se su Google.com tutto rimarrebbe invariato?
«Pochi giorni fa, 28 autorità nazionali e la nostra autorità europea hanno approvato un documento che dice chiaramente: questo “spezzatino” non ha cittadinanza nella normativa attuale. Non possiamo operare una distinzione in base al posto in cui una società mette i server o crea il suo quartier generale. Prodotto globale, tutela globale».

Google, Facebook e gli altri dovrebbero usare default setting che garantiscono la privacy, e lasciare agli utenti la possibilità di rinunciarvi (opt-in). Mentre, come sa, oggi avviene il contrario: uno è dentro e, se proprio vuole, esce (opt-out). Possiamo chiedere questo ai grandi operatori della Rete?
«Non dobbiamo “chiedere” a queste società di farlo. Questa è la regola europea. Che poi queste società sviluppino applicazioni contrarie a questi principi - sulle quali poi fanno sistematicamente marcia indietro - è un’altra cosa».

Lei ha un account Twitter, con soli 351 follower, il 351° sono io. L’ultimo suo tweet (in tutto sono 15) è del 21 maggio. Perché sta su Twitter, allora?
«Mi aspettavo la domanda e ho la risposta pronta. Doveroso self-restraint (auto limitazione ndr ) nel corso della lunga procedura di selezione. Ora twitterò di più, promesso. Mi sono anche preso la libertà di aprire un blog personale: spero di poterlo fare all’inizio dell’anno».

Il suo incarico viene definito dai media Data protection watchdog, letteralmente «cane da guardia della protezione dei dati». Lei è autorizzato a mordere o solo ad abbaiare?
«Questa piccola Autorità abbaierà di meno. Occuparsi di diritti fondamentali non significa essere fondamentalisti. Non siamo gli ayatollah della protezione dei dati, ma vogliamo svolgere un ruolo importante. Dobbiamo essere efficaci, però. Non solo mordere, ma esserci. Non si riduce a una questione di tutela dei diritti: stiamo parlando dell’assetto della società futura. Dobbiamo prevenire forme postmoderne di totalitarismo democratico».

(ha collaborato Stefania Chiale)
5 dicembre 2014 | 10:21
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Da - http://www.corriere.it/tecnologia/14_dicembre_05/garante-europeo-privacy-a-rischio-nostri-dati-google-af2fe34a-7c5e-11e4-813c-f943a4c58546.shtml


Titolo: SEVERGNINI. Standard & Poor’s? Siamo sempre meno Standard e sempre più Poor
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:40:05 pm
Standard & Poor’s? Siamo sempre meno Standard e sempre più Poor

Telefona l’ufficio-stampa di un’importante, innovativa azienda italiana, settore elettronica. “Carissimo! Stiamo lanciando una splendida iniziativa per i giovani e ci piacerebbe se tu riuscissi a darne notizia!”. Il collega, navigato, prende tempo: “Di che si tratta?”. Risposta: “Be’, è un concorso di idee per laureati. Chi ci propone la migliore soluzione, vincerà il diritto a uno stage presso di noi!”. Domanda il collega: “Pagato quanto?”. “Ah no, gratuito! Pagare gli stage non è nella nostra policy”. “Fatemi capire: un giovane laureato vi offre una buona idea, gratis. E per premiarlo lo fate lavorare gratuitamente?”. ”Non ci avevo pensato”, risponde l’ufficio-stampa un po’ deluso.

Non cito la società: finirei per farne un caso quando invece è una prassi comune. Poiché i ricavi diminuiscono e i costi aumentano (imposte, contributi, luce e gas, trasporti), molte imprese hanno trovato il modo di far quadrare i conti: non pagano i giovani. Manodopera qualificata e gratuita! Un sogno erotico aziendale. Un incubo per i nuovi arrivati, che non possono neppure protestare. Perché verrebbero subito sostituiti con altri volonterosi (o disperati, fate voi); e perché nessuno li ascolta. Non la destra, concentrata sui lavoratori autonomi. Non la sinistra, ansiosa per i lavoratori dipendenti. Non i sindacati, attenti a garantire garantiti e pensionati (i loro iscritti).

So che se n’è scritto molto. Una mia proposta semiseria di modifica costituzionale – “Art 1. L’Italia è una Repubblica fondata sullo stage” – è diventata uno slogan: come giornalista, potrei andarne orgoglioso; come italiano, sono nauseato. Non possiamo salvarci dal naufragio rubando il salvagente alle nuove generazioni. E’ una vigliaccheria. Eppure sta avvenendo. Incapaci di trovare nuove risorse, litighiamo su quelle rimaste. Quando due pensionati mi accusano di preoccuparmi del nipote ventenne e non di loro (è successo), capisco che siamo alla frutta.

Anzi, oltre. Sul treno per Roma, giorni fa, ho conosciuto Valeria, giovane ingegnere, che insieme alla mamma, più ansiosa di lei, andava a sostenere il concorso per uno stage al Catasto. Venticinquemila (25.000) concorrenti per centosettanta (170) posti. Un tirocinio che forse produrrà un posto di lavoro; o forse no. Altro che pagelle di Standard & Poor’s! Siamo sempre meno Standard e sempre più Poor. BBB: Bravi a Blaterare e Bisticciare. Ma poi?

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/12/11/standard-poors-siamo-sempre-meno-standard-e-sempre-piu-poor/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La forza delle idee L’Occidente ha paura ma non sta perdendo
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2014, 11:44:49 am
La forza delle idee
L’Occidente ha paura ma non sta perdendo

Di Beppe SEVERGNINI

La confusione planetaria non ci scoraggi: il nostro modello attira ancora e il web contribuisce a diffonderlo. I boia temono la pace e il rispetto, questo è quello che conta

Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan. C’è qualcosa di demoniaco nelle notizie che arrivano in questi giorni. Esecuzioni di reclute, sgozzamenti di ostaggi, stragi di donne, rapimenti, esecuzioni di massa in una scuola. I nuovi Erode, sotto Natale, non riposano.

L’orso russo e gli spiriti di destra
La cleptocrazia di Vladimir Putin, appesantita dalle sanzioni e dal crollo del prezzo del petrolio, tenta di riesumare la Grande Russia e reagisce attaccando in Ucraina, dopo averlo fatto in Crimea. Mosca corteggia e finanzia la destra populista e xenofoba occidentale, sperando di minare dall’interno l’Unione Europea. A Parigi, a Budapest e a Milano, purtroppo, qualcuno gli dà spazio.

I capricci della Corea del Nord
Per aggiungere farsa al dramma, nella lontana Pyongyang un anacronistico dittatore s’imbizzarrisce per un film di Hollywood che lo deride, e ordina attacchi informatici contro la Sony, produttrice dell’opera. È dovuto intervenire il presidente Obama, che forse ha cose più importanti cui pensare.

La paura del contagio
Da tempo, un anno non si chiudeva con questa combinazione di orrore e pazzia. E il mondo libero non sa cosa fare. Osserva, inorridisce, condanna, preoccupato soprattutto di evitare il contagio.

Il modello che attira
L’impotenza e l’angoscia delle democrazie di fronte alla confusione planetaria non deve farci di perdere di vista un fatto, tuttavia. Il nostro modello attira ancora. E Internet — particolare non secondario — contribuisce a diffonderlo come mai era accaduto in passato. La violenza spasmodica cui assistiamo dimostra che i boia ci temono. Temono la concorrenza della pace, del benessere, dell’istruzione, della tolleranza, del rispetto per le donne.

Incubo disorganizzato
I talebani hanno dimostrato d’essere nemici spietati, ma costruttori modesti. Lo Stato che hanno raffazzonato in Afghanistan, quando hanno avuto il potere, s’è rivelato un incubo disorganizzato, in coda a qualsiasi classifica internazionale. I tagliagole neri dell’Isis sono ridotti a imprigionare e giustiziare le reclute straniere che provano a scapparsene via, dopo aver capito a chi e a cosa avevano affidato le loro istanze di riscossa. I cinque martiri adolescenti che hanno preferito morire, vicino Bagdad, piuttosto che abiurare la fede cristiana, sono più forti dei loro assassini.

Tempi lunghi
Vincere è drammatico, faticoso e lento. Soprattutto quando si prova a farlo con le idee, perché le armi — s’è visto — non bastano, e in qualche caso rischiano di essere controproducenti.

Democrazia imperfetta
Siamo superficiali, pigri e imperfetti, nelle democrazie. Lo spettacolo che stiamo fornendo è desolante. L’Unione Europea, che tanti meriti ha collezionato, oggi è prigioniera della ragnatela di regole che s’è creata, e esaspera i suoi cittadini. Gli Stati Uniti d’America alternano voce grossa e piccoli gesti, incapaci — per esempio — di sbloccare la situazione tra Israele e Palestina, che mesi fa ha portato ancora tragedie. Canada, Australia, Nuova Zelanda e Giappone pensano soprattutto a convivere con la Cina, ed è un lavoro a tempo pieno.

Mancanza di alternative migliori
Eppure il mondo ci riconosce che, per adesso, non s’è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato. Lo rivela il flusso crescente di emigrati verso Toronto e Sydney. Lo provano milioni di famiglie che sperano in un permesso di soggiorno negli Usa. Lo riconoscono gli ucraini, opponendosi alla corrente che li stava riportando a est. L’hanno dimostrato, per tutto l’anno, i migranti che rischiano la vita in mare per un pasto, un letto, un ospedale, una strada in cui non bisogna tremare di paura davanti a un poliziotto. Di queste cose dovremmo essere orgogliosi, ma purtroppo ce ne dimentichiamo. La memoria, dentro la paura, sbiadisce.

Calma e compattezza
No, forse non stiamo vincendo. Ma i nostri avversari ci temono, ed è questo che conta. Erode grida e gronda sangue. Siamo costretti a guardarlo, ipnotizzati. Ma ha già perso. Stiamo calmi e restiamo uniti, il resto verrà.

@beppesevergnini
22 dicembre 2014 | 08:59
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_dicembre_22/occidente-ha-paura-ma-non-sta-perdendo-12a8da92-89ae-11e4-a99b-e824d44ec40b.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La giovane Europa sarà capace di vincere questa battaglia
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:44:10 pm
La manifestazione di Parigi
La giovane Europa sarà capace di vincere questa battaglia
La libertà non è un gentile omaggio e ogni generazione deve conquistarsi la sua pace I nostri figli avranno anche il compito di sconfiggere il terrorismo e il fondamentalismo


Di Beppe Severgnini

Questa è la loro guerra. Una guerra lunga, che dovranno combattere con intelligenza, pazienza, fermezza.
Erano molti, ieri nelle strade di Parigi, i nuovi Europei. Nati dopo il 1980, informati e connessi, con una debolezza, forse: pensare che la pace fosse per sempre. Che una volta conquistata, la si potesse amministrare, come un condominio.

Non è così: ogni generazione deve meritarsi la sua pace.

Quella contro il totalitarismo religioso, e per la libertà, è la guerra dei nostri figli. Una guerra a puntate, come ha intuito papa Francesco. La prima l’11 settembre 2001; la più recente a Parigi, nei giorni scorsi. E non sarà l’ultima, purtroppo.

Gli americani hanno i Millennials; noi, la generazione Erasmus. Una generazione per cui l’Europa è viaggi, studi, amori, scambi, comunicazioni. Una generazione amareggiata per il lavoro che spesso non c’è; ma fortunata, per quello che ha potuto fare, vedere e condividere. Una generazione cui, forse, mancava una grande prova. È arrivata.

La generazione dei nostri padri ha sofferto le grandi dittature europee, e le ha viste implodere, una dopo l’altra. La nostra generazione ha conosciuto da vicino il comunismo e l’ha osteggiato, quando l’ha capito. La generazione dei nostri figli si trova di fronte a una sfida completamente nuova. Ce la farà, a disinnescare l’attacco del fondamentalismo? Probabilmente sì. E ci insegnerà qualcosa.

Le piazze non vanno mai sopravvalutate: il giorno dopo sono ridotte a fotografie e cartacce che volano. Ma quello che si è visto ieri a Parigi era impressionante. Una città - in rappresentanza di un Paese, di un continente e del mondo libero - che diceva: basta così. Queste sono le nostre trincee politiche, giuridiche, morali, mentali. Non si uccide per un’opinione o un disegno, magari sgradevole. Nessuna religione, nessuna convinzione, lo autorizza. Chi sostiene il contrario non è un dissidente: è un assassino.

Affermazioni ovvie? Certo. E allora perché abbiamo aspettato tanto a pronunciarle, tutti insieme? A mettere un po’ di orgoglio nella difesa della società che abbiamo costruito, un’area di libertà senza uguali sul pianeta?
Non è ingenuo pensare che la nuova, giovane Europa abbia capito la lezione. L’abbia capita nel modo più duro, e ce la stia già insegnando. Vedere cinquanta capi di Stato e di governo tutti insieme, uniti in nome della libertà e non impegnati a litigare sul deficit al 3%, è consolante. Quelle foto di gruppo le abbiamo viste sulle spiagge della Normandia, davanti alle trincee nelle Ardenne, in visita ai campi di concentramento. Stavolta i nostri leader erano insieme contro i nemici della libertà, attaccata in nome di una religione.
Con loro a Parigi hanno sfilato, in silenzio, due milioni e mezzo di persone. Ognuna, ci auguriamo, ne rappresentava altre duecento: tanti siamo, in Europa, da Lisbona a Tallin. Cinquecento milioni. Siamo diversi, abbiamo governi e tradizioni diverse, ma anche un evidentissimo comun denominatore. Avendo provato - ed esportato - l’orrore delle dittature, da settant’anni crediamo nella democrazia, nella libertà di espressione, nello Stato di diritto. I governi che provano a discutere questi principi vengono tenuti ai margini (Turchia) o guardati con sospetto (Ungheria).

La bellezza della salute si capisce dopo una malattia. La normalità quotidiana si apprezza dopo un brutto incidente. L’Europa, dopo l’eccidio di Parigi, capirà che cos’ha rischiato dividendosi, distraendosi, ingannandosi? Forse sì. E lo capirà - ripetiamo - perché la maggioranza dei nuovi europei inizia a capirlo.

In piazza a Parigi, a scuola a Milano, in ufficio a Londra, nei bar di Varsavia e Madrid. Ventenni e trentenni si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Come ogni casa. Come ogni cosa.

Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Non sono sinonimi, i due vocaboli. L’intransigenza è la qualità dei forti; l’intolleranza la scusa dei deboli. Gruppi e personaggi che, a preoccupazioni giuste, danno risposte sbagliate. Da una parte, gli ortodossi del multiculturalismo, convinti che tradizioni e religioni stiano sopra la legge. Dall’altra, teologi del fine settimana, per cui la fede islamica è incompatibile con la democrazia. Populisti aggressivi che sognano espulsioni di massa. Guerrafondai da scrivania che ripropongono, anni dopo, le ricette fallimentari dei neocon americani.

Stiamo in guardia: non lasciamoci ingannare. Non è dichiarando guerra al mondo che il mondo si conquista. È invece stabilendo buone regole, rispettandole e facendole rispettare. È la scommessa della giovane Europa. La vincerà.

12 gennaio 2015 | 08:54
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_12/giovane-europa-sara-capace-vincere-questa-battaglia-55f991ec-9a2f-11e4-806b-2b4cc98e1f17.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Napolitano, quel che un presidente non deve essere
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:26:55 am
Italians
Napolitano, quel che un presidente non deve essere

Di Beppe Severgnini

Giornali, siti e telegiornali sono pieni di giudizi sui (quasi) nove anni al Quirinale di Giorgio Napolitano, perciò mi limito a cinque parole: è stato un buon presidente.

Se dovessi scegliere una frase di saluto, non prenderei una citazione di Norberto Bobbio, ma un verso di Franco Battiato: «Com’è difficile restare calmi quando tutti intorno fanno rumore». E di chiasso, dal 2006, in Italia ne abbiamo fatto parecchio.

Molti, più competenti di me, hanno spiegato le qualità che dovrebbe possedere il successore al Quirinale. Mi limiterò, dunque, a indicare quali caratteristiche il futuro presidente della Repubblica NON dovrebbe avere.

Non dev’essere un dilettante. Il presidente della Repubblica è il Grande Arbitro (senza guardalinee), e un arbitro che non conosce il regolamento non serve. Musicisti, architetti e bibliotecari funzionano nei film («Benvenuto, Presidente» con Claudio Bisio). In realtà combinano disastri. La politica è un mestiere, non necessariamente a vita, un mestiere che, tenetevi forte, si può fare onestamente.

Non dev’essere freddo. Noi italiani siamo empatici ed emotivi. Un presidente distaccato e impassibile ci metterebbe a disagio.

Non dev’essere caldo. Un altro Cossiga versione Picconatore provocherebbe un esaurimento nervoso nazionale.

Non dev’essere ambizioso. Il Quirinale non è un trampolino, è un colle. Non serve per saltare più in alto, ma per guardare lontano. Deve aver perso, in vita sua, il nuovo presidente: una bella sconfitta illumina ogni curriculum. Ma guai se usasse il nuovo incarico per regolare i conti.

Non dev’essere timoroso. Il suo titolo è capo dello Stato, non vice di qualcuno o qualcosa.

Non dev’essere neutro. Dev’essere intellettualmente onesto. Deve avere una storia piena di idee e convinzioni; non una carriera costellata di opportunismi e omissioni.
Non dev’essere un uomo o una donna. Dev’essere una persona. Mandare una femmina al Colle, perché non c’è mai stata, sarebbe un errore. Mandarci un maschio, perché c’è sempre stato, sarebbe un’ignavia. Mandarci la persona sbagliata sarebbe un guaio.

15 gennaio 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_15/napolitano-quel-che-presidente-non-deve-essere-58b95de4-9c88-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Cosa deve fare il maniscalco quando sente il rumore del ...
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2015, 05:28:53 pm
Cosa deve fare il maniscalco quando sente il rumore del trattore? Come dobbiamo comportarci quando capiamo che il nostro mestiere rischia di scomparire? Non è una domanda retorica. Non sono scomparsi solo i maniscalchi, insieme ai cavalli da tiro; sono spariti i macchinisti a vapore, le balie, i linotipisti e i riparatori di fax. Alcuni mestieri sono ridotti a nicchie: stenografi, arrotini, spazzacamini, bottari, bigliettai. O hanno gli anni contati, come il cassiere di banca. Altri ancora rischiano grosso: il mio, per esempio.

Cosa deve fare il maniscalco quando sente il rumore del trattore?
Primo: accertarsi che sia un trattore e non una bufala. Non tutte le rivoluzioni annunciate si sono rivelate tali. Dell’automobile che si guida da sola siano ancora in attesa; un bravo autista non ha motivo di disperarsi.

Secondo: accertarsi che tutti vogliano il trattore, per arare il campo. Prendiamo le librerie. Molti ne avevano previsto la scomparsa, dopo l’avvento di Amazon e dell’e-book. In verità il libro è un oggetto amato; a differenza del quotidiano di carta, che è un servizio (tutti abbiamo in casa una libreria, solo un pazzo tiene dieci anni del “Corriere” in salotto). Molte librerie hanno saputo resistere, diventando un luogo gradevole e/o offrendo altri servizi (co-working, wi-fi, caffé).

Terzo: imparare a guidare il trattore. E ad aggiustarlo se si rompe. I fotografi campavano sulla pellicola, ma sono stati rapidi a spostarsi sul digitale. I migliori agenti di viaggio sono diventati consulenti turistici. I notai, colpiti dalla crisi immobiliare e da novità normative, potrebbero diventare preziosi consulenti familiari (lo capiranno prima loro o gli avvocati?).

Quarto: non pensare che la tradizione, la legge o il sindacato possano garantire la sopravvivenza. Per qualche tempo, forse; ma alla lunga la realtà vince sempre. Per resistere a Uber, i taxisti non devono gridare o minacciare: devono mostrarsi più efficienti dei concorrenti. Per reggere la forza d’urto di AirBnB, alberghi e pensioni diventino più accoglienti. Chiedano norme e imposte uguali per tutti, d’accordo. Ma non la squalifica del nuovo, solo perché è nuovo.

Dunque: cosa deve fare il maniscalco quando sente il rumore del trattore?

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2015/01/22/cosa-deve-fare-il-maniscalco-quando-sente-il-rumore-del-trattore/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Oltre i luoghi comuni: il successo inaspettato del video...
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2015, 04:49:49 pm
Il filmato
Oltre i luoghi comuni: il successo inaspettato del video sulla vera Italia
Otto stereotipi rovesciati in modo efficace Per una volta sappiamo promuoverci all’estero

Di Beppe Severgnini

Ieri è accaduta una cosa strana. Al secondo posto tra i video più visti di Corriere.it, subito dopo una scenata isterica su un traghetto canadese, un filmato del governo italiano, mostrato al World Economic Forum di Davos per smontare i luoghi comuni sul Paese, e spiegare in cosa siamo bravi. Un ottimo video promozionale? Del governo italiano? In inglese?! Ci dev’essere un errore. L’ho subito guardato: mi è piaciuto. L’ho twittato («Per raccontare l’Italia un ministero produce video impeccabile: sogno o son desto?»). In mezz’ora cento persone l’hanno messo tra i preferiti e molte altre l’hanno commentato per tutta la giornata.
Di cosa si tratta? Di un’operazione intelligente, che parte da una riflessione: inutile negare gli stereotipi sull’Italia, meglio rovesciarli (con sottofondo pianistico). Pizzaioli? «L’Italia è un leader mondiale nella creazione di grandi infrastrutture - 1.000 costruzioni in 90 Paesi». Latin lover? «L’Italia ha il 5° surplus commerciale di prodotti manifatturieri». Amanti della dolce vita? «L’Italia è il leader indiscusso nella produzione di super-yacht, con il 40% degli ordini mondiali». E così via. Per chiudere: «Italy the extraordinary commonplace», Italia il luogo comune straordinario. L’inglese è modellato sull’italiano - «gesticulators» esiste, c’è però un modo migliore per dire che sappiamo parlare con le mani - ma l’approvazione resta. Lo stupore, pure.

I nostri governi, quando hanno tentato di promuovere l’Italia all’estero, hanno prodotto piccole catastrofi. Memorabile fu www.italia.it , costosissimo e anacronistico portale, impreziosito dal linguaggio psichedelico di Francesco Rutelli («Pliz vizit the uebsàit but, pliz, vizit Italy!»). Altri esempi? Quanti ne volete: dalle esternazioni di Silvio Berlusconi all’impotenza dell’Enit, dall’assenza di un ministero del turismo alle goffaggini comunicative del Semestre europeo, fino all’inglese di Matteo Renzi. Adeguato (e lodevole) se si tratta di parlare con altri capi di governo; insufficiente nelle occasioni ufficiali, quando il nostro giovane premier, per evitare infortuni , dovrebbe attenersi alla lingua dei concittadini Dante e Petrarca.
Stavolta, invece, bingo (istituzionale)! Cos’è successo al ministero dello Sviluppo economico? I soliti esperti si sono distratti, e un bravo stagista ha preso in mano la situazione? Di certo qualcuno - sarebbe bello sapere chi - ha capito, come dicevamo, che gli stereotipi esistono su tutti i popoli (su di noi, che siamo antichi e fantasiosi, ce n’è di più). Non serve piagnucolare e negarli: bisogna smentirli con i fatti e i comportamenti. E magari con l’ironia.
Non è facile promuovere un Paese. Tutti i popoli hanno torto, almeno in parte; e noi italiani sappiamo combinare pasticci spettacolari, piazzando scandali nei luoghi più belli del mondo. Quale notiziario rinuncia a raccontare le ruberie intorno al Mose, quando c’è la possibilità di mostrare Venezia? Quale sito d’informazione dimentica Mafia Capitale, se nella capitale in questione sono passati imperatori, papi e Anita Ekberg?

Molti diplomatici - non tutti, per fortuna - pensano sia giusto difendere l’indifendibile e negare l’innegabile. Ingenui ed illusi strillano «I panni sporchi si lavano in famiglia!». Non avviene mai: le nazioni che adottano questo motto girano con abiti mentali che mandano cattivo odore. Alcuni patrioti da strapazzo, infine, chiedono a noi giornalisti di tacere sugli infortuni italiani «per carità di patria». Dimenticando, come scriveva Luigi Barzini Jr, che «la miglior forma di amor di patria è essere onesti con se stessi».
A questo proposito ricordino una cosa, Matteo Renzi e i suoi ministri. Noi italiani siamo pieni di talento e tenacia, è vero. Ma per ogni ingegnere che costruisce ponti in Cina, cinque lavorano gratis in Italia con la scusa dello stage. Per ogni astronauta che mandiamo nello spazio, costringiamo centomila ragazzi a emigrare. Per ogni yacht di lusso che variamo, tolleriamo cento milioni di evasione fiscale. È vero, come ricorda il video, che «quest’anno invitiamo 140 Paesi a Expo per discutere come nutrire il pianeta». Ma è anche vero che, a Milano, non siamo stati capaci di tenere le volpi fuori dal pollaio, e la fascinosa Darsena è ancora un buco circondato da pannelli imbrattati.
Ecco: nessuno chiede di produrre un video istituzionale per raccontare al mondo tutto ciò. Ma tra noi italiani dobbiamo dircele, certe cose.

24 gennaio 2015 | 09:30
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_gennaio_24/oltre-luoghi-comuni-successo-inaspettato-video-vera-italia-7cb8372c-a3a1-11e4-808e-442fa7f91611.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Il mondo arriva a Milano, e non sarà felice di farsi fregare..
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2015, 04:00:20 pm
Il mondo arriva a Milano, e non sarà felice di farsi fregare le valigie

La partenza e l’arrivo dei treni hanno sempre qualcosa di cinematografico. Gente che corre, gente  che telefona, gente che saluta, gente che bacia, gente che cerca di fare tutte queste cose insieme. Se i treni locali offrono immagini da film in bianco e nero, con i Frecciarossa e i Frecciabianca siamo nel mondo del colore. E la sceneggiatura, da qualche tempo, è diventata bizzarra.

Lungo i binari, alla Stazione Centrale di Milano, Trenitalia ha messo personale in divisa. Sicurezza Aziendale, sta scritto sulle giacche. E’ lì per impedire che i viaggiatori vengano ingannati da finti portabagagli, i quali si precipitano a prendere le valigie e poi pretendono cifre esorbitanti (quando le restituiscono, se le restituiscono). Il personale deve anche marcare i gruppi di borseggiatrici, specializzate nell’aprire  borse e zainetti in movimento. Si tratta, quasi sempre, di rom (non è un pregiudizio né un giudizio: è un fatto).

Il personale di Trenitalia è esasperato, la polizia ferroviaria impotente. Con le leggi esistenti, dicono, possiamo far poco. Truffatori e ladre lo sanno benissimo. Un capogruppo della Sicurezza Aziendale racconta: “Abbiamo fermato una donna dopo un furto, per l’ennesima volta. Ormai la conosciamo. L’hanno portata nel posto di polizia. Lei li ha seguiti, tranquilla. Uscendo ha detto, con aria di sfida: ‘Grazie, mi piace stare seduta e al caldo per mezz’ora”.

Il governo italiano capirà mai che la microcriminalità è micro finché non succede a noi? Introdurrà norme, procedure e sanzioni adeguate? Nell’attesa di una risposta – che non arriverà – qualcosa forse si può fare. Per esempio: perché Trenitalia non sostituisce la guardie con i portabagagli? Costi inferiori, probabilmente. E il problema (i furti) si evita; invece di cercare, affannosamente, di risolverlo.

Un lavoro umile, il portabagagli? Certo, ma è dignitoso, come ogni lavoro. E’ stato il mestiere d’ingresso in molte società. E resta insostituibile.  Le valigie pesano, e non tutti sono in grado di spingere due monoliti con le rotelle su e giù per la Stazione Centrale. 

So bene che i problemi sono ben altri. I problemi, in Italia, sono sempre ben altri. Ma se cominciassimo a risolvere quelli piccoli, avremmo la calma e l’umore per affrontare quelli grandi. Dimenticavo: fra due mesi parte Expo2015. Il mondo arriva a Milano, e non sarà felice di farsi fregare le valigie.

 (dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2015/03/05/il-mondo-arriva-a-milano-e-non-sara-felice-di-farsi-fregare-le-valigie/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ma cosa vogliono, nel Regno Unito?
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:41:54 pm
Ma cosa vogliono, nel Regno Unito?

Caro Beppe, nel Regno Unito il 7 maggio si è votato. Il Paese si trova ad un bivio che potrebbe portare profondi mutamenti e cambiamenti anche all’Europa del futuro. Da un lato i conservatori, con una politica economica (a mio parere) più solida e futuristica ma pronti a gettare in mare l’appartenenza all’UE; dall’altra i laburisti, con una politica economica (sempre secondo me) retrograda e controproducente, ma determinati a rimanere in Europa. Nel contorno troviamo destre e sinistre radicali, rispettivamente con programmi che mirano all’uscita dall’Europa o alla secessione della Scozia dal resto dell’unione. I problemi sono: il malcontento generale, tanta gente stufa di certi ricatti (economia ok ma spese razionalizzate e rischio uscita Europa, oppure economia a rischio ma tanti soldi spesi e rimanere in Europa), le illusioni dell’indipendenza della Scozia (la quale poi vorrebbe rientrare nell’UE) e dell’uscita gloriosa del Regno Unito dall’UE.

Secondo me, il tempo che passa ci rende ciechi ed insensibili e ci offusca la memoria, facendoci diventare incapaci di valutare come il presente sia molto meglio di quel passato nemmeno tanto remoto. Mi si dirà che i problemi di oggi sono reali e vanno affrontati, che queste (secessioni e separazioni) sono soluzioni vere a problemi veri; però è anche vero che per affrontarli, questi problemi, bisognerebbe andare avanti lavorando insieme, non tornare indietro riposizionandoci laddove si era capito che il futuro e le opportunità non erano associate ad isolamento, nazionalismo e confini. C’è da chiedersi che soddisfazione trarrebbero, per esempio, Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord, nel trovarsi ad essere parte di nuove nazioni ma, al tempo stesso, parte dell’Unione Europea in forma indebolita. Secondo te cosa cercano, veramente, i cittadini e i politici del Regno Unito?
Raul Di Calisto, ita1@rdob.org   


Cosa cercano nel Regno Unito? Stabilità, evidentemente.  Come quasi tutti gli europei, del resto. Pensa ai tedeschi che si raccolgono compatti intorno alla Merkel; ai francesi che nel momento della difficoltà si ricordano di avere un Presidente; a noi italiani che, secondo i sondaggi, diamo il 40% delle preferenze a un partito e a un giovane leader decisionista.

Ho seguito poco la campagna elettorale britannica (causa Expo), ma conosco bene il Paese e la gente. Il risultato non mi ha stupito. Mi ha stupito invece Martin Wolf (FT), uno dei commentatori più quotati, che vedeva Ed Milband a Downing Street.  I laburisti hanno pagato la defezione della Scozia, dove i nazionalisti li hanno stracciati. E hanno sbagliato sull’Europa. Hanno negato agli elettori la possibilità di esprimersi una volta per tutte sulla UE. E’ giusto, invece, che questo accada. Nel referendum del 2017, promesso da David Cameron, vedremo cosa vogliono davvero (ed è tempo!). Secondo me, essendo gente pratica, rimarranno dove sono: nell’Unione, da cui traggono tanti vantaggi.

Interessante la batosta dei liberaldemocratici di Nick Clegg: un destino alfaniano. Essere la ruota di scorta del governo non è facile, e si paga.

Credo che i Tories siano sembrati più affidabili sull’immigrazione (una vera ossessione, in GB) e sull’economia. Non c’è dubbio che i buoni risultati degli ultimi anni siano concentrati su Londra, e siano dovuti a un po’ di doping valutario (la sterlina è scesa da anni, l’euro ha cominciato a farlo da qualche mese). Ma è evidente: gli elettori, oggi, sono conservatori un po’ dovunque (con la “c” minuscola). Si cambia soltanto se si deve. Gli elettori UK non ne hanno visto la necessità, tutto qui.

Da - http://italians.corriere.it/2015/05/08/33868/


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La forza tranquilla di una città
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:41:31 am
Il commento
La forza tranquilla di una città

Di Beppe Severgnini

Sapete tutti cos’è successo il 1° maggio a Milano. Volete una prova della stupidità dei devastatori? Hanno decretato il successo istantaneo di Expo 2015, oggetto del loro volubile odio (G8, Tav, euro, scuola, alimentazione: poco importa, basta far casino).

La curiosità per la manifestazione c’era già; l’amore sarebbe arrivato, tempo un mese. È stato anticipato. Sono bastate ventiquattro ore, e diverse strade devastate, per decidere che Expo 2015 sarà un grande successo. I milanesi, e con loro tutti gli italiani perbene, hanno deciso in fretta: non si può darla vinta a certa gente. Ci sarà tempo per ragionare sul (dis)ordine pubblico. Per spiegare come sia possibile che una città come Milano, nel giorno in cui si fa bella davanti al mondo, possa diventare ostaggio di pochi violenti: sempre i soliti, tra l’altro. Per capire che quanto è successo, se non fosse tragico, sarebbe ridicolo. Per ora, accontentiamoci di capire come la città ha risposto: con prontezza, generosità e fantasia.

Potete leggere sul Corriere quello che è stato fatto e quello che si sta preparando per oggi. Pulizia stradale che diventa pulizia mentale. Lo slogan «Nessuno tocchi Milano» è la reazione di una città che non è reazionaria, e non vuole diventarlo. Ma la pazienza ha un limite. Chi ci governa deve metterselo in testa: nessuna comunità può accettare che una piccola minoranza fanatica, e alcuni ospiti forsennati, si divertano a giocare alla guerra nel giorno della festa. Non è inevitabile. Solo gli inetti sostengono che la devastazione sistematica di strade e piazze «è il prezzo della democrazia». Non è vero. Gli assolutori, i giustificatori, i cercatori instancabili di attenuanti la smettano: non ci sono scuse. Si può discutere di Expo: lo abbiamo fatto e lo faremo. Se alla democrazia teniamo, però, dobbiamo fermare i violenti. È vero, venerdì la polizia ha evitato il peggio (e il morto). Ma quando l’autorità si arrende, arrivano gli autoritari. Queste cose le sapeva benissimo, ieri, la gente che si muoveva tra il sole, gli odori, i colori, i giochi e il kitsch (perché no?) di Expo.

Due giorni trascorsi sul posto non lasciano dubbi: la gente arriva ed è felice. L’architettura è spettacolare, le prospettive emozionanti, il cibo (dove c’è) è buono, l’umore eccellente. Chi ha frequentato le migliori Olimpiadi (Torino 2006, Pechino 2008, Londra 2012) e i grandi Mondiali di calcio (Germania 2006) ritrova lo stesso umore gioioso. Expo 2015 — sono bastati due giorni per capirlo — sarà una festa mobile. Un posto dove ragionare e divertirsi; e alcuni — vedrete — riusciranno a fare le due cose insieme. Il confronto tra gli spettri nerovestiti e i bambini in bianco che, la mattina del 1° maggio, cantavano «Siam pronti alla vita / l’Italia chiamò!» è impietoso: e a perdere non sono i bambini.

I rischi di Expo 2015 erano — in parte sono ancora — la retorica, l’euforia, la superficialità. La tentazione di trasformare un’occasione mondiale nella solita fiera delle vanità italiane. Non accadrà. Il merito è di tutti quelli che hanno risposto all’affronto, senza incertezze. E hanno detto, semplicemente: giù le mani da Milano. È paradossale: poche centinaia di idioti neri hanno favorito l’incontro colorato di milioni di persone. Il mondo, una volta ancora, dovrà ammetterlo: nessuno è bravo come noi italiani a trasformare una crisi in una festa.

3 maggio 2015 | 08:43
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_03/no-expo-milano-expo-severgnini-forza-tranquilla-una-citta-a6336f72-f15d-11e4-a8c9-e054974d005e.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Emergenza migranti Il buon cuore da solo non basterà
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:55:24 pm
Emergenza migranti
Il buon cuore da solo non basterà

Di Beppe Severgnini

Se vogliamo aiutare i razzisti, siamo sulla strada giusta. Lasciamo che le stazioni diventino bivacchi, che i parchi si trasformino in dormitori, che le periferie siano trappole per poveri di ogni nazionalità. Chiudiamoci nei nostri appartamenti con l’aria condizionata in attesa di spostarci nella casa al mare. Ma dovremo uscirne, prima o poi.

Il degrado porta degrado, la bellezza di una città provoca orgoglio e regala voglia di fare. Milano, agghindata per l’Expo, sta riscoprendo questo piacere. Un piacere che non è legato a una classe sociale, a un’etnia, a un’età. Andate in piazza Duomo, una di queste sere, passeggiate nella Galleria ripulita: il decoro non è la consolazione dei superficiali, è la ricompensa degli onesti.

Altri Paesi, prima di noi, si sono trovati davanti a un’ondata migratoria eccezionale. Ma pochi, forse nessuno, l’ha affrontata con altrettanta, litigiosa superficialità. Chi dovrebbe definire la questione con parole chiare non lo fa. Non un governo deluso dai partner internazionali e preoccupato dalle imboscate parlamentari, con un ministro dell’Interno frastornato dalle vicende giudiziarie del partito; non i tanti dirigenti regionali incapaci di vedere un metro oltre il confine. I sondaggi dicono che cresce il consenso dell’opposizione di destra. Che non c’è. Pensate se ci fosse. L a forza politica più agile, nell’attuale confusione, appare la Lega. L’attivismo televisivo di Matteo Salvini è formidabile, il suo cinismo stupefacente. Ma non nuovo.

Sono molte le formazioni che, nell’Unione Europea, hanno sfruttato la paura davanti all’immigrazione incontrollata per guadagnare posizioni: è successo in Francia e in Olanda, in Svezia e in Gran Bretagna. Sta succedendo in Polonia. Accadrà in Italia, e potrebbe rivelarsi più insidioso. Davanti all’Africa sta la Sicilia, non il Sussex o la Slesia.

Davanti a fenomeni di questa portata, non basta lamentarsi, protestare, auspicare, invocare. Occorre trovare l’equilibrio tra il buon cuore e il buon senso.

Il buon cuore, da solo, non basta. Le ondate umane che si rovesciano sull’Italia non si possono affrontare solo con gli inviti alla calma. Alle molte brave persone - in politica e nella società, nelle associazioni e nella Chiesa - che chiedono solo d’essere generosi, vien da dire: fin dove? Qual è il limite delle nostre città, delle nostre finanze, delle nostre emozioni? Certo è vergognoso che il nome d’una malattia diventi l’ultima forma di insulto televisivo («Che ti venga la scabbia!»). Di sicuro l’emergenza sanitaria cresce. Parlate con qualsiasi medico informato, ve lo confermerà. Ma il buon senso, in certe bocche, diventa egoismo e ferocia. Non dimentichiamolo: tra i migranti molti sono profughi e scappano da guerre e persecuzioni, come gli eritrei e i siriani. Non possiamo accoglierli tutti, ma in Europa possiamo accoglierne molti. Per gli altri, si provi a organizzare zone protette in Africa e in Medio Oriente, con l’aiuto dell’Onu, che quest’anno compie 70 anni. Cerchi di meritarsi i festeggiamenti.

La discussione sull’immigrazione, nelle ultime settimane, ha assunto toni lugubri: quelli che piacciono agli estremisti e non aiutano a trovare soluzioni. Chi invoca «rispetto e regole», ormai, viene deriso. Scusate, qual è l’alternativa? Regole senza rispetto? Così trasformiamo l’Italia in un campo di detenzione. Rispetto senza regole? Così diventiamo retorici e incoerenti: due aggettivi che, da tempo, sono la nostra zavorra.

Siamo il Paese delle mezze verità. E a furia di mezze verità, se non stiamo attenti, arriveremo al disastro completo.

13 giugno 2015 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_13/migranti-emergenza-buon-cuore-non-bastera-beppe-severgnini-editoriale-696197d6-118d-11e5-8b3a-62b7e966c494.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Non ascoltiamo gli apocalittici: ripariamo l’auto e ripartiamo
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:49:35 pm
Non ascoltiamo gli apocalittici: ripariamo l’auto e ripartiamo

Di Beppe Severgnini

Buco una gomma, cambio l’automobile. C’è poca logica e molta emotività nei commenti sulla crisi greca. Non c’è dubbio: siamo spaventati. S’è trattato di una foratura in curva, abbiamo sbandato e siamo fermi sulla corsia d’emergenza. Ma quest’automobile europea ci ha portato lontano, e merita rispetto. Sessant’anni di pace, mercato unico, libera circolazione, gioventù mescolate, sentirsi a casa dal Portogallo alla Polonia. Tutto questo, per molti di noi, ha smesso di esistere. La gravità del momento non si discute. Ma usare toni apocalittici non aiuta. È una crisi finanziaria, complicata dalla superficialità dei debitori e dall’intransigenza dei creditori. Non è una guerra. L’Europa ha superato prove ben più terribili. Americani e asiatici sembrano meno impulsivi di noi. Non nascondono le preoccupazioni per la possibile uscita della Grecia dall’euro; ma suggeriscono di risolvere il problema, non di rottamare il progetto. La pensa così il presidente Obama. Lo stesso che, nel pieno della tempesta finanziaria 2008-2009, non ha esitato a rovesciare somme gigantesche su banche e industria automobilistica americana. Con quei soldi, di Grecia ne salveremmo cento.

La narrazione europea - l’ho scritto più volte, ma è necessario ripeterlo - è nelle mani dei nemici dell’Europa. E’ chiaro che Grillo e Salvini, Le Pen e Farage, Orban e Duda sono compiaciuti per quanto accade ad Atene; è meno chiaro perché tanti europei influenti si uniscano al coro. I leader populisti rappresentano i propri elettori: non tutta l’Italia, tutta la Francia, tutto il Regno Unito, tutta l’Europa centro-orientale. Ha scritto Barbara Stefanelli (sul Corriere dell’8 luglio) la partecipazione con cui seguiamo la vicenda greca dimostra che è cresciuto «un senso di appartenenza a un continente, a una democrazia, a una cultura». È così.

Detto ciò, siamo onesti. La gomma non s’è bucata per caso. Era montata male, e non sappiamo ancora come rimetterla a posto. E’ ovvio - adesso, col senno di poi -- che la Grecia non fosse pronta a entrare nell’euro. È grave che Atene abbia manomesso i conti pubblici per riuscirci. È assurdo che nessuno a Bruxelles sia andato a controllare (anche perché il governo tedesco dell’epoca non tollerava intromissioni nei bilanci degli Stati). È chiaro che, per ripartire, dobbiamo rimettere alla Grecia parte del debito e suggerirle una cura che non l’ammazzi (ammesso che voglia curarsi, e non è detto).


Tutto ciò si può e si deve ricordare. Ma guai a dimenticare quant’è stato fatto in Europa in sessant’anni, e gli enormi vantaggi che l’Unione ha portato nelle nostre vite. Gli americani -sempre loro - hanno attraversato momenti drammatici, nel corso della storia degli Stati Uniti, persino una guerra civile. Ma i leader non hanno mai messo in discussione il progetto. Certo: là c’era Abramo Lincoln, qui Jean-Claude Juncker.


La rinascita degli Stati nazionali in Europa? Ma gli Stati nazionali non sono mai morti, e non devono morire. Francia, Germania e Italia non sono il Montana e i due Dakota, con tutto il rispetto. Gli autori dei (prematuri) epitaffi dell’Unione Europea lo dimenticano, ma i problemi oggi si risolvono insieme, non divisi. Il mondo è troppo complicato per affrontarlo in ordine sparso, perfino gli inglesi stanno iniziando a capirlo (per questo al referendum voteranno di restare nella Ue). Per mesi abbiamo strillato che le migrazioni di massa sono un problema collettivo, non nazionale o locale. Vogliamo risolverlo in Europa, o lasciarlo al noto statista Rosario Crocetta?

«La situazione è piuttosto pericolosa», ha commentato Angela Merkel con teutonica sintesi, in vista del vertice decisivo di domenica. Non c’è dubbio: è il momento peggiore dell’euro, e una delle crisi più gravi dell’integrazione europea. Ma la storia lo dimostra: le crisi sono il carburante d’Europa. Nata da una guerra mondiale, l’Unione ha immaginato il mercato unico dopo la crisi economica degli anni 70; ha organizzato l’allargamento a est dopo il crollo del comunismo nel 1989; ha avvicinato le economie dopo la crisi finanziaria del 2008. Potrebbe riservarci altre buone sorprese.

Le gomme si riparano, le auto ripartono: basta sapere qual è la strada.

9 luglio 2015 | 09:27
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_09/non-ascoltiamo-apocalittici-ripariamo-l-auto-ripartiamo-7ea5b9a0-260b-11e5-9a08-f80f881ecc8e.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Non diamola vinta ai gabbiani inglesi
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:14:10 pm
Italians
Non diamola vinta ai gabbiani inglesi

Di Beppe Severgnini

La mia migliore amica inglese si chiama Melanie Davis. Ci conosciamo dal 1980. A lei devo la scoperta dei Talking Heads, la lettura di Il mondo secondo Garp e la consapevolezza che il disordine domestico non è sinonimo di confusione mentale. Quando l’ho incontrata, lavorava a Londra come assistente parlamentare laburista. Poi s’è spostata nella produzione televisiva. Quando ha smesso, s’è trasferita a Brighton e ha ripreso a dare una mano al Labour, che ha appena riconquistato l’amministrazione locale (City Council), strappandola ai Verdi.

Mel conosce l’Inghilterra, gli inglesi, la politica. E i gabbiani (seagulls). Mi ha spiegato: «Un candidato può prendersela con chi vuole, in cielo e in terra. Non con i gabbiani. Chi tocca i gabbiani è finito». Perché l’assaltano, come nel film di Hitchcock? «Perché i gabbiani sono intoccabili». Anche se strappano il cibo ai turisti, sporcano strade, occupano tetti e balconi, attaccano gli animali domestici e sono diventati aggressivi con gli umani. I gabbiani della Manica sono robusti, assordanti, ubiqui e hanno smesso d’aver paura. Ne fanno, invece. Cani e tartarughe sono stati uccisi, persone sono state aggredite per proteggere i nidi urbani. I gabbiani attaccano in gruppo, in picchiata.

Il fenomeno sta diventando preoccupante. Durante una recente visita in Cornovaglia, il primo ministro David Cameron ha provato a rompere il tabù: «Bisogna parlarne seriamente. Qualcosa va fatto». Ma i gabbiani inglesi sono protetti dalla legge e dalle consuetudini. I Verdi non vogliono neppure sentirne parlare. Un portavoce della Royal Society for the Protection of Birds ha spiegato: «Se fanno il nido sulla vostra casa, evitate la zona. Se proprio non potete evitarla, uscite con un ombrello aperto. Non agitate le mani, invece. Questo irrita i gabbiani».

Più che una risposta, è una resa. Gli abitanti del Sussex, del Devon e della Cornovaglia non devono arrendersi ai gabbiani, invece. Bucarest non può tollerare di vivere nel timore di branchi di cani randagi. Milano e Venezia non devono accettare d’essere insudiciate dai piccioni. I padani non possono rassegnarsi all’invasione delle nutrie e i sardi devono impedire l’eccessiva diffusione dei cinghiali, che provocano danni e incidenti stradali. Quando l’amore per gli animali diventa idolatria, bisogna reagire. Altrimenti, presto, assisteremo a manifestazioni contro la derattizzazione e sommosse per fermare la disinfestazione. Poveri topi, povere zecche, povere zanzare! E poveri noi, a quel punto.

23 luglio 2015 (modifica il 23 luglio 2015 | 07:56)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_23/non-diamola-vinta-gabbiani-inglesi-06b774fc-30ff-11e5-baf0-7fcacd4a9aca.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Non si può sballare con il permesso del questore
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:43:03 am
Non si può sballare con il permesso del questore
Alcune discoteche sono come gli stadi, luoghi extra-territoriali. Genitori e gestori devono collaborare all’unica soluzione possibile: quella della repressione, parola sgradevole, ma che funziona

Di Beppe Severgnini

Siamo riusciti a vietare le sigarette nei locali pubblici. Tutto il resto circola liberamente, e ogni tanto uccide. Lamberto Lucaccioni, 16 anni, è stato stroncato da una overdose di ecstasy (Mdma) al Cocoricò di Riccione.

Il Questore di Rimini, Maurizio Improta, ha ordinato la chiusura del locale per quattro mesi, elencando dettagliatamente tutti gli interventi delle forze dell’ordine negli ultimi due anni, compresi quelli del 118.

«Chiudere le discoteche per lo sballo è come chiudere le strade per gli incidenti», sostiene il nuotatore Simone Sabbioni, 18 anni, di Riccione. C’è una differenza che forse sfugge, al giovanotto e a tutti coloro che, in queste ore, dicono cose del genere. Sulle strade, gli incidenti sono l’eccezione, e tutti cercano di evitarli. In molte discoteche lo sballo è la regola, tutti lo sanno, ma si fa finta di niente.

I piagnistei dei gestori dei locali notturni li conosciamo bene: noi tentiamo! Noi controlliamo! Noi interveniamo! Cosa possiamo fare se i ragazzini bevono fino a rischiare il coma etilico e s’impasticcano? Se le ragazzine si prostituiscono per una banconota? Se giovanissimi italiani e coetanei immigrati si picchiano come ebeti nei parcheggi, tirandosi calci e bottiglie? Si potrebbe rispondere ai virginali disco-imprenditori: quanti minorenni con la vodka nel bicchiere avete allontanato? Quanti controlli avete condotto, quante pastiglie avete sequestrato? Quante denunce sono partite da voi, utili a identificare gli spacciatori?

La verità, come spesso capita, è banale. Le discoteche, come gli stadi di calcio, sono diventati luoghi extraterritoriali. Posti dove sono consentiti comportamenti che, altrove, porterebbero a una denuncia o a un arresto. I luoghi dello sballo sono diventati discariche sociali che fingiamo di non vedere. Papà e mamme preferiscono non sapere. Finché un giorno capiscono — magari dopo una telefonata notturna dei carabinieri — che là dentro ci stanno i propri figli e i propri nipoti. E rischiano di non tornare a casa.

Nessuno vuole «criminalizzare l’industria del divertimento», come recita il coro (interessato) dei professionisti del ramo. Ma qualcuno — la maggioranza degli italiani, almeno — vorrebbe evitare che quest’industria ospiti, tolleri e incoraggi comportamenti criminali. L’educazione e la prevenzione, evocate dalla politica in queste ore, non bastano. Davanti all’incoscienza e alla sfacciataggine di certi comportamenti — come quelli raccontati da Fabrizio Roncone giorni fa — c’è solo una strada: la repressione.

Parola sgradevole, ma inevitabile. La strategia dello struzzo — testa sotto la sabbia, sperando che passi — nasconde quasi sempre l’ignavia. Per anni abbiamo tollerato gli ubriachi alla guida e le strade notturne trasformate in anticamere dei campisanti. Tragedie, dolore, invocazioni, prediche, campagna di sensibilizzazione: nessun risultato. È bastato introdurre norme chiare nel codice della strada (compresa la «tolleranza zero» per i neopatentati) e intensificare i controlli: i risultati sono subito arrivati.

Lo stesso dovremmo fare con le discoteche. È inutile chiedere, pregare, auspicare. Bisogna intervenire.

Intendono collaborare, gestori e titolari? Beppe Riboli, uno dei più noti progettisti di locali notturni, spiegava al Corriere nel 2012: «Le discoteche sono arredate anche per il tipo di stupefacenti che si consumano. Gli enormi stanzoni neri per l’ecstasy hanno lasciato il posto ai privé della cocaina, con pista da ballo piccolissima e tanto colore bianco».

Oggi dice, a proposito del Cocoricò: «Se fai un club così (enorme, psichedelico, zero arredi), se offri musica così (hard core, techno, trance), se la mandi a 120 decibel (un aereo al decollo), se hai un parco-luci così (strobo da 5.000 watt, teste mobili, accecatori, videoled) non c’è verso: per essere normale devi essere sballato». Una novità, per gli addetti ai lavori?

Qualcuno, leggendo, dirà: non fate gli ipocriti, voi giornalisti, voi genitori, voi educatori, voi adulti! Cosa credete che girasse ai vostri tempi, nei concerti rock o nelle cantine del punk? Incensi e camomilla? Risposta: giravano alcol e droghe anche allora, ma in quantità e con modalità diverse. Chi ne faceva uso aveva le sue colpe, spesso pagate a caro prezzo; ma almeno ci risparmiava il perbenismo della trasgressione.

I nuovi, giovanissimi trasgressori vogliono sballare col permesso del Questore: francamente, è troppo.

4 agosto 2015 (modifica il 4 agosto 2015 | 09:22)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_04/non-si-puo-sballare-il-permesso-questore-


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Sulle unioni civili non bisogna nascondersi
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2015, 09:21:35 am
Nuovi diritti
Sulle unioni civili non bisogna nascondersi
In commissione al Senato è stato varato il termine grottesco e irritante «formazioni sociali specifiche».
La prova che la politica italiana, quando non trova il coraggio, si maschera dietro le parole invece di dare il buon esempio

Di Beppe Severgnini

«Civile» è un aggettivo associato a sostantivi molto diversi — dall’ingegneria al comportamento, dalla società al diritto — e non conquista spesso i titoli dei giornali. «Unione civile», invece, s’è dimostrato un accostamento esplosivo. Approdando in commissione al Senato, le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono diventate «formazioni sociali specifiche», un termine grottesco e irritante. La prova che la politica italiana, quando non trova il coraggio, si nasconde dietro le parole. Ma i nomi non ci devono fermare. Nel XXI secolo due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, devono poter contrarre un’unione per organizzare la loro vita in comune: è normale. Tanto normale da essere stato accettato da diciannove Paesi dell’Unione Europea. Tra questi, dieci sono andati oltre e hanno introdotto il matrimonio omosessuale; l’ultima in ordine di tempo, l’Irlanda cattolica.

L’ Italia è l’unica tra i fondatori dell’Unione Europea a non contemplare né una cosa né l’altra. Al di fuori del matrimonio tradizionale, il limbo.

Non è solo un’ingiustizia: è una pigrizia e una stranezza. Non sembra così complicato. Si tratta di decidere i confini di questi nuovi accordi: quali diritti vanno riconosciuti ai contraenti? Il disegno di legge Cirinnà prevede il diritto di assistenza in ospedale, il diritto di successione nell’affitto di una casa, il mantenimento temporaneo dell’ex partner in difficoltà e la possibilità di fare «un accordo con cui i conviventi di fatto disciplinano i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e fissano la comune residenza». Questioni ovvie: provate a chiedere in giro.

Le prese di posizione di alcuni rappresentanti politici — Lucio Malan ha paragonato le unioni civili all’avanzata del nazismo, Magdi Allam alla bomba atomica su Hiroshima — non sono soltanto imbarazzanti: dimostrano un estremismo che non appartiene all’elettorato di riferimento. Lo rivelano i sondaggi e le conversazioni. Una grossa fetta dell’opinione pubblica italiana appare bellicosa se si parla d’immigrazione; ma sembra pronta ad accettare un accordo di coppia diverso dal matrimonio. Si tratta — ripetiamo — di definirne i contorni. I parlamenti — fino a prova contraria — servono a questo.



Certo: alcune questioni appaiono spinose, come l’adozione dei figli dei partner da parte di coppie dello stesso sesso (per complicare ulteriormente le cose è in uso il termine inglese, stepchild adoption). Ma non è necessario affrontarle tutte insieme. Si può andare per gradi: un’espressione che, a una politica votata allo scontro, può sembrare blasfema. Ma altra strada non c’è.

È così difficile ammetterlo? Per molti italiani accettare le novità, in questa materia, costa fatica. Non c’è nulla di cui vergognarsi: la fatica è ammirevole, a differenza della fuga. Sono necessarie pazienza, calma e intelligenza giuridica; e possono portare a soluzioni diverse in Paesi diversi, a seconda delle sensibilità e delle tradizioni.

Prendiamo il tema più delicato. Se decine di milioni di italiani sembrano disposti ad accettare le unioni civili — chiamiamole con il loro nome — non altrettanti si sentono pronti ad accettare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ritengono sia giusto dare a un bambino una mamma e un papà. Deriderli, aggredirli o insultarli è controproducente. Noi non siamo americani. Per convincere gli italiani è sbagliato fare della questione una battaglia di diritti civili; meglio il ragionamento, la comprensione e l’esempio. L’Italia è una nazione empatica. Convince più una coppia omosessuale innamorata che un comitato aggressivo e sguaiato.

Il buon esempio dovrebbe venire dalla classe politica. Finalmente ha trovato il coraggio di affrontare la questione delle unioni civili; adesso trovi la calma necessaria. Probabilmente — com’è accaduto in altri passaggi difficili della coscienza nazionale — toccherà ai cittadini dimostrarsi più saggi. L’impressione, infatti, è che politici di ogni colore aspettino solo l’inizio della stagione dei talk-show per sbranarsi in pubblico. I media, come sempre, sono pronti ad allestire le gabbie. Ma non è così che una nazione diventa grande.

(ha collaborato Stefania Chiale)
3 settembre 2015 (modifica il 3 settembre 2015 | 08:44)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_03/sulle-unioni-civili-non-bisogna-nascondersi-f827a2ba-5203-11e5-aea2-071d869373e1.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. Email: Sei cose da ricordare prima di cliccare il tasto Invia
Inserito da: Arlecchino - Settembre 22, 2015, 06:39:34 pm

Tecnologia
Email: Sei cose da ricordare prima di cliccare il tasto «Invia»
A 20 anni dall’ingresso in società della posta elettronica connessioni veloci e smartphone hanno moltiplicato gli abusi

Di Beppe Severgnini

I molestatori digitali dispongono, ormai, di un arsenale. In qualche caso, bisogna essere pazienti: prima o poi impareranno a usarlo. Facebook è un amplificatore: i cafoni sono diventati cialtroni, i perdigiorno buttano via gli anni. Twitter è la macchina della verità: la sintesi rivela la bontà delle idee o l’assenza delle medesime. Dotare un esibizionista di un account Instagram è come fornire un microfono a Maurizio Landini o una telecamera a Giorgia Meloni: una tentazione irresistibile. Alcuni strumenti, però, hanno ormai una certa età: dovremmo aver imparato ad utilizzarli. Non è così, purtroppo. Come sapete, c’è ancora qualcuno che chiama al cellulare e inizia a parlare senza prima domandare: «Disturbo?». E ci sono molti che saturano le caselle altrui con email non richieste, senza provare il minimo senso di colpa.

La posta elettronica è invasa da forze di occupazione
È incredibile dover parlare di queste cose nel 2015, vent’anni dopo il debutto sociale della posta elettronica. Ma è necessario: la velocità di connessione e l’ubiquità degli smartphone hanno moltiplicato gli abusi. Ricordate gli anni felici in cui, vedendo il numero rosso che segnalava l’arrivo di una mail, eravamo quasi felici? L’animale sociale che è in noi emetteva un impercettibile mugolìo di soddisfazione. La stessa, piacevole sensazione che, dieci anni prima, ci regalava il lampeggio della segretaria telefonica, rientrando a casa: ehi, qualcuno ci ha cercato!
Tutto questo è finito. La posta elettronica - rapida, gratuita, semplice - è invasa da forze di occupazione. Filtri e firewall riescono a bloccare parte della spam automatica; ma nulla possono contro la stagista di un ufficio stampa, convinta che inondare l’umanità di comunicati sia un diritto costituzionalmente garantito. Alcune applicazioni segnalano, attraverso i colori, le mail probabilmente irrilevanti. Ma devono arrendersi davanti al signor Santo Pignoli, che passa le serate offrendo al mondo le sue opinioni. E pretende risposte.

Una persecuzione che rasenta lo stalking.
Ripeto: è imbarazzante dover ripetere certe cose. Ma è necessario: perché qualcuno non le ha ancora capite. Nessuno - a parte le compagnie telefoniche, Vodafone in testa - si sogna di chiamare la gente a casa solo perché esiste il telefono. Moltissimi credono, invece, che l’esistenza della posta elettronica, e la conoscenza di un indirizzo, autorizzi a praticare una persecuzione che, in qualche caso, rasenta lo stalking.
È un peccato: avanti così, e uno strumento utile e gratuito come l’email verrà abbandonato, in favore di nuovi strumenti (WhatsApp, Slack, è stato appena lanciato Symphony per il mondo finanziario). In un ultimo, disperato tentativo di spiegare l’ovvio, ecco un promemoria.

Sei cose da ricordare prima di cliccare il tasto «Invia»:

1) Una casella di posta elettronica non è un luogo intimo, ma è privata. Prima di entrare, chiedetevi: mi hanno invitato? O almeno: sarò gradito?
2) Entrereste in casa d’altri scaricando un baule nell’atrio? Ecco: evitate allegati, se non sono strettamente necessari.
3) L’«oggetto» non è un optional. È un biglietto da visita e un segnalibro: servirà a trovare la pagina.
4) Non è obbligatorio rispondere a ogni mail. Ed è vivamente sconsigliato rispondere d’impulso, se qualcosa vi ha turbato. Quasi certamente, ve ne pentirete.
5) Una risposta si può chiedere o sperare; non pretendere, né sollecitare.
6) Scrivete se avete qualcosa da dire, e ricordate una cosa fondamentale: potete anche non dirlo. Per esempio, volete davvero scrivermi per commentare questo commento? È l’ultima domenica d’estate: staccate le dita dalla tastiera e alzate gli occhi al cielo.

Io l’ho appena fatto, dopo aver visto il numero di mail arrivate tra ieri e oggi.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 09:43)
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Da - http://www.corriere.it/tecnologia/15_settembre_20/sommersi-email-0e946fac-5f5f-11e5-9125-903a7d481807.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Il tic della Scorciatoia Populista ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2015, 12:15:08 pm
Il tic della Scorciatoia Populista

Succede a tutti, e non è un buon segno: i capi di governo italiani, prima o poi, scelgono la SP. Non è una Strada Provinciale: è la Scorciatoia Populista.
L’ha fatto Berlusconi, che quella scorciatoia l’ha fatta diventare un’autostrada a tre corsie. L’avrebbe fatto Monti, se avesse saputo come fare.
Aveva timidamente cominciato a farlo Letta, che non sembrava il tipo.
Lo sta facendo Matteo Renzi.


I segnali della SP sono sempre gli stessi. Toni sempre irritati con l’Unione Europea, sulla quale vengono scaricate anche le nostre colpe. Critiche generiche alle intercettazioni (senza ricordarne l’utilità per le indagini). E, soprattutto, allentamento dei controlli fiscali. Che in Italia sono troppi e fastidiosi, ma restano legati a due questioni: un’evasione fiscale che non ha eguali nelle grandi democrazie; e una cronica incapacità dei governi di ridurre la spesa pubblica. I soldi, in queste condizioni, bisogna trovarli. E le nostre tasche sono il luogo più facile dove andarli a cercare.

La disaffezione governativa verso la direttrice dell’Agenzia delle Entrate (Orlandi) e i Commissari alla Spesa (Perotti, Gutgeld) ha questo denominatore. Lo stesso vale per l’innalzamento del tetto del contante a tremila euro.  E’ come se il generale, in piena battaglia, scaricasse gli ufficiali per parlare direttamente alle truppe. Non per incoraggiarle, ma per dire: ehi ragazzi, che ne dite di andarcene a casa? E’ probabile che le truppe applaudano; ma poi si perde la guerra. E nel dopoguerra, state certi: i reduci se la prenderanno col generale.

Fuori di metafora: un leader deve condurre, rischiando l’impopolarità, soprattutto quando le elezioni sono distanti. Ci sono cose buone, nella legge di stabilità. Ma è evidente il timore di affrontare le corporazioni e le lobby. E’ interessante. Matteo Renzi, lo stesso che ha affrontato i sindacati (Job Act), il mondo della scuola e i senatori, non ha il coraggio di dirci quello che, in fondo, sappiamo già: se non cambiamo, l’Italia non cambia. Certe spese, certi sprechi, certi stipendi, certi enti, certi municipalizzate e certi evasori non ce li possiamo permettere.  Affrontarli vuol dire perdere molti voti? Ovvio: ma forse se ne possono guadagnare moltissimi altrove.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2015/10/29/il-tic-della-scorciatoia-populista/


Titolo: Beppe SEVERGNINI Terre incolte ai rifugiati? Dagli Usa commenti e complimenti...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 09, 2015, 05:07:34 pm
Terre incolte ai rifugiati?
Dagli Usa commenti e complimenti
Dall’Italia derisione e insulti


Di Beppe Severgnini

Premessa inevitabile: scrivo, una volta al mese, un commento sul New York Times, dove mi presentano come columnist del Corriere della Sera. Stavolta, sul Corriere, vorrei raccontare cos’è successo dopo un pezzo uscito ieri sul New York Times.
Il titolo è questo: «Let Refugees Settle Italy’s Empty Spaces», lasciate che i migranti s’insedino negli spazi vuoti dell’Italia. L’idea è semplice, e viene da lontano.

Nell’impero romano si chiamava «centuriazione»: la pratica prevedeva l’assegnazione di terre incolte ai veterani dell’esercito, che si tenevano occupati e si rendevano utili. In Italia potremmo fare qualcosa di simile coi rifugiati, proponevo. Se lavorassero, e aiutassero a recuperare il territorio del Paese che li accoglie, verrebbero visti in una luce diversa.

È vero: gli uomini e le donne che oggi arrivano sulle nostre coste non hanno combattuto alcuna guerra per l’Italia, ma stanno fuggendo da conflitti, povertà e regimi autoritari. E hanno le giuste competenze: i migranti più istruiti si recano in Germania e nel Nord Europa; chi resta in Italia è spesso agricoltore, costruttore, artigiano. E ci sono zone d’Italia dove queste competenze servirebbero. Aree che si stanno spopolando: in Abruzzo, in Molise, in Sardegna.

La reazione? Interessante. Dall’estero, complimenti: «Almeno ha avuto un’idea!», mi hanno scritto. In particolare dagli Usa, dove chiunque, davanti a un problema, offra una soluzione, viene apprezzato. «La Gran Bretagna utilizzò il sistema nel XVII secolo: affrontò i ribelli americani con soldati reclutati nell’Europa di lingua tedesca, offrendo loro terre. Sembra che le buone idee non muoiano mai», scrive Robert Wuetherick (rwuetherick@ hotmail.com).

Dall’Italia, derisione e insulti. C’è chi boccia la mia idea come neocolonialismo (@Pablo4moors), chi mi consiglia di colonizzare l’Antartide (@claudiozisa), chi di rivolgermi a un ospedale psichiatrico (@The_James_Cook). Qualcuno suggerisce di occupare le stanze di casa mia, se proprio ci tengo (@ManuelCasu). Molti mi accusano di voler colonizzare la Sardegna, che amo moltissimo, e di cui conosco le difficoltà.

Che dire? La prossima volta mi lamenterò e protesterò. Chissà quanti applausi.

5 novembre 2015 (modifica il 5 novembre 2015 | 09:27)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_05/quell-idea-migranti-cosi-apprezzata-usa-f867f2da-838f-11e5-8754-dc886b8dbd7a.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Ecco la prova che l’Europa esiste (e resiste)
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:59:37 pm
Simboli
Ecco la prova che l’Europa esiste (e resiste)
Gli inglesi che cantano la Marsigliese: se occorreva una prova che l’Europa esiste e resiste, eccola.

Di Beppe Severgnini

Gli inglesi che cantano la Marsigliese: se occorreva una prova che l’Europa esiste e resiste, eccola. Nella giornata in cui altre due partite sono state cancellate - Belgio-Spagna e Germania-Olanda, la prima per precauzione, la seconda dopo un allarme concreto - Inghilterra e Francia hanno giocato. E cantato. Non cantavano solo giocatori e spettatori, ieri sera a Wembley. Cantavano le due nazioni, cantava il continente: impaurito, ma non rassegnato. L’orrore e la gravità di quant’è accaduto a Parigi hanno spazzato via le battute usurate, i luoghi comuni, le citazioni stanche, le rivalità inutili. Se al vicino brucia la casa corri con l’acqua, non ricordi il litigio sulla siepe. Ma stavolta l’acqua non basta, perché l’incendio è grande. E non è spento, come dimostra l’evacuazione dello stadio di Hannover. Francia e Gran Bretagna ospitano lo stesso numero di cittadini musulmani - 4 milioni e 700mila in entrambi i Paesi - e si chiedono cos’hanno sbagliato.

Dieci anni fa è toccato a Londra essere colpita dal terrorismo domestico d’ispirazione religiosa. Perché la tolleranza è stata scambiata per debolezza? Per quale motivo il multiculturalismo ha fallito? La risposta potrebbe essere: perché l’Europa ha rinunciato a mostrare orgoglio. Perché ha cominciato a vergognarsi della pace, del benessere, della salute, della tecnologia, della libertà d’espressione, della distinzione tra Stato e Chiesa. Di tutte le cose che gran parte del mondo c’invidia e verso cui accorre, rischiando la vita in un gommone o dentro un autotreno. Ai francesi e agli inglesi - ma anche a noi italiani, ai tedeschi e a tutti gli altri - è mancata la consapevolezza della nostra fortuna. Le differenze nazionali sono state amplificate, fino a creare il reticolo di rivendicazioni che rischia di portare l’Unione in un vicolo cieco. Poi accade che nove fanatici uccidano a tradimento i nostri ragazzi in festa, un sera d’autunno, in una delle nostre città illuminate. E allora qualcuno capisce. Ci sono arrivati prima i tifosi di calcio che i capi di governo, stavolta. Mentre i secondi erano impegnati a trovare una strategia comune, i primi hanno deciso di usare il cuore, il gruppo e l’occasione: cose che lo stadio insegna. Ne insegna anche altre, meno belle; ma stavolta sono rimaste fuori. A Wembley, spazio solo alle voci e agli occhi lucidi. Per i ragazzi che abbiamo perduto, per gli uomini e le donne che non siamo diventati. Ma c’è ancora tempo: basta essere convinti.

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18 novembre 2015 (modifica il 18 novembre 2015 | 08:15)

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_18/ecco-prova-che-l-europa-esiste-resiste-532d94c4-8dc0-11e5-ae73-6fe562d02cba.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La guerra d’invasione che non dobbiamo fare
Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2015, 05:54:04 pm
Italians
La guerra d’invasione che non dobbiamo fare
La guerra in Iraq, lanciata per punire gli attentatori dell’11 Settembre (che non stavano lì), ha creato un immenso serbatoio di risentimento, non ancora esaurito

Di Beppe Severgnini

T ra le migliaia di commenti alla tragedia di Parigi, non tutti indispensabili, mi ha colpito quello dello scrittore inglese Martin Amis, che ha paragonato lo Stato Islamico al nazismo: «È una minaccia ugualmente grave per la civiltà. Ci sono ovviamente differenze, ma anche la stessa barbarie delle idee professate, la violenza estrema nei confronti dei più indifesi, la capacità di conquistare alle rispettive cause i più deboli, frustrati e ignoranti».

Riassunto efficace, al punto che qualcuno potrebbe esser tentato di proseguire nell’analogia: il nazismo è stato sconfitto con una guerra mondiale, lo stesso dovremmo fare con lo Stato Islamico! Conclusione affrettata e pericolosa, invece.

Il nazismo era nato, cresciuto e concentrato in un luogo: la Germania. L’islamismo ha la base tra Siria e Iraq, ma potrebbe trovarne un’altra. E, con sigle diverse, già colpisce dal Pakistan alla Nigeria. Attaccarlo in modo tradizionale? A parte gli alleati che dovremmo imbarcare - l’orribile Assad, per dirne uno - finiremmo per commettere l’errore degli Usa nel 2003.

La guerra in Iraq, lanciata per punire gli attentatori dell’11 Settembre (che non stavano lì), ha creato un immenso serbatoio di risentimento, non ancora esaurito.

Disse un ambasciatore britannico all’epoca, facendo arrabbiare Tony Blair: «George W. Bush è diventato il sergente reclutatore di Al Qaida...».

Dodici anni dopo, gli antefatti sono simili (l’attacco a tradimento, la follia suicida). Simili le invettive. Uguali gli armiamoci-e-partite televisivi (l’ex ministro Antonio Martino, per dirne uno).

Sarebbe un errore di giudizio, invece. Lo stesso che ha commesso, esasperata, Oriana Fallaci.
Invece di dividere gli islamisti assassini dai musulmani pacifici, salderemmo i primi ai secondi. Che in Europa, nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato, sono venti milioni.
Ecco perché il Corriere, all’epoca, si oppose all’intervento.
Ecco perché molti di noi scrissero che la guerra d’invasione, in casi come questi, non è la risposta.
Blocchiamo i flussi di denaro, impediamo i rifornimenti d’armi, bombardiamo lo Stato Islamico di propaganda (non di missili, che cadrebbero sulle teste sbagliate). Saranno i sudditi a cacciare gli schiavisti islamisti: vedrete.

26 novembre 2015 (modifica il 26 novembre 2015 | 15:32)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_26/guerra-d-invasione-che-non-dobbiamo-fare-77c72a78-943e-11e5-be1f-3c6d4fd51d99.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La donazione di Zuckerberg come il Pil della Slovenia
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 06:50:43 pm
La donazione di Zuckerberg come il Pil della Slovenia
Cosa insegna la decisione filantropica del fondatore di Facebook che, per festeggiare la nascita della sua prima figlia, donerà il 99% delle azioni del social network

Di Beppe Severgnini

Per festeggiare la nascita di un figlio, di solito, la mamma riceve un anello, papà porta a cena gli amici. La donazione dei coniugi Zuckerberg dopo la nascita della figlia - 45 miliardi di dollari - equivale al prodotto interno lordo della Slovenia (della Tunisia o del Costarica, a scelta). La maggior parte degli Stati del mondo ha un Pil inferiore.

La filantropia è degna del nome della piccola erede: Max. Munifici e magnifici, dunque. In attesa di capire l’esatta finalità della Chan Zuckerberg Initiative (promuovere l’uguaglianza attraverso la diffusione di internet) e le modalità della donazione («nel corso della nostra vita»), proviamo a dire due cose?

La prima: arriva un momento in cui la ricchezza perde valore, se non viene impiegata per costruire il futuro. Non tanto il nostro, che è biologicamente limitato. Il futuro del prossimo, che comincia dai figli, ma non si ferma lì. Non occorre accumulare decine di miliardi di dollari per capire questo. Basta molto, molto meno. Esiste un livello d’agiatezza oltre il quale la ricchezza diventa una nevrosi e una schiavitù. Se andate sulle Alpi o a Porto Cervo, l’estate prossima, lo capirete. Troverete più gente felice tra le montagne che sui megayacht.

La seconda: è ammirevole la fiducia dei coniugi Zuckerberg nelle proprietà salvifiche di internet, condivisa da molti colossi californiani del settore. «All’inizio ci focalizzeremo sull’apprendimento personalizzato, la cura delle malattie, la connessione tra le persone e la costruzione di forti comunità». Lodevole. Ma è necessario ricordare che la rete rimane uno strumento: dipende in quali mani finisce. Conoscere e conoscersi non è, purtroppo, una garanzia di pace e concordia. I fanatici di Daesh sono molto presenti sul web: ma il loro scopo non è amare il prossimo.
   
2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 11:54)
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Da - http://www.corriere.it/tecnologia/15_dicembre_02/zuckerberg-donazione-facebook-figlia-max-severgnini-c0eb9ff6-98dd-11e5-85fc-901829b3a7ed.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - La Turchia nell’Unione? Buonanotte Europa
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 07:00:42 pm
Italians
La Turchia nell’Unione?
Buonanotte Europa

Di Beppe Severgnini

Dall’autoradio è uscita una frase del ministro della Difesa Roberta Pinotti, e credevo d’aver sentito male: «Quando la Turchia era fortemente motivata a entrare nell’Unione Europea le fu dato lo stop dalla Francia di Sarkozy, oggi si riapre questa opportunità».
Mi sbagliavo. La frase è stata effettivamente pronunciata, durante un’intervista a Maria Latella su SkyTg24.

Una curiosa opportunità davvero. Breve riepilogo della recente cronaca turca. Pochi giorni fa l’abbattimento di un aereo russo Sukhoi sul confine turco-siriano; l’arresto di Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet e di Erdem Gul, caporedattore ad Ankara del giornale antigovernativo; l’assassinio di Tahir Elci, il capo degli avvocati curdi, sabato a Diyarbakir. Martedì una bomba vicino alla stazione della metro di Bayrampasa. Ieri le gravissime accuse dei vertici militari russi al presidente turco Erdogan.

Secondo Mosca - non una fonte imparziale, certo - il presidente e la sua famiglia sono coinvolti nel traffico di petrolio con lo Stato Islamico.
«In cinque giorni sono avvenute più cose in Turchia che in cinquant’anni in un Paese scandinavo», dice un diplomatico europeo citato dal Sole 24 Ore. Sembra un buon riassunto.

Anni di negoziati non hanno portato a nulla, nonostante amici potenti a Roma e a Londra (Silvio Berlusconi, Tony Blair). C’è un motivo. La Turchia non è nell’Unione Europea perché non è pronta. La religione - 98% di musulmani (68% sunniti, 30% sciiti) - non conta. Contano i clamorosi ritardi strutturali. Contano le censure ai social media, le intimidazioni ai giornali, gli attacchi alla libertà di espressione, le brutalità poliziesche. E pesano le tragedie senza spiegazioni, come quella del 10 ottobre: strage alla marcia pacifista, 95 morti.

Dispiace per i molti turchi che ci hanno creduto, per quelli che l’Europa la meritano. Ma è un carico che l’Unione Europea non può assumersi: dobbiamo unirci, non dividerci; concentrarci, non diluirci.

La Turchia, oggi, non rispetta la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Che nessuno mai cita: ma è alla base di tutto.

Le alleanze militari e le opportunità economiche sono più importanti? Non è vero: contano i principi. Se svendiamo quelli, buonanotte Europa.

3 dicembre 2015 (modifica il 3 dicembre 2015 | 07:23)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_03/turchia-unione-europea-buonanotte-europa-64f79c5c-9984-11e5-a8aa-552a5791f1fe.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Duemilaquindici 2016 Il piacere non è più nelle cose
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:15:53 pm
Duemilaquindici 2016
Il piacere non è più nelle cose
Ora scegliamo un’esperienza
Le 5 puntate: vai allo speciale
Nonna, figlio e nipote: confronto di fine anno fra tre generazioni

Di Beppe Severgnini con Stefania Chiale
 
In città s’era parlato di populismo. In viaggio, di trasporti e periferie. In casa in montagna, di social e socialità. Durante la passeggiata, di lavoro. L’ultimo giorno dell’anno è dedicato al relax, ai bilanci e ai programmi.

 Quelli di Annamaria, Paolo e Filippo sono diversi. La nonna, classe 1936, intende ritirarsi presto. Non vuole inaugurare il 2016 - l’anno in cui compirà 80 anni - guardando veglioni televisivi preregistrati. Il figlio Paolo - 53 anni, architetto, divorziato - uscirà a cena: ma evita di dire con chi, resta sul vago. Il nipote Filippo, 23 anni, considera Capodanno un’occasione malinconica, ma non vuole ammetterlo. Gli sembrerebbe di parlare come il padre, ed è un po’ presto. FILIPPO (aprendo un armadio) E questo?! Nonna, guarda cosa ho trovato.

 ANNAMARIA Una videocassetta. E allora?
 FILIPPO (leggendo la custodia) «Vhs». Me lo ricordo, da piccolo! Il libro della jungla ! Dovremmo tenerlo per ricordo.
 ANNAMARIA Se vuoi mettiamo il videoregistratore tra i cimeli di famiglia, con la laurea del nonno e il mio vestito da sposa.
 PAOLO Sic transit gloria tecnologica . Vi ricordate il noleggio da Blockbuster? Da bambino ti portavo, Filippo.
 FILIPPO Partivamo in auto, entravamo, sceglievamo il film, tornavamo a casa. Prima di vederlo passava un’ora.
 PAOLO Anche due. Non riuscivo a trascinarti via. E quando avevi scelto il film, volevi i popcorn da mettere nel microonde.
 FILIPPO Scelta difficile: c’era troppa roba.
 PAOLO I Vhs sono stati uccisi dai Dvd. Oggi moribondi pure quelli. Sono l’unico che ancora ne acquista, mi sa.
 FILIPPO Non ci credo. Se vuoi vedere un film a casa, non esci a comprarlo!
 PAOLO In effetti da quando ho Sky On Demand ho quasi smesso.
 FILIPPO Io prima li scaricavo, adesso li guardo in streaming.
 PAOLO Scaricarli? È legale?
 FILIPPO Diciamo: tu mi paghi l’abbonamento a Netflix, io divento un cittadino modello.
 ANNAMARIA (sarcastica) Meraviglioso. I libri faranno la stessa fine?
 PAOLO (serio) Non è detto. I libri sono caldi, gli e-book sono freddi. Sulla carta si può scrivere, usare una cartolina come segnalibro. Sanno di chi li ha toccati. Sono oggetti affettivi. Non come i giornali, che una volta letti vanno bene per il camino. La prova? Tutti hanno in casa una libreria. Chi tiene in salotto la collezione degli ultimi 20 anni di un quotidiano ha disturbi mentali.
 ANNAMARIA Insomma, sempre la stessa storia. Come quel coso dell’altra sera, dove secondo voi c’era qualsiasi canzone... Quello che ha fatto fuori i Cd che avevano fatto fuori gli Lp. Stupefy...
 FILIPPO Spotify.
 ANNAMARIA Stessa roba. Gli oggetti, uno dopo l’altro, vengono sostituiti dai servizi.
 PAOLO Mamma! Parli come Tim Cook!
 ANNAMARIA Un cuoco?
 PAOLO Nonostante il nome, no. È il capo di Apple.
 FILIPPO Lui (guarda lo smartphone) Curioso: anche il fondatore di Blockbuster si chiama Cook. David P. Cook. Non gli è andata altrettanto bene, però.
 PAOLO Comunque è così. Trasporti, film, informazione, lettura, musica: gli oggetti lasciano il posto ai servizi, l’acquisto al noleggio, il possesso all’uso. È un cambio di paradigma.
 FILIPPO (ridacchiando) Si vede che hai fatto il liceo, papà.
 PAOLO E sapete perché accade? Ho una teoria.
 ANNAMARIA (sottovoce, sorridendo) Lui ha sempre una teoria. Su tutto.
 PAOLO Una teoria immobiliare.
 FILIPPO (ironico) Sono tutt’orecchi, architetto.
 PAOLO È una questione di metri quadri.
 FILIPPO Scusa?
 PAOLO Le case sono diventate più piccole. Possiamo metterci un certo numero di oggetti, poi stop.
 ANNAMARIA E quindi?
 PAOLO E quindi quanta roba ci può stare in un appartamento di 90 metri quadri? Quanti libri, dischi, Dvd? E-book, Mp3, download, musica e film in streaming non occupano spazio fisico, invece.
 ANNAMARIA Bell’affare. Sommersi di possibilità immateriali. Un incubo.
 FILIPPO Nonna, sbagli. Poter scegliere è bello. Prendi il Kindle: vuoi leggere un libro? Click, e ce l’hai lì. Scaricato.
 ANNAMARIA Preferisco girare tra gli scaffali. Guardare le copertine. Aprire una pagina a caso. Sentire la consistenza dei libri.
 FILIPPO Anche a me piace. Ho un Kindle e una libreria.
 PAOLO Mettiamola così. Un secolo fa c’erano le taverne: uno mangiava quel che c’era. Poi sono arrivati i menu. Oggi in pizzeria puoi scegliere tra quaranta pizze e trenta piatti diversi. Se ti dicessero: minestra di rape, prendere o lasciare, saresti contenta, mamma? Credo di no. Lo stesso vale per libri, film, musica.
 FILIPPO Non interrompere, nonna. È ispirato. Dall’edilizia alla gastronomia.
 PAOLO La situazione televisiva fino agli anni 80 era questa. Il tal giorno minestra di rape, brasato, formaggio. Non ti piacevano? Saltavi il pasto. Poi sono arrivate le tv private. Il satellite. Il digitale. Lo streaming. Il download. Il video on demand. Possiamo scegliere! Arrosto, sushi, tagliolini? In tv c’è tutto. Anche la minestra di rape.
 FILIPPO (ridendo) Certo: è iniziato Masterchef ! (dopo una pausa) Hai visto Star Wars ? Geniale, eh?
 PAOLO Ti faccio notare che i primi Star Wars sono degli anni 70. Roba nostra.
 FILIPPO Gelosia artistica. Mi mancava.
 PAOLO Macché gelosia. Amor di verità. Tu oggi vedi in giro tanta fantasia? Io no.
 FILIPPO Walking Dead , Trono di spade , Breaking Bad . Sì, vedo in giro molta fantasia.
 PAOLO Io vedo imitazioni e riproposte. George Clooney? Cary Grant. Ryan Gosling? Steve McQueen 2.0. Keira Knightley? Audrey Hepburn senza perle. Jude Law? Robert Redford. Omaggio o riciclaggio? Ditemi voi.
 ANNAMARIA La nonna non dice, ascolta.
 PAOLO Sono bravi attori, eh, il cinema mi piace. Meglio dei videogiochi su cui tu, Filippo, passi troppo tempo. Spaventosi. Sono entrato in camera tua, l’altra sera, ed era in corso una strage.
 FILIPPO Non dargli retta. Dovresti provare, nonna.
 PAOLO I videogiochi? Povera donna.
 ANNAMARIA Cosa c’è di male? Anche tuo padre, Paolo, aveva la passione del flipper. Ogni tanto lo beccavo al bar che spingeva e imprecava. E regolarmente: tilt!
 FILIPPO Tilt?
 ANNAMARIA «To tilt», inclinare. Se il flipper (in inglese, pinball ) veniva spostato o inclinato il meccanismo si bloccava.
 PAOLO Quindi la parola «flipper» ce la siamo inventata? Questa è bella.
 ANNAMARIA «Flipper» vuol dire «pinna». Le due alette comandate dai pulsanti esterni sembrano due piccole pinne.
 FILIPPO Nonna wikipedica.
 ANNAMARIA Lavorare per trent’anni nell’ufficio-estero di un’azienda mi sarà servito a qualcosa, no?
 PAOLO Grazie per la lezione di paleotecnologia. Filippo, dille dei videogiochi.
 ANNAMARIA Quelli con gli omini e i mattoncini? Nei bar c’erano anche quelli.
 FILIPPO No, quelli di oggi. Quelli della X-Box e della Play.
 PAOLO Dille come si chiamano.
 FILIPPO Assassin Creed . Need for Speed . Call of Duty . Fifa .
 ANNAMARIA Fifa come paura?
 FILIPPO Federazione internazionale del calcio. Quella di Blatter.
 PAOLO Vedi? Ha ragione la nonna. Fifa fa paura. Dai, dille che parole usate.
 FILIPPO Fraggare. Buffare. Powware.
 ANNAMARIA Mi arrendo. Brindisi di Capodanno prima di andarvene?
 PAOLO A cosa brindiamo?
 ANNAMARIA Ognuno decida per sé.
 FILIPPO (alzando il bicchiere) Vediamo... All’Europa!
 PAOLO All’Italia!
 ANNAMARIA Alla faccia!
 PAOLO Scusa, mamma, che brindisi è?
 ANNAMARIA Alla faccia della famiglia! Quanto abbiamo parlato in questi giorni, ragazzi... Sono stanca, e domattina devo alzarmi presto. C’è un anno da inaugurare.
 (5 - fine)

31 dicembre 2015 (modifica il 31 dicembre 2015 | 08:53)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_31/piacere-non-piu-cose-ora-scegliamo-un-esperienza-187020e4-af8b-11e5-98da-4d17ea8642a3.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - Quella frustrazione che ha portato alla Brexit
Inserito da: Arlecchino - Luglio 01, 2016, 05:48:07 pm
Quella frustrazione che ha portato alla Brexit

  Di Beppe Severgnini

Se dovessi pubblicare gli insulti che ho ricevuto in questi giorni, dopo aver espresso la mia delusione per Brexit, potrei occupare il giornale fino alla pagina dei programmi televisivi. Italians, Twitter, Facebook, mail. Ora aspetto le lettere di carta (lo strumento preferito dei matti veri): ma bisogna dargli qualche giorno. Non sono stupito, non sono offeso, non sono spaventato: sono preoccupato. Non per me, ma per chi (ragioni anagrafiche) ha davanti più futuro di me. Se l’Unione Europea (un scelta democratica) suscita tanto odio, cosa ci aspetta? Se gli stragisti dell’Isis provocano meno disgusto dei funzionari di Bruxelles, cosa accadrà al nostro continente?

Brexit, cosa cambia per l’Europa (e il mondo) su immigrazione, finanza, economia, politica, università, ricerca, scuola cibo e sport
Immigrazione
È vero: chi vomita odio sui social è spesso un frustrato; ma i frustrati, quando sono tanti, possono provocare grossi guai. Gli umori somigliano a quelli degli anni ’20 del XX secolo: ma allora l’Europa usciva da una guerra, oggi esce dalla pace. La consapevolezza d’abitare una casa imperfetta dovrebbe portare a una migliore manutenzione, non a distruggere tutto. Invece l’istinto di demolizione avanza. In Inghilterra si veste di nostalgia, in Francia si circonda di rabbia, in Austria si accompagna alla paura, in Olanda si chiude nell’egoismo, in Polonia e Ungheria viaggia con il disprezzo: se il contagio arriva in Germania, l’Europa è finita. In Italia intolleranza e umanità camminano insieme (gli sciacalli dei social, quando li conosci, spesso sono cuccioli spaventati). Ma l’ululato impressiona: cosa vuole, questa gente, al posto dell’Europa in pace? A chi è disposta ad affidare il potere, pur di sbarazzarsi delle cosiddette «élite»? Un termine in cui ormai finisce di tutto: perfino gli scambi internazionali. Mi scrive Alessandro Braga ale.braga.73@gmail.com: «Trovo stucchevole la mitizzazione dei ragazzi Erasmus in questi giorni post-Brexit. L’ennesima dimostrazione di quanto la classe dirigente si trovi a una distanza siderale, e incolmabile, dalla gente comune». Non importa che Erasmus sia nato per consentire un’esperienza europea agli studenti che non se la potevano permettere. Alessandro preferisce il copia-e-incolla di stereotipi populisti (classe dirigente, gente comune): risparmia la fatica di pensare.

Scriveva W.B. Yeats: «Things fall apart; the centre cannot hold; / Mere anarchy is loosed upon the world». Era il 1919: quasi cent’anni dopo, il rischio è quello. E ora dite pure che solo le élite citano un poeta irlandese senza tradurlo: non m’importa niente.

29 giugno 2016 (modifica il 30 giugno 2016 | 10:41)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_giugno_30/quella-frustrazione-2ee5d724-3e15-11e6-8cc3-6dcc57c07069.shtml


Titolo: Beppe SEVERGNINI. - L’infelice di professione che urla tra le macerie
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2016, 04:39:44 pm
L’infelice di professione che urla tra le macerie

Di Beppe Severgnini

«Eternamente loda / eternamente dice / eternamente mangia / e posa ad infelice». Un volumetto grigio chiama dallo scaffale più alto e propone questo epigramma (le librerie domestiche sono miniere di coincidenze). Il titolo della raccolta è Quiproquo (Garzanti, 1974). L’autore è Tito Balestra, uno che sapeva mirare lontano. Quei quattro versi anticipano un tipo umano che va forte, in questo sconcertante 2016. Prima di occuparcene, due parole sull’autore. Nato nel 1923 a Longiano in Romagna — terra artisticamente esplosiva — si trasferisce a Roma nel 1946 per diventare assistente sociale. Vive a casa degli zii: lui muratore, lei portiera. Arriva «all’arte dalla gavetta», per usare le sue parole. Frequenta le gallerie d’arte e le redazioni dei giornali. Conosce Alvaro, Bassani, Bertolucci, Flaiano, Guttuso, Longanesi, Maccari. E scrive. Alfonso Gatto: «Balestra è un poeta che non ha avuto fretta di stampare, un poeta che soltanto gli amici sapevano che scrivesse poesie». Di sicuro, non poteva immaginare che una di queste sarebbe servita a descrivere, molti anni dopo, l’infelice di professione. L’uomo che non protesta; si lamenta. Che non dice; grida. Che non critica; depreca. L’uomo per cui è tutto, sempre, un disastro. E mai per colpa sua.

Certo. Non è piacevole contare i soldi dello stipendio, e scoprire che da anni non aumentano. Non è bello vedere i figli costretti a elemosinare un lavoro. Non è divertente guardare i rapaci politici in cortile, pronti a beccare ciò che trovano. Ma l’apocalisse — vogliamo dirlo? — è un’altra cosa. Disperarsi, nell’Italia di oggi, non è solo controproducente; è offensivo verso chi l’orrore l’ha vissuto o lo vive davvero (la guerra, il terrorismo, la persecuzione). Ma l’infelice di professione non vuol sentire ragioni: vive un incubo, e deve urlarlo a tutti. Ha più di un alleato, purtroppo. Se gli industriali fanno i finanzieri, e passano la vita in casa o in viaggio, non si lamentino d’aver perso influenza. Se noi dei media soffiamo sul fuoco, poi non stupiamoci dell’incendio. Se la politica accarezza qualsiasi malumore — e sputa sull’Europa, accusata anche per colpe che non ha — o sappia: prepara il disastro. Come Sansone — infelici, rabbiosi, incuranti delle conseguenze — abbatteremo il tempio. Peccato che, sotto le macerie, potrebbe restare la democrazia.

Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_dicembre_01/infelice-professione-bb412a2c-b72b-11e6-aef2-f5f620941d44.shtml