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Autore Discussione: Beppe SEVERGNINI. -  (Letto 69210 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 09, 2010, 10:52:21 am »

LA NOSTRA CULTURA E L'IMMAGINE DEL PAESE

Uno straniero alla Scala

Un argentino-israeliano nato da genitori russi, prima di dirigere l'opera di un tedesco, in un teatro gestito da un francese di madre ungherese e voluto da un'austriaca, legge la Costituzione italiana. Una magnifica combinazione, se non fosse per un particolare: rischiamo di diventare comparse in casa nostra.
Daniel Barenboim ha fatto bene, in attesa di lasciare il passo a Wagner e alla sua Walkiria, a citare l'articolo 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»).

Lo ha fatto davanti al presidente della Repubblica. Lo ha fatto alla Scala, prima di un'opera lirica. La Scala e la lirica sono due tra i primati che ci sono rimasti. Diciamolo: l'elenco non è lungo, ormai. Risparmiare sulla cultura, per un Paese come l'Italia, è autolesionista. Certo, il momento è economicamente difficile. Ma l'unico petrolio nazionale sta nella nostra testa. Altro, non ne abbiamo. Quando Angela Merkel è stata messa di fronte al piano di riduzione della spesa, ha detto ai suoi contabili: tagliate dovunque ma non la cultura, l'istruzione e la ricerca. Una signora tedesca cresciuta nella Germania comunista ha intuito quello che molti italiani, vissuti a bagnomaria nella bellezza, non vogliono capire. Non riusciremo a emulare i nostri precedessori, quelli che hanno arredato le nostre città, costruito i nostri teatri e scritto la colonna sonora della nostra vita insieme. Cerchiamo, almeno, di non imbarazzarli.

Era imbarazzante e imbarazzata, invece, l'assenza del ministro della Cultura alla prima della Scala. Milano, che esprime tanta storia e mezzo governo, merita rispetto. È arrivato invece il presidente della Repubblica e ha dovuto ascoltare gli stranieri che - inevitabilmente - ci impartivano una lezione. Intanto fuori, sulla piazza, una protesta comprensibile prendeva le solite, incomprensibili forme. Chi vuole un'Italia più saggia e più colta non si presenta col casco e la faccia coperta.
Stiamo attenti: perché dietro l'ammirazione per le nostre cose belle si nasconde il sospetto che non sappiamo amministrarle. E, quindi, non ce le meritiamo. Non ci sono solo i teatri. C'è Pompei devastata dall'incuria (tanto che la studiosa Mary Beard oggi sul Corriere propone di «internazionalizzare l'onere»); c'è Napoli umiliata dal pattume, le cui immagini stanno facendo, una volta ancora, il giro del mondo. Perché anche questo accade: i nostri disastri sembrano confezionati per la televisione. La nostra fama li rende spettacolari, per gli altri. E dolorosi, per noi.

La Scala è italiana. Per la storia di ieri e la fatica di oggi, per quelli che ci lavorano e sono orgogliosi di farlo. Non ci possiamo permettere che il mondo pensi: un posto troppo importante per lasciarlo agli italiani. Quello di Daniel Barenboim non è stato, come ha detto Daniele Capezzone, «un comizio antigovernativo». Era un attestato di stima. E, insieme, un avvertimento.
«I tagli alla cultura sono sempre un problema» ha commentato laconico il ministro dello Sviluppo economico. Be', se sono un problema, risolviamolo. Se occorrono denari per la Scala, troviamoli. Togliamoli alle piccole indecenze - ce ne sono, nascoste nell'intercapedine tra gli alti principi e i bassi interessi - e investiamoli in una grande eccellenza. L'Italia, tra pochi mesi, compie 150 anni. Un regalo di compleanno se lo merita. Le parole non bastano. E di quelle, state certi, ne ascolteremo tante.

Beppe Severgnini

09 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_09/severgnini-scala-barenboim_3c0f943c-035e-11e0-8ee8-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 24, 2010, 06:40:33 pm »

Il commento - LO DICE LA LEGGE

Talenti all'estero, ora potete rientrare

Approvazione bipartisan in Senato


«Una cartolina per tutti gli Italians del mondo». È stata salutata così, in Senato, la nuova legge sul ritorno dei talenti. Chi è nato dopo il 1° gennaio 1969, possiede una laurea, ha lavorato negli ultimi due anni all'estero e decide di rientrare in Italia godrà di un forte incentivo fiscale: i maschi verranno tassati sul 30% del reddito, le femmine sul 20%.

La condizione: avviare un'attività di impresa o di lavoro autonomo, oppure essere assunti (ecco perché la nuova legge dovrebbe piacere anche alle aziende). Legge di iniziativa parlamentare (una delle poche), bipartisan (caso raro), approvata a larghissima maggioranza cinque ore prima della riforma dell'università (una coincidenza interessante). Solo Futuro & Libertà per l'Italia (Fli), trascinata da un tonitruante Mario Baldassari («un provvedimento inutile, demagogico e ipocrita!») ha votato contro. Gli hanno risposto i colleghi Mario Ferrara (Pdl): «Questa è una buona legge». E Tiziano Treu (Pd): «Certo, è una legge parziale. Basta, però, aspettare la palingenesi che non arriva. Questo è un contributo per aumentare l'attrattività dell'Italia».

E l'Italia ne ha bisogno. I laureati italiani all'estero sono quattro volte quelli tedeschi, due volte quelli francesi, tre volte quelli inglesi o spagnoli (dati Ocse). Il nostro Paese spende circa centomila euro per portare un ragazzo o una ragazza alla laurea. Spesso il laureato parte e va all'estero (questo è un bene); ma rischia di non tornare più (questo è un male).

Qualche voce critica, in Senato, s'è sentita. Enrico Morando (Pd) ha ricordato che «in passato incentivi al ritorno non hanno avuto successo»; poi s'è detto preoccupato che questa legge ne abbia troppo: «Le fortissime agevolazioni al rientro in Italia sono estese anche ad altri cittadini dell'Unione Europea: un potenziale molto grande». A suo giudizio, la legge non è fornita di copertura: «Così ci siamo ridotti in queste condizioni di finanza pubblica!», ha tuonato tra lo stupore dei colleghi.

«Basta benaltrismi» gli ha risposto il collega di partito Francesco Sanna. «Basta dire che il problema è ben altro. Da qualche parte bisogna pure cominciare. Questa legge è una cartolina dall'Italia spedita a tanti Italians». In quanto alla copertura finanziaria - hanno ricordato Alessia Mosca e Guglielmo Vaccaro, due tra i parlamentari che più si sono battuti per questa legge - «la questione non esiste: se questi italiani non rientrassero, il fisco non avrebbe nulla. Il rientro porta comunque un gettito extra. Senza contare che rientrerebbero talenti, capaci di muovere l'economia».

«È evidente - dice Enrico Letta (Pd), primo firmatario della legge con Maurizio Lupi (Pdl) - che per rendere il Paese più mobile e più giusto nei confronti dei nostri talenti ci vogliono politiche complessive e articolate. Però questo è un primo passo confortante e una dimostrazione di responsabilità da parte di tutto il Parlamento. La classe dirigente non può più permettersi di alzare le spalle rispetto alla dissipazione delle sue migliori energie».

Un piccolo regalo di Natale per la diaspora professionale italiana? Di sicuro un gesto, dopo tante chiacchiere. Una legge per gli anni Dieci. L'unico rischio è che venga ignorata, sopraffatta dalla cagnara italiana. Approvata dalla Camera il 25 maggio, e dal Senato ieri, aspetta ora i decreti attuativi del Ministro dell'economia e delle finanze (entro sessanta giorni). A quel punto, toccherà al ministero degli Esteri e agli italiani all'estero far sapere che questa opportunità esiste: almeno fino al 31 dicembre 2013, poi si vedrà.

Beppe Severgnini

24 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_dicembre_24/talenti-estero-legge_29a92b1c-0f31-11e0-bda7-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 18, 2011, 10:10:21 pm »


BERLUSCONI E LE ACCUSE SUL CASO RUBY

L'immagine imbarazzata di un Paese

La sinistra italiana non hai mai voluto spiegare Silvio Berlusconi: le è bastato condannarlo. La destra, nemmeno: era troppo occupata ad applaudirlo e a difenderlo. Le notizie recenti richiedono tuttavia uno sforzo d'onestà intellettuale da parte di tutti. Nel giorno in cui il Financial Times - il più influente quotidiano economico-finanziario d'Europa - parla di «una profonda vergogna per l'Italia» non possiamo far finta di niente.

Le accuse sono gravi, lo scenario che dipingono inquietante. Prostituzione minorile. Provate a pensare a Zapatero, a Sarkozy o a Cameron sospettati di qualcosa del genere. Correrebbero a difendersi. Non con videomessaggi, giuramenti e annunci di nuovi amori. In tribunale, invece. Dove tutti potrebbero capire - finalmente - chi sono gli incoscienti: gli accusatori o l'accusato?

Non si tratta più dell'incoerenza pirotecnica tra la vita e i programmi di un leader: questo riguarda le coscienze (e la Chiesa, sempre che le interessino). Non si tratta ancora di un giudizio politico: se ne parlerà al momento del voto. Si tratta invece di accuse pesanti e precise: un'organizzazione finalizzata alla prostituzione, che utilizza il personale, gli immobili, le televisioni e gli apparati di protezione del capo del governo. È un'ipotesi sconvolgente, che va provata o smentita.

Se fosse falsa, i magistrati ne risponderanno: Silvio Berlusconi potrà affermare di essere un perseguitato, e noi gli crederemo. Se fosse vera, invece, ne risponderanno gli imputati e la loro reputazione. Ma qualcuno deve risponderne. L'incertezza, stavolta, è un prezzo che non possiamo permetterci di pagare. Se lo aspettano gli allibiti osservatori stranieri e quelli - altrettanto severi - dentro le nostre case. Ai ragazzi italiani dobbiamo una risposta: cosa ci sta succedendo?

«La settima economia mondiale ha bisogno di riforme» scrive il Financial Times: «Un giovane su quattro è disoccupato, la crescita economica è debole, gli investimenti stranieri declinano, il debito ha raggiunto i 1.800 miliardi di euro, il cancro della criminalità organizzata andrebbe rimosso e la lista potrebbe continuare», osserva il quotidiano britannico. «Ma invece di soluzioni a questi problemi, gli italiani rischiano di assistere a un'altra puntata di Berlusconi-contro-giudici».

Ecco: questo è lo spettacolo da evitare. Lo abbiamo già visto e non ne possiamo più. C'è, in queste ore, un'aria di stanchezza stupefatta che supera le ideologie e gli steccati di partito. Conosciamo i sospetti di parte della destra sui magistrati e le speranze giudiziarie di una certa sinistra impotente. Ma non si può contestare l'arbitro all'infinito; a quel punto, tanto vale rinunciare alla partita. La nostra partita, però, si chiama democrazia: dobbiamo giocarla e vincerla, soprattutto nel 150° anniversario dell'unità nazionale. L'alternativa è trasformare un compleanno in un funerale, ma non sarebbe una buona idea.
Silvio Berlusconi dovrà avere un coraggio gigantesco, perché le accuse lo sono. Ma stavolta non è possibile nascondersi: né per lui né per noi. Per tanti anni è stato il nostro complice: ci ha perdonati e incoraggiati, assolti e giustificati, illusi e rincuorati. Ma tra complicità e imbarazzo corre un confine. E ce n'è un altro, drammatico, tra imbarazzo e disgusto. Il primo è stato superato. Il secondo, in una democrazia, non andrebbe attraversato mai. Perché è umiliante, perché è pericoloso e perché ha ragione il Financial Times: l'Italia merita di meglio.

Beppe Severgnini

18 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_18/severgnini-immagine-imbarazzata-del-paese_61640dfe-22e3-11e0-b943-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 23, 2011, 05:19:06 pm »


Pianeta ItaliaPIANETA ITALIA

Se un marziano ci vedesse oggi

Siamo nelle mani di una diciottenne marocchina e di un'igienista dentale. Noi, i fondatori dell'Ue e la settima economia del pianeta. Pensate alla faccia di un marziano che sbarcasse oggi in Italia; o di uno sceneggiatore che sei mesi fa avesse proposto una trama del genere. Sconvolto, il primo. Sospettato di ubriachezza, il secondo. Inutile raccontare ancora uno stile di vita che la signora Veronica - sempre loro, le mogli - ci aveva sinteticamente anticipato. Non ce n'è bisogno. Lo stanno facendo i giornali e i telegiornali, con la gloriosa eccezione del Tg1 che nel giorno della tempesta ha aperto con «La Tunisia volta pagina» («Almeno loro...» ha commentato un lettore affranto e spiritoso). Quello che dobbiamo capire - al di là del nostro giudizio sui metodi dell'indagine - è l'enormità di quanto accade. Il chiasso del dibattito televisivo è una cortina fumogena: copre l'essenziale. Che è questo, purtroppo: il capo di governo di un importante Paese occidentale è accusato di prostituzione minorile. Ma sostiene d'essere perseguitato e non accetta di essere giudicato. Complicato? Oh yes, come diciamo a Milano. Anche perché c'è un'altra questione. Il quadro dipinto dalle intercettazioni - diventate pubbliche dopo che il fascicolo è arrivato alla giunta per le autorizzazioni della Camera - non rappresenta solo abitudini stupefacenti (a meno che il bottone dello stupore sia bloccato da altri interessi). Coinvolge istituzioni, organi elettivi, apparati dello Stato (pensate all'uso delle scorte).

I giornali non si stanno occupando di gossip, come mi scrive un giovane italiano che lavora all'estero, Tommaso C.. Raccontano l'uomo che dovrebbe guidarci (leader viene da to lead, condurre); e sta diventando, purtroppo, un esempio catastrofico. Un dettaglio che dovrebbe preoccupare genitori, insegnanti, educatori, magari anche qualche sacerdote. Moralismo! gridano gli immorali. Anche Bill Clinton trabascava con Monica Lewinsky!, aggiungono i disinformati, in cerca di prove a discarico. Be', per prima cosa Clinton s'è lasciato processare; e poi, tra un'amante occasionale e il baccanale industriale, c'è una differenza. Smettiamola di paragonare cose imparagonabili, e facciamoci invece la domanda del marziano: cosa sta succedendo all'Italia e ai connazionali tentati dall'ennesima rimozione? A furia di minimizzare, ridurremo il futuro a un'ipotesi. Invece arriva, tranquilli. A meno che abbiano ragione i Kaiser Chiefs quando cantano «due to lack of interest, tomorrow is cancelled»: per mancanza di interesse, il domani è annullato. La canzone si chiama Ruby. Speriamo sia solo una coincidenza.

Beppe Severgnini

23 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_23/se-un-marziano-ci-vedesse-oggi-beppe-severgnini_0f91b5be-26c9-11e0-bedd-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 03, 2011, 06:38:13 pm »


ITALIANS

Silvio B. rispondici (anche via Twitter)

Non capisco la passione del presidente del Consiglio per i videomessaggi. L’ho detto, lo ripeto: li trasmettono i dittatori, gli alieni e i Simpson, e lui non è nessuna di queste cose. Il videomessaggio — una dichiarazione solenne senza contraddittorio — profuma d’ansia; e gli elettori la sentono. Fossi Silvio B. mi farei intervistare. Eviterei i giornalisti dipendenti—per contratto, per questioni politiche o per disposizione naturale — e affronterei la prova con serenità. Le probabilità che questo suggerimento venga accolto sono pari a quelle di una laurea in teologia per Lele Mora. È bene prepararsi, tuttavia: l’agente potrebbe scoprire la Scolastica (non è una meteorina insolitamente studiosa) e il presidente accettare l’intervista (non è un’attività particolarmente rischiosa). Toccasse a me il compito—palazzo Chigi o palazzo Grazioli, ad Arcore c’è troppo viavai — mi presenterei con le domande arrivate via Twitter dai lettori/elettori. Eccone alcune, con tanto di firma.

Che modello offre ai giovani con i suoi comportamenti? (Nicoletta Marini-Maio). Crede che evitare un processo possa cambiare il giudizio che la Storia avrà di lei? (Alex Paglia). Io so sempre chi entra a casa mia. Possibile che lei non sappia chi entra a casa sua? (Serena Orizi). La ricerca le ha dato capelli e virilità. Lei e il Suo governo cos’avete dato alla ricerca? (Davide Schenetti).

Nel 1994 ha vinto promettendo meno tasse e riforma della giustizia. Sono passati diciassette anni: dove sono? (Marco Lazzaroni). Se ha ancora un programma, perché non lo affida a qualcun altro? (Luca Melchionna). Perché, secondo lei, nel Pdl non si solleva una sola voce contraria alla tesi di partito? (Roberto Bonacina). Le è mai venuto il dubbio che il suo entourage la stia solo sfruttando? (Armin). Ha mai chiesto consiglio a qualcuno? (Luca Geronimi). Silvio, quali erano i tuoi sogni quando avevi 17 anni? (Corrado Bontempi).

Visto che cerca accordi con Casini per le elezioni (e caccia dal Grande Fratello chi bestemmia), qual è la sua idea di famiglia? (Marco Bellabarba). Perché, visto che può, non si ritira a vita privata e si dedica ai suoi svaghi preferiti? (Arianna P.). Non pensa che un cassintegrato o disoccupato si senta offeso dagli aiutini dati alle signorine? (Alessandro P.). Prima la Minetti, poi Sara Tommasi: perché non le assume in Mediaset, se sono brave come dice? (Alessia Berra). Perché non accetta i contraddittori in tv, come accade in tutti i Paesi? (Alessandro P.). È vero che nel nuovo governo egiziano ci sarà un posto per Ruby, vista l’esperienza, come Ministro delle Mummie? (Raffaele Greco). Ha mai invidiato la capigliatura riccia di Gheddafi? (Francesco).

Ecco: queste erano alcune domande (potete controllare su Twitter cercando #intervistiamoberlusconi). Le risposte sarebbero gradite, ma temo non arriveranno. Neppure quella sulla capigliatura del Colonnello, che pure potrebbe far piacere all’alleato libico.

Beppe Severgnini

03 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_febbraio_03/severgnini
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 14, 2011, 03:56:47 pm »

Il commento

Ancora Slogan? Provate a Sorprenderci

La strategia

Davanti a vicende nuove, gravi e imprevedibili, le risposte non possono essere vecchie, rituali e prevedibili


«Se non ora, quando?». Capisco lo spirito, condivido il fastidio, discuto il metodo. Ancora piazze e slogan? È il XXI secolo, ragazze!
Ho pubblicato questo commento su Twitter, ieri, e sono stato inondato di reazioni. Prevedibili, sorprendenti, irritate, irritanti, comprensive, preoccupate, ragionevoli. Molte chiedono: «Bene, lei cosa propone?». Ci arrivo, ma prima lasciatemi spiegare, allungandomi oltre i 140 caratteri di Twitter.

Davanti a vicende nuove, gravi e imprevedibili, le risposte non possono essere vecchie, rituali e prevedibili. Microfono e buone intenzioni, lettura delle dichiarazioni, studentesse e sindacaliste, francarame e facce già viste. Si finisce per far sembrare originali perfino i soliti, professionali slalom di Giuliano Ferrara, degni dei mondiali di sci in corso (dove peraltro non scendono in mutande). «Se non ora, quando?» sotto le mie finestre, in una delle 230 piazze d'Italia, quella di Crema, dove ci conosciamo tutti: duecento persone, più o meno le stesse di quand'ero studente.

Sgombriamo il campo da un equivoco. Ho scritto sul «Corriere», chiaramente e ripetutamente, che la questione legata a Ruby è seria: un capo di governo deve risponderne in tribunale e magari in qualche intervista, invece di rifugiarsi nei videomessaggi e tra le braccia di dipendenti, portavoce e consiglieri. La vicenda non riguarda infatti solo la vita privata di un uomo pubblico - che peraltro, come insegnano le grandi democrazie, è meno tutelata di quella di un normale cittadino. Di chi ci guida, infatti, dobbiamo valutare la coerenza, l'affidabilità, l'onestà, il buon senso, la responsabilità.
Le notti di Arcore (palazzo Grazioli, villa Certosa etc) non rappresentano solo un'umiliazione per le donne italiane. Hanno coinvolto organi elettivi (un premio per le favorite?); apparati di protezione (poveri carabinieri di guardia!); questioni di sicurezza (rischio di ricatti); reputazione internazionale (l'Italia derisa nel mondo); importanza dell'esempio (talmente catastrofico che i nostri ragazzi dicono «Blah!» e guardano oltre).

Rispondere a questo sfacelo con l'ennesima manifestazione? Sa di déjà vu. Un milione di donne in piazza nel mondo? A casa, in Italia, ce n'erano trenta milioni. L'Egitto, costantemente richiamato nelle menti e nei commenti? Be', andrei piano prima di celebrare un colpo di stato militare; e poi, in Medio Oriente, è bene aspettare come va a finire (Iran docet). Ma c'è di più. Come questo giornale non si stanca di ripetere, i governi cadono in Parlamento (dove s'accettano le dimissioni). L'opinione pubblica ha il diritto di farsi sentire, i magistrati devono poter lavorare. Ma diciamolo, per banale che sia: sono le urne che decidono chi governa.

La giovane precaria e la sindacalista, l'immigrata e l'attrice: sincero e addirittura commovente, in qualche caso. Ma già visto. Quelle donne avevano cose nobili da dire, ma le hanno dette nel modo consueto e nei soliti luoghi. La forza di Silvio Berlusconi è la capacità diabolica di reinventarsi e sorprenderci. Va affrontato con lo stesso metodo. Sono amico di Lella Costa, ammiro Paola Cortellesi e Anna Finocchiaro. La fantasia non gli manca di sicuro. Provino a inventarsi altro. Qualcosa che possa convincere decine di milioni di donne che non sono scese in piazza, e non lo faranno mai: eppure molte di loro, in questi giorni, sono imbarazzate e arrabbiate. Il momento più efficace, a Roma, è stato il ballo finale sul palco: perché era spontaneo, e non l'avevamo già visto.

È vero: le ragazze e le donne, in Italia, non la pensano come Nicole Minetti, che su Affaritaliani.it ha chiamato in sua difesa Cenerentola e Biancaneve (le quali probabilmente s'avvarranno della facoltà di non rispondere). Certo: concedersi a pagamento non è la nuova forma di imprenditorialità femminile, come argomentano maschi cinici in libera uscita. Ma le donne italiane devono - anzi tutti noi dobbiamo - inventare forme di protesta più originali. Dico la prima cosa che mi viene in mente: coprire l'Italia di post-it rosa, per un mese, scrivendo cosa fanno le donne vere, quelle che non hanno nessuna intenzione di sacrificarsi per i minotauri.
Perché diciamolo: il nostro labirinto è grande, e non ne contiene uno solo.

Beppe Severgnini

14 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 08, 2011, 06:34:56 pm »

Il Fattore Donne e il Paese

Quando non riescono ad accettare i cambiamenti, gli uomini - intesi come maschi - offrono complimenti. Quando non sanno imporsi rinunce, espongono buone intenzioni. La giornata di oggi, 8 marzo, vedrà un turbinìo di eventi, iniziative, congratulazioni e riconoscimenti del ruolo della donna. Ma le donne - intese come femmine - ormai l'hanno capito. Basta scostare le mimose, e il panorama retrostante è spoglio.

Il Corriere ieri citava la recente indagine Eurostat: siamo in coda tra i Paesi dell'Unione Europea. L'occupazione femminile diminuisce dopo il primo figlio, crolla dopo il secondo. Solo Malta è messa peggio di noi. Lo suggerisce l'osservazione, lo conferma uno studio dell'università Bocconi: senza il reticolo familiare poche nostre connazionali potrebbero lavorare. L'aiuto quotidiano dei nonni è indispensabile per trenta italiane su cento. Le danesi e le svedesi costrette a chiedere aiuto ai genitori per badare ai figli? Due su cento. Sorpresi? Probabilmente no. Chi non ha sperimentato le carriere che si bloccano alla prima gravidanza (part time e telelavoro sono temi buoni per i convegni) conosce una donna che s'è trovata in quella condizione. La buona notizia? La carovana dei grandi Paesi occidentali s'è rimessa in moto. Cerchiamo di capire dov'è il gancio da traino.

Negli Stati Uniti il presidente Obama approva il Lilly Ledbetter Fair Pay Act contro la discriminazione salariale. In Gran Bretagna il rapporto Davis chiede di portare al 25% la quota di donne nei consigli di amministrazione entro il 2015. La Francia approva una legge che porterà al 40% le donne ai vertici delle società quotate entro il 2017. In Germania, Angela Merkel ha annunciato di voler imporre quote rosa del 40% in tutte le grandi aziende. Nessuno di questi Paesi ha avuto un caso Ruby che spingesse le donne in piazza. Tutti hanno capito però che, in tempi incerti, bisogna sfruttare le risorse a disposizione. E le donne sono una risorsa immensa.

La legge in discussione in Italia prevede, per i vertici delle società quotate e delle pubbliche partecipate, una quota femminile di un terzo, da introdursi con disarmante gradualità (2021). Ma vedrete: il Paese bradipo dovrà imparare a correre. La realtà ha un'urgenza che nessun sofisma può rallentare e nessuno scandalo può oscurare. I «cuori pensanti» delle donne italiane - per citare il titolo di un libro di Laura Boella - hanno capito che un Paese senza materie prime, con infrastrutture obsolete, un debito pubblico mostruoso, un governo distratto e un'opposizione fatua non può permettersi di rinunciare al contributo delle donne. È una questione di legislazione e di coerenza, di opportunità e di comportamenti, di priorità e di serietà. Soprattutto di serietà.

Quante aziende negano alle donne i diritti che proclamano nelle conventions. Quante amministrazioni pubbliche vedono gli asili solo come voci di spesa, invece di considerarli grandi opportunità. Quanti uomini dicono quello che non fanno e fanno quello che non dicono (al momento del colloquio di lavoro, della promozione, della cooptazione). Quante donne, purtroppo, fingono di non vedere. Quanto sono sole Rita Levi Montalcini e Margherita Hack: eppure le nuove italiane chiedono modelli, non di diventare modelle. Si muove il mondo, muoviamoci anche noi. Una festa che scivolava pericolosamente verso il romanticismo commerciale - l'8 marzo come un 14 febbraio per ritardatari - conosce quest'anno un improvviso risveglio. Cerchiamo di dimostrare che è una nuova stagione anche per noi.

Beppe Severgnini

08 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 30, 2011, 11:00:06 am »

NON ARRENDERSI ALL'ILLEGALITÀ

La pigrizia e il cinismo


Alzi la mano chi, nelle ultime settimane, non ha pensato, ascoltato, confessato: «Fatico a leggere i giornali, mi deprimono». Sentimento comprensibile, ma pericoloso. Comprensibile perché lo stillicidio di cattive notizie mette a dura prova i nervi e la pazienza. Pericoloso perché i protagonisti di quelle brutte storie proprio questo vogliono: che non scriviamo, che non leggiamo, che non pensiamo più a loro.

Il marchio delle democrazie è l'imperfezione inquieta; il segno delle autocrazie è l'ignoranza soddisfatta. Esiste un grande rischio per i buoni, e una grande opportunità per i meno buoni: le cattive notizie irritano, la tentazione di rimuoverle è forte. Sulla società occidentale - non solo quella italiana - potremmo appendere il cartello che vediamo sulle maniglie delle stanze d'albergo: «Do not disturb», non disturbare. Le cameriere al piano devono obbedire; i cittadini di una democrazia, no.

L'Italia, da qualche tempo, sembra una repubblica fondata sul lavorìo. Illegale. Da Napoli a Roma, da Parma a Palermo, da Genova a Milano: i moderni trafficanti non si fermano davanti alla possibilità di guadagno e di carriera. La nostra società sembra aver prodotto una nuova specie di piraña civili, pronti a divorare tutto quello che intravedono. Sociologi e politologi si sbizzarriscano sulle cause; gli educatori si preoccupino dei cattivi esempi. Noi giornalisti abbiamo un compito: tenere accesa la luce su ambienti e personaggi che non la amano. Perché è nel buio che campano. Di solito, alle nostre spalle.

Non tutti sono d'accordo. Mi ha scritto un sacerdote - un sacerdote! - secondo cui è inutile illudersi: la realtà va accettata. «Nelle democrazie moderne i cittadini imparano a scegliere leader che fanno sia i propri sporchi comodi, sia il bene del Paese secondo la propria personale e limitata (ma sacrosanta) visione». Gli rispondo con le parole di un suo - non un mio - collega. Il cardinale Carlo Maria Martini, nelle risposte ai lettori, ha scritto domenica sul Corriere: «La coscienza è un "muscolo" che va allenato e, come per l'atleta, l'esercizio richiede una certa disciplina».

Moralismo? No, senso morale. E buon senso. Nessuna trasformazione è possibile, nessuna Italia nuova è pensabile se non sentiremo certi comportamenti come gravi, colpevoli e pericolosi. Il cinismo - si sa - è di gran moda. Ma spesso è solo il soprabito per nascondere le nostre pigrizie. O, peggio, le nostre complicità.

Tocca ai magistrati, ovviamente, stabilire se dietro certe conversazioni (Napoli), certe dimissioni (Parma) e certe facilitazioni (Roma) ci sia un reato. Tocca al Parlamento - non ai giornali - decidere quali e quante intercettazioni si possano pubblicare. Ma non cadiamo nella rete astuta dei formalisti, secondo cui è più importante la cornice del ritratto. E il ritratto che vediamo è agghiacciante. Un Paese pronto a giustificare l'ingiustificabile, a paragonare l'imparagonabile, a perdonare l'imperdonabile, se fa comodo alla propria fazione.

Venerdì e sabato, a Venezia e a Pavia, avrò occasione di parlare ai neo-laureati. So che dimenticheranno presto le esortazioni da cui un adulto non può esimersi, in certe occasioni. Ma rivolgerò loro un invito; e vorrei lo ricordassero, almeno quello. Non diventate mai cinici, ragazzi. I protagonisti delle tristezze italiane di oggi, trent'anni fa, erano come voi: prendevano la laurea, annusavano il futuro, avevano la luce negli occhi e un'estate infinita davanti. Allora volevano cambiare il mondo; oggi, l'automobile. Meglio se blu, lussuosa e di servizio: così gliela paghiamo noi.

Beppe Severgnini

29 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_giugno_29/severgnini-pigrizia-cinismo_61827e22-a210-11e0-b1df-fb414f9ca784.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 12, 2011, 12:10:07 pm »

Prepariamoci.

Ci diranno che Mario Monti è troppo poco italiano per governare l’Italia. Se sarà lui, come pare, il prossimo presidente del Consiglio, ci faranno capire che non somiglia né all’uomo che l’ha preceduto, né alla nazione che dovrebbe seguirlo. Chi è reduce da una sbornia di populismo – diranno -  non può passare improvvisamente all’acqua tonica del buon senso.

Certo: il neo-senatore non somiglia  agli stereotipi che tanti di noi, e i nostri leader, hanno contribuito a incoraggiare. Rappresenta un italiano affidabile, uno dei tanti che il mondo ha imparato a conoscere e ad apprezzare. Ospedali inglesi e aziende tedesche, uffici europei e laboratori americani sono affollati di connazionali così, in grado di unire competenza, solidità e intuizione.

Il Financial Times scrive: “La nomina di un tecnocrate non eletto dal popolo è tutto tranne che l’ideale”. Certo, sarebbe meglio se la maggioranza avesse scelto il buon senso alle urne (ma dov’era?). Comunque accontentiamoci, per adesso:  dal Quirinale in giù, moltissimi italiani hanno capito che siamo in emergenza. E in un’emergenza è saggio ricorrere al pronto soccorso. E’ una forzatura democratica? E perché mai, se Monti avrà – come sembra – il sostegno della maggioranza in Parlamento?

Noi italiani siamo sempre stati bravi a trasformare una crisi in una festa. Stavolta è impossibile: basterebbe trarne una lezione. Silvio Berlusconi ha costruito la sua lunga fortuna politica assecondando qualunque nostro istinto. Ci ha detto sempre e soltanto ciò che volevamo sentirci dire. Certo, in questo modo è rimasto popolare a lungo, fino al tracollo finanziario. Ma non è così che si educano le nazioni, e le si aiuta a diventare grandi.

Qualcuno dice – all’estero e in Italia – che Mario Monti rappresenta  una fantasia in grigio, un’illusione con gli occhiali: è come vorremmo diventare, ma non riusciamo a essere. Nel momento in cui sarete costretti a metterci i soldi, la fatica e le rinunce – ci sentiamo dire in queste ore – tornerete a essere gli irresponsabili di sempre: retorici ed egoisti, convinti che la salvezza collettiva sia la somma delle furbizie individuali.

Potremmo rispondere che l’Italia, a differenza della Grecia, ha i mezzi per pagarsi la penitenza: se il debito pubblico è  spaventoso (2.000 miliardi di euro), la ricchezza collettiva delle famiglie è impressionante (8.600 miliardi). E aggiungere: ci siamo mostrati imprevidenti, ma non siamo sciocchi. Una nazione realista fino al cinismo sa che non è più tempo di scherzare. L’Europa dipende da noi e noi dipendiamo dall’Europa: dovrebbe bastare.

E’ accaduto altre volte, nella nostra storia recente, che ci siamo dimostrati capaci di sorprendenti scatti d’orgoglio. Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi non avevano un grande sostegno popolare: ma hanno chiesto e ottenuto un grande sforzo dagli italiani, tra il 1992 e il 1993. Lo stesso ha fatto Romano Prodi nella seconda metà degli anni Novanta. Non dimentichiamo come, per entrare nell’Unione Monetaria, abbiamo pagato compatti una “tassa per l’Europa” che altrove – fosse solo per il nome – avrebbe scatenato una rivoluzione.

Ogni nazione si tenga i suoi stereotipi: se non altro, indicano i rischi che corre. Ma lavori quotidiamente per smentirli: con i comportamenti, non con i gesti e le chiacchiere. Vengo dagli Stati Uniti e da Londra.  Non c’è dubbio che Mario Monti è spiazzante, per chi – nel Regno Unito o a  New York – ha deciso che noi italiani siamo tutti variazioni dei Sopranos o dei ragazzi di  Jersey Shore. E già questa è una prima, piccola soddisfazione.

Ieri e oggi #rimontiamo è la tendenza più seguita su Twitter. Non consideriamolo  un augurio. Prendiamolo come un impegno.

Beppe Severgnini

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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 16, 2011, 12:16:20 am »

Divorzi e miti

Ma l'Europa agli inglesi sotto sotto non dispiace

Mi auguro che indìcano davvero un referendum sull'Europa


Se la costruzione europea fosse una gara di bob - un bob piuttosto affollato, quasi un autobus - gli inglesi svolgerebbero il ruolo dei frenatori. Ruolo indispensabile, sia chiaro. Il guaio è che i nostri amici d'oltremanica non frenano dopo l'arrivo. Frenano, ogni volta, nella fase di spinta. E questo, come potete capire, innervosisce il resto dell'equipaggio.

La tendenza al melodramma - che l'Italia ha esportato ovunque con successo - non deve spingerci a dire che l'Unione Europea, così come la conosciamo, è finita. Ma non c'è dubbio che a Bruxelles, all'alba di venerdì 9 dicembre, sia accaduto qualcosa d'importante. David Cameron, utilizzando il veto, ha fatto ciò che tanti predecessori avevano soltanto minacciato. Se l'Europa intende correre, la Gran Bretagna chiede di scendere. Volendo restare nell'allegoria sportiva, potremmo ricordarle questo: saltando da un bob in corsa, si rischia di farsi male.
La costruzione europea, si sa, procede per spaventi (la seconda guerra mondiale, la crisi degli anni '70, la fine del comunismo). Solo allora trova il coraggio di lanciarsi in avanti (la comunità del carbone e dell'acciaio, il mercato unico, l'allargamento). Sta accadendo anche stavolta. Davanti alla spaventosa crisi del debito e alla palese inadeguatezza dell'euro, la UE ha deciso di darsi regole nuove e creare un'unione di bilancio. Londra, come sappiamo, ha detto no.

Se dovessi riassumere la mia perplessità in due parole, direi: che peccato. È il sentimento di qualcuno che frequenta la Gran Bretagna dal 1972, quando Eastbourne e Brighton sembravano uscire da un romanzo di Graham Greene; e da allora, anche grazie all'ingresso nella Comunità Europea (1973), l'ha vista diventare gradualmente più aperta, più brillante e sicura di sé. Conosco troppo bene gli inglesi per sottovalutarli: so che sono capaci di reinventarsi, sorprendersi e sorprenderci. Ecco perché spero che ci ripensino. A questo punto, mi auguro che indìcano davvero un referendum sull'Europa. Non solo sulla prossima unione di bilancio - che paradossalmente, grazie a loro, nascerà più in fretta - ma sull'appartenenza stessa all'Unione. Perché è ora di uscire dal grande equivoco: dentro o fuori. Neppure Andy Capp, dopo tre pinte di bitter, sceglierebbe di correre seduto sulla sponda del bob.

Se il «grande divorzio», di cui parla la stampa britannica più accorta, dovesse consumarsi, sarebbe - ripeto - un peccato. Non soltanto perché i divorzi acrimoniosi sono più frequenti dei divorzi sereni; ma perché ognuno ci perderebbe qualcosa.
Londra, con buona pace di Parigi e Berlino, è davvero la capitale d'Europa. La città più vitale, soffice, profonda, semplice, aperta, matta e mescolata di questa frangia occidentale della massa euroasiatica. L'Inghilterra è - linguisticamente, democraticamente, culturalmente, artisticamente, giornalisticamente, finanziariamente (prego notare l'ordine degli avverbi) - il nostro periscopio sul mondo. L'insularità è, ormai, soltanto uno stereotipo e un dato geografico. Il Regno Unito infatti non si è mai isolato, se non in periodi particolari della storia, come le guerre napoleoniche o l'ultimo dopoguerra. Per il resto, a diffondere il mito della «separatezza britannica» hanno pensato film e libri, le barzellette e gli stessi inglesi, orgogliosi di veder confermata la propria diversità anche quando non c'era, oppure rientrava nelle normali differenze tra le nazioni che rendono l'Europa più affascinante del Midwest americano.

Gli inglesi non sono extraeuropei. Sono ultraeuropei: amano guardare fuori. Soffrono di claustrofobia. Evelyn Waugh scrisse che i connazionali «si erano mezzi ammazzati, e qualche volta si erano ammazzati del tutto, pur di lasciare l'Inghilterra». La diffidenza verso l'Europa non è, quindi, paura di qualcosa di troppo largo, ma timore di qualcosa di troppo stretto (Bruxelles, le regole non scelte). Uno statista - e David Cameron deve ancora dimostrare di esserlo - ha il dovere di spiegare che l'unione (minuscolo) fa la forza; e quando si sceglie di stare in gruppo, sapendo di poter ottenere molto, bisogna rinunciare a qualcosa. Il giovane Primo Ministro deve guidare il paese, non seguire gli istinti di una maggioranza relativa e temporanea. Potrebbe scoprire - magari nel referendum oggi tanto temuto - che i connazionali sono più lungimiranti di quanto immagina.

Dimenticate i little Englanders, i «piccoli inglesi» terrorizzati dalle novità. Sembrano tanti perché alzano la voce, ma sono convinto che, alla prova dei fatti, costituiscano una minoranza: qualche aristocratico minore di campagna, una fetta della piccola borghesia coi suoi giornali, tanti bravi pensionati innamorati delle proprie siepi. Tutti gli altri, come scrive Will Hutton in The State We're In, sanno di essere ben attrezzati per il mercato globale. La capitale (Londra), i capitali (della City), gli aeroporti, i mestieri (dal soldato al consulente), la cultura, la musica, lo sport e la lingua sono già internazionali.

Ho usato di proposito, finora, il termine «inglesi»: scozzesi e gallesi, oltre a essere meno numerosi, la pensano diversamente. Anche molti inglesi - soprattutto tra le nuove generazioni abituate ai viaggi e agli scambi - capiscono che l'Europa è, oggi, una necessità e un'opportunità. Anche un rischio, certo. Ma si rischia di più pensando di diventare la versione locale di New York o di Hong Kong. Perché dietro New York c'è l'America, dietro Hong Kong c'è la Cina. Dietro Londra c'è il Surrey. Oppure l'Europa. Tempo di scegliere dove voltarsi.

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Beppe Severgnini

11 dicembre 2011 | 12:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 18, 2011, 05:54:58 pm »

La genesi dell'intervista con Vaclav Havel per «Il Giornale di Montanelli» nel 1990

Quell'incontro con un galantuomo nel suo castello da presidente

Il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale

Ho conosciuto Vaclav Havel quand’era dissidente, alla fine degli anni Ottanta. Andare a trovarlo nell’appartamento lungo la Moldava – dove riceveva volentieri i giornalisti occidentali – poteva significare guai. Per «il Giornale» di Montanelli, da Praga, ho seguito tutta la «rivoluzione di velluto» del 1989, forse la più elegante ed entusiasmante tra quelle che hanno deposto il comunismo nell’Europa centro-orientale. Vaclav Havel se ne ricordava, e una volta salito al Castello come Presidente, da galantuomo, ha mantenuto la promessa di concedermi un’intervista. La prima in Italia, credo. Questa non è la riproduzione di quell’intervista (pubblicata il 10 maggio 1990), ma la genesi – davvero bizzarra – di quell’incontro. Spero dia il sapore dei tempi, del luogo e di un uomo davvero speciale.

Beppe Severgnini, 18.12.2011

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Praga, maggio 1990 – Fino a qualche tempo fa l'Europa orientale era un luogo tranquillo e triste, dove gli italiani andavano a cercare il socialismo e le ragazze. Non scoprivano mai il primo, ma trovavano quasi sempre le seconde. Ora è una fiera, un teatro dove va in scena un lungo dopoguerra. Difficile raccapezzarsi: gli ex-agenti segreti fanno gli steward sugli aerei, i comunisti fanno i socialdemocratici, i socialdemocratici fanno i liberali e i liberali fanno confusione. È un mondo caotico, dove tutti sono stati promossi, o rimossi, o sono in attesa di una promozione, o sono in ansia per una rimozione. I dissidenti sono diventati ministri: a Varsavia, un anno fa, l'ex-carcerato Jacek Kuron chiedeva una bottiglia di Johnny Walker per un'intervista; oggi è ministro del lavoro, e forse avrà cambiato marca. I ministri sono diventati dissidenti: a Budapest Imre Pozsgay, stella spenta socialista, è all'opposizione, praticamente solo. A Bucarest, nella chiesa italiana sul bulevard Balcescu - finalmente aperta: il conducator Ceausescu permetteva soltanto due funzioni all'anno, Pasqua e Natale - padre Molinari celebra la messa con una bellissima sedicenne romena al fianco, vestita come una novizia: riccioli biondi che sbucano dal copricapo, occhi azzurri e guance appena arrossate. Al termine tutti corrono a complimentarsi. «Cara, sei stata deliziosa - sussurra una signora italiana in visita - Sarai una meravigliosa piccola suora». La ragazza con i riccioli biondi spalanca gli occhi: «Ma io non voglio fare la suora. Io voglio fare l'attrice.» A Praga - tra tutte le città dell'est, la più educata - non si capisce molto di più, e non si fatica molto di meno. Cercare i protagonisti della rivoluzione di novembre è più che un lavoro. Più che un dovere. Più che una necessità professionale. È diventato uno sport.

Fino a sei mesi fa i dissidenti (giornalisti senza giornali, attori senza scritture e professori senza cattedre) erano a disposizione: qualcuno implorava un'intervista, qualcun altro si accontentava di una copia di Newsweek. In novembre, durante la rivoluzione, tutti ridevano in compagnia, bevendo birra chiara al caffè Slavia. In gennaio gli stessi dissidenti, diventati ministri e parlamentari, rispondevano ancora al telefono, ma le voci erano diventate improvvisamente fredde. In marzo hanno smesso di rispondere al telefono. Al loro posto parlava una moglie, una segretaria, un'amica: «Il ministro non c'è. Si rivolga all' ufficio stampa del ministero». Inutile dire «Guardi che io il ministro lo conosco. Guardi che quand'era dissidente gli portavamo tutti le sigarette». La voce a quel punto si fa annoiata, come se tutti quelli che telefonano dicessero la stessa cosa, come se tutti, un giorno, avessero portato sigarette al ministro: «Mi spiace. Si rivolga all'ufficio stampa.»

Hanno ragione i ministri di oggi, dissidenti di ieri. I giornalisti sono troppi, vogliono troppe interviste, fanno troppe domande. Abbiamo ragione anche noi però, che in dicembre incontravamo il signor Václav Klaus nel guardaroba di un teatro, e ce ne andavamo con un indirizzo scritto su un foglietto fotocopiato e ritagliato. Václav Klaus è diventato ministro delle finanze, l'uomo che dovrebbe portare il paese nell'economia di mercato: ora avrà un vero biglietto da visita, ma prima era più simpatico. La difficoltà ad orientarmi in un mondo capovolto mi ha spinto verso la nuova sede del «Forum dei cittadini» in piazza Jungamannovo, con il vecchio taccuino in mano. Adesso qualcuno si siede qui, ho gridato, e mi dice che fine hanno fatto tutti gli amici, tutta la gente che regalava il numero di telefono, tutti quelli che al caffè Slavia bevevano in compagnia.

Un funzionario si è commosso. Gentilmente, ha preso un lungo foglio uscito dalla stampante di un computer. «Prenda nota. Jiri Dienstbier, giornalista, ex bruciatorista: ora è ministro degli esteri, e questo lei lo sa. Eda Kriseova, scrittrice, autrice di «La clavicola del pipistrello»: consigliere personale del presidente. Vera Cáslavská, ginnasta olimpica: consigliere del presidente; Michal Kocab, cantante rock - sì quello che girava con gli occhiali neri e il giubbotto di cuoio. Anche lui è consigliere del presidente, e capogruppo del «Forum Civico» in Parlamento. Rita Klimova, quella che traduceva dal ceko all'inglese seduta di fianco a Havel: ambasciatore a Washington. Serve altro?». Senza più conoscenze - o meglio: le conoscenze ci sono ancora, ma sono rinchiuse nei loro uffici, difese dalle loro segretarie - sembrava impossibile arrivare fino a Václav Havel. Pur avendo il suo numero di telefono. Pur essendo stati a casa sua.

Da quando è presidente, vive braccato da giornalisti, diplomatici, politici e questuanti; tutti, rigorosamente, con il suo numero di telefono. Ma nella fiera dell'est c'è sempre una sorpresa in agguato. La mia si chiamava – pensate un po’ - Milan. Niente a che fare con il calcio. Il signor Milan Matous, che viaggia impettito verso i settanta, fuggì dalla Cecoslovacchia nel 1948 perché non voleva vivere agli ordini del comunista Gottwald. Era un atleta (nazionale di hockey su ghiaccio e componente della squadra di coppa Davis), aveva sposato un'atleta e ha una figlia atleta (Elena Matous, campionessa di sci), la quale ha sposato un altro atleta: Fausto Radici, sciatore non boemo, ma bergamasco. Negli anni Cinquanta Matous allenò la nazionale italiana di hockey su ghiaccio. Oggi vive in montagna, a Cortina d'Ampezzo, dove ha fatto amicizia con Giorgio Soavi. Questo - lo ammetto - avrebbe dovuto mettermi in allarme. Quando è tornato in patria dopo quarantadue anni - orgoglioso, con il suo vecchio passaporto - il signor Matous voleva rendersi utile. Utile con tutta la passione, il trasporto e l'irragionevolezza di un boemo che ha deciso di rendersi utile. Utilissimo, insomma. Ci siamo conosciuti per caso.

Matous aveva saputo che volevo incontrare Václav Havel, e ha detto: «Ci penso io». Ho spiegato allora che ottenere un'intervista era complicato. Milan Matous ha ascoltato, poi ha comunicato la sua decisione: sarebbe salito al castello e avrebbe convinto il presidente. Ho ringraziato, ho ripetuto che sarebbe stata una passeggiata inutile. Milan Matous ha sorriso. Il sorriso paziente di chi vive sulle Dolomiti, e sente dire a un milanese che qualcosa è impossibile. Penso che si ricorderanno per un pezzo di Milan Matous a Hradcany, dimora dei re di Boemia, residenza dei presidenti. Dopo essere arrivato fino alla segreteria di Havel, aver abbracciato la ginnasta Vera Cáslavská, aver salutato le guardie del corpo e le dattilografe, Matous ha spiegato a tutti che Havel era un uomo morale, e aveva perciò il dovere morale di concedere un'intervista al «Giornale» di Montanelli, che aveva sempre parlato bene di lui, e male dei comunisti.

Poiché gli ardimentosi sono anche fortunati, Havel è uscito in corridoio. Milan Matous è partito all'attacco: «Presidente, sul muro della sua camera, quand'era bambino, c'erano dipinti alberelli e coniglietti. » Václav Havel, che è abituato a sentirsi dire di tutto, ma non che è cresciuto tra alberelli e coniglietti, si è fermato di colpo: «È vero. Ma lei come lo sa?» «Perché li ha dipinti mia moglie, che era buona amica di sua madre», ha spiegato Matous con la logica rigorosa di chi vive sulle Dolomiti. «E adesso - ha aggiunto con un gran sorriso - lei deve dare un'intervista al Giornale, che su di lei ha scritto tante belle cose». Poiché gli Havel sono estrosi almeno quanto i Matous, l'intervista è stata concessa, e l'abbiamo pubblicata. Oggi volevamo soltanto ringraziare l'amico di Soavi, e i coniglietti del presidente.

Beppe Severgnini

18 dicembre 2011 | 14:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/11_dicembre_18/severgnini-havel_66d3f71c-2978-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 20, 2011, 06:38:22 pm »

PIÙ FIDUCIA NELLE NOSTRE RISORSE

La trappola del pessimismo

L’Italia non cambierà se non lo vogliamo. Se non ci convinciamo di essere attori. Ora un nuovo patto nazionale

Se l’Europa avanza per spaventi, l’Italia procede per ansie e furori. Stavolta appaiono più gravi e giustificati del solito. La recessione potrebbe trasformarsi in una nuova, grande depressione, uno spettro evocato da Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. E accadrà, se accettiamo che la delusione diventi rassegnazione.

L’ultimo furore collettivo risale all’inizio degli anni Novanta: le indagini di Mani Pulite rivelarono meccanismi nauseanti, destinati a finanziare i partiti e non solo. Noi italiani mostrammo in molti modi la voglia di cambiare: il tifo calcistico per i magistrati, i referendum di Mario Segni, l’appoggio alla Lega nascente, l’entusiasmo per Forza Italia. È andata male. Tutto quello che abbiamo saputo creare è una Seconda Repubblica velleitaria e costosa, oggi defunta e non rimpianta.

L’incolpevole pontiere verso il mondo nuovo, allora, fu Carlo Azeglio Ciampi. Oggi—alla guida di un’Italia confusa ma non (ancora) rassegnata — ci sono Mario Monti e Giorgio Napolitano. Ma, oggi come allora, il mondo nuovo non dipende da loro. Dipende da noi. I pontieri costruiscono i ponti, ma sono i popoli che devono attraversarli.

Il primo passo è un’ammissione: siamo reduci da anni di pigrizia e illusioni. Silvio Berlusconi è stato il prestigiatore più solerte, ma non l’unico. Il pubblico gli ha chiesto—tre volte — di presentare il numero. Un modo per assistere, applaudire o fischiare (dipende): senza prendersi responsabilità.

Ora quello spettacolo è finito: non ce lo potevamo più permettere. Non l’abbiamo capito da soli, hanno dovuto gridarcelo da lontano. Mario Monti ha fatto più in un mese che i predecessori in diciassette anni; il suo limite non è aver osato troppo, ma troppo poco sui costi della politica, le liberalizzazioni e la crescita. Ma neppure lui potrà avere successo, senza di noi. L’Italia non cambierà, se non vogliamo che cambi. Se non ci convinciamo di essere attori, non spettatori.

Se lo faremo, la ricompensa sarà rapida e robusta. Non è una leggenda auto-consolatoria: abbiamo davvero le risorse caratteriali per tirarci fuori da questa trincea, e batterci in un mondo difficile. La nostra capacità di invenzione e di reazione è indiscutibile. La nostra facilità di intuizione e adattamento è dimostrata quotidianamente da centinaia di migliaia di connazionali sparsi per il mondo. Perfino il reticolo sociale e familiare che ben conosciamo può aiutarci a costruire il futuro, dopo averci complicato il presente. Vorrei che presto, all’estero, scrivessero di noi: When the going gets tough, the Italians get going. Quando il gioco si fa duro, gli italiani cominciano a giocare.

Tutto questo però non serve — anzi, diventa un alibi — senza un nuovo patto nazionale. L’esistenza che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, se non cambiamo, non possiamo più permettercela. Se vogliamo l’istruzione, la sanità, le pensioni e la qualità di vita cui siamo abituati, dobbiamo lavorare meglio, lavorare più a lungo e smettere di ingannarci a vicenda.

Diciamolo: 235 miliardi di evasione annuale—otto volte la manovra appena votata—è una somma sconvolgente. Per coloro che non intendono sconvolgersi, aggiungiamo: insostenibile.

Un Paese dove ristoratori e gioiellieri dichiarano mediamente 38 e 44 euro di entrate al giorno; dove chiedere la fattura a un artigiano è un atto di eroismo fiscale (e dove fare l’artigiano insidiato da norme folli e pagamenti incerti è un eroismo professionale); dove un terzo delle famiglie controllate si finge povera per ottenere sconti e benefici; dove solo 9.870 persone dichiarano spontaneamente più di 200.000 euro l’anno — be’, un Paese così non può andare avanti. Ne occorre un altro.

Un Paese dove tutti paghiamo (meno) imposte; dove vengano assicurati pagamenti veloci e giustizia rapida; dove siano chiuse le falle che rischiano di affondare le nave (dalle municipalizzate a certe aziende sanitarie); dove la politica, se non riesce a dare il buon esempio, almeno eviti di provocare disgusto. Un Paese così non è impossibile, ed è alla nostra portata. Basta rispettarci e incoraggiarci a vicenda, invece di compatirci e deprimerci.

Siamo su un piano inclinato: o si sale o si scende. Voi, dove volete andare?

Beppe Severgnini

20 dicembre 2011 | 7:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_20/severgnini-trappola-pessimismo_7606956e-2ad1-11e1-b7ec-2e901a360d49.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 21, 2011, 06:11:41 pm »

Social network - Meglio un piccolo scivolone ortografico che perdere la genuinità

Perché gli errori su Twitter fanno parte del gioco

Dall'apostrofo di Saviano all'accento di Gerry Scotti

«Khadz Kamalov, un giornalista coraggioso, è stato ucciso. 70 giornalisti russi uccisi in Russia. Qual'è il peso specifico della libertà di parola?»

Mi è piaciuto il tweet newyorkese di Roberto Saviano (77.657 followers). Per la sostanza, ovviamente; ma anche per quell'apostrofo di troppo («Qual è...»). Poi l'ha corretto, ma non deve vergognarsi: anzi. Tutti sbagliamo, e su Twitter non esistono correttori automatici (per fortuna). Non solo: quell'apostrofo è la prova che RS, i tweet, se li scrive da solo. E quando non è così, vengono firmati «staff». Un compromesso accettabile, anche se Twitter dovrebbe restare il luogo del confronto diretto. Senza filtro, come le vecchie sigarette: e non fa male.Giorni fa, sulla questione, mi è capitato di polemizzare garbatamente con Stefano Gabbana (181.054 fw). Non per il profluvio di bacini Xxxx, faccine ;-))) e abuso di sostanze vocaliche (Graaaaaazieeeee! Ciaoooooo!). La mia perplessità veniva da un tweet in cui SG se la prendeva col fisco («Ladri!!!!!!»): commento poi scomparso. «Io non ho cancellato nulla - ha spiegato Gabbana - ma l'ufficio stampa mi aiuta nella gestione del profilo». Eh, no!, gli ho scritto: così non vale.

Non è purismo. È l'essenza del mezzo che non consente intermediazioni - a mio modesto e discutibile parere, almeno. Sabato - per controllare - ho scritto (twittato, se preferite): «Due no-no su TW. (1) Farselo curare dall'ufficio-stampa (2) Usarlo come un ufficio-stampa».

Le risposte arrivate non lasciano dubbi. Il più veloce, micidiale, icastico, sorprendente e ascendente tra i social network non sopporta né una cosa né l'altra. Gli uffici-stampa hanno già molti mezzi a disposizione: dai comunicati alla tivù, dalle email a Facebook. Lascino in pace Twitter e chi lo frequenta. Se la posizione - il ruolo in un'organizzazione, per esempio - impedisce di esprimere opinioni personali, benissimo: non le si esprima. Twitter non è un obbligo o una prescrizione medica, se ne può fare a meno.

In quanto alla Regola#2: non è vietato segnalare il proprio lavoro, ogni tanto. È naturale che uno scrittore annunci il suo libro, un attore parli del suo film e un uomo politico racconti le sue iniziative. Ma tutt'e tre devono ricordare che Twitter vuole - anzi, pretende - un valore aggiunto. Se scrivo: «È appena uscito il mio libro dal titolo: "Il solito romanzo noioso"», devo aspettarmi reazioni stizzite. Se invece il tweet è: «È appena uscito il mio libro, mia moglie l'ha gettato via e ha sfiorato il gatto», allora la faccenda diventa interessante (non per il felino, d'accordo).

Twitter è un esercizio nuovo e antichissimo: Callimaco, Marziale, Poliziano, Voltaire, Achille Campanile, Ennio Flaiano, Leo Longanesi e Indro Montanelli (coi «Controcorrente») se la sarebbero cavata benone. Bravi come loro, in giro, non ce ne sono più. Ma esistono molte persone brillanti con il passo breve e la battuta secca.

Prendiamo Beppe Grillo (272.117 fw), una delle twittstar italiane. I suoi tweet non sono quasi mai commenti, ma rimandi al sito http://www.beppegrillo.it. È dunque probabile che non sia il mio beppomonimo a occuparsi di TW. Ed è un peccato, perché Grillo conosce internet, e il commento fulminante non gli manca di sicuro.

Simona Ventura (71.803 fw) ha invece l'entusiasmo dei neofiti: tendo a escludere che voglia lasciare il divertimento a un ufficio-stampa. Si presenta con una foto scattata da distanze siderali dove dimostra ventidue anni, ma l'impressione - ripeto - è che si metta in gioco. A costo di cadere in qualche ingenuità. Prendiamo questo tw del 19 dicembre: «Ciao my followers... sono al concerto di Natale dei miei ragazzi... ho registrato tutto su my sky». Cosa non va? L'espressione «Ciao my followers...». È televisiva, buona per telespettatori. Chi ti segue su TW - dieci persone o centomila - va trattato diversamente.

Gerry Scotti (102.417 fw) sembra più smaliziato. «Nipote di contadino, figlio di operaio» si presenta. E poi si lancia in una sorta di micro-diario interattivo, che in fondo resta una delle funzioni di Twitter (non l'unica). Ogni tanto la fretta e la tastiera gli giocano qualche scherzo. «Vabbè, vi perdono tutti! L'avete fatto per me, lo sò» (con l'accento). Il mio preferito resta: «@Curandera83 @isabellamanzari il tuo è puro qualunquismo. Io ho segnalato un tweed di una persona che lavora per chi vuole. Se lavora». Col freddo, il tweet diventa tweed: normale!

Passiamo alla politica. Tra i più attivi c'è Nichi Vendola: viene seguito da 129.224 persone, ne segue 31.164 (il che vuol dire non seguire nessuno). Usa un ufficio-stampa? Be', venerdì 16 dicembre ha scritto 51 tweet, non tutti indimenticabili («Sul terreno delle garanzie non dobbiamo dare nulla per acquisito. Senza inseguire la destra, magari per attenuare o limitarne i danni»). Solo cinque sono marcati «a cura dello staff di @sinistraelib». Nichi V. quel giorno si è occupato, tra le altre cose, di Palestina, Stati Uniti d'Europa, piazza Tahrir, Merkel-Sarkozy, Asl di Lecce, manifestazione di Firenze, energie rinnovabili, Monti, mappamondi, condizione carceraria della stagione berlusconiana. Domanda: se non usa un ufficio-stampa, come trova il tempo di mangiare e dormire?

Chiudiamo col ministro degli esteri Giulio Terzi (13.131 fw). È stato, se non sbaglio, il primo rappresentante dal governo-badante - ops, del governo Monti - a buttarsi nella twittermischia. Non sempre autore di tweet rivoluzionari («Intendo riprendere la tradizione dell'apertura al pubblico della collezione d'arte del Ministero»), sembra però rispettare la Regola #1 (niente uffici-stampa). Anche perché scrive: «Non sono un fake...» (un falso, ndr ) e «Per me non è una moda, ritengo importante il contatto diretto con i cittadini». Il neo-ministro ha anche un vantaggio non da poco: è l'unico che può assicurare «Scritto da Terzi» e subito dopo, senza contraddirsi, aggiungere: «Lo seguo personalmente».
Pensandoci: questo è un tweet niente male. E non me l'ha scritto l'ufficio-stampa.

Beppe Severgnini

21 dicembre 2011 | 16:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_dicembre_21/errori-twitter-fanno-parte-del-gioco-severgnini_775dcfd6-2b9e-11e1-92c6-0bc88599d431.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 18, 2012, 10:13:29 pm »

IL CASO DE FALCO - SCHETTINO

Se la normalità diventa eroismo

Molti stranieri ci osservano e non capiscono

di BEPPE SEVERGNINI

Come moltissimi italiani, ho ascoltato con attenzione i quattro minuti di conversazione tra il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, e Gregorio Maria De Falco, comandante dalla Capitaneria di Porto a Livorno. Mi è sembrato il colloquio concitato tra un uomo di mare spaventato e inadeguato e un altro uomo di mare, competente e consapevole. Scopro perciò con stupore che De Falco è il nuovo eroe della rete (cercate su Twitter #defalco). Sono certo che l’interessato sarà altrettanto sorpreso. Come altri quella notte - sulla nave e a terra - ha fatto tutto ciò che poteva in circostanze drammatiche. Lo stesso, purtroppo, non si può dire del comandante Schettino e di altri ufficiali di bordo. Se la normalità è diventata eroica, in Italia siamo nei guai.

Ma non è così - non ancora. Milioni di connazionali - spesso per pochi soldi - fanno il proprio dovere: da nord a sud, di giorno e di notte, in terra nell’aria e per mare. Forse lo abbiamo dimenticato, se l’evidenza di questa serietà diventa fonte di stupore. O forse abbiamo bisogno di applaudire i competenti, come antidoto ai troppi superficiali. La rete, in questi giorni, pullula di antropologia spicciola e considerazioni sconsiderate. C’è chi scrive «ma quando la smetteremo di lasciare il comando ai napoletani?» (dimenticando la lunghissima e gloriosa tradizione marinara della regione); e chi, con troppa fretta e semplicismo, ha trasformato i due uomini in personaggi conradiani, rappresentazione del coraggio e dell’ignavia, della forza e della debolezza, del bene e del male. Molti stranieri ci osservano e non capiscono. Aspettatevi che dicano, nei prossimi giorni, quello che scrive Margherita Masotti (twitter/mstmgh) da Grosseto: «Chapeau a #defalco, ma è possibile che la tragica mancanza di professionalità di alcuni renda speciali le persone normali?» 122 caratteri, e c’è tutto il necessario.

17 gennaio 2012 | 18:29

da - http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_17/severgnini-normalita-eroica-defalco-schettino_9c487ef2-4126-11e1-b71c-2a80ccba9858.shtml
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 15, 2012, 04:50:37 pm »

È il futuro che viene: vedrete, avrà fiato (prefazione a 'Tutto questo futuro' di Ivano Fossati, Rizzoli)

Beppe SEVERGNINI

Nessuno mi aveva mai fatto notare che “le ragazze di Milano hanno passo di pianura”. Però è vero: hanno passo di pianura, ed è bello da guardare. Nessuno mi aveva detto che il mare, quando compare improvvisamente dietro una curva, è emozionante. “Fin da Pavia si sente il mare”: un lombardo lo sa bene, ma non ci pensa.

Sapete tutti che Ivano F. è un poeta, abbastanza onesto da saperlo e abbastanza saggio da dimenticarlo. Forse non avete mai riflettuto su un altro fatto: l’uomo è un musicista-paesaggista. Un pittore/fotografo capace di consegnarci il senso di un luogo con dieci parole e poche note.

Me ne sono accorto la prima volta che ho sentito “Panama”, molti anni fa. “Di andare ai cocktail con la pistola non ne posso più...” non è solo un buon attacco: è lo sfogo di un tipo umano che l’Italia continua a esportare, capace di mescolare incoscienza e avventura, egoismo ed esotismo, pressapochismo e buon cuore. “Della francese che si sente sola non ne posso più. Piña colada o coca-cola non ne posso più...”. Alle francesi, oggi, si sono aggiunte spagnole, tedesche e americane; e la piña colada è stata sostituita da caipirinha e vodka lemon. Per il resto, è cambiato poco: le città del mondo sono piene di questi italiani che navigano a vista, e ogni tanto sbattono.

Un’emigrazione tutta diversa è quella di “Last Minute”. Ci vuole talento per scrivere una canzone emozionante sugli Italians, sui viaggiatori per professione, sulle partenze obbligate - solo in apparenza comode - di una generazione cui non sappiamo dare, in Italia, il lavoro per cui s’è preparata. “Alle frontiere che passo non mi sento sicuro/nel cuore d’Europa le cose non stanno così” è un riassunto della nuova familiarità che ci regalano Schengen, l’euro e i cellulari in roaming. “Bevo con gli sconosciuti ogni sera / io qui in capo al mondo” . Quanti ne ho visti, di connazionali così, negli alberghi dell’Asia o d’America. Quante volte io stesso ho pensato “...mi manchi negli aeroporti illuminati la notte”. Poi ho chiuso la borsa, ho spento l’iPod e sono andato all’imbarco.

Meno fortunati, dopo un imbarco molto diverso, sono i protagonisti di “Pane e coraggio”, la canzone delle nuove rotte mediterranee. I migranti capiscono in fretta d’essere rimasti vittime di un miraggio (“L'Italia sembrava uno sogno, steso per lungo ad asciugare”); scoprono che “pane e coraggio ci vogliono ancora”; spiegano alle figlie “gli sguardi che dovranno sopportare”. Noi italiani dovremmo saperle bene, queste cose, visto che per un secolo lo stesso destino è toccato a noi (“Italiani d’Argentina”): però ce ne dimentichiamo.

Ma Fossati non è soltanto il fotografo musicale della distanza: sa ritrarre anche paesaggi più vicini. A chi non è capitato, una notte in Italia, di pensare che questo nostro Paese merita di meglio? “La fortuna di vivere adesso/questo tempo sbandato”: sarà solo musica leggera, caro Ivano, ma queste parole ci hanno consolato tante volte, su un treno dopo una giornata inutilmente faticosa, nel buio di un’autostrada. Quando rivediamo nei telegiornali le solite facce fameliche pensiamo che no, non possiamo accettare che la nazione sia questa. L’Italia è uno splendido palcoscenico in attesa di una rappresentazione degna. Quando inizierà - non manca molto - sappiamo a chi affidare la colonna sonora.

È il futuro che viene: vedrete, avrà fiato.

da - http://www.beppesevergnini.com/articoli.php
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