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Autore Discussione: Beppe SEVERGNINI. -  (Letto 77552 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Agosto 14, 2014, 05:51:36 pm »

«Capitano, mio capitano» Quell’attimo fuggente che commuove
Il professore Keating, un maestro di vita.
Perché ci rattrista la scomparsa dell’attore

di Beppe Severgnini

Vi siete mai chiesti perché il finale di L’attimo fuggente, ogni volta, ci commuove? Ricordate? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!».

Perché quella scena, invece di apparire enfatica, è così potente e universale? La ricordano in Asia, la citano in America, la riproduciamo in Europa nei convegni aziendali: l’amministratore delegato vorrebbe ispirare come il professor Keating, e rischia d’irritare come il pedante sostituto in cattedra.

La risposta è semplice. Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di un maestro. Sempre, dovunque, a ogni età. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’incoraggiamento.

«Maestro» era l’appellativo di Gesù Cristo nei Vangeli. L’omaggio dei contemporanei ai grandi del Rinascimento. Oggi il vocabolo non se la passa bene. Banalizzato a scuola - dove qualche folle pensa sia meno prestigioso di «docente» - e inflazionato nella vita quotidiana. Quando non possiamo vezzeggiare il prossimo con un titolo di studio, o adularlo con qualche carica altisonante (vicepresidente! egregio direttore!), ricorriamo a «maestro». Pittori di provincia, poeti dilettanti, cattedratici sgonfi, allenatori in pensione: un inchino verbale non si nega a nessuno.

Non è un titolo ambito, maestro. Pochi sembrano interessati a conseguirlo. «C’è una grande gioia a incoraggiare il talento» diceva John Travolta, accademico sovrappeso e alcolizzato in una canzone per Bobby Long ; e cambiava la vita della ragazzina bionda e confusa che seminava dubbi e mutande per la casa (Scarlett Johansson). Quanti professori universitari, oggi, hanno voglia di diventare maestri? Ordinari, certo. Maestri, chissà. Quanti datori di lavoro pensano di dover dare, invece di continuare a chiedere; e insegnare, invece di limitarsi a giudicare? Quanti imprenditori e professionisti passano competenze e opportunità alle nuove generazioni, invece di considerarsi l’inizio e la fine di ogni cosa?

Essere un maestro è un impegno: un’auto-certificazione di generosità. Esiste uno speciale egoismo contemporaneo che ha preso forme accattivanti. Qualcuno lo chiama individualismo; altri, realismo. Molti teorizzano la necessità di viziarsi, di salvaguardarsi, di pensare a sé. «Fatevi le coccole» è una delle più fastidiose espressioni pubblicitarie degli ultimi anni: le coccole si fanno ai bambini e a chi si ama, non a se stessi. Esiste l’onanismo del cuore, e non è bello da vedere.

I maestri, di cui Robin Williams fornisce una poderosa interpretazione, non fanno coccole: offrono aiuto e suggerimenti e ispirazione. Segnalano svolte e insegnano prospettive. Indicano una via e la illuminano: può essere una scala verso il cielo, se uno crede all’aldilà o ai Led Zeppelin; o un passaggio sicuro nel bosco delle decisioni difficili. I maestri - quelli veri - non chiedono niente di cambio. Non sono life coaches. La ricompensa è l’onore di trasmettere qualcosa, il piacere di aiutare chi viene dopo. Piacere gratuito; quindi, impopolare.

Ci sono rischi, ovviamente. La domanda di maestri ha creato un’offerta vasta, varia e insidiosa. La parodia del carisma può ingannare chi cerca e ha fretta di trovare. Psicologi e filosofi trasformati in santoni; leader politici impegnati nella costruzione del monumento personale; spericolati improvvisatori new age; sacerdoti che posano da guru; gruppi e sette che dispensano dal pensare e, nel calore del gruppo, addormentano le coscienze. Non salite sul banco, davanti a questi personaggi, come gli studenti del professor Keating; nascondetevi sotto, e tappatevi le orecchie.

Gli attimi fuggono, i gesti rimangono. Ecco perché il mondo s’è commosso, come non si vedeva da tempo in occasione della scomparsa di un attore. Non è solo la strabiliante abilità di Robin Williams che ci mancherà; non è tanto la sua strepitosa galleria di personaggi. Ci mancherà qualcuno che ci ricordi con passione, a colori, con poesia quanto abbiamo bisogno di maestri.

Capitano, mio capitano! tu lo insegnavi: qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo.

Beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/spettacoli/14_agosto_13/capitano-mio-capitano-quell-attimo-fuggente-che-commuove-0d6f3e48-22ae-11e4-9eb4-50fb62fb3913.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Agosto 21, 2014, 06:49:08 pm »

Alla ricerca della fiducia

Di Beppe Severgnini

Ferragosto è una festività romana, cristiana, italiana. Il riposo di Augusto (feriae Augustii) è diventato, per tradizione, quello di tutti noi. Un riposo che dovrebbe essere sereno. Quest’anno la meteorologia, l’economia e le armi l’hanno reso, invece, ansioso. Ansia comprensibile: basta che non diventi rassegnazione.

Matteo Renzi, al governo da sei mesi, appare preoccupato. L’insistenza con cui chiede ottimismo inizia a somigliare a quella dei predecessori. Alcuni scatti denotano nervosismo. Non ne ha motivo. Non si cambia l’Italia in sei mesi (né l’economia, né l’umore). Occorre procedere per gradi: spiegando, semplificando, rassicurando. L’ottimismo a comando non esiste.

Ha ragione, il giovane presidente del Consiglio, a ricordare che non siamo soli a faticare. Ieri è stato diffuso il dato della crescita del Pil per l’eurozona: solo 0,7% su base annua. Fa altrettanto bene, Renzi, a ricordare che siamo un grande Paese - la terza economia del continente, la seconda industria dopo la Germania - e abbiamo motivi d’essere orgogliosi. Fa meno bene a derubricare la preoccupazione come rassegnazione, e a liquidare i critici come «gufi».

Sono frasi buone per Twitter o per la campagna elettorale. Ma col primo non si governa, e la seconda appare esclusa (proprio da lui). Forse il premier dovrebbe limitare gli obiettivi e, già che c’è, le dichiarazioni, le celebrazioni e le inaugurazioni, che costringono a essere enfatici e un po’ generici. Qualcuno l’ha fatto notare: se quel paragone tra la ripresa e l’estate l’avesse tirato fuori Silvio Berlusconi («Non è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo, ma arriva») sarebbe stato deriso.

Matteo Renzi è determinato. Ha costretto il Senato elettivo ad abolire se stesso, ed è come convincere i pesci rossi a togliere il tappo dell’acquario: non facile. Perché non anticipa, come suggerito sul Corriere da Ferrera, Giavazzi e Alesina, la riforma sul lavoro? Introducendo un contratto a tutele crescenti dimostrerebbe al mondo che facciamo sul serio. Le preoccupazioni, nelle istituzioni internazionali e sui mercati, ci sono: è infantile nasconderselo. Mario Draghi ha chiesto «un segnale importante a settembre»? Bene: noi mandiamolo prima.

Gli italiani che oggi si riuniscono a pranzo vogliono essere ottimisti. Il nostro vocabolario del disagio è ridotto, rispetto a quello di inglesi, tedeschi o francesi (niente gloom , nessuna Angst , poco malaise ). Siamo una nazione reattiva. Siamo stati troppo poveri per sentirci depressi. Abbiamo resilienza, fantasia e coraggio. Ma non possiamo accettare che chi sta al governo dica va tutto bene! e chi sta all’opposizione risponda va tutto male! (salvo scambiarsi i ruoli alla prima occasione).

Non è giusto costringere gli italiani a scegliere tra trionfalismo e disfattismo. Molti di noi sono pronti a investire, a provare, ad assumere: ma occorrono norme e garanzie, non polemiche e promesse. La fiducia non si pretende, si conquista. Matteo Renzi deve capirlo.

Ferragosto è un ottimo momento per ripartire. Tre splendidi racconti di Cesare Pavese sono riuniti sotto il titolo La bella estate. Siamo ancora in tempo. Con qualche dichiarazione in meno e un po’ di concretezza in più, potrebbe diventare la stagione della riscossa.

15 agosto 2014 | 09:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_15/alla-ricerca-fiducia-305d750a-2443-11e4-a121-b5affdf40fda.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:11:33 pm »

I video e la Rete
La decapitazione: i mostri dell’orrore e la scelta di non essere complici
Mostrare o non mostrare il filmato dell’esecuzione di James Foley?
I limiti della condivisione, il diritto alla libertà e il gioco dei terroristi

Di BEPPE SEVERGNINI

La decapitazione di James Foley, recitata come la scena di un film, è sconvolgente: attori goffi, orrore vero. Un giornalista quarantenne, insaccato in una veste arancione, scannato nel deserto da un uomo - definizione che non merita - bardato di nero. Gesto mostruoso e preistorico; strumenti sofisticati e nuovi. Colori, luce, inquadratura, movimenti, tempi: tutto appare studiato per essere visto e diffuso. Se così fosse - e così è, quasi certamente - perché aiutare i carnefici? Gli abbiamo già fornito la tecnologia. Vogliamo diventare i loro portavoce? Questa è la domanda che si pongono molti in queste ore: i governi occidentali, i macchinisti della rete (Google per YouTube, Twitter), le grandi testate, le televisioni, chiunque abbia un collegamento internet veloce. #ISISMediaBlackout è diventato virale.

La dichiarazione recita così: «Quando terroristi o criminali di guerra disperatamente pubblicizzano i loro crimini, non aiutateli. Quando i social media, giornalisti e osservatori condividono immagini macabre per riportare i fatti, svolgono lavoro di PR per costoro. Descrivete i loro crimini, non pubblicate la loro propaganda».

Molti hanno aderito, altri hanno protestato: in nome della libertà. Libertà assoluta di sapere, di vedere, di esprimersi, di decidere. Chi ha ragione?
«Che i terroristi di Isis, da tempo abili nell’uso dei social network, possano contare su piattaforme gratuite per rilanciare i loro tremendi messaggi, e lo facciano sfruttando il passaparola degli utenti, è una distorsione terribile», scrive Marta Serafini sul blog «6 Gradi» di Corriere.it. E aggiunge: «Certo si lascia ad aziende e società commerciali una responsabilità enorme». E’ così, ma è inevitabile: strumenti nuovi, fenomeni nuovi, decisioni nuove. Scappare non serve: la realtà è più veloce di noi, e ci costringe ogni volta a scegliere.

Alcune testate di lingua inglese (New York Times , Wall Street Journal , Financial Times ) hanno messo la notizia della decapitazione in basso, carattere piccolo, con foto d’archivio? Sembra un eccesso di zelo, e una curiosa scelta giornalistica. YouTube e Twitter hanno rimosso il filmato dell’esecuzione? E prima che ciò accadesse diversi media - tra cui il Corriere della Sera - hanno evitato di pubblicarlo? E’ giusto. Non perché lo ha chiesto la Casa Bianca. E’ giusto perché diffondere quel video è l’obiettivo dei carnefici: ostacolarli è un dovere. Le foto del massacro nella scuola di Beslan (2004)? Le immagini dei resti delle vittime dell’aereo abbattuto sull’Ucraina il 18 luglio? Sconvolgenti: ma servivano a raccontare due follie, e a evitarne altre.

I libertari assoluti non ci stanno: bisogna guardare/ascoltare/leggere tutto per poter decidere! Rimuovere quel video? Una censura. Domanda: condividiamo forse filmati pedopornografici prima di condannare la violenza sessuale sui bambini? Saremmo contenti se le immagini strazianti di un nostro familiare venissero date in pasto alla morbosità del mondo? Perché di questo si tratta, parliamoci chiaro. Assuefatti al sangue e alla violenza cinematografica - che l’America vezzeggia e vende senza scrupoli, non dimentichiamolo - vogliamo di più: sangue e coltello veri, non succo di pomodoro e lame di gomma. Anni fa a Los Angeles ho conosciuto Judeah Pearl, uomo dolce e mente finissima (studioso della causalità, ha vinto nel 2012 il Turing Prize, il Nobel dell’informatica). E’ il padre di Daniel, il giornalista americano decapitato in Pakistan nel 2002 da al-Qaeda. Chiediamo a lui se è nobile e utile, in nome della libertà d’espressione, scambiarsi il filmato dell’esecuzione di James Foley.

Leggo tra i commenti su Corriere.it: «Mostrare, assolutamente mostrare anzi da far vedere in TV in fascia protetta, che tutti vedano cosa vuol dire decapitare un uomo usando un coltello, che sentano le urla, il rumore gorgogliante dei fiotti di sangue che zampillano, e lo sguardo lucido e soddisfatto del carnefice che tiene per le mani la testa sgocciolante e che soprattutto si rendano conto di quanto tempo ci vuole e di quanto sia lungo l’orrore, e poi vediamo quanti simpatizzanti restano».

Resterebbero e aumenterebbero, vorrei dire al lettore. Tra di noi, infatti, non ci sono solo Di Battista inadeguati e presuntuosi («Quando non hai mezzi per combattere una guerra regolare, resta solo il terrorismo»). Ci sono persone che, davanti a problemi complessi, s’accontentano di risposte semplici e orrende (il mondo è ingiusto? Un genocidio lo purificherà!). Perché, noi che impediamo la propaganda nazista, dovremmo tollerare - anzi, sostenere - quella dell’estremismo islamico?

«L’orrore, l’orrore!», evocato dal protagonista di «Cuore di tenebra», aleggia sempre sul mondo: sta agli uomini liberi portare, faticosamente, la luce. Decidendo cosa fare e cosa non fare; cosa dire e cosa non dire; cosa ascoltare e cosa non ascoltare; anche cosa guardare e cosa non guardare. Papa Francesco ha ragione. E’ in corso «una terza guerra mondiale a puntate», e non è finita. Ma la vinceremo, anche questa volta.

21 agosto 2014 | 07:37
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_21/decapitazione-mostri-dell-orrore-scelta-non-essere-complici-58dd4d7a-28f3-11e4-8091-161094bc7e0e.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Settembre 13, 2014, 06:27:45 pm »

Il merito delle scoperte è solo degli esploratori

Al seminario Ambrosetti di Cernobbio, lontano dalla logorrea di Roberto Casaleggio e dai fantasmi di Matteo Renzi, sedeva una coppia di Los Angeles. Sembrava uscire dal film “The Social Network”. Lei si chiama Nanxi Liu, e ha co-fondato Enplug Inc., una società che ha creato una rete di grandi schermi pubblici interattivi (per aeroporti, stazioni, impianti sportivi). Lui è Daniel Rudyak e ha fondato Cortex Composites. Ha brevettato un nuovo cemento leggero che si vende a rulli, come un tappeto, e s’indurisce quand’è idratato. Hanno decine di milioni di dollari di fatturato e quarantasei anni: in due.

Daniel racconta che l’idea del cemento portatile gli è venuta nel traffico, bloccato per due ore dietro una betoniera (se non è vera, è ben trovata). Nanxi spiega, con candore impressionante, come si butta  a conoscere persone che le sembrano importanti. Le avvicina in pubblico, si presenta. “Si comincia con un chiacchierata ” dice con un sorriso radioso “poi finiscono a investire nella società”.

Nanxi spiega che ogni business, in qualche modo, copia altri business, ma non è un problema. Non c’è neppure bisogno di diventare perfetti: basta essere il 10% migliori dei concorrenti. Daniel ricorda tutti i “no” che ha raccolto prima di trovare investitori (“Non è un problema, basta continuare a chiamare”) e afferma: “I brevetti servono solo a guadagnare un po’ di tempo”. Li ascoltavamo. Si può conoscere il gusto del futuro dell’America, ma fa impressione vederlo stampato in due occhi asiatici e in un sorriso esteuropeo.

La buona notizia è: quei ragazzi non sono più soli. Sul palco, di fianco a Nanxi e Daniel, c’erano un inglese e tre italiani. Il veneto Francesco Nazari Fusetti, classe 1987, fondatore di Charity Stars (aiuta le organizzazioni no-profit a raccogliere fondi attraverso aste di beneficienza, trattenendo il 15%). Il triestino Beniamino Pagliaro, anche lui 27 anni, che con cinque coetanei ha creato Good Morning Italia, la migliore rassegna-stampa in circolazione (da poco a pagamento, con successo). Il bresciano Davide Dattoli, inventore di Talent Garden: luoghi di lavoro condivisi in diverse città d’Italia (“un ecosistema dove menti brillanti e creative possano aiutarsi e competere allo stesso tempo, svilupparsi e diventare grandi”).

Casi isolati? Non più. Questa giovane imprenditoria, fantasiosa e ammirevole, sta sfondando. Non grazie a leggi lungimiranti, a investitori intelligenti, a coraggiose associazioni industriali. I maestri dei nuovissimi imprenditori sono altri: internet e disperazione. Uno e l’altra mettono idee in testa e ali ai piedi. Invece di elemosinare un lavoro che non c’è, ragionano molti ragazzi, tanto vale rischiare.

Ce la faranno? Sono convinto di sì. Una generazione così non si vedeva dagli anni Sessanta: fame e freni, oggi come allora, fanno miracoli. Se dovesse andar bene, vedrete: affamatori e frenatori – in politica, nell’amministrazione, nelle organizzazioni di categoria – proveranno a prendersi il merito. Ma noi non gli crederemo, stavolta. Il merito delle scoperte è solo degli esploratori.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/09/11/27951/
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« Risposta #94 inserito:: Settembre 24, 2014, 06:25:16 pm »

Lentezza FALSO MITO
Tutto va veloce (come i treni)

Di Beppe Severgnini

Nel 2015, con il Frecciarossa 1000, si andrà da Milano a Roma in 2 ore e 20. Bene. Perché la velocità non è solo fretta e non è sempre frenesia. E la lentezza, in Italia, è spesso un alibi per la pigrizia. a pagina39 Nel 2015 arriverà il Frecciarossa 1000, e andremo da Milano a Roma in 2 ore e 20 minuti. Qualcuno dirà che non è necessario, e si lancerà nel consueto «elogio della lentezza». Vada a ripeterlo ai passeggeri del Regionale 29075 Udine-Trieste (via Cormons): 1 ora e 22 minuti per percorrere 82 km, ma ieri avevamo venti minuti di ritardo.

La velocità non è solo fretta e non è sempre frenesia. È una condizione per vivere, lavorare e produrre nel XXI secolo. Non una condizione esclusiva: si può leggere un lungo romanzo su un treno che corre. La lentezza, in Italia, è spesso un alibi per la pigrizia. Non possiamo permettercela. Internet sta imprimendo l’accelerazione provocata, cent’anni fa, dal telegrafo senza fili, dalla radio e dagli aerei. Nessuno scriverà un nuovo Manifesto del Futurismo, nessuno vuole «uccidere il chiaro di luna». Ma qualche vecchia abitudine forse sì.
La banda larga mobile, l’alta velocità ferroviaria e alcuni strumenti diagnostici sono esempi quotidiani di rapidità: domandate a chi li utilizza se intende rinunciarvi. Se è contento d’aspettare cinque minuti per caricare un sito internet. Se vuol tornare a impiegare dieci ore per andare da Milano a Roma.

Se l’Italia si trova dov’è, e non dove dovrebbe essere, è anche per la mancanza di velocità. I bradipi nazionali sono ubiqui e astuti. Nel lavoro, nei trasporti, nelle procedure e nelle autorizzazioni: troppe cose sono rallentate. È inutile riempirsi la bocca con le opportunità per i giovani, se un ragazzo che lavora viene pagato dopo mesi (senza spiegazioni: dipende dell’umore della contabilità aziendale). Ci sono attività che richiedono lentezza: sesso e cibo, per dirne due. Slow Food , perciò, va bene. Slow Trains , Slow Reforms , Slow Jobs ? Possiamo farne a meno.

24 settembre 2014 | 08:49
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« Risposta #95 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:36:47 pm »

L’epitaffio dello scontrino ai tempi del bancomat
Considerato inefficace, il Parlamento studia il suo abbandono.
Il pagamento elettronico saprà però creare un nuovo rapporto tra fisco e cittadini?

Di Beppe Severgnini

Prima di scrivere un epitaffio è sempre bene attendere il decesso: e lo scontrino ha la pelle dura. Ma nel «rapporto sulla realizzazione delle strategie di contrasto all’evasione fiscale», presentato in Parlamento in questi giorni, la prognosi è chiara. «In prospettiva, gli sviluppi sul fronte della tracciabilità potranno comportare l’abbandono di alcuni strumenti risultati inefficaci (come i misuratori fiscali e le ricevute fiscali), con minori oneri per le imprese ed il progressivo abbandono di controlli massivi sul territorio da parte dell’Amministrazione finanziaria». In italiano corrente vuol dire: un giorno (imprecisato) faremo a meno dello scontrino. Sempre più persone pagano con Bancomat e carta di credito, anche nella versione «senza contatto» («contacless», in milanese moderno): per effettuare un acquisto, basta avvicinare la carta all’apposito lettore. «Pos» è ormai un’espressione di uso corrente. Quasi nessuno sa che significa «Point Of Sale», punto di vendita. Ma tutti si rendono conto di due cose: non è gratis per gli esercenti (da €25 a €180 l’anno, più il costo delle singole transazioni); e rende superfluo lo scontrino. Non lo rimpiangeremo. Lo scontrino è il simbolo leggero della sfiducia profonda: del fisco nei confronti di commercianti, ristoratori e clienti; di commercianti, ristoratori e clienti nei confronti del fisco; di clienti, ristoratori e commercianti tra loro. Intorno allo scontrino, o all’assenza del medesimo, si è sviluppata negli anni un’abbondante letteratura. Ai giornali arrivano continue segnalazioni in proposito: ogni località turistica sembra aver elaborato variazioni sul tema. Una delle più popolari è consegnare un «pre-conto». Identico, nell’aspetto e nella ritualità, al conto vero e proprio; ma fiscalmente nullo. Una piccola, spettacolare ipocrisia. L’equivalente moderno del conto scarabocchiato sulla tovaglia di carta. L’idiosincrasia nazionale verso scontrini e affini ha raggiunto vette comiche sublimi. Nel film «Qualunquemente», opera iperrealista di Antonio Albanese, il tenente Cavallaro, al termine di un pranzo di famiglia, chiede la ricevuta fiscale: i clienti del ristorante, gli anziani nel vicino caffè, i bagnanti sulla spiaggia ammutoliscono. Ricevuta fiscale?! Cetto La Qualunque deve reggersi forte, prima di convincere la cassiera incredula a estrarre l’apposito blocchetto, e soffiar via la polvere depositatasi negli anni. Sarebbe bello se l’abitudine al pagamento elettronico portasse nuovi rapporti tra fisco e cittadini: ma non è detto. Lo scontrino, in questi anni economicamente burrascosi, non viene odiato solo perché costituisce una forma di controllo, in Italia storicamente e antropologicamente inviso. Viene odiato anche perché ci ricorda tutto quello che non va nel Paese: l’astuzia inutile, il sospetto metodico, la slealtà come abitudine. Certo, si potrebbe ricominciare, in una società senza furbastri e senza scontrini: pagare meno, pagare tutti. Ma questo, ci rendiamo conto, è un sogno. Come ottenere spontaneamente uno scontrino in certi caffè all’aperto frequentati da stranieri.

3 ottobre 2014 | 11:15
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_03/epitaffio-scontrino-tempi-bancomat-526fb35a-4adc-11e4-9829-df2f785edc20.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:21:21 pm »

Quel milione di bambini nato da coppie Erasmus
È facile attaccare l’Ue, ma dobbiamo essere meno cinici di chi ci guida
Di Beppe Severgnini

Potremmo chiamarla, o chiamarlo, «The Million Euro Baby», se il titolo non fosse così cinematografico. La Commissione europea ha calcolato che un terzo degli studenti Erasmus ha conosciuto il partner durante l’esperienza all’estero. «Stimiamo che da queste coppie, a partire dal 1987, sia nato un milione di bambini», ha dichiarato Androulla Vassiliou, commissaria uscente per l’Istruzione, la Cultura e la Gioventù.

Secondo voi, quanti leader politici hanno commentato la notizia con orgoglio? Quanti hanno capito che altri programmi Ue producono norme europee, mercati europei, prodotti europei; mentre il programma di scambi universitari Erasmus, da ventotto anni, produce europei. Un sostantivo, senza aggettivi. E costa lo 0,7% della politica agricola comune.

«The Million Euro Baby». Nessun governante, nei 28 Paesi, ha ricordato il traguardo, che io sappia. Tanti, invece, sono impegnati a scaricare sull’Unione responsabilità e colpe: anche responsabilità nazionali, anche colpe che i governi dovrebbero assumersi. La Conferenza di alto livello sul lavoro, in programma oggi a Milano, offrirà probabilmente ulteriori, malinconici esempi di questa tendenza.

L’Europa è diventata il capro espiatorio delle inadempienze nazionali. È facilissimo attaccarla: non può difendersi. Un club non può farci niente, se i soci vanno in giro a parlarne male. Ma i soci del club europeo non sono soltanto i governanti, di ogni nazionalità e credo politico. Siamo tutti noi e dovremmo essere meno cinici di chi ci guida.

Certo è facile, per Matteo Renzi, ripetere «Non sarà l’Europa a dirci quello che dobbiamo fare!». Certo è utile, per David Cameron, rispondere: «Tengo mille volte più alla Gran Bretagna che all’Europa». Certo è comodo, per Manuel Valls, dire: «La Germania deve cambiare tono!» invece di metter mano alla mastodontica spesa pubblica francese (56% del Pil). Ma tutti e tre, e altri, dovrebbero chiedersi: cosa faremmo, senza il fiato dell’Europa sul collo?

La risposta, per l’Italia, è facile: eviteremmo la fatica del cambiamento e torneremmo a spendere come cicale. Un ex-presidente del Consiglio, privatamente, giorni fa lo ha ammesso: «Senza lo scudo delle norme di bilancio Ue, chi governa l’Italia non potrebbe resistere alla pressioni di sindacati, industriali, amministrazioni locali, interessi vari». Senza i vincoli europei - ricordiamolo - il debito pubblico italiano è schizzato dal 50% del Pil nel 1974 al 122% del 1994. Ora siamo al 132%. Non è poco: la Francia è al 92% e la Germania al 78%. Ma almeno, grazie ai guardiani di Bruxelles, non ci siamo finanziariamente suicidati.

È irritante aver bisogno di guardiani? Ovvio. Si può evitare? Certo, basta mostrare di poterne fare a meno. Se facessimo le riforme che promettiamo - lavoro, giustizia, fisco, scuola - il cielo economico sopra l’Italia schiarirebbe all’improvviso. Non dimentichiamo che 600 miliardi del nostro debito pubblico sono in mano a fondi stranieri. Se decidessero che parliamo tanto e facciamo poco - se concludessero che di noi non ci si può fidare - sarebbero guai seri. Chiedete a Silvio Berlusconi: ne sa qualcosa, il 2011 non è così distante.

Il deficit al 3% non è un dogma, si può modificare. E, come ha ricordato Pier Carlo Padoan aprendo il convegno anglo-italiano di Pontignano (Siena), «alcuni Paesi europei pensano di aver fatto tutto e non è così». La possente ed egocentrica Germania, convitato di pietra d’ogni incontro europeo, potrebbe usare l’enorme surplus commerciale, creare domanda, liberalizzare il mercato interno dei servizi. Questo, tuttavia, non autorizza i politici europei, di ogni colore e latitudine, a parlare con sarcasmo e disprezzo dell’Unione Europea. È una questione di rispetto e di lungimiranza.
L’Europa dobbiamo farla migliore: non disfarla.

8 ottobre 2014 | 14:34
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_08/quel-milione-bambini-nato-coppie-erasmus-1e05c204-4ee6-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Ottobre 13, 2014, 02:54:32 pm »

Genova, il grande esempio di tanti ragazzi
Di Beppe Severgnini

Le trecce bionde sporche di melma, le mani che impugnano pale e scope. La città più vecchia d’Italia appare, di colpo, ringiovanita. Fradici e instancabili, organizzati via Facebook e WhatsApp, i ragazzi di Genova sanno cosa fare; una vera protezione civile, senza maiuscole. Non offendiamoli con la nostra retorica. Non sono «angeli del fango», non sono eroi. Sono italiani. Hanno testa, cuore e braccia: e sanno farli funzionare insieme.

Sanno che qualcuno tenterà di usare la loro generosità colorata per coprire responsabilità politiche, incoscienza amministrativa, ritardi e inadempienze. Non gl’importa. Sono arrivati perché Genova ha bisogno d’aiuto. È un’occasione di riscatto e una dichiarazione pubblica. Non tutti sono rassegnati, in questo Paese.

I nuovi italiani sono, nella grande maggioranza, come loro. Vorrebbero rendersi utili, ma non riescono. Non riescono perché non gliene diamo la possibilità. Il torrente Bisagno, con la sua naturale ferocia, li ha mobilitati. Noi adulti, nel nostro insondabile egoismo, non siamo stati capaci. Non abbiamo neppure il coraggio che viene dalla necessità. Non riusciamo a dire ai nostri ragazzi che abbiamo bisogno di loro. Che, senza le idee e le energie di una nuova generazione, l’Italia è condannata.

L’età media, nel nostro Paese, è 44,5 anni. In Francia 40,9. Negli Usa 37,6. In Israele 29,9. Non sono molti, i ragazzi italiani. Almeno, teniamoli da conto. Aiutiamoli ad aiutarci.

Per farlo c’è un modo solo, e ha un nome: incoraggiamento. Incoraggiare un ragazzo vuol dire farlo lavorare: e pagarlo. Vuol dire fornirgli prospettive chiare e meccanismi funzionanti (oggi esistono 50 tipi di contratti di lavoro, e Garanzia Giovani non garantisce un bel niente, come ha spiegato Dario Di Vico sul Corriere di ieri). Vuol dire creare concorsi trasparenti e procedure semplici. Dalla sanità all’università, dal giornalismo all’industria, non accade.

Chiunque ha lavorato con persone più giovani ha capito che mescolare età e talenti è un investimento reciproco. Alcune combinazioni - esperienza ed entusiasmo, prudenza e incoscienza, cautela e spontaneità - permettono d’arrivare lontano. Basta partire.

Matteo Renzi scrive su Facebook: «Vedo i ragazzi che spalano il fango dalle strade e a loro va il mio grazie». Certo: grazie. Ma se non vuol restare soltanto una parola, quel ringraziamento deve diventare velocità, chiarezza, sincerità. E - ripetiamo - incoraggiamento. La sfiducia è più insidiosa del fango: non si vede. La rinuncia di una generazione è più pericolosa di un torrente: non si sente. Vedremo solo le conseguenze, ma sarà tardi.

@beppesevergnini
13 ottobre 2014 | 08:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_13/genova-grande-esempio-tanti-ragazzi-3a5f24fc-5299-11e4-8e37-1a517d63eb63.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:17:44 pm »

A piedi in città
La lezione dei nostri figli, che camminano più di noi Uno su 3 va a scuola senza usare mezzi di trasporto

Di Beppe Severgnini

Un terzo dei bambini e dei ragazzi fino a 13 anni va a scuola a piedi. Un terzo degli studenti fa lo stesso per raggiungere istituti superiori e università. Gli adulti che arrivano a piedi sul luogo di lavoro sono tre volte di meno. Solo l’11,5 per cento del totale. Nel dato diffuso dall’Istat in occasione della Giornata nazionale del camminare (oggi) è contenuta una lezione interessante. Questa: i nostri figli e nipoti sanno trarre insegnamenti utili da tempi grami.

Provate a pensare: perché un ragazzo sceglie di andare a scuola a piedi? Ha ragionato sulla riduzione dell’inquinamento e la qualità della vita nelle aree urbane? Possibile, ma non probabile. Se va a scuola a piedi è perché si fa più presto ed è più divertente: meglio chiacchierare con gli amici che sopportare un genitore nervoso imbottigliato nel traffico. Zaini pesanti? Si adotta il trolley. Logico, se ci pensate.

Quella logica di cui noi adulti, spesso, non siamo capaci. Molti miei coetanei non sanno camminare: se muovono i piedi, devono correre. Una splendida attività, sia chiaro, per cui è bene tuttavia consultare tendini, mogli e cardiologi. Camminare è un’azione antica come l’uomo. Quando si è alzato in piedi, nella notte dei tempi, non ha ballato la rumba o chiesto se qualcuno gli dava un passaggio. È andato da un posto all’altro. Se non è stato divorato, è pure tornato indietro.

I ragazzi camminano, e arriveranno lontano. La generazione nata alla fine del XX secolo sta recuperando abitudini antiche: andare a piedi è una di queste. Anche andare in bicicletta. Usare i mezzi pubblici. Non acquistare un’auto, condividerla («car sharing», in milanese moderno): da Enjoy a BlaBlaCar è tutto un fiorire d’iniziative. Tempi economicamente impegnativi e genitori psicologicamente fragili hanno compiuto il miracolo.

I ragazzi inventano attività nuove, grazie a Internet. E reinventano cose vecchie: lavorare insieme, iniziare un’impresa, camminare.

Non è un’apologia della decrescita felice: essere più poveri non è mai bello. È, invece, una constatazione ammirata. Gli italiani di domani usano anche le idee di ieri per affrontare le difficoltà di oggi. Chiamare «vintage» l’usato, per esempio, è geniale: una spolverata di modernità sul giubbotto dello zio. La parsimonia dei giovani clienti ha portato produttori e distributori a ragionare di più su quello che vendono. Alimentarsi con attenzione ha costretto l’industria a essere meno opaca (ai tempi dei social network gli errori si pagano, dall’amministratore delegato in giù).


Molti di questi comportamenti sono legati alla necessità. Ma non possiamo farcene un merito, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e Sessanta. Aver tollerato l’espansione di una generazione di precari - senza tutele, con pochi soldi, con scarse prospettive di impiego tradizionale - non è un motivo di merito. Resta un fatto: alcuni buoni comportamenti sono figli (illegittimi) delle nostre cattive decisioni.

I ragazzi sono avanti, anche quando sono indietro. Una generazione tanto poco teorica, e così pratica, non si vedeva in Italia da cinquant’anni. Come abbia fatto a crescere nelle nostre case - ideologicamente cariche, inutilmente dogmatiche - non si sa. Ma sta accadendo. E il grande aiuto che possiamo darle è: lasciamola fare. Lasciamola camminare da sola, e decidere dove vuole andare.

Per tornare da dove siamo partiti. Non accompagniamo i ragazzi a scuola in auto, se è possibile evitarlo. Non portiamo i figli all’università sul sellino dello scooterone. È un errore educativo e un azzardo stradale. Ma avete visto come guidano la moto, certi cinquantenni?
Twitter: @beppesevergnini

12 ottobre 2014 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_12/a-piedi-citta-bambini-camminano-piu-degli-adulti-beppe-severgnini-dati-istat-118f9924-51dd-11e4-b208-19bd12be98c1.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:26:52 pm »

Un sondaggio condotto in 14 Paesi ci assegna l’ingloriosa medaglia
Quell’indice dell’ignoranza primato senza gloria
La maggioranza crede che gli immigrati siano il 30%, mentre sono il 7%. La scarsa conoscenza della realtà è funzionale alla cattiva politica

Di Beppe Severgnini

Ho capito che qualcosa non andava domenica 12 ottobre, durante una lettura pubblica dei giornali organizzata al Museo Diocesano di Milano. Ho domandato ai presenti: «Quanti sono, secondo voi, gli immigrati in Italia?». Sguardi interrogativi, qualche sorriso imbarazzato. «Chi pensa rappresentino metà della popolazione, alzi la mano». Con mia grande sorpresa, diverse mani alzate. «Chi ritiene siano il 30%?». Altre mani alzate. «Chi crede, invece, che gli immigrati rappresentino il 15% degli abitanti?». Ancora mani alzate.
In realtà, gli immigrati in Italia costituiscono il 7% della popolazione.

Ad ascoltare la lettura dei giornali la domenica mattina, in un museo di Milano, vanno persone istruite e informate: eppure. Non è superficialità né sciatteria. Non dipende da scarsa dimestichezza con numeri e statistiche. Si tratta, invece, di una percezione sbagliata. Anzi, di una trasposizione: le preoccupazioni diventano realtà.

Non sono rimasto stupito, perciò, quando ho letto i risultati di un sondaggio Ipsos Mori, condotto in 14 Paesi. Titolo: The Ignorance Index. Questo «indice dell’ignoranza» vede noi italiani ingloriosamente primi. Meglio di noi Usa, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada, Belgio, Australia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Germania, Svezia (la nazione più informata).

Qualche esempio delle risposte in Italia? «Quanti sono i musulmani residenti?». Risposta: il 20% della popolazione! (In verità sono il 4%). «Quanti sono gli immigrati?» Risposta: 30% (in realtà 7%). «Quanti i disoccupati?» Risposta: 49% (in effetti 12%). «Quanti i cittadini con più di 65 anni?». Risposta: 48% (sono il 21%, e già assorbono una fetta sproporzionata della spesa sociale).

Sono dati allarmanti. Perché la discussione pubblica italiana parte di qui: da una somma di percezioni clamorosamente sbagliate. La politica - che pure dovrebbe conoscere la situazione - non si premura di ripetere i dati corretti. Usa la nostra ignoranza, invece. Ci costruisce sopra proposte, programmi, allarmi, proteste. Immaginate Matteo Salvini che, davanti una distesa di bandiere verdi, proclama: «Gli immigrati in Italia sono solo il 7%! I musulmani il 4%!». Calma, fratelli leghisti. Non lo farà mai. Le sue fortune politiche sono costruite sull’ansia. Tutto ciò che concorre ad aumentarla è benvenuto.



Non c’è solo la Lega, non c’è solo l’immigrazione e non c’è solo l’Italia, ovviamente. Prendiamo il numero delle gravidanze durante l’adolescenza. Gli americani pensano che il fenomeno interessi il 25% delle teenager: in pratica che un’adolescente su quattro, ogni anno, metta al mondo un figlio! Il dato corretto è 3% (allarmante, ma non catastrofico). Prendiamo gli omicidi. Il 49% della popolazione nei Paesi esaminati pensa siano in aumento, il 27% crede siano in diminuzione. In effetti gli omicidi sono in calo ovunque. Ma se gli elettori pensano il contrario, state certi: qualcuno incoraggerà queste paure e ci costruirà sopra un programma politico.

I media hanno responsabilità, ovviamente: se informiamo male, o non informiamo, la gente rischia di credere alla prima sciocchezza che sente. Ma non è solo colpa dei media. Spesso si tratta di quella che gli psicologi chiamano «ignoranza razionale»: si decide di non voler sapere. Pensate a certi quotidiani o a certi commentatori. Chi li legge/li ascolta/li guarda non vuol essere informato: chiede solo di essere confermato nei propri pregiudizi.

I pregiudizi, infatti, rassicurano: evitano il fastidio del dubbio. Le idee confuse consolano: permettono di lamentarsi senza protestare, di commiserarsi senza impegnarsi. «Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno», cantava Francesco Guccini. Ma in quella canzone, Incontro , si racconta di amanti sensibili e rassegnati, non di cittadini emotivi e disinformati. La fine di una coppia, non il declino di una nazione.

2 novembre 2014 | 10:58
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_02/quell-indice-dell-ignoranza-primato-senza-gloria-dde872cc-6275-11e4-9f8e-083eb8ae3651.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:33:00 am »

PR vuol dire Public Relations, non Piccoli Rottweiler

Qualche anno fa, pensando di scoraggiare gli scocciatori, avevo pubblicato un elenco di uffici stampa, centri studi, organizzazioni, ditte e sette che mi riempivano l’in-box di mail non richieste. Pessima idea. Gli scocciatori, infatti, non si scoraggiano. Si eccitano, invece, e si moltiplicano. L’indirizzo del Corriere, nonostante firewall, filtri e altre diavolerie, oggi è assalito da sciami di messaggi non autorizzati, non graditi e assolutamente inutili.

Questi messaggi si riconoscono perché: (1) Riguardano argomenti a noi totalmente estranei, a dimostrazione che hanno sparato nel mucchio (2) Iniziano tutti con “Gentilissima/o”, non seguito da nome e cognome (3) Sono pieni di allegati pesanti e colorati (4) Nel soggetto portano scritte maiuscole (URGENTE!) (5) Di solito arrivano due volte, come se il sadico mittente non s’accontentasse di scocciare: vuole proprio rompere.

Ho provato a reagire, qualche volta. Ho chiamato il numero indicato sul fondo (ci sono sempre numeri, email, siti, indirizzi postali, Facebook, Twitter, Pinterest: i molestatori non si nascondono, sembrano orgogliosi della propria crudeltà). Pessima idea. Mi risponde una voce stupita. “Be’, lei è nel nostro elenco”. “E come ci sono finito, di grazia, nell’elenco di www.pulcinimarziani.com?”. Risposta A: “Non so”. Risposta B “Noi compriamo elenchi, e lei stava dentro”. Risposta C (la migliore): “Ma come, non le interessa il pollame extraterrestre?”.

Voi direte: quante storie! Esiste il tasto cancella/delete. Vero: ma uno non vuole passare la giornata cestinando mail non richieste, rischiando di buttar via quelle importanti. E poi: infilarsi nella casella privata di una persona, senza autorizzazione, è una forma di prepotenza. Lo stesso vale per le telefonate promozionali che arrivano a casa: uno non sa se provar pena per chi è obbligato a farne, o per se stesso, costretto a riceverne (di solito mentre sta mangiando, dormendo, amando, o è in altro gerundio affaccendato).

Certo, sono prepotenze minuscole. Ma tante minuscole prepotenze, tutte in fila nella stessa inbox, fanno una prepotenza maiuscola. PR vuol dire Public Relations, non Piccoli Rottweiler: vi prego, abbiate pietà di noi. (dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/11/06/pr-vuol-dire-public-relations-non-piccoli-rottweiler/
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« Risposta #101 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:50:06 am »

LO STUDIO
Siamo più pessimisti, ci mancano i sogni
L’Italia in fondo alla classifica di 142 Paesi. Spagnoli e francesi temono meno il futuro

Di Beppe Severgnini

Era l’ultima certezza: nonostante tutto siamo un popolo resiliente e tenace, capace di reagire alle difficoltà! Il timore è che non sia più così. Forse stiamo perdendo anche l’ottimismo. Il rapporto Prosperity Index 2014, appena pubblicato dal Legatum Institute, ogni anno mette a confronto 142 Paesi. Nell’indice di prosperità siamo scesi al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013. L’Italia registra i picchi negativi alle domande «L’economia andrà meglio?» e «È un buon momento per trovare lavoro?»: siamo 134° su 142 Paesi. Siamo più pessimisti di spagnoli (132°), francesi (120°) e ucraini (107°). Uscendo dall’Europa, più di peruviani (36°) e thailandesi (quarti!). Le grandi masse cinesi e indiane (rispettivamente 54° e 67°) sono più ottimiste di noi.

Sorprendente? Non tanto. L’ottimismo delle nazioni non è legato ai numeri, ma alle prospettive. Non ai fatti, ma alle percezioni e alle aspettative. Gli umani sono esseri sognatori e misurano la felicità sul progresso. È un grande sabato del villaggio globale: e in Italia stiamo perdendo il gusto del dopo. Kazaki (30°) e uruguayani (43°) non stanno meglio di noi, oggettivamente; ma sono convinti che oggi sia meglio di ieri e domani sarà meglio di oggi. Queste cose contano, nella vita delle persone, delle famiglie e delle nazioni.

I più grandi masticatori di futuro vivono negli Usa. Non dipende solo dall’economia e dall’occupazione (248.000 nuovi posti di lavoro in settembre). Vecchi residenti o nuovi arrivati, gli americani sono convinti di poter condizionare il proprio futuro. Gli Stati Uniti sono una nazione fondata sul trasloco, nuove residenze e nuove conoscenze. Ogni presidenza è una catarsi; ogni elezione un inizio; ogni lavoro una sfida. Il fallimento, che in Italia è un marchio d’infamia, negli Usa vuol dire: almeno ci ho provato.

Non possiamo, né dobbiamo, scimmiottare l’America. Ma dobbiamo ammettere che il nostro realismo è diventato cinismo, e il cinismo ci sta conducendo al pessimismo. I continui, pessimi esempi pubblici - 5,7 miliardi l’anno il costo della corruzione, stimano Guardia di Finanza e Corte dei Conti - contribuiscono a questo umore. Altrove non accade. I Paesi che hanno una libertà di informazione simile alla nostra non hanno la nostra corruzione; e i Paesi che hanno la nostra corruzione non hanno la nostra libertà di informazione. Una consapevolezza scoraggiante, quella italiana.

L’economia e l’occupazione influiscono sull’umore collettivo; e l’umore collettivo, lentamente, diventa narrativa nazionale. Quali Paesi possiedono oggi la capacità di vedere se stessi come protagonisti di una storia che va avanti? Dell’America, abbiamo detto. Cina e India, in competizione tra loro e col resto del mondo, hanno una visione epica di questo momento storico.


In Europa è una tranquilla consapevolezza che accomuna Germania e Polonia, Irlanda e Regno Unito. Perfino la Russia ha un’idea di se stessa. Putin, in cerca di consenso, ha rispolverato i miti sovietici. In mancanza di meglio, molti connazionali gli hanno creduto.

L’Italia ha saputo raccontarsi negli anni Sessanta, quando l’economia tirava e le famiglie sognavano (sì, anche grazie a un’automobile o a un elettrodomestico). A metà degli anni Ottanta, quando ha intravisto il sorpasso dell’Inghilterra. Nei primi anni Novanta, quando ha provato a battersi contro il malaffare. Negli anni Duemila, quando la maggioranza ha creduto al «contratto con gli italiani» di Silvio Berlusconi. Tre illusioni e tre delusioni, seguite da questi anni di crisi economica.
Facciamo fatica a sognare ancora.

(ha collaborato Stefania Chiale)
@beppesevergnini
4 novembre 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_04/siamo-piu-pessimisti-ci-mancano-sogni-55020128-63ef-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Novembre 11, 2014, 05:47:48 pm »

Il merito delle scoperte è solo degli esploratori

Al seminario Ambrosetti di Cernobbio, lontano dalla logorrea di Roberto Casaleggio e dai fantasmi di Matteo Renzi, sedeva una coppia di Los Angeles. Sembrava uscire dal film “The Social Network”. Lei si chiama Nanxi Liu, e ha co-fondato Enplug Inc., una società che ha creato una rete di grandi schermi pubblici interattivi (per aeroporti, stazioni, impianti sportivi). Lui è Daniel Rudyak e ha fondato Cortex Composites. Ha brevettato un nuovo cemento leggero che si vende a rulli, come un tappeto, e s’indurisce quand’è idratato. Hanno decine di milioni di dollari di fatturato e quarantasei anni: in due.

Daniel racconta che l’idea del cemento portatile gli è venuta nel traffico, bloccato per due ore dietro una betoniera (se non è vera, è ben trovata). Nanxi spiega, con candore impressionante, come si butta a conoscere persone che le sembrano importanti. Le avvicina in pubblico, si presenta. “Si comincia con un chiacchierata” dice con un sorriso radioso “poi finiscono a investire nella società”.

Nanxi spiega che ogni business, in qualche modo, copia altri business, ma non è un problema. Non c’è neppure bisogno di diventare perfetti: basta essere il 10% migliori dei concorrenti. Daniel ricorda tutti i “no” che ha raccolto prima di trovare investitori (“Non è un problema, basta continuare a chiamare”) e afferma: “I brevetti servono solo a guadagnare un po’ di tempo”. Li ascoltavamo. Si può conoscere il gusto del futuro dell’America, ma fa impressione vederlo stampato in due occhi asiatici e in un sorriso esteuropeo.

La buona notizia è: quei ragazzi non sono più soli. Sul palco, di fianco a Nanxi e Daniel, c’erano un inglese e tre italiani. Il veneto Francesco Nazari Fusetti, classe 1987, fondatore di Charity Stars (aiuta le organizzazioni no-profit a raccogliere fondi attraverso aste di beneficienza, trattenendo il 15%). Il triestino Beniamino Pagliaro, anche lui 27 anni, che con cinque coetanei ha creato Good Morning Italia, la migliore rassegna-stampa in circolazione (da poco a pagamento, con successo). Il bresciano Davide Dattoli, inventore di Talent Garden: luoghi di lavoro condivisi in diverse città d’Italia (“un ecosistema dove menti brillanti e creative possano aiutarsi e competere allo stesso tempo, svilupparsi e diventare grandi”).

Casi isolati? Non più. Questa giovane imprenditoria, fantasiosa e ammirevole, sta sfondando. Non grazie a leggi lungimiranti, a investitori intelligenti, a coraggiose associazioni industriali. I maestri dei nuovissimi imprenditori sono altri: internet e disperazione. Uno e l’altra mettono idee in testa e ali ai piedi. Invece di elemosinare un lavoro che non c’è, ragionano molti ragazzi, tanto vale rischiare.

Ce la faranno? Sono convinto di sì. Una generazione così non si vedeva dagli anni Sessanta: fame e freni, oggi come allora, fanno miracoli. Se dovesse andar bene, vedrete: affamatori e frenatori – in politica, nell’amministrazione, nelle organizzazioni di categoria – proveranno a prendersi il merito. Ma noi non gli crederemo, stavolta. Il merito delle scoperte è solo degli esploratori.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/09/11/27951/
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« Risposta #103 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:57:37 pm »

Il garante europeo della privacy
«A rischio i nostri dati su Google»
Il magistrato Giovanni Buttarelli è il nuovo garante europeo della protezione dei dati personali: «Anche i colossi Usa dovranno adeguarsi alle nostre regole»

Di Beppe Severgnini

Ieri il Parlamento europeo e il Consiglio Ue hanno formalizzato la nomina di Giovanni Buttarelli come European data protection supervisor (Edps), garante europeo della protezione dei dati personali. Magistrato ordinario dal 1986, Buttarelli (classe 1957, nato a Frascati) è stato segretario generale dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali in Italia dal 1997 al 2009, e vice dell’Ufficio europeo dal 2009. È la sua prima intervista nel nuovo incarico. Risponde in collegamento Skype da Bruxelles.

Privacy. Lei lo pronuncia all’inglese (pri-va-cy) o all’americana (prai-va-cy)?
«Tutt’e due, a seconda della collocazione geografica del discorso».

C’è chi ha commentato la sua nomina come «un successo italiano». È corretto?
«Sì. Credo sia un’occasione da capitalizzare come sistema-Paese. L’Italia è sottorappresentata nelle istituzioni europee a livello amministrativo-burocratico. Questa è un’importante carica dal punto di vista gerarchico. Siamo un Paese fondatore dell’Ue. Possiamo e dobbiamo fare e contare di più nei processi decisionali».

«Il Garante europeo della protezione dei dati è un’istituzione sempre più importante, ma ancora da costruire a pieno. Ragione in più per scegliere un leader carismatico», ha detto Eva Joly, membro della commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo. Lei è un leader carismatico, dottor Buttarelli?
«I requisiti prevedevano la scelta di una persona capace di rappresentare la protezione dei dati ai più alti livelli internazionali. Mi auguro che la scelta abbia avuto successo. C’è una top ten list di esperti credibili nel mondo, ed è una lista abbastanza attendibile».

Molto bene. Ma non ha risposto alla domanda. Lei è un leader carismatico?
«Credo di avere attendibilità a livello internazionale per far passare questi principi su scala non solo europea. In questa materia non basta il politico affascinante che seduce, ci vuole un lavoro di lungo respiro. Sono qui dopo un investimento di oltre vent’anni».

Lei si chiede in un tweet, in inglese: «Big data (una raccolta di dati tanto grande e complessa da richiedere strumenti differenti da quelli tradizionali, ndr) è una sfida troppo grande per la protezione dei dati? La riforma Ue è abbastanza robusta/flessibile per affrontare la questione su scala mondiale?». Può rispondere a se stesso, se vuole.
«Sì, la riforma europea è la risposta alla rivoluzione Big data. Non è necessario ripensare i principi di tutela dei diritti, bensì applicarli in modo completo. Ci vuole una privacy digitale, dinamica, fresca, sburocratizzata e soprattutto attenta alle nuove tecnologie. Non possiamo pensare che ogni nuova tecnologia detti soluzioni nella forma “prendere o lasciare”. C’è anche una valutazione di sostenibilità, di accettabilità etica. Non possiamo avere diritti fondamentali low cost».

Una priorità?
«Nel post-mondo della sorveglianza globale, la riforma della privacy dev’essere assolutamente approvata entro il prossimo anno, in modo definitivo: è la mia priorità delle priorità. Applicheremo queste leggi nel mondo a chiunque offrirà beni e servizi a individui in Europa, o li profilerà. Anche se solo due dei venti big data player sono stabiliti nell’Unione. I dati sono il petrolio del futuro, il sangue vitale dei processi decisionali, ma possono essere anche un’arma nucleare».

Non rischiamo il «tecnopanico», come l’ha definito Jeff Jervis?
«Io non ho una “Googlefobia”. Spero che il dialogo transatlantico prosegua e il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership, Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ndr ) veda presto la luce: è il trattato dei trattati. Ma non a spese dei diritti fondamentali».

Lei è d’accordo nel separare il motore di ricerca dai servizi commerciali di Google?
«Non è una mia competenza. Diciamo però che abbiamo chiesto alle autorità che si occupano di antitrust di incorporare i principi di privacy nelle loro attività».

Il Corriere in estate ha intervistato Eric Schmidt, il numero uno di Google. Ci ha detto: «Google oggi è il posto più sicuro dove mettere i propri dati». È d’accordo?
«Sicuro per chi? Per chi li maneggia o per gli utenti? Se parlava degli utenti, non sono d’accordo. Credo che i nostri dati saranno sempre di più nelle nuvole, ma i nostri diritti devono stare con i piedi per terra. Non devono essere virtuali. C’è ancora poca trasparenza sull’uso delle informazioni personali, anche per giuste finalità di law enforcement ».

The Economist sostiene che dobbiamo farci un esame di coscienza: le iniziative contro Google non sono un modo per difendere l’arretratezza tecnologica europea?
«Un autorevolissimo esponente americano mi ha detto: “Per i prossimi 5-6 anni il dialogo sarà tra la Silicon Valley e Bruxelles. Bruxelles il centro di gravità delle regole, la California il centro delle tecnologie. Washington vedrà passare questi flussi del dialogo”. L’Europa ha l’obbligo, in base al nuovo trattato di Lisbona, di legiferare. Non è una facoltà o una scelta. E credo che Google come tutti gli altri grandi player abbia tutto l’interesse ad avere regole armonizzate. Oggi dialoga con 28 Paesi, domani avrà un solo interlocutore europeo».

La sua immagine dei flussi tra la California e Bruxelles è affascinante, ma a Washington, che sta nel mezzo, c’è gente abile nell’acchiappare le informazioni che passano. Dica la verità: quando ha letto dello scandalo Nsa/Datagate è rimasto sorpreso, almeno dalle dimensioni del fenomeno?
«Tutti i servizi del mondo che fanno attività di intelligence devono spiare. Come magistrato ritengo che, se lo fanno sobriamente, in un quadro di maggiore trasparenza, ne guadagnano loro stessi. L’appetito bulimico delle informazioni non giova. La trasparente sobrietà aiuta ad avere credibilità nei confronti del cittadino. C’è un accordo in definizione con gli Stati Uniti (Umbrella agreement). Mi auguro di collaborare alla sua conclusione entro il prossimo anno».

Diritto all’oblio. Che senso ha l’intervento della Corte di giustizia, se su Google.com tutto rimarrebbe invariato?
«Pochi giorni fa, 28 autorità nazionali e la nostra autorità europea hanno approvato un documento che dice chiaramente: questo “spezzatino” non ha cittadinanza nella normativa attuale. Non possiamo operare una distinzione in base al posto in cui una società mette i server o crea il suo quartier generale. Prodotto globale, tutela globale».

Google, Facebook e gli altri dovrebbero usare default setting che garantiscono la privacy, e lasciare agli utenti la possibilità di rinunciarvi (opt-in). Mentre, come sa, oggi avviene il contrario: uno è dentro e, se proprio vuole, esce (opt-out). Possiamo chiedere questo ai grandi operatori della Rete?
«Non dobbiamo “chiedere” a queste società di farlo. Questa è la regola europea. Che poi queste società sviluppino applicazioni contrarie a questi principi - sulle quali poi fanno sistematicamente marcia indietro - è un’altra cosa».

Lei ha un account Twitter, con soli 351 follower, il 351° sono io. L’ultimo suo tweet (in tutto sono 15) è del 21 maggio. Perché sta su Twitter, allora?
«Mi aspettavo la domanda e ho la risposta pronta. Doveroso self-restraint (auto limitazione ndr ) nel corso della lunga procedura di selezione. Ora twitterò di più, promesso. Mi sono anche preso la libertà di aprire un blog personale: spero di poterlo fare all’inizio dell’anno».

Il suo incarico viene definito dai media Data protection watchdog, letteralmente «cane da guardia della protezione dei dati». Lei è autorizzato a mordere o solo ad abbaiare?
«Questa piccola Autorità abbaierà di meno. Occuparsi di diritti fondamentali non significa essere fondamentalisti. Non siamo gli ayatollah della protezione dei dati, ma vogliamo svolgere un ruolo importante. Dobbiamo essere efficaci, però. Non solo mordere, ma esserci. Non si riduce a una questione di tutela dei diritti: stiamo parlando dell’assetto della società futura. Dobbiamo prevenire forme postmoderne di totalitarismo democratico».

(ha collaborato Stefania Chiale)
5 dicembre 2014 | 10:21
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Da - http://www.corriere.it/tecnologia/14_dicembre_05/garante-europeo-privacy-a-rischio-nostri-dati-google-af2fe34a-7c5e-11e4-813c-f943a4c58546.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:40:05 pm »

Standard & Poor’s? Siamo sempre meno Standard e sempre più Poor

Telefona l’ufficio-stampa di un’importante, innovativa azienda italiana, settore elettronica. “Carissimo! Stiamo lanciando una splendida iniziativa per i giovani e ci piacerebbe se tu riuscissi a darne notizia!”. Il collega, navigato, prende tempo: “Di che si tratta?”. Risposta: “Be’, è un concorso di idee per laureati. Chi ci propone la migliore soluzione, vincerà il diritto a uno stage presso di noi!”. Domanda il collega: “Pagato quanto?”. “Ah no, gratuito! Pagare gli stage non è nella nostra policy”. “Fatemi capire: un giovane laureato vi offre una buona idea, gratis. E per premiarlo lo fate lavorare gratuitamente?”. ”Non ci avevo pensato”, risponde l’ufficio-stampa un po’ deluso.

Non cito la società: finirei per farne un caso quando invece è una prassi comune. Poiché i ricavi diminuiscono e i costi aumentano (imposte, contributi, luce e gas, trasporti), molte imprese hanno trovato il modo di far quadrare i conti: non pagano i giovani. Manodopera qualificata e gratuita! Un sogno erotico aziendale. Un incubo per i nuovi arrivati, che non possono neppure protestare. Perché verrebbero subito sostituiti con altri volonterosi (o disperati, fate voi); e perché nessuno li ascolta. Non la destra, concentrata sui lavoratori autonomi. Non la sinistra, ansiosa per i lavoratori dipendenti. Non i sindacati, attenti a garantire garantiti e pensionati (i loro iscritti).

So che se n’è scritto molto. Una mia proposta semiseria di modifica costituzionale – “Art 1. L’Italia è una Repubblica fondata sullo stage” – è diventata uno slogan: come giornalista, potrei andarne orgoglioso; come italiano, sono nauseato. Non possiamo salvarci dal naufragio rubando il salvagente alle nuove generazioni. E’ una vigliaccheria. Eppure sta avvenendo. Incapaci di trovare nuove risorse, litighiamo su quelle rimaste. Quando due pensionati mi accusano di preoccuparmi del nipote ventenne e non di loro (è successo), capisco che siamo alla frutta.

Anzi, oltre. Sul treno per Roma, giorni fa, ho conosciuto Valeria, giovane ingegnere, che insieme alla mamma, più ansiosa di lei, andava a sostenere il concorso per uno stage al Catasto. Venticinquemila (25.000) concorrenti per centosettanta (170) posti. Un tirocinio che forse produrrà un posto di lavoro; o forse no. Altro che pagelle di Standard & Poor’s! Siamo sempre meno Standard e sempre più Poor. BBB: Bravi a Blaterare e Bisticciare. Ma poi?

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/12/11/standard-poors-siamo-sempre-meno-standard-e-sempre-piu-poor/
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