LA-U dell'OLIVO
Aprile 30, 2024, 10:57:18 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 [3] 4 5 ... 9
  Stampa  
Autore Discussione: Beppe SEVERGNINI. -  (Letto 69199 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #30 inserito:: Marzo 01, 2012, 11:08:41 pm »

Italians

Trappole (di vanità) per curriculum

Decalogo della buona nota biografica. Vale anche come confessione

Scrivere la propria autobiografia è difficile. Quasi sempre l'autore è troppo affezionato al protagonista.

Anche scrivere il curriculum, o fornire note biografiche, presenta alcune trappole.

Per esempio la vanità e la sintesi, spesso inversamente proporzionali.


Lucy Kellaway, sul Financial Times , ricorda che Reagan si presentava così: «Ronald Reagan è il presidente degli Stati Uniti». La collega offre poi alcuni consigli, tra cui questo: «Inserire nel curriculum anche eventuali difficoltà o fallimenti» (la classe dirigente italiana potrà mettere in campo grandi titoli). Sperando d'essere utile, propongo anch'io qualche suggerimento.

Più sei importante, meno hai bisogno di parole. Le biografie sono spesso un florilegio di titoli, cariche e opere che rivelano insicurezza. Qualunque essere umano, dopo i quarant'anni, è in grado di riempire una pagina.
Una nota biografica non è un romanzo, è un riassunto. Cinque righe informano, venti annoiano, trenta allarmano, cinquanta generano sospetto.

Ci sono premi che non si devono vincere. Se accade, è bene mantenere riservata la notizia. Ce ne sono altri, invece, che è bello ottenere. In questo caso, la modestia dovrebbe impedire di divulgarlo.
Indicare un'onorificenza vale un'ammissione: «Per me è importante!» (il sottoscritto, per esempio, ricorda sempre la presidenza onoraria dell'Inter Club Kabul).

Beneficenza e opere di carità sono parti intime: se non si vedono, è meglio.

Frasi come «Il dottor T. ha condotto al successo molte società italiane e straniere» sono pericolosamente vaghe. Di cosa si occupavano queste società? Pollame, podcast o politica internazionale? Dove operavano: negli Usa o nelle isole Tonga?
Evitare i superlativi e limitare gli aggettivi. «Mario B. ha ottenuto notevolissimi successi nel campo dell'informatica» lascia sospettare che sia riuscito, tutt'al più, ad aggiustare la Xbox del figlio.

Aggiornare periodicamente la fotografia. Ci sono colleghi che usano lo stesso ritratto scattato ai tempi del governo Craxi. Quando v'incontrano, dovete sentirvi dire «lei sembra più giovane di persona!» e non «scusi, ma noi avevamo invitato suo figlio».
«Appare regolarmente in tv»: più che un titolo di merito, è un segno di disperazione. «Già presidente...»: più che un'informazione, è un rimpianto. «Ex deputato...» invece va bene: basta indicare anche l'ammontare del vitalizio.
Concedere qualche informazione personale si può: ma senza esagerare. Il nome della moglie va bene. Quello di tutti gli animali domestici, no.

Dimenticavo: alcuni di questi peccati li ho commessi. Questo decalogo vale come confessione e penitenza. Se fra una e l'altra ci sta anche un'assoluzione, be', dovete deciderlo voi.

Beppe Severgnini1 marzo 2012 | 11:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_01/trappole-vanita-curriculum-severgnini_76d8aa14-6388-11e1-b5fe-fe1dee297a67.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #31 inserito:: Marzo 04, 2012, 04:46:35 pm »

Le PREVISIONI FATTE 15 ANNI FA DAL CANTAUTORE SCOMPARSO

«Io ho l'ambizione di non rimanere»

Lucio Dalla in un intervista del '97 su cosa sarebbe rimasto nel 21° secolo: Kafka e Senna sì, i Beatles (forse) no, Andreotti sì


CATANIA, primavera 1997 - Lucio Dalla, salendo sulle strade dell'Etna, conduce la vecchia Jaguar come i Malavoglia, residenti della vicina Aci Trezza, conducevano la loro barca, la Provvidenza: sbandate improvvise, colpi di timone, sguardo all'orizzonte. Guidano meglio i piloti delle sue canzoni (Nuvolari, Senna), ma non ho il coraggio di dirglielo. Lucio Dalla, oltrettutto, ha due attenuanti: guida di notte con gli occhiali da sole; e si e' guadagnato il mio rispetto. Per ore, in una traversa della via Etnea, ha riempito la «valigia del Duemila» messagli davanti dal Corriere . Non so se l'abbia fatto volentieri. Dalla e', per temperamento e per cultura, un impasto tra Eraclito, Hegel e un imprenditore New Age: lo spettacolo di cosa succede lo affascina; le esclusioni lo infastidiscono. Se fosse San Pietro e gli venisse affidata la direzione del traffico in occasione del giudizio universale, darebbe una mano a tutti. Se lavorasse a un casello autostradale, alzerebbe le sbarre, e andrebbe a pescare.

La conversazione si svolge su un dondolo, in un cortile stretto tra case alte. Di fronte a noi un muro rosa, chiazzato di umidità e insidiato dai rampicanti. La' dove un geometra vedrebbe alti costi di manutenzione, Lucio Dalla vede «un quadro di Burri». Lo scirocco non lo infastidisce; la luce che scompare, lo entusiasma: «Il mondo si mette a posto da solo, con l'arrivo della sera». Il che e' vero, soprattutto in Sicilia, ma rende piu' difficile un'intervista come questa, dove occorre essere piu' manichei che poeti, piu' giustizialisti che giusti, piu' intellettualmente vendicativi che umanamente comprensivi. Ma Dalla non ne vuole sapere.

Vestito alla Dalla (piedi nudi, calzoni corti, maglietta larga), con gli amici nella stanza accanto, con un disco (Canzoni) che ha venduto un milione e trecentomila copie e una tournee' imminente (partenza il 9 agosto dal porto di Marsala), Lucio Dalla guarda questo muro di Catania, e ha l'aria di essere in pace col mondo. Sto per rassegnarmi. Quando, d'improvviso, benvenuto come un refolo di vento fresco che non t'aspetti, un accenno polemico. «La gente non si rende conto che sta finendo il millennio», dice. «Ne parla, si'. Ma non se ne rende conto. Manca la componente ansiogena positiva. Peccato. Sara' come arrivare a Natale senza accorgersene. E diciamocelo: quel che conta e' la vigilia. Non c'e' niente di piu' noioso del giorno di Natale».

Ecco, ci siamo: un attacco alla religione? Nemmeno per sogno. Lucio Dalla sostiene che un personaggio che transitera' trionfalmente nel prossimo millennio e' Gesu' Cristo. «Si e' circondato di gente che contava talmente poco da non esistere nemmeno. Qualche poveraccio. Una ex-puttana. Un pescatore, che probabilmente gli puzzavano anche i piedi. Cristo ha saputo essere anacronistico, ha creato codici nuovi. Come lui, San Francesco: massmediologi assoluti, uomini che avevano capito tutto.» Lucio Dalla si ferma, si rannicchia sul dondolo, guarda ancora il muro di Catania, saluta gli amici di Cattolica, da' consigli al cantante di Fano (Armando Dolci), riverisce il signor Pippo, proprietario della sala d'incisione.

«Sopravviveranno alla fine della civilta' della parola - dice - quelli che hanno inventato qualcosa, invece di copiarlo: i tragici greci, Shakespeare. E quelli che, in tutte le epoche, hanno fiutato il cambiamento. In Italia, recentemente, Calvino e Pasolini. In centroeuropa, Kafka, Thomas Mann. Musil no: troppo classico. Robert Walser, quello della Passeggiata , si', invece. Il protagonista cammina e capisce che, dietro quell'apparente tranquillita', sta per saltare tutto in aria. Sapevi che quel libro mi ha ispirato L'anno che verrà? ». No, non sapevo che lo svizzero Walser avesse ispirato al bolognese Dalla L'anno che verrà. Sapevo, pero', che Lucio Dalla ha sempre masticato il futuro (Cosa sarà, Telefonami tra vent'anni, Futura ): ecco perche' sono qui. Annuisce.

«Futura l'ho scritta dopo una visita a Berlino. Credo fosse il 1979. Berlino ovest era tutta una luce, Berlino est tutta buia. Sono andato al Check-Point Charlie. Mi sono fermato a guardare. Poi e' arrivato un taxi. Dentro c'era Phil Collins dei Genesis, che erano in citta'. E' sceso, e si e' messo anche lui a guardare, senza dire niente. Non sono andato a parlargli, anche se mi sarebbe piaciuto. Perché non avrei sopportato che, in quel momento, qualcuno fosse venuto a parlare con me. Mentre lo tento con la valigia aperta - voglio nomi, voglio condanne impietose e promozioni rapide: sono o non sono un giornalista? - Lucio Dalla continua a rifinire il concetto di partenza, come uno scultore che non sa abbandonare la sua statua.

«Diciamo che mi piacciono le palle che rimbalzano da una parete all'altra. Mi piace la gente che e' aperta al cambiamento. Mi piacciono i siciliani e i napoletani. Mi piace Ruggiero IIº e mi piace Spielberg: e' furbo, attento e poetico. Mi piace Terminator 2 : resistera'. Rossellini e Fellini? Avranno qualche difficolta'. Chi capira' il termine "paparazzi", tra vent'anni? Ammiro invece Roberto Roversi: nel 1974 aveva gia' capito come sarebbe stato il "motore del 2000"». (A proposito di motori: promossi al terzo millennio sia Nuvolari che Senna, ma forse piu' Senna di Nuvolari). Sulla musica, Dalla ha qualche incertezza in piu': forse la frequenta troppo. Non e' disposto, pero', a giurare sulla longevita' del melodramma («Un po' fumettistico»), ne' in quella del blues («Un po' retorico»). Ha qualche dubbio su Elvis Presley e sui Beatles («L'altro giorno ho comprato un loro disco, e mi e' sembrato un po' ridicolo»), e ha molti dubbi sul marketing musicale del passato prossimo («Una follia.»).

Promuove invece Pavarotti (ma non vale, sono amici) e promuove Franco Battiato (sono amici e vicini di casa, ma vale lo stesso). Dalla lo considera un genio, e ama i suoi costumi da bagno ascellari, la sua competenza musicale, le sue passioni estemporanee. Ultimamente - dice l'amico affascinato - Battiato e' stato assiduo spettatore dei tornei di boccette nei bar di Catania). Scende la sera siciliana, e il bolognese Dalla si guarda intorno soddisfatto, mostrandomi dove stanno l'ibisco e il gelsomino: «Quando vado in un posto, io divento quel posto». Crudelmente, lo induco a parlare di politica. Anche in questo campo, Lucio Dalla non intende dire chi merita di rimanere, ma chi rimarrá. Promuove insieme persone che non ama, portatrici di idee che non condivide, e personaggi che apprezza e stima («Basta che siano testimoni del tempo»).

«Votavo comunista, e avevo fiducia in Berlinguer. Non sto dicendo che fosse perfetto: sto dicendo che mi fidavo. Ma come posso negare che Giulio Andreotti rimarrà? Ha lasciato un segno profondo nell'immaginario collettivo. Ohe', parliamo di uno che e' stato al governo per decenni e andava a ritirare un premio come il Telegatto. Dico: il Telegatto. E mentre era lì faceva lo spiritoso con Ruud Gullit.» Stessa magnanima apertura verso altri protagonisti della politica italiana. Silvio Berlusconi, per esempio, rappresenta un archetipo italiano e, comunque, «aveva tutto il diritto di entrare in politica». «E Antonio Di Pietro? Un tipico italiano del sud, protagonista e generoso. A me, Di Pietro sta benissimo. Lo stesso vale per Bossi e per Craxi. E se questi personaggi hanno provocato cambiamenti e turbamenti, tanto meglio: fanno parte dello straordinario del mondo. Non e' questione di buono o di cattivo: il fatto di esistere e', di per se', una prova di inevitabilita'. C'era anche bisogno della polvere da sparo, visto che qualcuno l'ha inventata».

E cosa dice Lucio Dalla, che ha sempre votato a sinistra, dei miti sempreverdi della sinistra? Che Guevara, per esempio, restera'? «Conosco bene il Sudamerica e posso garantire che non ci sono tracce della funzione rivoluzionaria del Che Guevara. E' solo una questione iconografica.» Poster nelle camere dei ragazzi? «Piu' o meno». Mettetevi nei miei panni: cosa si puo' dire a un uomo di sinistra che mette Berlusconi e non Che Guevara nella valigia del 2000? Niente. Lo si ascolta. «Mi piacciono i vulcani, e le schegge che vanno lontano. Mi piacere guardarli, i vulcani, come Plinio. Mi piacciono i personaggi che provocano catastrofi. Anch'io nel mio piccolo, ho cercato di provocare catastrofi. Mi hanno dato il premio Montale, ma poi ho fatto Attenti al lupo col balletto. Ricordo - quando giravo l'Italia con De Gregori e cantavo vecchie canzoni - la sensazione d'essere ormai materiale trascorso . Capivo che Dario Fo con il suo Mistero Buffo era piu' rock di me. Per esserci la volta dopo, bisogna sparire e rinascere. Ecco: io ho l'ambizione di non rimanere.» Questa e' una bugia, naturalmente. Ma ha l'aria di essere la prima, e gliela lasciamo dire.

Beppe Severgnini

3 marzo 2012 (modifica il 4 marzo 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/spettacoli/12_marzo_03/severgnini-intervista-a-dalla-1997_06d98e12-6578-11e1-8a59-8bc3a463cee3.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #32 inserito:: Aprile 07, 2012, 11:58:18 am »

Il Gioco dell'Oca

MILANO - Adesso dice che la «faccenda puzza» e la Lega è vittima del «centralismo italiano». Ma i ripensamenti complottisti di Umberto Bossi appaiono poco convinti: il post scriptum di una storia politica per ora finita. E finita male, tra familiari famelici, collaboratori astuti, piccole ambizioni.
Per l'Italia del Nord, un'altra sconfitta. La Lega, su scala nazionale, non s'è mai arrampicata molto oltre il 10%, ma ha rappresentato, per molti settentrionali, il sogno di una politica diversa: comprensiva e comprensibile, interessante e disinteressata. Il federalismo, l'ambizione confusa di poter controllare le proprie vite.

Anche chi non ha mai votato Lega, e non amava le fanfaronate di alcuni dirigenti, doveva ammetterlo: c'era passione, in certi raduni. La violenza, che ha toccato movimenti secessionisti stranieri, s'è limitata alle fantasie orobiche sui «trecentomila valligiani in armi» e alle ronde di Borghezio, finite nel nulla: troppo faticose. Perfino l'incoerenza pirotecnica di Bossi - sulla secessione, gli alleati, l'inesistente Padania - aveva, comunque, un aspetto spettacolare. Ogni tanto l'uomo ci faceva arrabbiare: annoiare, mai.

Le sue proposte sono sempre state poche e poco chiare. Ma le denunce, almeno all'inizio, erano condivisibili e arrivavano al cuore di tanti lavoratori testardi e delusi, dal Monviso all'Adriatico: la voracità della spesa pubblica, l'opacità di certi ambienti romani, il favoritismo e il clientelismo come stile di vita. Le diagnosi erano sempliciste; le soluzioni, spesso, improponibili. Ma Bossi - il capo carismatico in una politica senza carisma - le urlava comunque.

Poi, nel 2004, la malattia e la privatizzazione della Lega da parte di famigliari, alleati interessati e collaboratori in carriera: il movimento s'è fermato allora. La spinta propulsiva s'è trasferita dalla testa alle gambe, pronte ad accomodarsi al banchetto della politica. Banche improbabili, debiti e fondazioni, consigli d'amministrazione e consiglieri finanziari dai tratti lombrosiani. A Bossi e ai leghisti vien voglia di ripetere il consiglio che davano, in Lombardia, ai preti di campagna: lasciate stare i soldi, finirete imbrogliati o imbroglioni.

Noi settentrionali, per carattere e cultura, siamo cauti nel concedere credito e fiducia. Quando lo facciamo, e veniamo delusi, possiamo essere crudeli. Umberto Bossi lo sa ed è per questo che oggi si leggono amarezza e preoccupazione, dietro le giustificazioni poco convinte. Prenderà voti comunque alle prossime amministrative? Forse. Ma l'uomo che ha inventato la Lega e ha contribuito a demolire un sistema, non ha saputo costruirne un altro. Questo vale anche per il suo amico, alleato e concorrente, Silvio Berlusconi; e per la sinistra, cui la Lega ha rubato le parole d'ordine per parlare alla gente semplice. Al Nord, solo macerie politiche.

Siamo tornati indietro di vent'anni. Dopo le illusioni del 1992, le delusioni del 2012. Due stagioni italiane finiscono sulla stessa istantanea: la politica con le mani sui soldi. È un perverso gioco dell'oca e siamo di nuovo alla casella di partenza. Eppure bisogna tornare a giocare. E la Lega, che è italiana come voi e come me, dovrà fare la sua parte.

Beppe Severgnini

7 aprile 2012 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_07/severgnini-gioco-oca_d602f7a6-8070-11e1-97af-a2f25e79a811.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #33 inserito:: Aprile 19, 2012, 04:59:40 pm »

GOVERNO, PARTITI E OPINIONE PUBBLICA

Un po' di misura (e più fiducia)


Ha detto ieri Mario Monti: «Gli italiani stanno dando prova di maturità e responsabilità». È vero. Ora ci si aspetta che la classe dirigente faccia lo stesso. Gli sforzi di molti, nel governo e nelle istituzioni, sono indiscutibili. Ma altrettanto sorprendenti sono le disattenzioni.

È inopportuno agitare lo spettro della Grecia, per esempio. Gli spettri si rispettano: non si stuzzicano. Il presidente del Consiglio, dopo aver ricordato l'impressionante numero di suicidi nel Paese ellenico, ha promesso: «Noi lo eviteremo». Ne siamo convinti. Ma i suicidi non vanno soltanto evitati. Come gli spettri, non bisogna neppure evocarli.

Perché spaventare una nazione spaventata? Meglio rassicurarla. E ormai c'è un solo modo per farlo: mantenere le promesse (sui tagli delle spese pubbliche, sulla riforma del lavoro) e disinnescare la frustrazione seguita alle molte, ripetute delusioni. Una frustrazione che potrebbe diventare rabbia e che comunque alimenta spinte populiste e antisistema alla Beppe Grillo. Oggi la nazione è ferma su questo spartiacque. Il timore è che, quando ne scenderà, scenda dalla parte sbagliata. Non sarebbe la prima volta, in Italia.

Le tasse si sopportano. Le provocazioni, no. L'affermazione dei leader dei principali partiti secondo cui un taglio ai finanziamenti sarebbe «un errore drammatico» è più di un'indelicatezza. È la prova di un'ignoranza degli umori del Paese, già colpito dalla cleptocrazia imperante, dalla Lombardia alla Puglia. È populista ricordare che le famiglie sono angosciate dalle spese che aumentano e dal lavoro che non c'è? E non sopportano più le litanie di una classe politica che non vuole rinunciare a niente?

L'affermazione televisiva dell'onorevole Rosy Bindi - «A una macchina in corsa puoi chiedere di rallentare, non di fermarsi. E se non arriva almeno una tranche dei rimborsi previsti, si rischia di non arrivare alla campagna elettorale» - è stupefacente. Gli italiani sono (forse) disposti a tollerare l'intollerabile, e cioè che il «finanziamento ai partiti», cancellato da un referendum nel 1993, sia rientrato dalla finestra come «rimborso elettorale». Ma non accettano che questi rimborsi siano quattro volte le spese sostenute; né che tra queste spese ci siano hotel di lusso, voli privati e inutili fondazioni. Non sopportano, in altre parole, d'essere presi in giro.

È populista ricordare al presidente del Consiglio che avrebbe dovuto accorgersi per tempo, senza l'intervento della Guardia di finanza, che due milioni e mezzo di euro - un giovane impiegato li guadagna in duecento anni - stavano andando come «contributo pubblico» alla testata giornalistica di un latitante (fino all'altro ieri)?

Mario Monti è un uomo serio, pratico e intellettualmente onesto. Ha svolto certamente un buon lavoro, da quando è a Palazzo Chigi: gli viene riconosciuto dai sondaggi italiani, dai partner europei, dai leader in America e in Asia. Ma deve capire che i segnali pubblici sono importanti quanto i colloqui privati. Abbiamo bisogno di un leader accorto e sensibile, non di un capo che preferisce l'auspicio all'incoraggiamento. Alternative, per adesso, non ce ne sono. Alle elezioni manca ancora un anno. Il presidente del Consiglio continui il suo lavoro, i partiti rinsaviscano. Non sembrano capirlo né meritarlo ultimamente: ma abbiamo bisogno di loro.

Beppe Severgnini

19 aprile 2012 | 8:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_19/un-po-di-misura-e-piu-fiducia-beppe-severgnini_454bec10-89dd-11e1-a379-94571f4a698e.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #34 inserito:: Maggio 17, 2012, 05:05:32 pm »

«Quello che (non) ho»

Fazio e Saviano: potete regalare anche speranze

Una seconda puntata meno cupa ma la trasmissione ha deciso di restare fedele al titolo

di  BEPPE SEVERGNINI


La seconda puntata è sembrata diversa dalla prima: forse non ottimista, ma meno cupa. «Casta Diva» in apertura, un classico Saviano sulla semiotica camorrista, un Capossela ellenico, un filologico Guccini, uno svagato Papaleo, la solita impeccabile Elisa, verdurieri e marinai. Fabio Fazio più rilassato, come un gatto che ha preso la misura delle stanze. Ma «Quello che (non) ho» ha deciso di restare fedele al titolo, e di raccontare un Paese concentrato più sulle sue mancanze che sulle sue speranze.

Diciamolo: c'era bisogno di aprire la prima puntata con i suicidi in serie? Forse l'Italia frastornata e scossa avrebbe bisogno d'altro.
Non dei trastulli beceri con cui, nel passato recente, ci siamo - o ci hanno - distratti. Ma l'empatia di cui sono capaci Fazio e Saviano, forse, poteva essere utilizzata altrimenti. I suicidi sono materiale da maneggiare con cautela: il rischio dell'autosuggestione e dell'imitazione è forte. C'era bisogno di proseguire, lunedì, con la strage di Beslan del 2004? Una delle vicende più angosciose del nostro passato recente, 186 bambini trucidati in una scuola, una macchia precoce e indelebile sul secolo già segnato dall'11 settembre. Otto anni dopo, era necessario riesumare l'orrore? Si dirà che certe vicende vanno ricordate affinché non si ripetano; che i bambini sono troppo preziosi per non difenderli; che, per farlo, servono anche le parole.

Saviano: «La mafia ha saccheggiato le nostre parole»

È vero. Ma è altrettanto vero che, in ogni momento, siamo in equilibrio tra la gioia di vivere e l'orrore nella vita: e ogni tanto è bene ricordarci della prima. Questo è uno di questi momenti.

L'Italia è cambiata più in sei mesi che negli ultimi sedici anni. E potrebbe non bastare aver capito - tardi - che occorre lavorare di più e rubare di meno, perché le bufere arrivano da lontano. La televisione non dev'essere per forza consolatoria; ma neppure obbligatoriamente ansiogena.

Spero, con questo, di non essere classificato come un detrattore di Saviano, perché non lo sono. Ho voluto conoscerlo, in autunno, durante il soggiorno americano; e in precedenza, sul Corriere, avevo scritto: se ha una colpa, è avere avuto successo (una cose che il prossimo difficilmente perdona). Per questo vorrei ricordargli ciò che già sa. L'Italia, con fatica, sta cambiando; e dovremmo provare a cambiare anche noi che la raccontiamo. Deve esistere una via di mezzo, in questo benedetto Paese: non possiamo essere condannati a scegliere tra la marcia funebre e la tarantella, tra l'angoscia e la rimozione.

Neppure autori bravi e navigati come Michele Serra e Francesco Piccolo sono riusciti ad allontanare il programma da questi scogli.
«Quello che (non) ho» (2012) somiglia molto a «Vieni via con me» (2010). Ma quello era lo strappo necessario in una televisione conformista e schierata; questo è la mano in faccia di chi piange, e invece dovrebbe guardare avanti.

Saviano: «Ecco i legami Lega-ndrangheta»

Twitter, ancora una volta, ha mostrato la sua capacità di intuizione collettiva. Anche qui ci sono - a imitazione dei media tradizionali - le bande preventivamente schierate: i santificatori, per cui Fazio e Santoro non possono sbagliare nulla; e i demolitori, per cui i due sono manipolatori di folle, qualunque cosa facciano (anzi: prima che l'abbiano fatta). Ma l'etichetta #quellochenonho, soprattutto lunedì, mostrava una diffusa perplessità. Molti, pur ammirando gli interpreti, dubitano dello spartito.

La seconda puntata, come abbiamo detto, ha corretto in parte questi errori. La trasmissione «senza gioia» (Aldo Grasso) non è diventata, improvvisamente, divertente; non poteva né voleva farlo. Ma l'impressione è che autori, conduttori e ospiti abbiano capito: serenità non è sinonimo di disimpegno. Neppure per la sinistra classica, abbondantemente rappresentata in trasmissione.

Storture e assurdità ci sono ed è giusto raccontarle, visto che troppi in Italia hanno interesse a nasconderle. Ci sono nella politica ottusa (Lerner/Travaglio) e nella finanza ingorda (Paolo Rossi), nell'Europa sorda (Gramellini) e nella violenza domestica (Littizzetto, che per una volta poteva evitare le escursioni anatomiche). Ma non è il caso di abbattere una nazione abbattuta. Ci pensano già i cattivi. I buoni, soprattutto se hanno una telecamera puntata addosso, cerchino di rialzarla, e la convincano a ripartire. Si può fare.

Beppe Severgnini

16 maggio 2012 | 11:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/spettacoli/12_maggio_16/fazio-saviano-severgnini_0bc1a5dc-9f15-11e1-b258-f2fcbb76be58.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #35 inserito:: Agosto 12, 2012, 04:22:39 pm »

Questa Olimpiade è stata un successo, per la Gran Bretagna

Grazie Londra: Una lezione ai pessimisti

La capitale aveva voglia di offrire un party al mondo. E quando si tratta di party, feste, cerimonie, gli inglesi non hanno rivali


Sono trascorse solo due settimane, li ricordate di sicuro. Quelli per cui l'Olimpiade sarebbe stata un disastro. Quelli convinti che Londra sarebbe collassata nel traffico. Quelli che, dal forfait della società incaricata della sicurezza, avevano tratto lugubri presagi. Quelli per cui la vecchia Inghilterra, per condizione e per definizione, non era preparata a ospitare i Giochi moderni. Quelli come Mitt Romney, per esempio.

Ma non c'era solo il candidato repubblicano, impegnato nel suo Gaffe Tour tra Europa e Medio Oriente, a dubitare della riuscita della XXX Olimpiade. C'erano i media di mezzo mondo, l'opinione pubblica europea, i tanti italiani che conoscono solo due sentimenti: disfattismo ed euforia. Sconfessato il primo dai fatti, ora si sono lanciati sulla seconda, senza timore del ridicolo. Concediamo a tutti un'attenuante: gli stessi inglesi, alla vigilia, non sembravano convinti. «Rescue us from the nightmare», salvateci dall'incubo, titolava una corrispondenza del New York Times da Londra. Un'insicurezza che non costituisce una novità.

I neo-inglesi post-Diana (1997) sono emotivi: sentono l'ansia della vigilia, piangono sul podio e davanti al televisore, depongono la birra e abbracciano il vicino. Quando si parla di sport, poi, sembrano stretti fra Charles Dickens and William Thackeray: Great Expectations e Vanity Fair, grandi aspettative e fiera delle vanità. Europei e Mondiali di calcio, torneo di Wimbledon, anche questa XXX Olimpiade. Prima che l'evento abbia inizio, squadre e campioni del Regno Unito sono sommersi da un fiume di elogi, complimenti, eccitazione, aspettative. I media - tutti, non solo i tabloid - passano dall'ironia al superlativo. I concorrenti britannici, comprensibilmente, diventano ansiosi, e falliscono. Stava accadendo anche stavolta. «Our greatest team», la nostra squadra più grande. Calma. Non era il marketing che doveva deciderlo. Erano i risultati e i risultati - complimenti! - sono arrivati.

Questa Olimpiade è stata un successo, per la Gran Bretagna, nonostante le spasmodiche aspettative sportive, e grazie ai dubbi organizzativi: hanno creato la giusta tensione. La nazione aveva deciso di lasciare una traccia e un'eredità; la capitale aveva voglia di offrire un party al mondo. E quando si tratta di party, feste, sfilate e cerimonie, gli inglesi non hanno rivali. Nessuno balla, sballa, marcia e recita come loro. Il Regno Unito, sfruttando il fattore-campo e una meticolosa preparazione, è diventato la terza potenza atletica mondiale. Un piazzamento da tempo abbandonato sul podio politico, militare, economico. La partenza lenta - contrapposta alla quella italiana, lanciata - rappresenta la conferma di uno stereotipo, e non è dispiaciuta agli stessi inglesi. Una forma di understatement, seguita da un'ascesa trionfale: almeno sessanta medaglie. The Guardian si spinge a scrivere: il periodo tra le ultime due Olimpiadi londinesi - 1948-2012 - verrà ricordato come The Age of Decline, l'età del declino; e ora il declino è finito (esageràti! Anzi: un-British).

Il successo, però, non si discute. Bolt, Boyle, Bond, Brenda e mister Bean: tutti i campioni in campo, nessuno ha deluso. Esibizioni mastodontiche, patriottismo spavaldo? Lasciamo queste cose a cinesi e americani, sembra dire la XXX Olimpiade che si chiude. Noi siamo inglesi, rivoluzionari mascherati. Noi vinciamo con i rifugiati somali e la nipote della regina, mettiamo in scena il National Health Service Musical e abbiamo una nuova Bond Girl del 1926. Noi vi ricordiamo che sono stati gli industriali, gli operai, i cantanti, gli attori e gli immigrati caraibici a fare del Regno Unito ciò che è (i banchieri moderni non sono ancora riusciti a disfarlo). Mentre il mondo pensa che noi aspettiamo il tè della cinque, noi cambiamo il mondo. Tra le tante medaglie d'oro, ce n'è una che non è stata assegnata: perché il vincitore era troppo evidente. Londra ha vinto la gara dell'eccentricità pratica, un ossimoro di cui va orgogliosa. Gare ben organizzate in luoghi nuovi (Olympic Park) e posti classici (Wimbledon, the Mall, Hyde Park, Horse Gards, Lord's Cricket Ground). Traffico scorrevole, anche grazie agli inglesi fuggiti in campagna, all'estero o sul divano. Tempo sorprendente (sole in agosto!).

Trasporti pubblici all'altezza e 70 mila volontari entusiasti (molti addirittura informati). Soldati gentili, felici di poter usare l'esperienza accumulata in Irlanda del Nord, Iraq e Afghanistan davanti a frotte di turiste mediterranee. Edifici bizzarri (Orbit), un sindaco-clown (Boris), colori alcolici, orrendi souvenir (informate gli stilisti dei Giochi che non siamo nel 1982). Folla felice ovunque, dopo la revisione di tante inutili precedenze («Olympic Family»! Solo i Sopranos usano il sostantivo con altrettanta disinvoltura). La fiamma olimpica, che stasera si spegne, non ha acceso solo il braciere. Ha acceso l'eccitazione e la gioia di stare insieme. Londra - città viziata da grandi eventi di ogni tipo - si è accorta che un'Olimpiade è più importante, più vasta, più eccitante, più originale. Ogni quattro anni mostra al mondo come il mondo potrebbe vivere insieme, ma non riesce (nemmeno ci prova).

Un'Olimpiade riuscita è una festa mobile, a moveable feast: più Hemingway che Dickens. Devo dirlo ai miei amici inglesi, quando rientreranno dai festeggiamenti (non oso pensare in quali condizioni). Solo due settimane: da Gosh-we'll-never-make-it! (oddio, non ce la faremo mai!) a Wow, we made it!, ehi, ce l'abbiamo fatta! Anche questa, se vogliamo, è la novità. Un tempo, davanti a un'impresa difficile, gli inglesi si preoccupavano; davanti a un'impresa riuscita, erano felici. Ma non lo davano a vedere: né prima, né dopo. Oggi non si nascondono più: tremano (prima), fremono (durante), gridano (dopo). Noi con loro: complimenti, e grazie per la bellissima festa.

Beppe Severgnini

12 agosto 2012 | 9:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://olimpiadi.corriere.it/2012/notizie/12-agosto-grazie-londra-una-lezione-ai-pessimisti-beppe-severgnini_a5ffea7e-e447-11e1-aec0-5580338e796b.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #36 inserito:: Agosto 28, 2012, 10:30:55 am »

Insulto dunque Navigo

Pierluigi Bersani ha ragione, ma sbaglia aggettivo. Chi approfitta di Internet per insultare gli avversari non è «fascista»: è un maleducato. Immaginate, tuttavia, due leader di partito che, di questi tempi, si danno del maleducato. Qualche anziana maestra capirebbe, ma pochi altri.

«Fascisti!». Nel grido bersaniano contro Grillo & C. c'è molta autobiografia. Quarant'anni fa, quando la chiesa comunista faceva sul serio, il vocabolo era una scomunica. «Fascista!». E qualsiasi discussione - dalle assemblee sindacali ai collettivi studenteschi - si chiudeva lì. La cosa grave è che a quei tempi i (neo)fascisti c'erano davvero, ed erano pericolosi; ma degli aggettivi, mussolinianamente, se ne fregavano.

Detto ciò, Bersani ha ragione. L'urlo di chi non sa più parlare sta diventando insopportabile. L'avversario non si contesta più: lo si demolisce. Non c'è solo Beppe Grillo e il suo popolo votante (in genere meno esagitato di lui). Il dibattito sui quotidiani, in questi giorni, è sconcertante; e dobbiamo ringraziare l'estate, altrimenti il tutto verrebbe amplificato in televisione.

Considerare l'insulto come la forma più genuina di democrazia, ed etichettare come pavido chi cerca di essere ragionevole, non è solo irritante: sta diventando rischioso. Se il capo di un movimento, il segretario di un partito e noti commentatori politici usano l'anatema come normale mezzo di discussione, molti si sentiranno autorizzati a fare altrettanto. Anzi, essendo semplici cittadini, andranno oltre. «Se nei comizi e sui giornali i capi si trattano a vaffa» pensano «allora alé, liberi tutti».

Liberi di insultare gli avversari, di offendere chi la pensa diversamente, di chiamare vigliacco chi prova a essere ragionevole. È un trucco, questo, che nei bar d'Italia conoscevano bene, e un tempo finiva in un brindisi e una risata. La nuova cattiveria invece aleggia a lungo, come un alito pesante, e accompagna un Paese stanco verso elezioni importanti. E mentre i capi, i segretari e gli editorialisti si incrociano nelle serate estive, e si sorridono nel gioco delle parti, i loro epigoni trasportano il livore accumulato nei social network, sui blog e nei forum.

La moderazione sta diventando un problema per tutti i siti: insulti, minacce e accuse volgari sono all'ordine del giorno (anche su « Italians », presente su Corriere.it dal 1998, abbiamo dovuto disabilitare i commenti). Quando vengono affrontati, alcuni si scusano, e ammettono di aver esagerato. Ma la maggior parte rivendica con orgoglio la propria violenza verbale. C'è da stupirsi, se per dire «non sono d'accordo» il capo grida «siete degli zombie, vi seppelliremo vivi!» e il giorno dopo «fallito, amico dei piduisti»?

Purtroppo c'è chi non ha capito che Facebook e Twitter - per citare le due piattaforme più popolari - sono mezzi di comunicazione di massa, non balconi per conversazioni private. Fino a pochi anni fa, strumenti tanto potenti erano riservati ai professionisti della comunicazione: coloro che avevano accesso a un giornale, a un microfono, a una telecamera. Oggi chiunque può diffondere un'opinione. Questo, naturalmente, è bene. La libertà in questione ha però dei limiti: nelle buone maniere, nel buon senso e nel codice penale. E qualcuno non lo capisce. Questo, ovviamente, è male.

Sia chiaro: una modica quantità di provocatori e molestatori è fisiologica. Eric Schmidt, presidente di Google, ha detto all'Aspen Ideas Festival in giugno: «Facciamocene una ragione: l'uno per cento della popolazione è pazzo. Ha vissuto nel seminterrato per anni, e la mamma gli portava ogni giorno da mangiare. Due anni fa la mamma gli ha regalato la connessione a banda larga. Mi chiedo, tuttavia, se sia una consolazione. E se non sia il caso, a questo punto, di parlare con le mamme».

Non servirebbe, probabilmente. La follia italiana supera l'uno per cento, e appare purtroppo lucida. La faziosità che, da anni, gronda dai media ha ormai allagato la vita quotidiana. La protervia con cui la classe politica italiana ha trattato i cittadini ha demolito gli argini. C'è da chiedersi, a questo punto, come sarà il raccolto.

Beppe Severgnini

27 agosto 2012 | 8:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_agosto_27/Insulto-dunque-Navigo_b8ea702c-f005-11e1-924c-1cb4b85f5a80.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #37 inserito:: Settembre 27, 2012, 02:29:25 pm »

Signori, una buona notizia. Anzi, ottima. Le cosiddette “stragi del sabato sera” sono diminuite. Molto diminuite. Nei primi otto mesi dell’anno 244 incidenti, con 154 morti e 407 feriti; e spesso non si tratta di giovani. In Romagna – in passato una delle zone più colpite – solo 15 incidenti, con 5 vittime e 24 feriti. “Una volta – scrive l’Asaps (Associazione Amici Sostenitori Polizia Stradale) – questo era il bilancio di un fine settimana qualsiasi, non di tre quarti d’annata”.
Capire perché è accaduto è fondamentale. Contiene infatti una lezione utile, anche lontano dalle strade.
Per cominciare, l’opinione pubblica ha reagito. Si sono mosse associazioni, scuole, gruppi di genitori, perfino – udite, udite – i partiti politici, senza litigare. I media – il “Corriere della Sera” ha fatto la sua parte – hanno tempestato i governanti di turno con proteste, denunce, suggerimenti. L’Asaps, fondata da un gruppo di giacche blu della Stradale, ha continuato a fornire dati e proporre soluzioni. Scrive Giordano Biserni (spero l’abbiano fatto commendatore): “Erano stanche di suonare un campanello alle 5 della mattina per dire a un papà e a una mamma che il loro ragazzo o la loro figlia non sarebbero mai più tornati a casa”.
Le istituzioni – tenetevi forte – hanno risposto. Prima una legge che stabilisce il divieto assoluto di alcol per i neo-patentati, con conseguenze pesanti per i trasgressori. Poi la determinazione di applicarla. Parlate con i ventenni: vengono fermati continuamente e sottoposti al test dell’etilometro (grazie polizia, viva i carabinieri!). Poiché i nostri ragazzi non sono stupidi, oggi fanno la cosa ragionevole: quando bevono, non guidano. Quando guidano, non bevono. Come nel resto d’Europa: né più né meno.
I controlli – diventati la regola, non l’eccezione – funzionano anche con gli adulti. Uno ci pensa prima di mettersi in macchina dopo quattro birre, due vodke o una bottiglia di vino. Non siamo diventati improvvisamente responsabili e pieni di senso civico. Conosciamo la norma, temiamo la sanzione, rispettiamo la norma. Semplice.
La cosa sconvolgente delle recenti cronache politico-giudiziarie è questa: chi è accusato di aver rubato teme, tutt’al più, di perdere il posto. Non ha paura di dover finire in galera: i contorsionismi della giustizia italiana lo impediscono. La politica gongola, e si auto-assolve. La foto di dieci pubblici amministratori in divisa carceraria sarebbe invece un grande spot contro sprechi dolosi e corruzione. In America, accade. In Italia rischia di andare in galera il collega Alessandro Sallusti: per un articolo. E’ il colmo.
Ricordate cos’è accaduto sulle strade. L’Italia e gli italiani non sono irrecuperabili. Chi dice così è perché non vuole recuperarci. Bisogna capirlo, non ha tempo: deve far bisboccia con gli amici. Con i nostri soldi, s’intende.

Beppe Severgnini

da - http://italians.corriere.it/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #38 inserito:: Novembre 09, 2012, 05:54:49 pm »

ELEZIONI USA

La speranza di sconfiggere ansie e paure


Ascoltate di nuovo il discorso della vittoria di Barack Obama. Anzi, riguardatelo: il presidente parla anche con le pause. E sono le pause a dare il ritmo alle frasi, alle relazioni e alle nazioni. L'America, negli ultimi anni, ha perfino esagerato: dopo aver rallentato, ha rischiato di fermarsi. È stato bello esserci, al McCormick Place di Chicago, mentre il suo presidente-pilota riaccendeva il motore. Barack Obama è stato bravo, non soltanto con le parole. Riproporre è più difficile che inventare: lo sanno gli innamorati e i governanti. Lo stato nascente non dura all'infinito. L'innamoramento diventa matrimonio, la rivoluzione diventa istituzione, il movimento politico diventa governo, compromessi e fatica quotidiana. L'America, che veniva da anni terribili, dal 2008 ha conosciuto anni faticosi. Il presidente è stato bravo, in questa campagna elettorale, perché ha saputo trasformare l'ansia in speranza, la paura in voglia, l'incertezza in un nuovo progetto. Essere rieletto in un periodo di incertezze economiche e disoccupazione è un capolavoro che è riuscito solo a Franklin Roosevelt. Un altro democratico sensibile, ma non sentimentale.

L'America ama il nuovo. È la sua forza ed è la sua tentazione. Il nuovo, stavolta, si chiamava Mitt Romney. Un mistero educato e pettinato che, dopo aver detto tutto e il contrario di tutto, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Barack Obama ha dovuto battersi non tanto contro di lui - avversario modesto, tutto sommato - ma contro la passione nazionale per il cambiamento. Palingenesi qui si chiama starting over : ed è un'espressione che capiscono anche i bambini.

Nuova avrebbe potuto apparire questa destra preconfenzionata, ma il presidente rieletto è stato bravo a svelarne la debolezza di fondo. Una destra che rovescia nella campagna elettorale centinaia di milioni di dollari di provenienza indefinita, e si affida alla lobby del gioco d'azzardo e delle armi, non è matura per guidare il Paese tra le rapide del futuro. Se i padri nobili del partito repubblicano vivono tra Wall Street e il palazzo di Donald Trump, meglio un partito orfano.

Il benessere delle nazioni non è la conseguenza preterintenzionale di qualche buon affare riuscito. È sforzo, regole e progetto: Barack Obama ha dimostrato di averne uno. È vero. È apparso spesso timido a incerto, in questi quattro anni. Non martedì, su quel podio, nel suo nuovo abito blu. Sa di non dover più rispondere, finalmente, alla parte più impaziente dell'elettorato. Deve rispondere alla storia, nel secondo mandato. E la storia lo giudicherà per quanta felicità saprà dare alla sua gente. Happiness , c'è scritto anche nella Dichiarazione d'Indipendenza. Non è un diritto ottenerla, in America. È un diritto crederci e poterci puntare. L'America multicolore ha sconfitto - forse definitivamente - l'America monocromatica. Ha vinto una giovane donna con la pelle scura, e può festeggiare coi figli nella casetta di città. Ha perso un uomo bianco di mezza età, e dovrebbe riflettere, nella sua villa dei sobborghi, prato rasato e figli lontani. Conosco facoltosi americani che dicono: «Romney? Meglio per il nostro conto in banca, forse. Ma peggio per la nazione. E il conto in banca non è tutto. Vedere gli altri soffrire, per esempio, ha un costo. E non vogliamo pagarlo». Non è socialismo: è buon cuore, buon senso e lungimiranza. L'America nuova ha battuto un'America già vista. L'unico modo per ritrovare le chiavi del futuro è coinvolgere tutti, riducendo l'ansia e la paura. Perdere il lavoro e di conseguenza l'assistenza sanitaria, per esempio, è una barbarie. Gli americani più istruiti, che in maggioranza hanno votato democratico, l'hanno capito: le lezioni europee non sono tutte sbagliate, anzi.

Il presidente Obama è stato chiaro, su quel palco. In America - nell'America che guarda avanti - non conta chi sei, cosa credi, cosa possiedi, chi ami, di che colore hai la pelle. Conta la voglia di fare e la capacità di reagire. La fatica, la lealtà e la generosità pagano. Si governa e si vive anche col cuore: testa e pancia, lasciate sole, combinano troppi guai.

Beppe Severgnini

8 novembre 2012 | 8:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_08/speranza-di-sconfiggere-ansie-paure-severgnini_b8467800-296c-11e2-b082-5e60eba3a55f.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #39 inserito:: Novembre 26, 2012, 05:40:21 pm »

Studenti e società

Lettera aperta a chi oggi va in piazza

Un ragazzo di 20 anni non ha avuto il tempo di combinare i disastri che vediamo ma non deve protestare con violenza

L'editoriale di  BEPPE SEVERGNINI

Sia chiaro. Se mai usciremo da questo pantano, sarà per merito dei nostri ragazzi. La generazione dei nostri genitori, nata nella prima metà del XX secolo, ha ricostruito l'Italia. La nostra - i numerosi, loquaci, egocentrici figli del boom, nati tra il 1945 e il 1965 - l'ha arredata in modo da starci comoda. Ma la fattura, adesso, è in mano ai nostri figli e nipoti, sotto forma di debito pubblico (prossimo alla soglia siderale di duemila miliardi), e non solo.

Non è l'apologia astuta di una nuova generazione. È un incoraggiamento per chi non ha colpe. Non ha colpe e, diciamolo, ha ragione di protestare. Un ragazzo di vent'anni non ha avuto né il tempo né il modo di combinare i disastri che vediamo. Ma non deve protestare in modo violento, quindi sbagliato. Sbagliato tre volte. Perché pericoloso. Perché inutile. Perché controproducente.

Perché controproducente? Perché i coccodrilli italiani, acquattati dentro la solita melma, non aspettano altro. Una scusa, un'occasione per dire che non serve cambiare. Un pretesto per ripetere che le carenze nazionali - dal parlamento alle Regioni, dagli appalti ai servizi pubblici - sono le inevitabili imperfezioni di una società vitale. Non è vero: i ragazzi sanno distinguere tra fisiologia e patologia, anche se non studiano medicina. Perché inutile? Perché con la violenza, in democrazia, non si risolve nulla e si complica tutto. Se chi pensa d'aver subito un torto prende un bastone, torniamo all'età della pietra. Eppure è su questo sillogismo - «sto male, quindi spacco tutto» - che si regge parte della protesta. Una strada, una ferrovia, una riforma, un finanziamento mancato: se accettassimo l'idea che il dissenso giustifica la violenza, buonanotte Italia.

Perché pericoloso? Perché ci siamo già passati, negli anni Settanta. S'è cominciato a tollerare le minacce in assemblea e a giustificare caschi e spranghe in corteo; si è finiti ad asciugare il sangue per strada. Un pessimo momento economico, una politica distante, una classe dirigente insensibile, una nuova generazione prima illusa e poi frustrata: gli elementi ci sono tutti, oggi come ieri.

Questi discorsi non piacciono ai professionisti della catastrofe. I loro partiti, i loro giornali e i loro siti vivono di allarmismo cupo. Eccitare i giovani alla violenza - o giustificarla, fa lo stesso - è gravissimo. Dopo una trasmissione televisiva ho parlato con Iacopo, 24 anni, bergamasco, studente di medicina a Parma: ho rivisto lo sguardo e ho risentito gli slogan che hanno messo nei guai tanti giovani connazionali, trent'anni fa. Nelle università, nelle scuole, sui treni e nei bar ho discusso con moltissimi altri ragazzi, quest'anno. La maggioranza ha buon senso, ma rischia di essere scavalcata e derisa, come le vicende di piazza ogni volta dimostrano. Mi ha colpito l'incontro con una giovane leader studentesca romana, che chiamerò Lucia, per non metterla in difficoltà. Raccontava la frustrazione di trovarsi schiacciata tra un mondo di adulti ipocriti e di coetanei aggressivi, in cerca di titoli e servizi nei telegiornali. Se non aiutiamo ragazze e ragazzi come lei, stiamo scrivendo la ricetta della tragedia che verrà.

Aiutare vuol dire: non tollerare la violenza, mai. Ma semplificare l'ingresso nel mondo del lavoro, aumentare le risorse all'istruzione e alla ricerca, coinvolgere una nuova generazione in ogni decisione. Mai sprecare una buona crisi. In momenti come questi bisogna investire; non quando tutto va bene. Quello che vediamo - il lavoro latitante, la politica ingorda, le istituzioni rituali e goffe - non è bello e non è giusto. I nuovi italiani, ripeto, hanno motivo di lamentarsi. Ma imparino a distinguere: alcuni adulti sono interessati solo a proteggersi («diritti acquisiti» è un'espressione da mettere fuori legge). Ma altri - perché hanno figli, un cuore, una coscienza - hanno capito. E sono pronti ad aiutare. Chiamatelo egoismo lungimirante, se volete.

Ivano Fossati ha cantato «la fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato». Un'affermazione poetica e paradossale, ma corretta. Non sono infatti le difficoltà ad affondare le generazioni, gli imperi, le società, le famiglie. Sono invece i vizi, l'arroganza, la sufficienza, la falsità. Non è un'attenuante per noi. Ma potrebbe essere una piccola consolazione per i nostri ragazzi. Quelli che rifaranno l'Italia, se non si lasciano ingannare dai violenti tra loro e dagli irresponsabili tra noi.

24 novembre 2012 | 10:49

da - http://www.corriere.it/cronache/12_novembre_24/lettera-aperta-chi-va-in-piazza-severgnini_a1baea80-3614-11e2-bfd1-d22e58b0f7cd.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #40 inserito:: Dicembre 08, 2012, 05:04:12 pm »

 Giovani, la provincia  è bella e narcotica.

Andate via per un po'...

BEPPE SEVERGNINI
05/12/2012

 
Quasi 300 mila followers ne fanno oggi il giornalista più seguito d'Italia, il più british, il più fulminante. Piace ai giovani, eppure Bsev dice di sè «sono quasi vecchio». Beppe Severgnini, ad un passo dai 56 anni, giornalista di Crema decollato verso grandi capitali, è in tour per presentare “Italiani di domani. Otto porte sul futuro”. Sarà a Vicenza domani per incontrare studenti e lettori, molti dei quali lo seguono da quando era corrispondente da Londra per “Il Giornale” , poi inviato, corrispondente da Washington per “ La Voce”, e dal 1995 al Corriere della Sera. Dal 1998 anima il forum italians.corriere.it che proprio ieri ha festeggiato i 14 anni.

Come sono dal vivo i giovani ai quali si rivolge nel libro?
Mi hanno lasciato sbalordito. Sono entusiasmanti e non uso in genere i superlativi. Segretamente lo speravo. Non parlo il loro linguaggio, non faccio il finto giovane perchè ho capelli metallizzati. Non uso toni paternalistici e non faccio autobiografia. Con un linguaggio chiaro e asciutto, li trovo su alcuni terreni comuni: i social network, la musica, il guardare all'estero. Questo libro nasce dopo tre discorsi all'università a Ca' Foscari, a Pavia e al Politecnico di Milano: non solo hanno ascoltato, hanno risposto con passione.

Un libro terapeutico?
Le grandi riforme partono da piccole rivoluzioni private. E quindi nel 2005 con “La testa degli italiani” mi sono occupato di fisiologia nazionale; nel 2010 con “Berlusconi spiegato ai posteri” di patologia nazionale. Ora con “Italiani di domani” proviamo a vedere che terapia si può applicare per uscire da questa situazione, a partire dai propri talenti, dalla riscoperta della tenacia come qualità che non passa di moda. Non diminuirò la disoccupazione così, ma qualche consiglio per darsi da fare c'è.

È lo sguardo internazionale che oggi fa la differenza, come il suo?
Sono 30 anni che faccio il giornalista e ho viaggiato, avendo la fortuna di cogliere insegnamenti. In questo senso gli Stati Uniti sono un Paese che non è il paradiso ma insegna molto in termini di tempismo, università, tecnologia. Là guardano sempre al futuro, noi italiani siamo tendenzialmente conservatori. Ha vinto Bersani infatti e non Renzi, per stare in casa Pd. Ha vinto una scelta rassicurante contro una spiazzante.

Giovani conservatori e choosy?
No. Ho twittato l'altro giorno la foto di una ragazza, ingegnere uscita dal Politecnico, che si veste da tigre per un evento aziendale pur di lavorare. Questo va bene. Va meno bene, per me, quella che si sveste per altri eventi a Milano... Direi che i ragazzi italiani dovrebbero essere meno legati per alcuni anni ai propri luoghi, dovrebbero scappare e poi tornare, lo dico alla voce “terra” nel libro che è un invito a lasciare la propria... Le nostre città possono essere così gradevoli da diventare narcotiche.

Vicenza, Crema, Parma sono delle gabbie?
Sono luoghi dove si vive stupendamente, mai cacciati via di casa da mamma e papà, l'auto subito: l'aperitivo con gli amici può diventare il fulcro della giornata, il fine e non la fine. Deve essere una ciliegina dopo una giornata piena di eventi e impegno, non il rito.

Delle otto “porte” sul futuro qual è la più difficile da aprire?
Quella della tolleranza. Hanno ragione i ragazzi ad essere arrabbiati per quello che vedono, penso a quanto di immondo ha prodotto la politica... Non sono le crisi che affondano le generazioni ma la pigrizia e la sciatteria, anche se qualche volta imparare il compromesso è necessario. E poi il tempismo non è facile da capire: abbiamo ragazzi in gambissima che non sanno distinguere chi vuole sfruttarli da chi vuole aiutarli. Sono una generazione di generosi: proprio oggi (ieri, ndr) è stata presentata una ricerca sui nati tra il 1981 e il 2001 dove emerge che hanno fiducia nei loro genitori, che l'80 per cento pensa che da qualche parte si arriverà, anche se solo il 20 per cento crede che potrà essere migliore dei padri.

Una generazione senza colpe, lei scrive a proposito della discesa in piazza degli studenti.
Come fa uno di 22 anni ad aver colpa di quanto c'è attorno? Non ne ha avuto il tempo. Però non deve cedere alla tentazioni: ho conosciuto una trentenne che di mestiere fa tesi di laurea. Le ho detto: sei complice di un reato. Lei: devo campare, non sai quanta richiesta c'è. Spero sia ingenuità, ma se poi le tesi le pagano i genitori...
Lavoro: è il tema centrale? Qui in Veneto il lavoro coincide con l'identità.
È una forma raggiungibile di felicità in terra:io sono molto fortunato in questo col mestiere che faccio. Ai giovani dicono: capite il vostro talento, questo dà valore aggiunto in un mercato così difficile.

Come voteranno questi ragazzi alle prossime elezioni?
Quelli di centrosinistra Pd o Sel, quelli di centrodestra non sanno dove sbattere la testa. E se non sono nè di qua nè di là rappresentano l'elettorato mobile che sente molto la sincerità o la passione della proposta politica. A Milano ero con Michael Slaby, 35 anni, lo stratega digitale della campagna di Obama: dice che gli elettori sentono subito l'ipocrisia e la falsità. E nella politica italiana ce n'è proprio tanta.

DA - http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/179_interviste/440175_giovani_la_provincia__bella_e_narcotica_andate_via_per_un_po/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #41 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:51:19 pm »

Il difficile equilibrio delle parole

La convenienza e la salita

Il Professore «tradotto»

Le espressioni-chiave del bilancio di fine anno


Breve frasario montiano-italiano, resosi necessario dopo la conferenza-stampa di fine d'anno, in cui s'è detto molto ma non s'è capito altrettanto.

Convenienze
«Mi è abbastanza chiaro quale sarebbe la mia convenienza e dove mi porta la mia coscienza».
ovvero
Speriamo di non essermi giocato il Quirinale.

Eccetera, eccetera
«La convenienza è non fare strettamente niente, e sento dire che un giorno potrei accedere a eccetera eccetera eccetera...».
ovvero
Un eccetera eccetera eccetera con i corazzieri! Lo so, lo so: me l'hanno detto sia Bersani sia Napolitano.

Assalti alla diligenza
«È un imperativo morale, non so in che misura ci sarà un seguito concreto»
ovvero
Ma avete visto i centristi? Che maniere! Per l'assalto alla diligenza, nel Far West, si aspettava almeno che fosse partita.

Arrabbiature
«Devo dire una parola di gratitudine ma anche di sbigottimento nei confronti del mio predecessore, Silvio Berlusconi»
ovvero
Vorrei non farlo arrabbiare, ma come si fa?

Comprensione mentale
«Faccio fatica a seguire la linearità del suo pensiero (...) Un quadro di comprensione mentale che a me sfugge»
ovvero
Non ci sta più con la testa.

Fioriture
«Una fioritura sulla quale il centrodestra ha una fantasia molto più pregevole del centrosinistra»
ovvero
Nel Pdl ormai ne combinano di tutti i colori.

Che ti è successo?
«Le parole pesano anche in Parlamento e ne deve essere cosciente chi le dice e chi le ascolta»
ovvero
Onorevole Alfano, ma cosa le è successo?

Citofonare «partiti»
«L'intesa era: voi occupatevi delle questioni economiche e noi partiti ci occupiamo delle istituzioni»
ovvero
Mancate riforme? Niente modifica della legge elettorale? Io che c'entro? Parlate coi partiti.

Filarsi l'Italia
«Abbiamo avuto per anni un governo italiano che è stato in seria, seria difficoltà a far sentire la propria voce in Europa»
ovvero
Tremonti, diciamolo, non se lo filava nessuno.

Costi e festini
«Il più grande costo della politica non è quello dei festini...»
ovvero
Comunque, immagino, dovevano costare parecchio.

Meglio di no
«Sto per emettere un'agenda erga omnes»
ovvero
Chi ci sta, ci sta. Se Berlusconi e Vendola non ci stanno, meglio.

Il pallone
«Non sono super partes, ma extra partes»
ovvero
Io vi presto il pallone. Giocate, divertitevi, menatevi tra di voi. Poi mi fate sapere.

Cosa aspettate?
«Se una o più forze politiche con credibile adesione a quest'agenda manifestassero il proposito di candidarmi a presidente del Consiglio, valuterei la cosa, ecco...»
ovvero
Avanti, cosa aspettate?

Sono qui
«A nessuno si può impedire di fare questo e, se permette, a nessuno diverso da me si può poi dare la decisione se eventualmente io sarei disponibile o no»
ovvero
Insomma, è un'ora che ve lo dico: io sono qui.

Imparzialità
«Non mi sento minimamente non terzo»
ovvero
Mi sento imparziale.

Addio, Colle
«La sua domanda precorre tempi che probabilmente non si verificheranno mai»
ovvero
L'ho già detto: per il Quirinale la vedo dura, a questo punto.

Se proprio insistete...
«Sarei anche un pronto ad assumere, un giorno, forse, se le circostanze lo volessero, le responsabilità che mi venissero affidate dal Parlamento...»
ovvero
Certo, se insistono...

Pink&Green
«Nell'agenda Monti c'è molto pink e molto green»
ovvero
Vedete quanto sono attento, ragazze? Vedete come sono ambientalista, ragazzi?

Calvario a Natale
«Non credo che servano "discese in campo", espressione che trovo orrenda. Abbiamo bisogno semmai di "salite in politica"»
ovvero
La politica è una cosa alta e difficile, signori! Diciamo pure, un calvario. Ma a Natale uno, a queste cose, non ci pensa.

Beppe Severgnini

24 dicembre 2012 | 10:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_24/convenienza-salita-professore-tradotto-beppe-severgnini_f638fb9e-4da5-11e2-bb70-cf455d3f8a01.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #42 inserito:: Gennaio 20, 2013, 10:39:43 pm »

I PARTITI NON PARLANO DEI GIOVANI

La generazione trasparente


Nessuno potrà accusare il futuro governo di non aver mantenuto le promesse verso i giovani italiani: perché queste promesse nemmeno sono state fatte. I nuovi elettori, almeno fino a oggi, sono i grandi esclusi della campagna elettorale. Come se la politica fosse una discoteca, e gli energumeni sulla porta non volessero lasciarli entrare. Troppo educati, ragazzi, questo posto non fa per voi.

Le cinque alleanze in competizione sembrano ispirate a Gangnam Style : si agitano, gesticolano, si divincolano, spingono cercando la luce del riflettore. I giovani connazionali guardano, attraverso i vetri del televisore, e commentano amari sui social network. Molti sono tentati di non votare, e farebbero male: è quello che i buttafuori della politica aspettano, in modo da controllare il gioco con facilità.

Le tradizionali reti sociali - quelle che hanno mantenuto finora la pace precaria nelle strade - si stanno progressivamente strappando. Le famiglie hanno esaurito la pazienza e stanno finendo i soldi: lo dimostrano i negozi «compro oro», il mercato immobiliare e l'andamento dei consumi di beni durevoli. La disoccupazione giovanile (15-24 anni) tra chi cerca un lavoro è al 37%, mai così alta dal 1992. E se questa è la media nazionale, immaginate cosa (non) accade nell'Italia del sud. La percentuale di laureati italiani che cercano fortuna all'estero, in dieci anni, è passata dall'11% al 28%. Non è più sana voglia di esplorare; è una diaspora, pagata con risorse pubbliche.

Davanti a fenomeni di questa portata, a cinque settimane dal voto, uno s'aspetta che la politica rifletta, decida, proponga piani precisi e misure concrete: un Paese non può, infatti, giocarsi un'intera generazione. Ma non accade. I candidati discutono appassionatamente di imposte e di pensioni. Parlano, quindi, a chi un lavoro ce l'ha o l'ha avuto. Chi rischia di non averlo non conta, pare.

Gli italiani con meno di trent'anni stanno diventando una generazione trasparente. Li attraversiamo con lo sguardo, anche quando diciamo di tenere a loro. Un atteggiamento pericoloso: la frustrazione potrebbe trasformarsi in rabbia e avere conseguenze drammatiche. Le avvisaglie ci sono. Gli spaccatutto non hanno trovato alleati. Per adesso. Ma ne cercano sempre, e le cose potrebbero cambiare.

La bulimia televisiva degli stagionati protagonisti - Silvio Berlusconi 63 ore, Mario Monti 62 ore, Pier Luigi Bersani 28 ore (dal 2 dicembre al 14 gennaio) - rischia di diventare una provocazione. Antonio Ingroia va in televisione e subito s'azzuffa; Beppe Grillo s'azzuffa senza andarci. Solito spettacolo, soliti discorsi. L'Italia politica del 2013 sembra la cittadina del film Groundhog Day - Ricomincio da capo . Il protagonista, Bill Murray, ogni mattina si sveglia ed è sempre lo stesso giorno.

I proclami giovanilistici del governo Monti si sono ridotti alla reintroduzione dell'apprendistato e a un'Agenda digitale di difficile applicazione. Il Movimento 5 Stelle propone «un sussidio di disoccupazione garantito», ma non spiega con quali soldi finanziarlo. La destra non parla di giovani e non li candida, per far posto ai pretoriani del capo. Neppure la sinistra, che pure qualche volto nuovo lo presenta, propone misure radicali per i giovani connazionali. Il prestito d'onore, suggerito da Anna Finocchiaro, è un cerotto su una frattura. Occorrono flessibilità in entrata e in uscita, semplicità normativa, vantaggi fiscali e contributivi.

Un'assunzione, oggi, è un atto di eroismo; deve diventare un'operazione conveniente per tutti. Se, per far questo, occorre tagliare la spesa pubblica, si tagli: dicendo dove, come e quando. Lasciando stare l'istruzione, che costa allo Stato italiano quanto gli interessi sul debito pubblico, 4,5% del prodotto interno. Con una differenza: gli interessi sul debito servono a tappare le falle del passato, l'istruzione è il motore per costruire il futuro.

Se vogliamo mani nuove e robuste sul volante italiano, non offendiamo i guidatori di domani: altrimenti ci lasceranno a piedi, e avranno ragione. Soprattutto, non diciamo di volerli aiutare, quando per loro non siamo disposti a rinunciare a niente. «L'amore trasparente non so cosa sia», cantava Ivano Fossati.

Beppe Severgnini

20 gennaio 2013 | 8:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_20/la-generazione-trasparente-severgnini_4dda67d4-62d2-11e2-b1d5-38c6a83a1ea2.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #43 inserito:: Febbraio 13, 2013, 05:26:25 pm »

Trieste-Mantova: il carnevale triste dove non ridono neanche le maschere

Inizia oggi un viaggio da Trieste a Trapani in treno, in 2a classe.

In 10 giorni cercherà di esplorare, lungo i binari e le stazioni, gli umori del Paese alla vigilia delle elezioni


Ci sono due ragazzini a Trieste, lui vestito da cow-boy e lei da squaw, che acquistano il biglietto ferroviario per Venezia. Alice e Nicola, trentacinque anni in due, vogliono il loro scampolo di Carnevale. È martedì grasso nell’angolo di un paese smagrito, dove le notizie arrivano impreviste e si depositano, come la neve qui fuori. Un pontefice certamente va, un governo probabilmente viene, banchieri e manager s’avvicinano al carcere, Sanremo mescola tutto.

Roberto Cosolini, sindaco di Trieste, è venuto alla stazione a salutarci. In città qualcuno lo chiama Obelix, e ci sta: li scelgono tutti imponenti, i primi cittadini a Trieste. Porta un loden montiano che, su di lui, sembra una tenda alpina. Partiamo da qui e andiamo a Trapani, gli diciamo: sempre in treno, seconda classe. Ci lancia uno sguardo tra la sorpresa e l’invidia. Questa è una città dove si parte e si arriva. Ma Trieste lo sa da sempre, di vivere al capolinea. L’Italia, non ancora. Qualcuno s’illude, e ci illude, che possiamo sempre rimandare.

Chiediamo al sindaco, eletto con il Partito democratico, qual è l’atmosfera pre-elettorale. «Un sentimento che direi di scazzatura», risponde. «Una via di mezzo tra delusione e sfiducia. Quando uno dei contendenti la butta in burla, è un danno per tutti». Ma qui siete al Nord, siete di frontiera, siete disincantati. «Qui siamo atleti che devono correre insieme i 100 metri — le politiche tra pochi giorni—e i 400 metri—le amministrative in aprile, che in una regione autonoma sono fondamentali. Non è atletica. È uno sport da matti».

Trieste-Trapani. Tre in treno nelle tundra del Triveneto. Con me viaggiano Gianni Scimone, le cui riprese potete vedere ogni giorno su Corriere. it, e Soledad Ugolinelli, che si occupa di organizzazione e logistica (incarico interessante, in un Paese non sempre logico). Nel 2011 abbiamo attraversato insieme l’Europa, da Mosca a Lisbona; nel 2012 l’America, dall’Atlantico al Pacifico. Niente oceani, oggi. Il Regionale veloce 2210 delle ore 9.18 scivola in un paesaggio surreale, intonato alla giornata. Nicola e Alice si baciano davanti al castello di Miramare: storicamente impeccabile. Meno coerenti le penne indiane di lei, in controluce sullo sfondo dell’Adriatico.

L’ultimo giorno di Carnevale. La sensazione che stia finendo qualcosa. A Venezia Santa Lucia —neve e sale per terra, acqua color acciaio—neppure le maschere hanno l’aria allegra. Allestimento del divertimento, niente di più. Una folata di amiche da San Giovanni in Persiceto, abiti settecenteschi, passa e saluta. Ragazzine dell’Accademia di Belle Arti, per cinque euro, dipingono trucchi sul volto dei passanti. «Visto per cosa ho studiato? », dice Michela Fiini, da Brescia. Le chiedo quali maschere dipingerebbe sul volto dei cinque candidati alla presidenza del Consiglio. «Grizzly, panda, ornitorinco, papera e maiale», risponde, attribuendo a ognuno il suo animale.

Se l’Italia del 2012 amava definirsi sobria (non lo era), questa del 2013 non osa dirsi spaventata: ma lo è. La gente risponde, incurante della telecamera, con una compostezza innaturale. Mentre ragazzi in costume transitano seri, e piccoli orientali spingono grandi valigie tra mucchi di neve, penso quanto starebbe bene, adesso, se dagli altoparlanti della stazione uscisse un verso di Franco Battiato: «Mister Tamburino non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare».

La canzone si chiama «Bandiera bianca». Così, per vostra informazione, mentre il treno Freccia Bianca 9722 corre verso Vicenza e Verona. Poi saliamo sull’inzaccherato regionale 20703: sembra un codice di avviamento postale. Ci lascerà a Mantova: prima tappa. Alle elezioni mancano undici giorni, Trapani è lontana milleseicento chilometri.

Beppe Severgnini

13 febbraio 2013 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-trieste-mantova-severgnini_25e1f6b2-75aa-11e2-a850-942bec559402.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #44 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:22:34 pm »

Mantova-Genova, l’inverno padano e i sondaggi (quasi) impossibili

Continua il viaggio del Corriere: da Trieste a Trapani in treno, in 2 a classe, per esplorare, lungo i binari e le stazioni, gli umori del Paese alla vigilia delle elezioni


Mantova sta in un golfo nel gran mare di Lombardia. La stazione ferroviaria è un ormeggio gelato, e spesso succede di rimanerci oltre il dovuto. Qui s’incontrano Trenord e Trenitalia, e i risultati sono talvolta esoterici. Infatti, perdiamo il regionale per Cremona: non lo vediamo partire, il binario 5 è un parallelo lontano. Stefano Scansani, firma nobile della Gazzetta di Mantova, cerca sadicamente di convincerci a servirci di «servizi sostitutivi di autobus». L’appalto, dice, è stata vinto da una ditta pugliese, gli autisti conoscono poco la zona e quando la nebbia è fitta invitano i passeggeri a indicargli la strada. Ma i passeggeri, spesso, sono lavoratori stranieri, e non ne hanno la minima idea. Ieri gli operai della cartiera Burgo, prossima alla chiusura, hanno sfrattato il responsabile del personale, traslocando scrivania e mobilio sulla neve. La Banca Agricola Mantovana è nel gruppo Monte Paschi di Siena (sufficiente?). Il settore chimico stenta, i proprietari voglio mollare il Mantova Calcio. La Sala degli Sposi in palazzo Ducale, principale attrattiva turistica, è chiusa dal giorno del terremoto.

Per la città dei Marcegaglia e dei Colaninno, una strana vigilia elettorale. Beppe Grillo, lunedì, ha riempito piazza Sordello, nonostante la neve. Cose del genere riescono solo al Festivaletteratura, che io sappia: e l’umore è diverso. Il treno per Modena delle 11.31 è lento, pulito, dipinto con colori montessoriani (giallo limone, azzurro cielo, verde pisello); nei campi innevati schizzano lepri soddisfatte. Più numerose degli elettori, pare. Tra Mantova e Modena, infatti, la maggioranza è formata da immigrati: come intervistare sul voto chi non vota? Qualche studente sale in stazioni dai nomi letterari — Borgochiesanuova, Romanore, Reggiolo — e si arrotola nel sedile, cuffie in testa e libri in braccio. Francesca, una ragazza di Suzzara con occhi chiari e un cognome da debito pubblico (Zilioni), il 24 febbraio voterà Pd. Saverio Todaro, impiegato, voterà Grillo. Nicola Caviano viene da Caserta ed è qui «per la ricostruzione post-terremoto». Non dice per chi vota, ma è convinto: «Il meno rosso, da queste parti, è arancione».

A Modena arriviamo con quindici minuti di ritardo, e manchiamo la coincidenza: due treni persi in metà giornata (uno per colpa nostra, uno per colpa loro): non male. Saliamo sul Freccia Bianca delle 13.41 diretti a Piacenza. Bersanlandia ci accoglie gelida: non è questione di ospitalità, ma di temperatura. Nell’attesa chiediamo ai presenti «Dovete scommettere dieci euro sul prossimo presidente del Consiglio: su chi li mettete?». Due rispondono Bersani, uno Berlusconi, due Grillo, due non rispondono: sono inglesi di passaggio e la notizia che il segretario del Pd sia di Bettola — pochi chilometri da qui, direzione sud — non sembra scuoterle più di tanto.

Si riparte sul regionale 20388 delle 15.15, direzione ovest: temperatura subtropicale all’interno, fuori neve a perdita d’occhio. Voghera o Volgograd, vien da chiedersi. La conversazione da scompartimento — quella che induce alla confidenze — non esiste; lo spazio aperto e l’inverno inducono al sospiro e al monosillabo. A Voghera, in attesa del treno, due solide quarantenni mi confessano di non essere né casalinghe né di Voghera: sono liguri, lavorano in tribunale e ogni giorno si fanno più di due ore di treno. Saliamo insieme sull’Intercity 673, che arriva a Genova con venti minuti di ritardo. Ieri mattina eravamo a Trieste, in due giorni abbiamo trovato un altro mare. Un altro umore, non ancora.

Beppe Severgnini

13 febbraio 2013 (modifica il 14 febbraio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/severgnini-trieste-trapani/notizie/articolo-mantova-genova-severgnini_b972568a-762f-11e2-a850-942bec559402.shtml
Registrato
Pagine: 1 2 [3] 4 5 ... 9
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!