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Autore Discussione: ABRAHAM B. YEHOSHUA  (Letto 22435 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 17, 2011, 09:43:13 am »

17/10/2011

Perché questo baratto è comunque giusto

Non abbiamo ceduto e Hamas ha ammesso la nostra superiorità militare

ABRAHAM YEHOSHUA

Gli entusiastici festeggiamenti esplosi in Israele per l’atteso rilascio del soldato rapito Gilad Shalit potrebbero far pensare che il governo israeliano non abbia solamente concluso un accordo con Hamas (accordo a cui si poteva forse arrivare già due anni fa) ma sia riuscito a portare un israeliano su Marte e ora ne attenda il ritorno.

Anche in passato soldati e civili sono stati tenuti prigionieri in Stati arabi o presi in ostaggio da organizzazioni terroristiche o di guerriglia di vario tipo. E per ottenere la loro liberazione è stato applicato lo stesso principio di centinaia o migliaia di detenuti o prigionieri di guerra in cambio di pochi. Ma da che ricordo non si è mai registrato un entusiasmo popolare tanto travolgente quanto quello scatenatosi dopo l’annuncio del previsto rilascio del giovane Shalit.

Una delle ragioni di questo entusiasmo nasce dalla notevole capacità della famiglia Shalit e del suo entourage di tenere vivo l’interesse per le vicende del ragazzo durante i cinque anni trascorsi dal suo rapimento e di conquistare il sostegno di una vasta parte dell’opinione pubblica che non si è mai stancata di chiedere al governo israeliano di raggiungere un accordo con Hamas per il rilascio del soldato.

Molti israeliani infatti, fra cui intellettuali, membri delle forze dell’ordine e di sicurezza e appartenenti a tutte le classi sociali, si sono uniti alla campagna per ottenere la sua liberazione. Sono state organizzate manifestazioni e raduni. Si sono appesi ovunque poster e manifesti che ricordavano il numero dei giorni di prigionia. Ma alla famiglia Shalit va soprattutto il merito di avere saputo compiere un atto di coraggio: lasciare per più di un anno la propria casa in un piccolo villaggio della Galilea per erigere una tenda di protesta accanto alla residenza del primo ministro a Gerusalemme perché l’opinione pubblica non dimenticasse la sofferenza della vittima e dei suoi familiari e premesse affinché il capo del governo accettasse le dure condizioni imposte da Hamas.

Ma nonostante la simpatia popolare non pochi israeliani, non solo di destra ma anche di sinistra, si sono opposti allo scambio di un unico soldato per mille e più prigionieri palestinesi, fra cui alcuni responsabili di attentati gravissimi in cui hanno perso la vita decine di persone.

Potrei suddividere gli oppositori a questo accordo in tre categorie.

La prima è composta da coloro che vedono nei prigionieri palestinesi criminali assassini che non meritano il perdonoe il cui rilascio sarebbe un errore sia da un punto di vista legale che morale nonché un terribile colpo per i parenti delle vittime innocenti. Tali persone sarebbero quindi inevitabilmente disposte a far sì che il prigioniero rimanga in mano ai suoi carcerieri.

C’è da dire che benché questa presa di posizione non sia molto comune ha comunque alcuni sostenitori anche fra chi non appartiene ai circoli della destra.

C’è poi chi deplora la disparità numerica dello scambio. Gente che sarebbe disposta ad accettare il rilascio di un unico prigioniero palestinese, fosse anche il responsabile del più efferato attentato terroristico, ma non quello di centinaia.

A questa presa di posizione potrei replicare che fin dall’inizio del conflitto arabo-israeliano, nelle guerre combattute contro paesi arabi densamente popolati nel ’48, nel ’67 e nel ’73, gli israeliani hanno ottenuto risultati notevoli a dispetto della loro inferiorità numerica. I nostri soldati sono ben addestrati, dispongono di tecnologie avanzate e di capacità militari migliori di quelle degli arabi, e di certo di quelle dei guerriglieri palestinesi. Quindi, esigendo il rilascio di 1.000 prigionieri in cambio di un unico soldato, Hamas chiede in pratica di raggiungere un qualche equilibrio militare, non umano. In altre parole mille dei loro prigionieri che lottano con coltelli, con cinture esplosive, con ordigni e razzi primitivi valgono uno solo dei nostri soldati.

Israele è rassegnato alla propria inferiorità numerica e continuerà ad addestrare i suoi soldati in modo da poter superare questa lacuna, sia su un piano militare che morale. Un unico prigioniero in cambio di migliaia non è perciò un’umiliazione o una resa ma un accordo accettabile che riconosce, anche da parte del nemico, la capacità militare dei combattenti israeliani.

Ma c’è una terza categoria di persone che si oppone strenuamente allo scambio di prigionieri con Hamas e le cui ragioni esigono che chi, come me, lo sostiene, affronti l’argomento.

Queste ragioni sono semplici. In base all’esperienza una parte dei prigionieri liberati nel quadro di precedenti accordi è tornata all’attività terroristica progettando o compiendo attentati che hanno causato molte vittime israeliane. La liberazione di un unico soldato potrebbe quindi mettere in pericolo parecchie vite umane.

Potrei confutare tale ragionamento con tre spiegazioni possibili che, credo, saranno in grado di neutralizzarlo in maniera discreta.

1. Molti dei prigionieri liberati saranno trasferiti nella Striscia di Gaza e lì, in un territorio completamente distaccato da Israele, non potranno compiere attentati terroristici contro Israele ma tutt’al più unirsi alle forze combattenti di Hamas.

2. Un’altra parte dei prigionieri verrà espulsa dalla Cisgiordania e non verrà in contatto con la popolazione israeliana, sia in Giudea e in Samaria sia in Israele.

3. I prigionieri che rimarranno in Cisgiordania, alcuni dei quali potrebbero ripetere atti di terrorismo, si troveranno non solo sotto la supervisione dei servizi di sicurezza israeliani (che sanno di loro tutto ciò che c’è da sapere) ma anche di quelli dell’Autorità Palestinese, un elemento nuovo che non esisteva in passato. L’Autorità Palestinese negli ultimi anni si occupa in maniera efficace di prevenire atti di terrorismo e di violenza con l’intento di stabilizzare la situazione in Cisgiordaniae preparare il nuovo Stato palestinese che sorgerà. In altre parole i prigionieri che torneranno alle loro case in Cisgiordania, una settantina credo, non solo saranno sotto il costante controllo dei servizi di sicurezza israeliani ma potrebbero anche essere influenzati dall’atmosfera positiva che si respira nei territori dell’Autorità palestinese in attesa della ripresa di un negoziato per la soluzione di due stati per i due popoli.

E chissà, forse come è successo in altre nazioni, dal carcere potrebbero uscire nuovi capi disposti a collaborare con un nemico che in passato è stato il loro aguzzino.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9330
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 16, 2011, 06:51:38 pm »

16/12/2011

La Palestina e l'ignoranza di Gingrich

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Mi hanno detto che Newt Gingrich, candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, è uno storico di formazione più ampia rispetto alla media dei membri del Congresso e del Senato statunitense. Se questo è vero allora le sue affermazioni durante un’intervista a un canale televisivo ebraico americano - sul fatto che il popolo palestinese sia «inventato» e che i confini del ‘67 non sarebbero difendibili - lo rendono sospetto di ignoranza storica e di superficialità politica.

Gingrich dice che non è mai esistito uno stato palestinese e che la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano fino all’occupazione britannica. Anche gli Stati Uniti d’America non erano una nazione prima del 1779 bensì una colonia dell’impero britannico nel Nord America. Questo implica forse che i residenti di quei territori non avessero diritto di fondare un loro stato indipendente? Lo stesso si può dire di decine di stati fondati durante l’ultimo secolo da popoli che erano parte di vasti imperi quali quello britannico, quello francese o persino quello austro-ungarico. Ed era diritto degli abitanti della ex Cecoslovacchia di dividersi in due stati - la Repubblica Ceca e la Slovacchia - in base a una ripartizione territoriale. È infatti il territorio a stabilire la realtà dei suoi abitanti, sia che essi si definiscano un popolo a sé, o parte di una popolazione più ampia.

Palestina è un nome antico che risale all’epoca romana ed è chiaro che i residenti di questa regione siano autorizzati a definirsi «palestinesi» e, in quanto tali, possano decidere se far parte di un Paese arabo o avere uno stato indipendente che mantenga legami e affinità culturali e religiosi con la grande nazione araba.

Come può il signor Gingrich sostenere che i palestinesi e lo stato palestinese siano «inventati»? Il 29 novembre 1947 il rappresentante degli Stati Uniti, insieme con la maggior parte del mondo libero e dei paesi appartenenti al blocco sovietico, votò a favore della spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. Lo stato ebraico si chiama oggi Israele e quello arabo che sorgerà si chiamerà Palestina. Con che diritto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti afferma che questa decisione non è valida o è un’invenzione?

La superficialità del signor Gingrich si fa evidente quando afferma che i confini del ‘67 non sono difendibili. Se avesse studiato bene la mappa di Israele, o della Palestina, avrebbe visto che l’ampiezza del futuro stato palestinese, la cosiddetta Cisgiordania, o Giudea e Samaria, è di circa 60 chilometri in base ai confini del ‘67. Se Israele spingesse i suoi confini dieci chilometri più a Est riuscirebbe a proteggersi meglio dal lancio di missili o da tiri di artiglieria? La difesa di Israele dipende forse dall’annessione di qualche chilometro quadrato di territorio palestinese in cui ora Israele stipa coloni ebrei? O dipende in primo luogo dai rapporti di pace e di fiducia che riuscirà a stabilire con i palestinesi e dalla demilitarizzazione di ogni arma offensiva nel loro territorio sotto stretto controllo internazionale?

E anche se il signor Gingrich nega la creazione di uno stato palestinese cosa ne pensa dei milioni di palestinesi che vivono in Giudea e Samaria? Può una persona cresciuta in base ai valori democratici del suo Paese permettere che milioni di altre persone siano private dei diritti civili e del diritto di voto nella propria madrepatria come lo sono oggi?

Quando uno dei principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti rilascia dichiarazioni talmente irresponsabili per attrarre i voti della comunità ebraica (in gran parte sostenitrice dei democratici) si può capire perché è difficile sperare che gli Usa possano davvero guidare il processo di pace in Medio Oriente e, alla luce di questo, reputare che il ruolo dell’Europa come guida di questo processo diventi sempre più vitale e necessario.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9552
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 08, 2012, 10:29:36 am »

8/1/2012



ABRAHAM B. YEHOSHUA

In un articolo pubblicato il 23 dicembre scorso sul quotidiano Haaretz Abraham Burg formula una nuova ipotesi secondo la quale è giunto il momento di prendere in considerazione la possibilità che Israele proceda ciecamente e inesorabilmente verso la creazione di uno Stato unico, o binazionale.

A eccezione dei sostenitori dello schieramento religioso (per via della struttura stessa dell’identità religiosa), di quelli della destra radicale laica (per via delle loro fantasie di violenza), e di quelli della sinistra post-sionista (per via dei loro ideali umanisti-cosmopoliti), tutte le altre fazioni politiche e ideologiche di Israele capiscono e dichiarano che uno Stato israeliano binazionale sarebbe un’eventualità pessima e pericolosa, sia a breve che, ovviamente, a lungo termine. Ciò nonostante procediamo ineluttabilmente verso la realizzazione di tale possibilità che, in determinati periodi della storia sionista, è stata considerata ragionevole e accettabile da certi ambienti.

Anche se molti di noi credono che si possa evitare la creazione di uno Stato binazionale grazie a un'incisiva azione politica, abbiamo tuttavia il dovere di prepararci, ideologicamente ed emotivamente, a una tale eventualità (così come ci si prepara ad altre potenziali emergenze) affinché essa non sconvolga la struttura democratica di Israele e non distrugga completamente l'identità israeliana-ebraica consolidatasi negli ultimi decenni.

Va compreso che uno Stato binazionale potrebbe sorgere non solo in seguito all'operato di Israele ma anche a una cooperazione segreta fra le diverse fazioni palestinesi, sia all'interno del territorio israeliano sia in Giudea e in Samaria. Persino gli esponenti più pragmatici di Hamas vorrebbero trascinare Israele in una prima fase di tale processo. Non solo per via del discutibile presupposto che ciò che è male per gli ebrei è certamente bene per i palestinesi ma perché per i palestinesi uno Stato binazionale nella terra di Israele sarebbe, a lungo termine, una possibilità più allettante del controllo sul territorio spezzettato e smembrato che potrebbero, con grande sforzo e probabile spargimento di sangue, estrarre dalle fauci di Israele.

Uno Stato binazionale, anche solo in parte democratico, potrebbe garantire ai palestinesi, grazie alla solida economia israeliana e ai suoi legami forti e profondi con l'Occidente, una vita migliore e più sicura, ma soprattutto un territorio più ampio che, entro qualche decina di anni, potrebbe diventare Palestina in toto.

Ovunque sentiamo parlare del sogno palestinese di uno Stato binazionale. E questo può forse spiegare l'insistenza dell'Olp a Camp David nel 2000, dell'Autorità palestinese durante i colloqui con il governo Olmert e anche nel corso dei recenti approcci dell'attuale governo israeliano, a non addentrarsi in negoziati seri con l'intenzione di arrivare a una vera conclusione. Questo sogno spiega anche l'incomprensibile paralisi dei palestinesi nell'organizzare una protesta civile e non violenta contro gli insediamenti, e forse pure il loro profondo sopore notturno quando dei vandali bruciavano le loro moschee. A differenza dei loro fratelli in Siria o in altri Paesi arabi che affrontano a torso nudo i proiettili dell'esercito i palestinesi osservano passivamente l'accelerato ampliamento degli insediamenti trascinandoci, con pazienza, verso uno Stato binazionale.

Al tempo stesso gli ebrei, forti di una «competenza» millenaria, tornano a insediarsi e a intrecciarsi nella trama dell'identità di un popolo straniero - parte dell'enorme nazione araba - come hanno fatto per secoli in Ucraina, in Polonia, nello Yemen, in Iraq o in Germania, lasciandosi trascinare con timore, o forse con entusiasmo, in una situazione che ha causato loro grandi catastrofi ma che soprattutto potrebbe distruggere definitivamente la possibilità di normalizzazione della sovranità israeliana.

Alla gran maggioranza dei religiosi estremisti, o anche parzialmente moderati, l'ideale di uno Stato binazionale non appare tanto minaccioso. Chi ha saputo mantenere la propria identità per secoli in ogni parte del mondo per mezzo di testi scritti e di una vita comunitaria ristretta riuscirebbe di certo a serbarla anche in un singolo avamposto circondato da villaggi arabi con una compagine militare a garantirne la sicurezza.

Gli estremisti di destra, dal canto loro, che considerano Israele una gigantesca portaerei statunitense (secondo le parole del ministro Uzi Landau), credono che quella confusa potenza concederà loro di risolvere il problema demografico al momento opportuno con una serie di silenziosi trasferimenti di popolazione. E nemmeno gli umanisti cresciuti nell'ideale di fratellanza fra i popoli secondo gli insegnamenti dei movimenti politici Hashomer Hatzair e Brith Shalom non vedrebbero nulla di male nella futura presenza di uffici di Hamas nelle torri Azrieli di Tel Aviv, fintanto che questi non intralcino il loro approccio umanistico.

Ma per chi ha creduto e sognato un'identità ebraica indipendente che metta alla prova, nel bene e nel male, i propri valori in una realtà territoriale nazionale, uno Stato binazionale spezzerebbe dolorosamente questo sogno e sarebbe fonte di duri conflitti, come dimostra il fallimento di altri Stati binazionali costituiti da popoli molto più vicini sotto un profilo religioso, economico, storico e di valori comuni di quanto lo siano ebrei e palestinesi.

È ancora possibile evitare il male che ci aspetta? Riusciremo a convincere i palestinesi a realizzare l'ideale di due Stati per due popoli (anche nel quadro di una federazione)? È ancora possibile convincere i sostenitori di Israele negli Stati Uniti e in Europa a mostrare risolutezza morale e a impedire a Israele di seguire l'ambigua via che ha intrapreso? E nel caso in cui il binazionalismo dovesse diventare realtà, come potremmo limitarne i danni? Come potremmo prepararci senza che esso distrugga l'indipendenza laica israeliana e non ci schiacci fra la discriminazione femminile di stampo ebraico e quella di stampo musulmano? Queste sono domande serie e nuove alle quali anche i sostenitori della pace devono trovare una risposta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9626
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« Risposta #33 inserito:: Aprile 17, 2012, 11:56:43 am »

Cultura

10/04/2012 - intervista

Abraham Yehoshua "Il vero castigo di Günter Grass"

Abraham Yehoshua (Gerusalemme, 1936).
Günter Grass (Danzica, 1927), premio Nobel nel 1999

Lo scrittore israeliano risponde al Nobel tedesco dopo la poesia-denuncia sulla potenza nucleare di Gerusalemme come minaccia per la pace mondiale

MARIO BAUDINO

“Perché dico solo adesso, / da vecchio e con l’ultimo inchiostro: / La potenza nucleare di Israele minaccia / la così fragile pace mondiale? / Perché deve essere detto / quello che già domani potrebbe essere troppo tardi». Günter Grass, con questi versi che fanno parte di una lunga poesia pubblicata nei giorni scorsi, si è guadagnato la qualifica di «persona non grata» in Israele, i calorosi complimenti del regime iraniano, un nugolo di polemiche, accuse vibranti di antisemitismo. Nello stesso testo si dichiara peraltro «amico» dello Stato di Israele. Per lo scrittore tedesco, il suo è un invito alla pace. Per uno scrittore israeliano come Abraham Yehoshua queste parole suonano come poco più di una pericolosa sciocchezza. Dal suo ufficio di Haifa, ci spiega d’aver letto la versione ebraica «pubblicata sui nostri quotidiani». Ne è stato piuttosto colpito.

Che cosa ha pensato?
«Che quando un autore di prosa comincia a scrivere poesie diventa pericoloso. Ma al di là delle battute, proprio non capisco perché uno come Günter Grass, a 85 anni, con un Nobel alle spalle, un nuovo libro, una fama consolidata, una stima diffusa nel mondo intellettuale, possa affrontare i problemi del Medio Oriente accontentandosi di valutazioni così approssimative».

Che cosa gli rimprovera?
«Di non aver capito il pericolo rappresentato dall’Iran nel processo di pace. Che è peraltro ben chiaro agli stessi palestinesi. L’Iran è un paese con cui abbiamo avuto nel tempo molti legami, c’è persino una comunità ebraica. Ora però un regime fanatico non ha altra scelta, per perpetuarsi, di riunire gli islamici sotto la bandiera della sharia contro Israele. Rappresenta un pericolo gravissimo, cui non possiamo cedere».

Dunque Grass si è accontenato di luoghi comuni, non ha approfondito l’argomento. È solo questo il problema?
«Ma sì, non ha capito niente. Pensare che non era così complicato informarsi. I palestinesi, per esempio, sono ben consci che le minacce iraniane a Israele rappresentano un pericolo anche per loro. Il nostro premier Netanyahu, in maniera speculare, tende a spostare la questione palestinese sulla questione iraniana. Ma sono proprio i palestinesi a chiedere agli iraniani: che ci fate qui. A tenerli il più possibile lontani».

La poesia e ciò che ne è seguito sono solo un gigantesco equivoco, una gaffe?
«Se Grass si fosse informato, avrebbe evitato di scrivere cose non vere. Si deve parlare di palestinesi e di processo di pace, questo sì. Non capisco perché non l’abbia fatto».

È stato accusato di antisemitismo.
«Nella storia il rapporto con gli ebrei di tanto in tanto diventa folle, impazzisce, questo è certo. Non credo però che Grass sia antisemita. Anzi lo escludo. Non tutti ricordano che partecipò alla visita di Willy Brandt nel 1973, la prima visita ufficiale di un cancelliere tedesco in Israele. Diciamo piuttosto che le sue posizioni e analisi politiche non sono sempre state particolarmente felici».

Sta pensando all’89?
«Quando si dichiarò contrario all’unificazione tedesca, annunciando che non avrebbe funzionato. Guardi il risultato: la Germania è ora uno degli Stati più prosperi e potenti del mondo».

Sta dicendo che non va preso troppo sul serio?
«Io sotto questo aspetto non lo prendo sul serio. E aggiungo: prima di scrivere poesie, ci pensi un po’».

Il vostro governo lo ha dichiarato persona non grata. Come forma di critica letteraria non è un po’ eccessiva?
«Il bando non va bene, assolutamente no. Ognuno deve essere libero di visitare Israele. Anzi, la risposta migliore a Grass sarebbe di lasciarlo venire, in modo che magari riesca a capire meglio la situazione».

Lei stesso però ha detto di considerarlo pericoloso. In che senso?
«Perché invece di criticare la politica israeliana sui vari problemi all’ordine del giorno, che ci sono, e gravi, sposta l’attenzione su temi propagandistici. Infatti il regime iraniano si è subito complimentato con lui. E non solo».

Sta pensando ai neonazisti tedeschi?
«Che sono sempre più attivi, e rappresentano un altro pericolo vero».

Il vostro ministro degli Esteri, Liebermann, ha parlato esplicitamente di razzismo. Il ministro dell’Interno, Yishai, ha ricordato la militanza giovanile di Grass nelle SS, che lui stesso aveva confessato nell’autobiografia.
«Ripeto, non è un problema di antisemitismo. Anzi, il plauso che gli è venuto anche dai neonazisti mi pare sia già, di per sé, il vero castigo di Grass».

da - http://www.webwarper.net/ww/www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/449561/
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« Risposta #34 inserito:: Giugno 05, 2012, 06:59:48 pm »

5/6/2012

Israele troppi africani clandestini

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima.

Poiché i confini con la Siria e il Libano, due nazioni ancora ostili a Israele, sono ermeticamente chiusi, nessun rifugiato o immigrato avrebbe la possibilità di superarli. Anche la frontiera fra Israele e la Giordania è sotto la stretta supervisione delle due parti a causa di problemi di sicurezza con i palestinesi.

Ma lungo il confine tra Israele ed Egitto, tra il grande deserto del Sinai (che secondo il trattato di pace tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato) e quello israeliano del Negev in anni recenti è iniziata l’infiltrazione di migliaia di africani provenienti dal Sudan e dal Sudan meridionale, dall’Etiopia, dall’Eritrea e, più di recente, da Paesi anche più lontani. Uomini e donne che, dopo aver percorso a piedi migliaia di chilometri condotti da guide e da contrabbandieri profumatamente pagati, arrivano in Israele non alla ricerca di asilo politico ma soprattutto di un lavoro.

Israele, che dopo la Shoah ha accolto centinaia di migliaia di profughi ebrei provenienti anche da paesi arabi e ha dovuto fare i conti con la richiesta di lavoro dei residenti dei territori palestinesi, si trova a fronteggiare un nuovo problema, simile a quello di molti Paesi europei.

Una minoranza di questi infiltrati sono profughi in fuga dall’orrore della guerra. La più parte, però, sono persone in cerca di lavoro che, come in molte grandi città d'Europa, si stabiliscono in aree urbane economicamente e socialmente deboli dove vivono in condizioni di grande povertà, entrando in competizione sul mercato locale come manodopera a basso costo e priva di diritti sociali. Dal momento che Israele è un paese gradevole dal punto di vista climatico, di certo per gli africani, costoro non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv.

I residenti locali sono furiosi con il governo che non impedisce questa invasione illegale, della quale sono soprattutto loro a pagare il prezzo. E quando a questa situazione si vanno ad aggiungere qua e là occasionali atti criminosi da parte degli infiltrati, la protesta della popolazione locale si fa violenta.

I membri delle organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra tendono a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista.

Ci sono inoltre persone e aziende che per realizzare profitti si avvalgono di questa manodopera a basso costo e affittano appartamenti fatiscenti a prezzi oltraggiosi. In questo modo non solo i salari dei lavoratori israeliani, compresi quelli degli arabi israeliani, tendono a diminuire ma gli affitti degli appartamenti nelle zone periferiche aumentano in maniera inverosimile.

Qual è la soluzione? Innanzi tutto bloccare la frontiera col deserto, cosa che sta già rapidamente avvenendo. Se ciò non accadesse Israele potrebbe essere travolta da un vero e proprio tsunami africano. Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base ad accurati controlli il numero dei rifugiati con diritto di asilo politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite, dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno, un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei loro paesi d’origine.

Rimane la domanda riguardo a chi prenderà il posto degli immigrati nel mercato del lavoro che necessita anche di manodopera a basso costo e non qualificata. A questo punto entrano in gioco i palestinesi, il vero motivo per cui ho scritto questo articolo.

Nella Striscia di Gaza vivono migliaia di palestinesi bisognosi di una fonte di reddito e ansiosi di trovare un lavoro. L’apertura dei confini di Gaza a qualche gruppo di migliaia di lavoratori palestinesi che abbiano superato attenti controlli di sicurezza potrebbe portare benefici sia all’economia palestinese che al mercato del lavoro israeliano e promuovere una normalizzazione della situazione politica fra la Striscia di Gaza e Israele.

I lavoratori palestinesi conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv) questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza.

Un simile stato di cose è andato avanti per molti anni dopo la guerra del ’67 dimostrandosi vantaggioso per entrambi i popoli costretti a vivere fianco a fianco con la speranza di promuovere una pacifica convivenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10191
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« Risposta #35 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:00:09 am »

10/7/2012

Quell'ostacolo sul futuro di Israele

ABRAHAM YEHOSHUA

Tutti i miei figli e nipoti vivono a Tel Aviv e perciò, con grande rammarico, mia moglie ed io abbiamo deciso di trasferirci da Haifa – la bellissima città portuale arroccata su un monte dove abbiamo trascorso 45 splendidi anni – in quello che viene ironicamente chiamato «lo stato di Tel Aviv».

Quando abbiamo cominciato a svuotare cassetti e ad aprire vecchie scatole ci siamo imbattuti in un fascio di vecchie lettere che avevamo scritto ai genitori verso la fine della nostra lunga permanenza in Francia negli Anni Sessanta. Lettere personali, vergate ogni giorno a partire dal maggio ’67 al luglio dello stesso anno.

Scritte dapprima con l’ansia e la paura dell’attesa di una guerra che di giorno in giorno appariva più certa, poi nel corso della guerra stessa (protrattasi come si sa solo sei giorni) e infine durante il burrascoso periodo seguito alla vittoria di Israele.

Quel periodo è stato oggetto di ricerche e analisi giornalistiche e accademiche scritte da ogni prospettiva ma sono rimasto colpito dalla nostra esperienza personale, dalla testimonianza diretta di quelle lettere, dal divario tra l’ansia, il sostegno e l’ammirazione degli europei – che sentivamo forte intorno a noi – per Israele quarantacinque anni fa e le loro crescenti riserve negli ultimi anni. Riserve che giungono talvolta a mettere in discussione la legittimità stessa dello Stato ebraico e a ventilare l’ipotesi della sua scomparsa entro la fine di questo secolo.

Come e perché si è verificata una tale, profonda trasformazione? Quale ne è la radice e da cosa deriva?

Dopo tutto la preoccupazione per l’Israele di 45 anni fa era genuina e profonda, non erano solo parole e manifestazioni di piazza ma anche file di europei, giovani e vecchi (tra cui molti non ebrei) che si arruolavano come volontari per combattere fianco a fianco degli israeliani durante una guerra considerata pericolosa e forse perduta in partenza. In quelle settimane c’era la sensazione che la difesa di Israele fosse non solo una questione politica ma un obbligo morale e di coscienza, come durante la guerra civile spagnola.

Anche la folgorante vittoria di Israele non affievolì quel sostegno. La gente non diceva: forse Israele ci ha ingannati, ha esagerato il suo stato di pericolo, il bisogno di aiuto, ha finto di essere debole mentre in realtà era forte. No, al contrario. La netta vittoria di Israele fu considerata giusta e morale così come il pericolo e la minaccia erano stati considerati autentici prima della guerra. Il sostegno popolare per Israele era travolgente e valicava la cortina di ferro anche dopo che il blocco comunista, nella sua frustrazione, aveva interrotto le relazioni con lo Stato ebraico.

Di più. La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al termine della guerra sostenne la vittoria israeliana all’unanimità e fu chiaramente stabilito che i territori occupati nel corso del conflitto non sarebbero stati restituiti ai paesi arabi sconfitti se non in cambio della pace e della loro smilitarizzazione.

Da quel momento in poi la storia è nota. Dapprima vi fu il fermo rifiuto arabo di avviare qualsiasi negoziato con Israele. Cominciò allora una guerra di attrito lungo i nuovi confini accompagnata dal perentorio rifiuto dei palestinesi di arrivare a un qualsivoglia compromesso con lo Stato ebraico e in seguito iniziò una brutale ondata di terrore in Cisgiordania a Gaza e all’interno di Israele stesso. Nonostante ciò già all’epoca cominciò una crescente erosione dello status morale di Israele. E malgrado gli accordi di pace con l’Egitto e la Giordania e la restituzione della penisola del Sinai all’Egitto il sostegno, la simpatia e l’ammirazione del passato si trasformarono in rabbia e delusione.

Gli atti di occupazione di Israele sono nulla in confronto ai fallimenti disastrosi e alle folli atrocità perpetrate da altre nazioni nel ventesimo secolo, per esempio nei Balcani, in Vietnam, in Cambogia e in molti Paesi africani, per non parlare degli orrori della Germania nazista e della Russia sovietica. Eppure persino nell’inferno della Seconda Guerra Mondiale nessuno, nemmeno un ebreo, ha mai sostenuto che lo Stato tedesco andasse delegittimato e cancellato dalla faccia della terra.

Quando esamino tutti gli argomenti, giustificati o meno, nei confronti della politica di Israele di questi anni ne trovo uno che ha maggiore peso rispetto agli altri e che secondo me è alla radice dell’estrema e talvolta sfrenata avversione nei confronti di Israele. Mi riferisco agli insediamenti che continuano a essere costruiti in territorio palestinese. Molti accettano il diritto di Israele a difendersi. Molti altri accettano il diritto di Israele a richiedere, a causa delle sue ridotte dimensioni e della sua vulnerabilità, che i territori occupati che saranno evacuati debbano essere smilitarizzati. Ma nessuna persona di coscienza e con un senso della storia può accettare che Israele eriga insediamenti espropriando arbitrariamente e ingiustamente territori che dovrebbero essere, a detta di tutti, dello Stato palestinese. Questo è un atto scorretto e intollerabile che mette in discussione la giusta vittoria della Guerra dei sei giorni. Ed è lo sconvolgimento emotivo dovuto al passaggio dal sostegno e dall’ammirazione del passato alla delusione amara del presente a portare a mettere in dubbio la legittimità di Israele.

La maggior parte degli israeliani considera gli insediamenti una questione secondaria, forse ingiusta e di cui si potrebbe fare a meno, comunque marginale nel quadro della battaglia di Israele per la sopravvivenza e la pace, e non capisce fino a che punto gli insediamenti minino la posizione morale di Israele agli occhi di molti. Io, da parte mia, ritengo che, per la sua legittimità, la giustificazione morale dello Stato ebraico sia molto più importante della democrazia, della memoria della Shoah e di tutti i beni economici, politici, militari e culturali che Israele ha diligentemente accumulato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10314
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 01, 2012, 03:05:52 pm »

Editoriali

01/10/2012 - le idee

Netanyahu deve parlare agli iraniani

Abraham B. Yehoshua

Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene un discorso davanti all’assemblea delle Nazioni Unite si rivolge solitamente a tre o quattro diversi gruppi di ascoltatori: innanzi tutto ai cittadini e al governo degli Stati Uniti, in secondo luogo agli ebrei americani che prestano grande attenzione alle sue parole, in terzo luogo ai rappresentanti dei paesi più o meno amici di Israele in Europa, in Sud America e in Asia e, infine, alla popolazione del suo Paese (benché abbia anche altre occasioni di rivolgersi a noi israeliani). 

 

A giudicare dal suo recente discorso all’Onu risulta comunque chiaro che Netanyahu non aveva nessuna intenzione di includere fra i suoi ascoltatori anche il popolo iraniano, l’opinione pubblica di quel Paese o i suoi alleati, nonostante sapesse che, in un mondo di rapide e intense comunicazioni come il nostro, il suo discorso avrebbe potuto facilmente arrivare ai ceti colti dell’Iran e dei Paesi arabi.

 

Sembra infatti che Netanyahu e i suoi consiglieri considerino perduta in partenza la battaglia per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica iraniana, e questo contrariamente alla tradizione politica sionista che, fin dai suoi albori, si è rivolta ai cittadini arabi e ha continuato a farlo anche negli anni in cui la stampa scritta ed elettronica veniva bloccata dai regimi totalitari dei loro Paesi e del blocco sovietico.

 

I leader e i portavoce israeliani si indirizzavano alle popolazioni arabe per spiegar loro nel miglior modo possibile il retroterra storico del popolo ebraico, le sue battaglie, la sua presenza in passato in questa regione e molto altro ancora. E nonostante il perdurare di un muro di ostilità sembra che qualcosa sia filtrato nelle loro coscienze se si è giunti non solo agli accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania ma anche a quelli di Oslo e di Ginevra con i palestinesi.

 

Io non sono un esperto dei trucchi propagandistici della leadership iraniana ma ho l’impressione che ultimamente sia passata dall’ignobile negazione della Shoah al totale disconoscimento del passato storico degli ebrei in Medio Oriente. Il nostro primo ministro, però, forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si è dato la pena di citare concreti fatti storici. Ancora una volta ha optato per i cliché del Regno di Davide, delle promesse divine fatte nella Bibbia al popolo ebraico e del legame spirituale di quest’ultimo con la terra di Israele.

 

Non gli è venuto in mente, per esempio, di parlare dell’editto di Ciro, re di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadinejad e suscitato forse un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla profonda coscienza storica). Non gli è venuto nemmeno in mente di parlare della presenza millenaria di comunità ebraiche nelle nazioni del Medio Oriente tra cui, naturalmente, l’Iran, e di lodare persino l’atteggiamento di relativa tolleranza e rispetto dimostrato da questo Paese verso gli ebrei suoi residenti. Non gli è venuto in mente di parlare del riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Iran e della Turchia, due potenze musulmane, dopo la sua fondazione e del mantenimento dei rapporti diplomatici con esso per più di trent’anni. Non gli è venuto in mente di parlare degli israeliani di origine iraniana che hanno occupato, e ancora occupano, posizioni di primo piano nell’amministrazione civile e militare israeliana. E ai suoi consiglieri non è venuto in mente di suggerirgli di parlare della delegazione israeliana guidata da Lova Eliav rimasta per due anni nella regione iraniana di Qazvin negli Anni 60 per prestare soccorso alle vittime di un terribile terremoto.

 

Informazioni di questo tipo avrebbero potuto rappresentare una novità non solo per decine di rappresentanti di nazioni africane, sudamericane e asiatiche ma anche per gli stessi iraniani e per i palestinesi rimasti ad ascoltare le parole di Netanyahu. Informazioni di questo tipo avrebbero forse aiutato a confutare le affermazioni iraniane sulla nostra estraneità alla regione, più di riferimenti a promesse divine e al Regno di Davide.

E, in generale, perché assumere sempre il ruolo della vittima costretta a seminare minacce e avvertimenti? E perché rivolgersi soprattutto agli americani, come se Israele fosse davvero una loro succursale o, secondo le parole di uno dei ministri del Likud, una portaerei americana in Medio Oriente?

 

L’eccessiva «americanizzazione» del primo ministro israeliano è ormai più dannosa che utile. 

 da - http://www.lastampa.it/2012/10/01/cultura/opinioni/editoriali/netanyahu-deve-parlare-agli-iraniani-eKcW3qlHEAjLdWPPw6BgtN/index.html
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 26, 2012, 12:12:49 pm »

Editoriali
26/11/2012

Perché serve un accordo con Hamas

Abraham B. Yehoshua


Durante la guerra di Indipendenza del 1948 la Giordania bombardò la zona ebraica di Gerusalemme per diversi mesi, pose la città sotto assedio e impedì i rifornimenti di acqua e carburante. Centinaia di civili rimasero uccisi sotto le bombe eppure Israele non definì i giordani «terroristi» e dopo il cessate il fuoco fu avviato un negoziato tra le parti al termine del quale fu firmato un armistizio. 

 

Anche i siriani prima della guerra dei Sei Giorni bombardarono per anni la Galilea settentrionale uccidendo e ferendo molti civili. E un articolo della Costituzione del partito siriano Ba’ath prevede persino la distruzione di Israele. 

 

Eppure gli israeliani non hanno mai definito «terroristi» i siriani. Li hanno sempre chiamati «nemici» e negli anni hanno raggiunto vari accordi con loro, fra cui il disimpegno dei rispettivi eserciti dopo la guerra del Kippur. 

 

Gli egiziani guidati da Abdul Nasser proclamarono più volte di volere distruggere Israele, ed era questa la loro intenzione alla vigilia della guerra dei Sei Giorni. Eppure il dittatore egiziano non fu visto come un terrorista ma come un nemico.

 

Di più. Neppure i nazisti furono definiti terroristi. Commisero indicibili atrocità indossando un’uniforme e sottostando agli ordini di un governo riconosciuto. Sono stati i nemici più brutali nella storia dell’umanità ma non erano terroristi.

 

È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.

 

Oggigiorno Hamas è in controllo di un territorio, possiede un esercito, istituzioni governative, canali radiotelevisivi ed è riconosciuto da numerosi Paesi. Un’organizzazione responsabile di uno Stato dovrebbe essere definita «nemica», non «terroristica».

 

Ma perché è importante la terminologia? È solo una questione di semantica? Non esattamente. Con un nemico si può infatti instaurare un dialogo e concludere accordi anche parziali mentre tentare di dialogare con «un’organizzazione terroristica» non avrebbe senso e di certo non ci sarebbe nessuna speranza di accordo. Occorre pertanto legittimare il tentativo di stipulare un qualsivoglia accordo diretto con Hamas.

Non dobbiamo infatti dimenticare che i palestinesi saranno per sempre i nostri vicini e se non patteggeremo con loro una separazione ragionevole finiremo inevitabilmente per convivere in uno Stato binazionale, un’eventualità deleteria e pericolosa per entrambe le parti. Un accordo con Hamas è quindi importante non solo per normalizzare la situazione al confine con Gaza ma anche per creare la base di un eventuale Stato palestinese a fianco di quello israeliano.

 

Il regime di Hamas, eletto dopo l’evacuazione israeliana della Striscia di Gaza, mostra comunque preoccupanti segni di perdita del senso della realtà, di incapacità di comprendere ciò che è possibile e ciò che non è possibile. E le dure reazioni militari di Israele non solo non lo portano a rinsavire ma rafforzano il suo vittimismo aggressivo.

 

A cosa è dovuta la ferocia e la violenza di Hamas? Il fanatismo religioso è un fenomeno diffuso ma neppure un regime fanatico si esporrebbe alla reazione distruttiva di un esercito come quello israeliano, uno dei più forti al mondo.

 

Alla base del comportamento di Hamas c’è una contraddizione. Da un lato i suoi leader provano un giustificato senso di eroismo e di audacia per avere allontanato i coloni e l’esercito israeliano da Gaza, dall’altro avvertono una profonda frustrazione dovuta al duro isolamento imposto a una striscia di terra tanto stretta, distaccata non solo da Israele ma soprattutto dai palestinesi in Cisgiordania.

 

I leader di Hamas, incoraggiati dal successo del ritiro israeliano, ritengono di potere quindi cacciare i «sionisti» da tutti i «territori occupati», o per lo meno di costringerli a rimuovere il blocco. Non avendo fiducia nelle intenzioni di Israele, convinti che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania serva gli interessi di quest’ultimo e consapevoli che lo Stato ebraico non tenterà più di riconquistare e di governare la Striscia di Gaza, anziché cercare di risollevare l’economia del territorio, di fermare la violenza, di costruire una vita normale e di convincere gli israeliani a consentire alla popolazione libertà di movimento scelgono la strada che si è dimostrata efficace in passato: una costante aggressione.

 

Ma nonostante il recente cessate il fuoco le due parti non hanno la sensazione che la spirale di violenza si sia conclusa. Il comportamento di Hamas denota un istinto suicida che, con l’incoraggiamento scellerato dell’Iran, potrebbe portare altra distruzione e morte. Occorre perciò fare uno sforzo per instaurare un vero e proprio dialogo con i suoi leader. E come «un’organizzazione terroristica» quale l’Olp si è trasformata nell’Autorità palestinese così Hamas dovrebbe essere considerata non «un’organizzazione terroristica» ma il rappresentante di un governo con il quale, mediante negoziati diretti, si possa giungere a un accordo basato su quattro principi:

1. L’accettazione da parte di Hamas di una rigorosa supervisione internazionale sullo smantellamento dei lanciarazzi nella Striscia di Gaza.

2. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e l’Egitto.

3. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e Israele per un transito controllato di lavoratori palestinesi.

4. L’apertura graduale di un corridoio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania – in base alle norme stabilite a Oslo – perché venga ripristinata l’unità palestinese in vista di un negoziato con Israele.

 

L’Autorità palestinese non potrebbe infatti completare o concludere un accordo di pace con Israele senza la partecipazione attiva o passiva di Hamas. Una decisione su questioni nazionali di primaria importanza richiede un ampio consenso nazionale, come avviene in molti Paesi, tra i quali Israele. 

 

Il dialogo con Hamas e un graduale ripristino delle sue relazioni con la Cisgiordania sono quindi condizioni essenziali per il raggiungimento di un accordo che preveda due Stati per i due popoli e che porti all’arresto di un’avanzata lenta ma costante verso uno Stato binazionale. È questo ciò che spera la maggioranza della popolazione israeliana. 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/26/cultura/opinioni/editoriali/perche-serve-un-accordo-con-hamas-PgwZdYbJ2NjmaAc4UDsQVN/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 16, 2014, 05:51:58 pm »

Editoriali
13/07/2014
Non sono terroristi ma solo nemici
Abraham B. Yehoshua

Quando Israele fu fondato nel 1948 i giordani bombardarono Gerusalemme, la posero sotto assedio e uccisero centinaia di suoi cittadini. I combattenti della Legione Araba conquistarono i centri ebraici di Gush Etzion, in Giudea, trucidarono molti israeliani e assassinarono a sangue freddo numerosi prigionieri. Ma durante tutti quei mesi di guerra dura e brutale nessuno definì i giordani «terroristi». Erano «nemici». E malgrado lo spargimento di sangue ci furono contatti tra ufficiali israeliani e giordani per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e la firma di una tregua precaria, ottenuta nel 1949 grazie alla mediazione delle Nazioni Unite.

Prima della guerra dei sei giorni, nel 1967, i siriani bombardarono i centri abitati israeliani dell’alta Galilea, uccisero e ferirono non poche persone, eppure nessuno definì la Siria «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E Israele, ovviamente, non solo non lo riforniva di carburante ed energia elettrica ma, di quando in quando, inviava suoi emissari a incontrare i loro omologhi siriani per chiarimenti e colloqui circa un’eventuale tregua.

Fino alla guerra dei sei giorni gruppi di terroristi provenienti dall’Egitto seminarono morte negli insediamenti israeliani lungo il confine, ma anche in questo caso l’Egitto non venne definito «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E nonostante Egitto e Siria dichiarassero apertamente la loro intenzione di distruggere Israele il Primo Ministro israeliano, a ogni apertura dell’anno parlamentare, lanciava un appello ai loro leader perché avviassero colloqui per ripristinare la calma e raggiungere un accordo di pace.

Che cosa è successo dunque dopo il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, l’evacuazione degli insediamenti ebraici e il trasferimento del controllo della Striscia a Hamas che ci impedisce di definire il suo governo «nemico» e non «terrorista»?

Forse questo aggettivo è più incisivo di quello di «nemico»? Oppure suggerisce che, nel profondo del cuore, ancora vediamo la Striscia di Gaza come parte della Terra di Israele, un luogo dove abbiamo tentato senza successo di insediarci e al quale forse speriamo di tornare, e pertanto non consideriamo i suoi residenti come cittadini di uno Stato nemico ma come arabi israeliani fra i quali operano cellule terroristiche? O magari avvertiamo un senso di responsabilità verso la popolazione della Striscia di Gaza come non ci accadeva con gli abitanti di Siria o Egitto e per questo continuiamo a rifornirli di carburante, di elettricità e di cibo ma, al tempo stesso - e questa è la cosa più importante - ci rifiutiamo di proporre al governo di Hamas di negoziare con noi, come abbiamo fatto in passato con siriani, giordani ed egiziani?

 Tutte queste perplessità e complicazioni derivano forse dal timore che eventuali colloqui con Hamas per un cessate il fuoco e una stabile tregua possano «indebolire» Abu Mazen. Ma probabilmente i morti a Gaza indeboliscono ancora di più colui che si considera il leader del popolo palestinese. E anche supponendo che sia questa la nostra preoccupazione rimane la domanda perché non abbiamo approfittato del governo di unità nazionale palestinese recentemente istituito e di cui Hamas è membro per avviare un dialogo con questa organizzazione.

La profonda frustrazione di Hamas deriva, a mio parere, da una sostanziale mancanza di riconoscimento della sua legittimità agli occhi di Israele e di gran parte del mondo. Una frustrazione che lo porta a commettere devastanti atti di disperazione. Per questo è importante considerare Hamas almeno come un nemico legittimo, con il quale poter arrivare a un accordo o contro il quale combattere in uno scontro armato frontale, con tutto ciò che questo comporta. È così che abbiamo agito in passato con i Paesi arabi. Fintanto che definiremo Hamas una banda di terroristi che ha preso il sopravvento su una popolazione innocente non potremo fermare i bombardamenti nel Sud di Israele con un’adeguata reazione militare e, ancor più importante, non potremo negoziare apertamente con il suo governo per raggiungere un accordo graduale che comprenda una supervisione internazionale della rimozione dei missili da parte di Hamas e del blocco aereo, marittimo e terrestre della Striscia da parte di Israele, l’apertura dei valichi di frontiera per permettere il passaggio di lavoratori e quella di un eventuale, futuro corridoio di transito sicuro fra la Striscia e la Cisgiordania.

Ma se, diranno i più scettici, Hamas non vorrà negoziare apertamente con noi? In questo caso gli proporremo di farlo nell’ambito del governo di unità palestinese. E semmai dovesse rifiutare anche questa proposta allora lo combatteremo in maniera legittima, secondo le regole della guerra. 

Non dimentichiamo però che i palestinesi di Gaza saranno nostri vicini per l’eternità, come noi lo saremo per loro. Non guariremo questo ascesso sanguinante con discorsi sul terrorismo ma con il dialogo o con la guerra, scontrandoci con un nemico legittimo verso il quale non abbiamo rivendicazioni territoriali o nessun’altra pretesa che non sia quella di un cessate il fuoco.

Da - http://lastampa.it/2014/07/13/cultura/opinioni/editoriali/non-sono-terroristi-ma-solo-nemici-O3TIJYsciENMNTmPBDE2yN/pagina.html
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« Risposta #39 inserito:: Settembre 09, 2014, 11:09:58 pm »

Israele aiuti Gaza e se stessa
09/09/2014

Abraham B. Yehoshua

Dopo lunghi giorni di duri scontri fra Israele e Hamas è arrivato il cessate il fuoco ed entrambe le parti si domandano (al di là delle vittorie e delle sconfitte, reali o immaginarie) se la guerra appena conclusa sia stata l’ennesimo, inutile conflitto nella serie di quelli avvenuti in Medio Oriente, o se possa essere una base per un nuovo e migliorato assetto politico. 

È possibile dare una risposta convincente a questa domanda nel caos turbinoso in cui si trova la regione? La morte e la distruzione causate da questa guerra ai residenti della Striscia di Gaza e, in misura minore agli abitanti di Israele, mi costringono a respingere il fatalismo di chi già predice un prossimo round di violenza e a provare a infondere, o forse a «creare», una possibile speranza. 

Una speranza semplice e senza pretese. Non mi aspetto, infatti, un accordo di pace tra Hamas e Israele. Piuttosto una convivenza tollerabile e soprattutto non violenta. Questa mia speranza si basa sul fatto che in questa guerra Israele, malgrado la sua grande supremazia militare, non ha ottenuto una vittoria inequivocabile. E nonostante i suoi leader, e in primo luogo il premier Netanyahu, cantino vittoria, sondaggi affidabili indicano che la maggioranza dei cittadini non sembra trovarsi d’accordo con le loro arroganti dichiarazioni.

 Molti esprimono delusione per un’operazione non portata a termine, o per una promessa non mantenuta. Ed è proprio questo senso di frustrazione a infondere speranza. In base all’esperienza passata ho infatti l’impressione che le guerre che si concludono senza una netta vittoria possano rappresentare un presupposto per un nuovo ordine di cose, non violento. 

 A Gaza hanno festeggiato la vittoria, è vero, ma queste celebrazioni, avvenute in un regime totalitario dove i cittadini non sono autorizzati a esprimere il loro vero parere e con un bilancio di migliaia di morti, di decine di migliaia di feriti, di centinaia di migliaia di sfollati e di case e infrastrutture distrutte, sono completamente assurde. Occorre inoltre considerare la posizione estremamente dura dell’Egitto verso Hamas, che ha costretto quest’ultimo ad accettare il cessate il fuoco senza che nessuna delle richieste per le quali aveva aperto il fuoco contro Israele sia stata soddisfatta. E la freddezza mostrata dai palestinesi di Israele e di Cisgiordania per la devastazione e i morti nella Striscia di Gaza rivela che lo spirito di solidarietà che Hamas si aspettava da loro non si è risvegliato. Per quei palestinesi, infatti, Hamas ha fomentato inutilmente il fuoco e trascinato la popolazione di Gaza in uno scontro duro e pericoloso senza un chiaro scopo. 

 

Ciononostante i miliziani di Hamas possono dire di aver combattuto con coraggio e, sebbene la maggior parte dei loro razzi siano stati intercettati dagli israeliani e non abbiano causato ingenti danni materiali, hanno comunque terrorizzato e sconvolto la popolazione e, in molti casi, paralizzato la vita di Israele. E questo potrebbe essere un motivo di orgoglio per una organizzazione piccola come Hamas. 

La cosa principale, però, è che Israele non solo non ha osato penetrare in profondità nella Striscia per conquistarla, ma ha anche stranamente dichiarato che non era sua intenzione rimuovere il regime di Hamas bensì solo indebolirlo, affinché bande armate senza una chiara identità o forze anarchiche incontrollate, analoghe a quelle che si aggirano oggi in Iraq e in Siria, non ne prendessero il posto. 

Se a tutto questo aggiungiamo che durante l’intero periodo degli scontri, mentre aerei e artiglieria israeliani martellavano Gaza e Hamas, da parte sua, non cessava di lanciare razzi sui centri abitati israeliani, giganteschi camion carichi di rifornimenti, di cibo e di beni di prima necessità entravano quotidianamente nella Striscia da Israele, non possiamo non constatare l’esistenza di un vincolo particolare dello Stato ebraico con i residenti di Gaza e di un suo chiaro senso di responsabilità nei loro confronti. Non riesco infatti a ricordare nessuna guerra in cui una delle parti, pur combattendo contro un nemico che non cessa di bombardarlo, continui a rifornirlo di viveri e di medicinali. 

Ed è proprio su questa assurda situazione che si basa la mia speranza per il futuro. Se infatti i contatti tra Israele e Gaza, malgrado la retorica dell’odio reciproco, non si sono interrotti nemmeno durante gli scontri a fuoco, il particolare senso di responsabilità di Israele potrebbe essere incanalato ora in direzioni positive, in primo luogo verso un’interruzione dell’isolamento della Striscia e un ripristino dei contatti fra i suoi abitanti e i palestinesi di Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp. Questo ripristino dovrebbe avvenire in maniera graduale, parallelamente alla progressiva smilitarizzazione della Striscia. L’isolamento degli abitanti di Gaza dai loro fratelli in Cisgiordania, dallo Stato di Israele (che in passato dava loro lavoro) e dall’Egitto (che ha voltato loro le spalle dopo l’ingerenza di Hamas negli affari interni del Paese durante il governo dei Fratelli Musulmani), è infatti alla base della loro furia suicida e delle tendenze violente che ormai hanno perso ogni freno. Ma dopo quest’ultima guerra i dirigenti di Hamas possono aspirare a stabilire un nuovo ordine di cose non da una posizione di resa e di sconfitta bensì da una di chi ha dato prova del proprio valore. E Israele ha capito che, nonostante la sua forza, non potrà sopportare un’altra estate dura e violenta come quella appena trascorsa. Soprattutto ora che l’Egitto e il governo di Abu Mazen hanno dimostrato di potergli garantire una mediazione equa per il raggiungimento di una pace a lungo termine. 

Una società occidentale, democratica e con un così alto livello di sviluppo economico come quella israeliana non può permettersi, a intervalli di pochi anni, di azzuffarsi con una collettività primitiva, isolata, povera e fanatica. Dovrebbe piuttosto cercare di aiutare quella collettività a risollevarsi, a ricostruire, e, come prima cosa, a uscire dall’isolamento.

Da - http://www.lastampa.it/2014/09/09/cultura/opinioni/editoriali/israele-aiuti-gaza-e-se-stessa-fAAFjZ6Kv9LgNLts8pu5RN/pagina.html
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