LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ESTERO fino al 18 agosto 2022. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 24, 2008, 01:13:30 pm



Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2008, 01:13:30 pm
24/7/2008
 
Quello scambio coi morti
 
 
 
 
 
ABRAHAM YEHOSHUA
 
Negli ultimi mesi i media israeliani hanno ospitato accesi dibattiti sulla questione dello scambio di prigionieri con il Libano. Da una parte si sono schierati i propugnatori (e io fra loro) della restituzione dei corpi dei due soldati israeliani (rimasti probabilmente uccisi già nel primo giorno della seconda guerra del Libano) in cambio di alcuni prigionieri libanesi fra cui Samir Kuntar, detenuto nelle carceri israeliani per 29 anni.

Dall’altra risuonava imperiosa la voce di chi si opponeva a questo accordo, sia da un punto di vista politico che etico. Tale divisione non ricalcava il tradizionale dualismo politico, ossia la destra contraria allo scambio e la sinistra a favore. Anche personalità politiche e del giornalismo, solitamente di idee moderate, si sono espresse con grande veemenza contro la consegna di un assassino che aveva ucciso una bambina di quattro anni sotto gli occhi del padre (poi a sua volta trucidato) per riavere indietro cadaveri. Poiché il dibattito intorno allo scambio di prigionieri non è ancora concluso e Israele dovrà affrontare la domanda se è giusto e lecito liberare 400 prigionieri palestinesi (tra cui numerosi mandanti ed esecutori di sanguinosi attentati) in cambio di Gilad Shalit, il soldato rapito da Hamas a Gaza, vorrei prendere in esame la questione sia da un punto di vista politico che morale.

Quando i primi sionisti si stabilirono nella terra di Israele agli inizi del ventesimo secolo il numero degli ebrei qui presenti era risibile: meno dell’un per cento di quelli sparsi per il mondo. Gli ebrei, infatti, non si azzardavano a trasferirsi nella terra di Israele, tanto lontana e problematica, per prender parte all’avventura della creazione di uno stato ebraico indipendente. Vista la situazione i dirigenti sionisti presero un’importante decisione: chiunque si fosse stabilito nella terra di Israele avrebbe goduto di garanzie sociali e del sostegno economico della comunità. In altre parole avrebbe ottenuto rapidamente un lavoro fisso, goduto di una completa copertura sanitaria, di sussidi di disoccupazione, di garanzie di supporto sociale e di aiuto in caso di bisogno. Poiché gli ebrei erano, e continueranno a essere, in numero nettamente inferiore ai loro nemici, fu stabilita anche la regola secondo la quale ogni soldato ferito non sarebbe stato abbandonato sul campo di battaglia, ai corpi dei caduti sarebbe stata data una degna sepoltura e non si sarebbero risparmiati sforzi per ottenere la liberazione di prigionieri. Dopo la fondazione dello stato di Israele le norme che sancivano il sostegno della comunità a favore del singolo si tradussero in leggi e non furono più affidate, come durante la diaspora, alla buona volontà o alla compassione degli altri.

Per questo motivo gli scambi di prigionieri e di caduti tra Israele e gli stati arabi o i vari e numerosi gruppi armati palestinesi sono stati compiuti con la consapevolezza di dover accettare un forte squilibrio numerico. In cambio di uno o due ostaggi israeliani sono stati liberati centinaia di palestinesi, siriani o egiziani. Questa asimmetria appare però giusta e lecita alla società israeliana. Infatti non solo gli ebrei sono sempre stati numericamente inferiori ai palestinesi e agli arabi ma il valore della vita, ai nostri occhi, si è fatto immensamente più sacro e prezioso dopo la Shoah, le cui vittime, per lo più, non hanno mai avuto sepoltura. Proprio l’anonimato del grande massacro ha acuito e accresciuto la sensibilità verso la peculiarità del singolo, vivo o morto che sia.

Gli arabi, naturalmente, hanno capito questo stato di cose e in tutti gli scambi di prigionieri hanno avanzato pretese altissime, anche nel caso in cui l’accordo comportava la riconsegna di corpi di soldati israeliani in cambio di persone vive. Il dilemma in Israele non riguarda però la disponibilità a pagare un prezzo elevato per la liberazione dei prigionieri ma tre questioni di ordine morale.

1) I sentimenti dei familiari delle vittime dei prigionieri palestinesi in procinto di essere liberati.
2) La futura prevenzione di atti di terrorismo (la prospettiva di pesanti pene detentive come punizioni per i mandanti o i fautori di attentati potrebbe infatti non essere più un deterrente se costoro sanno di poter tornare presto liberi in scambi di questo tipo. Anzi, questa situazione potrebbe indurre gruppi terroristici a tentare nuovi rapimenti).
3) Il ritorno al terrorismo di alcuni prigionieri scarcerati dopo lunghi anni di detenzione, cosa che ha reso il loro rilascio particolarmente doloroso.

Il problema dei sentimenti delle famiglie colpite dal terrorismo è stato superato dalla società israeliana grazie al principio del sostegno reciproco. Nella maggior parte dei casi, infatti, quelle famiglie non hanno opposto resistenza allo scambio di prigionieri poiché si identificavano con i parenti degli ostaggi, fossero essi vivi o morti. Sono anche consapevoli che i loro cari non sono stati uccisi o feriti per motivi personali ma nella bufera della guerra e in un certo senso un cittadino israeliano rimasto vittima di un attentato terroristico non è diverso da chi cade colpito da una granata o da un missile.

Il secondo dilemma si pone più raramente giacché nella maggior parte dei casi è più facile per i terroristi uccidere che fare prigionieri, o rapire. Se quindi Israele si mostrerà più risoluto nel pretendere le prove che i prigionieri sono in vita, il prezzo dello scambio, per quanto lo riguarda, potrebbe diminuire.

In merito al terzo dilemma ritengo che sia il caso di stabilire a priori una pena particolarmente severa per quei terroristi che, una volta scarcerati, tornino a compiere attentati. Israele obbliga i prigionieri a firmare un documento secondo il quale essi si impegnano a non riprendere un’attività terroristica dopo la loro scarcerazione e, nella maggior parte dei casi, credo che questo impegno sia stato mantenuto. L’idea che dei terroristi che hanno agito per motivi ideologici siano dei criminali potenzialmente recidivi non è dunque corretta.

Non invidio i dirigenti israeliani chiamati a prendere decisioni difficili relative allo scambio di prigionieri. Ma se i principi che governano questo tipo di accordi saranno chiari - a loro e alla società israeliana - tali decisioni si renderanno accettabili sotto un profilo etico.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA La mediazione di Benedetto
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2008, 12:16:30 pm
24/9/2008
 
Israele-Iran chi spegne la miccia
 
 
 
 
 
AVRAHAM B. YEHOSHUA
 
Con mio grande rammarico, nel resoconto fatto da Farian Sabahi (La Stampa di lunedì) di una conversazione telefonica intercorsa fra di noi circa un mese fa, ci sono alcuni errori. Non ho mai detto che l’Iran non è un pericolo per Israele. Ho detto invece che l’Iran è un pericolo non solo per Israele, il che fa una bella differenza. In effetti, durante tutta la conversazione, ho ripetuto e insistito sul fatto che la produzione della bomba atomica da parte dell’Iran costituisce un problema per tutta la zona del Golfo e per il Medio Oriente, e che potrebbe diventare anche un problema nel contesto dei rapporti fra il mondo islamico estremista e il resto del mondo. Per questo sono contrario a che Israele, il mio Paese – nonostante sia quello più direttamente e principalmente minacciato – si assuma il compito di un intervento militare tanto complesso come la distruzione delle centrali nucleari iraniane, rischiando con ciò una grave, violenta reazione.

Se, dopo la conquista dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, l’Iran ha davvero timore che la discutibile dottrina formulata da Bush in merito alla «ricostruzione dei popoli» possa metterlo di fronte al rischio di un’invasione americana mossa allo scopo di cambiare il suo regime, se questa fosse la ragione per cui l’Iran sta sviluppando il suo programma nucleare, in tal caso toccherebbe alla comunità internazionale dare all’Iran concrete garanzie che le cose non stanno così. A condizione, ovviamente, che l’Iran interrompa il suo programma di armamento nucleare. Non ho mai detto che gli Stati Uniti hanno già invaso altri Paesi del Medio Oriente, oltre all’Iraq.

In breve, quello dell’Iran è un problema internazionale, e non tocca a Israele risolverlo per conto del resto del mondo. Da questo punto di vista, le interviste rilasciate da Barack Obama offrono un’ottima disamina della questione: per un verso l’umiliazione concreta delle sanzioni internazionali imposte all’Iran, ma per l’altro anche la proposta di avvio di un dialogo altrettanto concreto fra Stati Uniti e Iran. Benché molti siano portati a un paragone automatico fra la Germania nazista e l’Iran khomeinista, io ancora penso che ci siano molte differenze. Perché l’Iran è consapevole che se attaccasse Israele, potrebbe confrontarsi con una reazione di ordine atomico. Perciò non si deve aver premura di accendere una miccia così temibile; si tratta invece di optare per sistemi più morbidi, più semplici, che possano risolvere o quanto meno mitigare il problema nucleare dell’Iran.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 09:53:40 am
29/12/2008 (7:36) - ANALISI

"Una tregua subito. Dobbiamo parlarci"
 
Venti di guerra soffiano nella Striscia di Gaza

Olmert si rivolga ai palestinesi: basta violenza

ABRAHAM B. YEHOSHUA


Ciò che sta avvenendo in queste ore nella Striscia di Gaza era quasi inevitabile. La brutalità con cui Hamas ha posto fine alla tregua non ha lasciato altra scelta a Israele.

Se non quella di ricorrere alla forza per porre fine ai massicci lanci di razzi (una settantina al giorno) sulle comunità civili nel Sud del Paese. Ma, per quanto la distruzione di centri di comando militari e l’eliminazione di alcuni capi di Hamas possa risultare efficace, la tranquillità non sarà ristabilita se Israele non proporrà subito generose condizioni per una nuova e prolungata tregua. Oltre a trattative indirette per una rinnovata interruzione delle ostilità le autorità israeliane dovrebbero rivolgersi ai cittadini della Striscia di Gaza, lanciar loro un appello che provenga direttamente dal cuore. Dichiarazioni ufficiali non mancano, ma mai i leader israeliani si sono rivolti alla popolazione palestinese. Ciò che io propongo qui è un appello che il primo ministro Olmert dovrebbe rivolgere con urgenza proprio ora, mentre il fuoco divampa su entrambi i lati del confine, agli abitanti della Striscia di Gaza. Mi rivolgo a voi, residenti di Gaza, in nome di tutta la popolazione israeliana.

A voi, uomini e donne, commercianti, operai, insegnanti, casalinghe, pescatori. Gente di città e di paese, residenti in villaggi e in campi profughi. Prima che vi siano nuovi spargimenti di sangue, prima che altri, voi o noi, conoscano devastazione e dolore, vi prego di darmi ascolto. Vi chiedo di far cessare la violenza, di aiutarmi a convincere i vostri leader che ci sono altri modi per stabilire rapporti di buon vicinato. Le nostre città sono contigue alle vostre. Dietro il reticolato che le separa vediamo operai e contadini che lavorano la terra, camion che trasportano merci, bambini che vanno a scuola. E lo stesso è per voi. Potete scorgere facilmente i nostri agricoltori nei campi, i bambini che vanno a scuola, le casalinghe che escono a fare la spesa. Saremo vicini in eterno, le cose non cambieranno. Voi non riuscirete a cacciarci da qui, a cancellare la nostra esistenza, e nemmeno noi la vostra (e neppure lo vogliamo). Per parecchi anni abbiamo mantenuto rapporti attivi. I vostri operai arrivavano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri campi. Non solo in centri a voi vicini ma anche nelle grandi città - a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Natanya.

I nostri commercianti e industriali si recavano da voi per acquistare prodotti agricoli, erigere nuove fabbriche alla periferia di Gaza. Per parecchi anni abbiamo mantenuto un articolato sistema di scambi che ha portato beneficio a entrambe le parti. Tre anni fa abbiamo evacuato i nostri concittadini, smantellato le nostre basi militari e raso al suolo, su vostra richiesta, i pochi insediamenti che avevamo nella Striscia di Gaza. L’occupazione di quella regione è completamente cessata. Ci siamo ritirati oltre il confine internazionale riconosciuto da tutto il mondo: quello antecedente la guerra del 1967. Credevamo che dopo questo sarebbe iniziato un periodo di sviluppo e di ricostruzione. Che avreste ricostituito un sistema amministrativo e che, un giorno, a tempo debito, vi sareste ricollegati, tramite un corridoio sicuro, ai vostri confratelli in Cisgiordania per creare uno Stato palestinese indipendente che noi tutti crediamo e vogliamo che sorga e che ci siamo impegnati a riconoscere in ambito internazionale. Ma anziché l’agognata tranquillità sono arrivati razzi che hanno seminato distruzione e morte nelle nostre città e nei nostri villaggi. Anziché opere di edilizia e di ricostruzione abbiamo assistito a un riarmo senza precedenti. E quelle armi sono state puntate contro di noi.

C’è tra voi chi ci spara addosso razzi e granate in cambio di somme di denaro elargite da Stati e organizzazioni che vogliono la nostra distruzione. E voi, gente di Gaza, pagate le conseguenze delle nostre reazioni con la sofferenza e la distruzione delle vostre case. Non vogliamo combattervi, non vogliamo tornare a governarvi. Ce ne siamo andati per non tornare più. Sappiamo che sarete voi, civili innocenti, donne e bambini, residenti dei campi profughi, operai e commercianti, a pagare il prezzo di un’eventuale, malaugurata guerra.

Ma dovete capite che non abbiamo scelta. Non possiamo continuare a sopportare i lanci di razzi Qassam sui nostri cittadini indifesi. Sta a voi, cittadini di Gaza, appellarvi ai vostri governanti perché mettano fine al lancio di razzi e accettino una vera tregua, prolungata, durante la quale verranno aperti i valichi di confine, sarà permesso il passaggio di merci e, col tempo, gli operai di Gaza potranno tornare a lavorare in Israele. Invece di manifestare a favore di irrealizzabili sogni di distruzione e di vendetta, uscite nelle strade e chiedete la fine della violenza, chiedete che i vostri figli, e i nostri, possano vivere sicuri su entrambi i lati del confine. Chiedete la vita e non la morte.


Traduzione di A. Shomroni
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA La destra fa bene a Israele
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:45:24 am
6/1/2009
 
Tregua, subito
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 

Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.

Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso.
Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina.

A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza.

Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi.

Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile.

È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare.

(Traduzione di A. Shomroni)
da lastampa.it


Titolo: ABRHAM B. YEHOSHUA Noi ebrei e i razzi di Gaza
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 11:46:41 am
18/1/2009
 
Noi ebrei e i razzi di Gaza

 
ABRHAM B. YEHOSHUA
 

Caro Gideon,
negli ultimi anni ero solito telefonarti per complimentarmi per i tuoi articoli e reportage sulle ingiustizie, i soprusi, gli espropri, le angherie e le sopraffazioni commessi nei Territori occupati sia dall’esercito israeliano sia dai coloni. Non ti domandavo come mai non ti recavi anche negli ospedali israeliani per riferire le storie dei civili rimasti coinvolti in attentati terroristici. Accettavo la tua posizione che ci sono abbastanza giornalisti che svolgono questo tipo di lavoro mentre tu ti eri assunto l’impegno di mostrare la sofferenza dell’altra parte, dei nostri nemici di oggi e vicini di domani. Ed è in considerazione di questa stima nei tuoi confronti che ritengo giusto reagire ai tuoi recenti articoli sulla guerra in corso, perché la tua voce possa continuare a serbare l’autorità morale che la contraddistingue.

Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera. Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare. Non ricevetti da te alcuna risposta. I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco.

Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi abitanti (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile. Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio. Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni.


Lettera a Gideon Levi, amico e giornalista di Haaretz, che ha aspramente criticato Israele proponendo che i suoi leader vengano giudicati per crimini di guerra davanti a un tribunale internazionale.

da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA La destra fa bene a Israele
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 12:09:06 pm
14/2/2009
 
La destra fa bene a Israele
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 

Europei e americani interessati ai problemi del Medio Oriente non possono analizzare e comprendere i risultati delle ultime elezioni in Israele unicamente in base al solito criterio: sinistra opposta a destra, colombe che sostengono il processo di pace e la formula «due Stati per due popoli» contro falchi che lo osteggiano.

Più che in molti altri Paesi, infatti, in Israele i conflitti politici e ideologici non rispecchiano soltanto i rapporti di forza e i contrasti su opinioni e valori interni alla società israeliana, ma sono significativamente influenzati dalle posizioni e dall’atteggiamento degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare. Il successo della destra israeliana alle recenti elezioni è dunque anche dovuto all’aggressività di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano dopo il ritiro unilaterale da quelle zone operato dai governi di centro-sinistra. Ironicamente, si potrebbe affermare che queste organizzazioni terroristiche potrebbero reclamare un posto nella futura coalizione di Netanyahu per il «lavoro» svolto a suo favore negli ultimi anni. Sarebbe quindi un errore pensare che la svolta a destra dell’elettorato israeliano segni un ribaltamento ideologico. Tutto sommato è più questione di Stato d’animo che di ideologia.

Da 42 anni sono schierato a sinistra. Dalla guerra dei Sei giorni sostengo il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese entro i confini del 1967. Dalla metà degli Anni 70 riconosco gli esponenti dell’Olp come i rappresentanti del popolo palestinese e asserisco la necessità di condurre un negoziato di pace con loro a patto che riconoscano lo Stato di Israele.

Posso dunque testimoniare che l’intero sistema politico israeliano è in continuo e lento movimento verso le posizioni di pace della sinistra. Non dimentichiamo che fino a una decina di anni fa anche Tzipi Livni e molti esponenti di Kadima erano membri del Likud e sostenitori dell’ideologia del «Grande Israele» prima di moderare le loro convinzioni. E al di là delle sue posizioni razziste e nazionaliste anche «Israel Beitenu» di Avigdor Lieberman, partito sostanzialmente laico, è a favore di concessioni territoriali ai palestinesi, non tanto come riconoscimento dei loro diritti ma per limitare il loro numero entro i confini di Israele. Quindi, malgrado il rammarico e l’amarezza per la svolta a destra dell’elettorato israeliano, occorre capire che questo risultato è determinato più dall’umore della gente che da ferme convinzioni ideologiche.

Nel 2003 un nuovo partito denominato «Shinui», assertore di un’ideologia strenuamente antireligiosa, aveva ricevuto l’ampio sostegno degli elettori in un periodo in cui i ricatti politici dei partiti religiosi indisponevano molti di loro. Questo partito nel frattempo è sparito dal panorama politico e il suo posto è stato preso dalla formazione di ultradestra di Lieberman che mescola scaltramente laicità e nazionalismo e gode del favore di numerosi israeliani di origine russa. Nel 2006 era stato il turno di un bizzarro partito per i diritti dei pensionati, completamente scomparso dopo il voto dell’altro ieri, di ottenere non pochi seggi in Parlamento.

Gli israeliani non sono dunque autonomi nelle loro decisioni ma interagiscono con chi li circonda e dipendono dalle posizioni e dalle azioni dei loro nemici. Talvolta la loro reazione ad ansie e timori è giustificata, talaltra eccessiva, ma sempre contrassegnata da un senso di sfiducia di base. Ciò che avviene in Israele dipende inoltre dalle posizioni del governo degli Stati Uniti e dalle promesse della comunità europea di garantire la sicurezza dello Stato ebraico.

Quindi, nonostante i comprensibili timori per il rafforzamento della destra, non dobbiamo dimenticare che il nuovo governo americano e la comunità europea hanno la forza, il dovere e anche il diritto di spingerci verso grandi concessioni sia sul tema della pace con la Siria sia su quello della creazione di uno Stato palestinese. E come nel caso dell’accordo di pace con l’Egitto, siglato nel 1979 da un leader storico della destra, Menachem Begin, è forse più opportuno che sia un esecutivo di destra, supportato dalle fazioni di sinistra della Knesset, a fare future concessioni piuttosto che un governo composto unicamente da partiti di sinistra.

(Traduzione di A. Shomroni)
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Israele voltafaccia a sinistra
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 04:58:35 pm
24/3/2009
 
Israele voltafaccia a sinistra
 
AVRAHAM B. YEHOSHUA
 
Il risultato delle recenti elezioni ha rappresentato un duro colpo per entrambe le ali della sinistra israeliana: quella più moderata del partito laburista, compartecipe negli ultimi anni delle coalizioni di governo di Sharon e di Olmert e i cui leader sono stati ministri della Difesa durante la seconda guerra del Libano e l’ultima operazione a Gaza, e quella del piccolo partito di opposizione Meretz.

I laburisti, da decenni al centro della vita politica israeliana e il cui mitico leader, David Ben Gurion, è stato fondatore e primo ministro di Israele, hanno perso negli ultimi tempi la fiducia dei propri elettori. Tale defezione non è dovuta a una radicalizzazione del loro programma politico o alla corruzione dei loro dirigenti, ma a una tendenza diffusa a voltare le spalle ai partiti della sinistra che ha portato i laburisti a perdere quasi un terzo dei voti e a ottenere a malapena il dieci per cento dei seggi alla Knesset.

Il piccolo partito di opposizione Meretz, a dispetto del mio voto, ha fatto registrare un risultato ancora più deludente. All’epoca del governo Rabin, più di quindici anni fa, il Meretz poteva contare sul dieci per cento dei seggi in Parlamento mentre nelle ultime elezioni ne ha ottenuto solo il due per cento, nonostante da anni non faccia parte di nessuna coalizione e non abbia responsabilità di sorta in insuccessi politici. Per anni, e con grande impegno, il Meretz ha tenuto alto il vessillo della pace e del compromesso e i suoi rappresentanti non sono mai stati coinvolti in scandali pubblici. Eppure, sebbene questo piccolo partito condensi il buono e il bello di Israele, alle ultime elezioni ha ottenuto solo tre seggi alla Knesset.

Quali sono i motivi di questa débâcle? Da un lato la sinistra israeliana va fiera del fatto che gli ideali per i quali ha lottato per anni, ovvero il riconoscimento del diritto dei palestinesi a uno Stato che coesista in pace e in sicurezza a fianco di quello israeliano, sono ora accettati da gran parte dell’opinione pubblica. Dall’altro, proprio la sinistra propugnatrice di questi ideali perde l’appoggio dell’elettorato e viene abbandonata persino da vecchi sostenitori.

Una delle spiegazioni di questa sconfitta viene indicata nella scelta degli elettori tradizionali della sinistra di votare Kadima, un partito composto per lo più da ex esponenti della destra, Tzipi Livni in testa, per arginare l’avanzata della destra radicale di Benyamin Netanyahu. Ma tale spiegazione, a mio parere, è puramente tecnica. Un voto mirato ad «arginare» la destra radicale non rispecchia il profilo socio-intellettuale degli elettori di Meretz, in gran parte persone istruite, sorrette da una precisa ideologia, appartenenti ai ceti medio alti e con un’ampia e profonda visione politica. Era infatti apodittico che l’incarico di formare una coalizione di governo non sarebbe stato affidato al leader del partito che avesse ottenuto il maggiore numero di voti ma a quello della coalizione con le migliori chance di costituire un esecutivo. E un voto a sinistra avrebbe comunque rafforzato il blocco guidato da Tzipi Livni.

Ritengo che il drammatico voltafaccia degli elettori della sinistra sia probabilmente di origine emotiva. Senza rinunciare alle speranze di pace, molti di loro hanno espresso in questo modo la disapprovazione verso il tono cinico, lamentoso e ferocemente critico nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni recentemente adottato da portavoce e giornalisti della sinistra (soprattutto da quelli di Haaretz, il più importante quotidiano liberale di Israele). Durante l’ultima operazione a Gaza molti di loro non hanno esitato a bollare i loro connazionali come «criminali di guerra» e ad accogliere le posizioni dei palestinesi senza muovere alcuna critica verso le loro aggressioni. Nell’opinione pubblica si è diffusa la sensazione che tali personaggi avessero perso il naturale senso di solidarietà col loro popolo e soprattutto con gli abitanti del Sud di Israele, bersagliati dal fuoco di Hamas dalla striscia di Gaza.

Talvolta sembrava che i loro attacchi velenosi non fossero rivolti a questa o quella decisione del governo ma si unissero alle critiche della sinistra mondiale verso la legittimità stessa di Israele. La negazione dell’ideale di uno Stato ebraico è infatti comune a circoli religiosi ultraortodossi e alla sinistra antisionista. Le fasce più deboli della società israeliana hanno spesso criticato la sinistra nei seguenti termini: voi vi preoccupate più degli arabi che di noi. Tali critiche sono state puntualmente respinte. Per la prima volta però ho la sensazione che alcuni miei vecchi amici, accantonato l’impegno della lotta ideologica a favore di «due stati per due popoli», principio ormai generalmente accolto, mantengano una carica di energia polemica non ben finalizzata e abbiano cominciato a lanciare fuoco e fiamme contro le fondamenta stesse dello Stato.

Io personalmente non ho fatto dietrofront, non ho cambiato opinione e alle ultime elezioni ho votato, come tradizione, per il piccolo Meretz. Ritengo però che se la sinistra israeliana non vuole scomparire alle prossime elezioni deve farsi un approfondito esame di coscienza, non solo a livello politico e organizzativo ma anche a livello emotivo e spirituale.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA La mediazione di Benedetto
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2009, 09:39:02 am
11/5/2009
 
La mediazione di Benedetto
 
 

ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
E’ la terza volta che un Pontefice visita Israele. Questa visita però non potrà assomigliare a quella di dieci anni fa di Giovanni Paolo II, un Papa amato da tutti, anche nello Stato ebraico, per le sue vicende personali durante la Seconda guerra mondiale, per il contributo spirituale al movimento polacco Solidarnosc e per la sua personalità che irradiava umanità. Papa Benedetto XVI irradia altro. In primo luogo incarna la figura di un teologo, di un intellettuale che talvolta, molto poco politicamente, palesa coraggio e onestà ma talaltra cade in malintesi storico-politici come nel caso della revoca della scomunica al vescovo negazionista.

Non sono ovviamente un esperto dei meandri della politica vaticana, ma se mi venisse chiesto quale messaggio mi aspetti dalla visita di Benedetto XVI in Israele, al di là delle esternazioni generiche che ogni leader fa in merito alle speranze di pace, alla condanna della violenza e alla solidarietà verso i poveri e i sofferenti, elencherei almeno tre punti.

Primo. Da un Papa di origini tedesche mi aspetterei che durante la visita al memoriale della Shoah «Yad Vashem» a Gerusalemme si esprimesse in maniera ferma e significativa sulla debolezza morale e il tradimento teologico della Chiesa cattolica e dei cristiani in genere di fronte al fenomeno del nazismo e del fascismo in Europa, e non solo in relazione al genocidio degli ebrei. Anche se non si fossero accaniti contro gli ebrei, Hitler e il nazismo, nel pensiero e nell’azione, erano una sorta di incarnazione dell’Anticristo e i cristiani, ovunque nel mondo, e di certo la Chiesa cattolica in tutti i suoi substrati e sotto la guida del Pontefice, avrebbero dovuto combatterli con tutte le loro forze. Non ho dubbi che se Gesù fosse vissuto nella Germania degli Anni 30 sarebbe stato il più strenuo oppositore del nazismo. E il fatto che i cristiani tedeschi e del mondo intero non abbiano preso una netta posizione contro questo fenomeno è in primo luogo un segno di debolezza e di fallimento teologico, non solo morale. A mio parere sono passati abbastanza anni da allora e la Chiesa è sufficientemente sicura di sé perché un Papa «teologico» quale Ratzinger si esprima su questo argomento nel luogo più appropriato per farlo, il memoriale Yad Vashem di Gerusalemme.

Secondo. Vorrei che la visita del Papa rafforzasse non solo su un piano umano ma anche teologico la posizione in Terra Santa degli arabi cristiani, i quali, indipendentemente dalla comunità o etnia di appartenenza, si ritrovano negli ultimi anni schiacciati tra l’integralismo musulmano e quello ebraico e scelgono purtroppo spesso di emigrare verso le nazioni europee o gli Stati Uniti. I palestinesi cristiani non si sono mostrati meno patrioti dei loro fratelli musulmani. Per anni sono stati a capo del movimento nazionale palestinese e lo hanno rappresentato anche al parlamento israeliano con fedeltà e saggio pragmatismo. I cristiani vivevano in Terra Santa già molti anni prima della conquista araba musulmana ed è dunque molto importante, anche per gli israeliani, che lo status di questa comunità venga riaffermato, sia in Israele sia nei territori dell’Autorità palestinese. I palestinesi di fede cristiana rappresentano in genere il settore più progredito e liberale di questo popolo, e non possiamo permettere, né a musulmani né a ebrei estremisti, di limitare la loro libertà d’azione. Non è possibile comprendere l’essenza dell’ebraismo senza capire anche il principio teologico alla base del distacco del cristianesimo da esso. Ebraismo e cristianesimo sono religioni sorelle che, benché per secoli antagoniste, hanno esercitato una profonda influenza l’una sull’altra. La presenza di cristiani all’interno dello Stato ebraico è dunque importante, a mio vedere, non solo per il cristianesimo ma anche per l’ebraismo stesso.

Terzo. L’ultimo punto attiene ai luoghi sacri di Gerusalemme. Non vi sarà pace tra israeliani e palestinesi senza che questa città torni a essere divisa, eppure la città vecchia, racchiusa entro le mura e con un’alta concentrazione di luoghi sacri all’ebraismo, all’Islam e alla cristianità, non potrà mai essere ripartita in zone sovrane. I luoghi sacri sono infatti contigui gli uni agli altri e l’imposizione di confini politici trasformerebbe quest’area di nemmeno un chilometro quadrato in un conglomerato di check point e di posti di blocco. L’unica soluzione sarebbe dunque una «vaticanizzazione» della città vecchia, ovvero l’abrogazione di ogni governo nazionale e la costituzione di un’autorità comune alle tre religioni. I cristiani dovrebbero mostrarsi più attivi e partecipi nel pretendere una soluzione in questo senso, impedendo a palestinesi e israeliani di accapigliarsi vanamente per ogni pietra e vicolo. Su questo punto il Papa potrebbe non solo esprimersi con chiarezza ma anche proporre l’esperienza e il modello vaticano al fine di convincere le due parti (soprattutto quella israeliana) a muoversi in questa direzione. È vero che il Papa è il rappresentante soltanto dei cattolici, ma in merito a questo problema potrebbe parlare a nome di tutti i cristiani del mondo. Questo è ciò che mi attendo dalla visita di Benedetto XVI, perché rimanga impressa nella coscienza collettiva e non venga dimenticata a breve come quella di molti altri leader che vanno e vengono in questa regione in un incessante viavai.

 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:38:25 pm
5/6/2009
 
L'amico che vorrei a fianco
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
Da cosa si riconosce un vero amico? Dal fatto che chi si definisce tale crede e ha fiducia in te, si preoccupa dei tuoi veri bisogni, anche a lungo termine, ti indica onestamente i tuoi errori e cerca di aiutarti a correggerli. Questo è l’amico che vorrei al mio fianco. Non chi approva automaticamente qualunque cosa io faccia, dichiara il suo amore per me e mi accetta così come sono. A partire dalla grande vittoria militare di Israele nel 1967, quando venne respinta la grave minaccia militare rappresentata da Egitto, Siria e Giordania che proclamarono apertamente di volere distruggere lo Stato ebraico e concentrarono grandi eserciti lungo il suo confine, Israele è precipitato in un vortice ideologico e militare innescato dalla conquista di vasti territori durante quel conflitto.

Doveva considerare fin dal principio quelle regioni come merce di scambio e indurre il mondo arabo e i palestinesi a cercare la pace. E invece Israele - vuoi per sfiducia nei confronti delle vere intenzioni dei suoi nemici e del loro impegno a rispettare fedelmente un’eventuale intesa di pace, vuoi per la sua aspirazione ad annettersi quei territori (soprattutto quelli con un significato storico e religioso) - ha iniziato una politica di insediamenti e creato una realtà difficile da sovvertire.

Tali comunità civili erano, e sono tuttora, irrilevanti per la sicurezza dello Stato ebraico. Al contrario. Poiché ubicate nel cuore della popolazione palestinese sono obiettivo di attacchi terroristici e richiedono speciali misure di difesa e l’impegno di ingenti forze militari in compiti di sorveglianza e pattugliamento. Anche sulle alture del Golan, dove non c’è una presenza siriana, i centri ebraici situati a pochi chilometri da enormi concentrazioni di truppe siriane rappresentano un intralcio poiché, in caso di guerra, l’esercito israeliano si vedrebbe costretto ad evacuarli rapidamente, come è avvenuto nella guerra del Kippur nell’ottobre del 1973.

Gli insediamenti israeliani acuiscono dunque l’odio dei palestinesi verso Israele. Infatti, oltre a occupare le loro terre, a sfruttare le loro risorse idriche e a imporre limiti alla loro libertà di circolazione, essi simboleggiano la volontà dello Stato ebraico di restare, la sua riluttanza a concedere l’indipendenza al popolo palestinese, anche qualora questi ne riconoscesse la legittimità e si mostrasse disposto a una convivenza pacifica.

Israele ha investito grandi risorse finanziarie in quegli insediamenti, spesso ignorando importanti bisogni interni o lo sviluppo di centri abitati entro la linea verde. I coloni, in gran parte sostenitori di movimenti e partiti religiosi-nazionalisti, ostentano sovente un atteggiamento di superiorità nei confronti delle autorità israeliane, pretendono uno status speciale non solo rispetto ai palestinesi ma anche rispetto agli altri cittadini israeliani e, come possiamo renderci conto in questi giorni, c’è chi, fra loro, nemmeno riconosce più l’autorità giuridica dello Stato israeliano. Ciò che è difficile da accettare, ed è fonte di preoccupazione, è che se quegli insediamenti continueranno ad ampliarsi la soluzione di due Stati per due popoli sarà compromessa e, prima o poi, tra il Giordano e il Mar Mediterraneo si estenderà un unico Stato popolato da due etnie che, in ragione della crescita demografica palestinese, a poco a poco si trasformerà in uno Stato a maggioranza palestinese. Una ricetta sicura per la fine di Israele.

La maggior parte degli israeliani ha ormai compreso tutto ciò eppure, come un tossicodipendente schiavo della droga, non è in grado di dire: basta, abbiamo commesso un errore a cui occorre porre rimedio prima che sia troppo tardi. È vero, quando fu firmato l’accordo di pace con l’Egitto coloni ebrei furono evacuati a forza dai territori del Sinai. E quando la situazione delle comunità civili ebraiche della Striscia di Gaza divenne insopportabile il leader della destra Ariel Sharon sgomberò a forza novemila coloni che vivevano frammisti a un milione e mezzo di palestinesi: un evento traumatico che ha lasciato cicatrici in entrambe le parti. Ma in Cisgiordania vivono 250.000 israeliani e la loro evacuazione potrebbe innescare una guerra civile.

Tutti gli Stati del mondo disapprovano gli insediamenti israeliani sorti dopo la Guerra dei Sei giorni, e fra questi gli Stati Uniti. Eppure, malgrado in passato i governanti a Washington abbiano avuto l’opportunità di far valere la loro influenza, hanno preferito permettere a Israele, Stato alleato e amico, di fare ciò che voleva. È arrivato il momento della verità ed è un bene che un leader saggio e coraggioso quale Barack Obama che (non ne ho alcun dubbio) ancor prima che il rafforzamento della sua nazione agli occhi del mondo musulmano vede il bene di Israele e la sua sicurezza, proclami: basta, voi non fate che del male a voi stessi, danneggiate il vostro futuro. Pur non credendo a una genuina volontà di pace dei palestinesi, alla loro capacità di tenere a bada le organizzazioni terroristiche e a una sincera rinuncia alla pretesa del diritto del ritorno dei profughi, potete sempre garantire la vostra sicurezza grazie a una presenza militare nei territori palestinesi ed evitare di pregiudicare un’eventuale pace e la creazione di due Stati con ulteriori ampliamenti di insediamenti comunque inutili.

Con un appello tanto diretto e chiaro al governo israeliano non solo il Presidente statunitense ha espresso ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore ma ha dato prova della sua profonda amicizia con lo Stato ebraico.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA La pretesa inutile di Israele
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2009, 10:19:14 am
18/6/2009
 
La pretesa inutile di Israele
 
 
AVRAHAM B. YEHOSHUA
 
Da più di quarantadue anni, a partire dalla Guerra dei Sei Giorni, un esiguo numero di israeliani, e non tutti di sinistra, ha sostenuto l’ideale di due Stati, israeliano e palestinese, come soluzione imprescindibile del conflitto mediorientale.

La maggioranza dei loro concittadini ha rifiutato questa soluzione in passato, così come i palestinesi. Per parecchi anni gli israeliani si sono chiesti innocentemente: chi sono mai questi palestinesi per avere uno Stato? E questi ultimi, di rimando: gli ebrei non sono che una comunità religiosa sparsa per il mondo. Perché mai dovrebbero possederne uno loro?

Molta acqua è passata sotto i ponti prima che questa soluzione cominciasse a filtrare negli ambienti politici e ideologici israeliani e palestinesi, sia su un piano morale che pratico. È vero, riconoscere a parole questo principio non ha ancora portato alla creazione di uno Stato palestinese e spesso gli eventi sono stati d’intralcio nel realizzare questa aspirazione. Ma sia israeliani che palestinesi hanno cominciato ad abituarsi a questa espressione, «Stato palestinese», e chi fra loro ne ha abbracciato l’ideale ha ottenuto sostegno e lustro sul piano internazionale.

Dopo i laburisti Peres, Rabin e Barak, si sono registrati i primi tentativi degli esponenti del Likud - Tzipi Livni, Ehud Olmert e Ariel Sharon - a muoversi in questo senso. Ed ecco che ora, dal baluardo della destra, è il turno di Benjamin Netanyahu. Ci si può quindi congratulare esclamando: meglio tardi che mai.

Noi tutti siamo consapevoli che il cammino verso la realizzazione di questo sogno è irto di difficoltà e ostacoli, sia da parte palestinese che israeliana. Ritengo che alcune delle condizioni poste dal primo ministro nel suo discorso tenuto all’università di Bar Ilan siano necessarie, altre invece sono inutili e complicano ancora di più una situazione già di per sé problematica e complessa. La pretesa di una smilitarizzazione del futuro Stato palestinese è necessaria, ragionevole e indispensabile e chiunque dia un’occhiata a una mappa geografica della regione può capirla e giustificarla. Anche l’Egitto, nazione grande e indipendente, accettò a suo tempo la smilitarizzazione del Sinai. Smilitarizzazione che rappresenta uno degli elementi fondamentali alla stabilità della pace con Israele. E paesi grandi e importanti quali il Giappone, la Germania e l’Austria sono soggetti da decenni a limitazioni nell’acquisto di armamenti ed equipaggiamento militare.

E pure la negazione del ritorno dei profughi palestinesi entro i confini di Israele è comprensibile, logica e giusta. Che senso avrebbe infatti riportare milioni di palestinesi in uno Stato il cui carattere e i cui simboli sono a loro estranei? Dove la maggior parte dei cittadini appartiene a un’etnia diversa dalla loro? A case e a terre che di fatto non esistono più? Quei profughi potrebbero viceversa stabilirsi in Palestina, loro madrepatria, tra loro concittadini, sotto la bandiera e l’autorità palestinese e a una distanza di soli trenta o trentacinque chilometri dalle case e dalle terre che abbandonarono, o da cui furono cacciati, più di sessant’anni fa.

Ma la condizione posta da Netanyahu che i palestinesi riconoscano il diritto del popolo ebraico di possedere uno Stato, o l’esistenza della nazionalità ebraica, è del tutto arbitraria. A mio parere è infatti superfluo chiedere ai palestinesi di riconoscere la nazionalità di un popolo che vanta una storia millenaria e il cui Stato mantiene rapporti diplomatici con più di centocinquanta paesi. Una simile pretesa non fu avanzata né verso l’Egitto né verso la Giordania e costituisce un ostacolo del tutto inutile. Sarebbe più che sufficiente chiedere ai palestinesi di riconoscere la legittimità di Israele, uno Stato la cui identità territoriale e politica è nota a tutti. Anche noi, da parte nostra, riconosceremo non tanto il popolo palestinese, che un domani potrebbe fondersi con quello giordano, quanto uno Stato palestinese sovrano e indipendente entro i confini del 1967.

La questione della nazionalità ebraica è infatti complessa anche per gli ebrei stessi, giacché molti di loro si considerano tali esclusivamente da un punto di vista religioso, e il rifiuto dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico è motivato altresì dalla presenza di una minoranza palestinese all’interno dei suoi confini. Ecco, dunque, un altro buon motivo per accantonare questa pretesa. I rapporti tra la maggioranza ebraica e la minoranza palestinese sono una questione interna, delicata, nella quale non ritengo sia il caso di coinvolgere i palestinesi al di fuori di Israele. Per più di sessant’anni la maggioranza ebraica e la minoranza araba sono riuscite a convivere in maniera accettabile affrontando con relativa dignità l’inferno del terrorismo e dell’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Con l’avvento della pace noi tutti speriamo che questo legame si rinsaldi intorno alla comune cittadinanza israeliana.

In conclusione: nel negoziato per la creazione di uno Stato palestinese non mancheranno problemi e ostacoli. Concentriamoci quindi nel risolvere quelli principali - smilitarizzazione, insediamenti, confini e profughi - e lasciamo che la realtà della pace metta in ombra, o rimandi a un futuro più lontano, la soluzione di quesiti di natura teologica e storica.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Se Israele rompe il silenzio
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2009, 11:08:11 pm
21/7/2009
 
Se Israele rompe il silenzio
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
Dopo più di tre anni dal ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e dallo smantellamento degli insediamenti e delle basi militari, Israele non poteva permettere che il governo di Hamas, pervicace nel rifiuto di riconoscere lo Stato ebraico e nell’invocarne l’annientamento, proseguisse i massicci lanci di missili e di granate verso i suoi centri abitati del Sud. Neppure l’embargo parziale messo in atto contro la Striscia giustificava un simile bombardamento giacché il valico di frontiera di Rafah (al confine con l’Egitto) permetteva a Hamas di mantenere un legame col mondo esterno e solo la chiusura di questo valico ha reso completo il blocco della Striscia, facendone quindi ricadere la responsabilità sull’Egitto.

Era imperativo porre dunque fine al fuoco di Hamas e solo con questo scopo lo Stato ebraico si è imbarcato nell’operazione «Piombo Fuso». Non per sovvertire il governo di Hamas né tanto meno per imporre a Gaza un nuovo regime. Prova ne è che dopo settimane di distruzione e di morte i leader di Hamas, nascosti negli scantinati degli ospedali, hanno ripreso i loro posti e sono ancora gli indiscussi capi della Striscia.

Israele ha mostrato il pugno di ferro mettendo in campo un’enorme potenza di fuoco in zone urbane densamente popolate. I motivi di questa scelta sono vari e complessi. Innanzi tutto lo Stato ebraico temeva una forte resistenza di Hamas, com’è accaduto con Hezbollah durante la seconda guerra del Libano. In secondo luogo voleva concludere al più presto l’operazione con perdite minime tra i suoi soldati. E in ultimo i soldati israeliani hanno incontrato oggettive difficoltà nel distinguere fra i combattenti di Hamas, per lo più senza divisa, e i civili.

Nel complesso l’operazione è riuscita. I bombardamenti sulle città e sui villaggi israeliani sono cessati e il contrabbando di armi dall’Egitto alla Striscia è stato presumibilmente interrotto dalla polizia egiziana, o per lo meno ridimensionato. Durante gli scontri si sono però verificati episodi di brutalità da parte dei soldati di Tsahal che non hanno tenuto troppo conto della popolazione civile coinvolta suo malgrado nei combattimenti.

Alcuni di questi soldati, combattenti in prima linea e preoccupati della propria incolumità non meno dei loro compagni, hanno ritenuto opportuno riportare trasgressioni ingiustificate all’etica bellica e riferire la loro testimonianza perché sia le alte cariche dell’esercito, sia la società civile che lo sostiene, sappiano ciò che è accaduto.

Faremmo bene a prestare seria attenzione a queste testimonianze, verificarle una a una e trarne insegnamenti per il futuro. E anche se alcune di esse si riveleranno gonfiate o scorrette, dobbiamo tuttavia rispettare i motivi che hanno spinto i soldati a parlare, perché nessuno di loro lo ha fatto per trarne un vantaggio personale. Tutt’altro: il loro coraggio civico potrebbe avere un alto prezzo attirandogli l’astio dei compagni e dell’opinione pubblica.

Qualche tempo fa la televisione israeliana ha trasmesso un filmato in cui si vedeva il comandante di un battaglione tenere per la spalla un prigioniero palestinese legato e intimare a un suo sottoposto - distante all’incirca mezzo metro dal prigioniero - di sparargli una pallottola di gomma alla gamba. Se questo filmato non fosse stato reso pubblico, se vi fosse stata soltanto una testimonianza orale di ciò che era accaduto, avremmo potuto pensare a un’ennesima fantasiosa calunnia nei nostri confronti. Perché chi mai avrebbe creduto che un episodio tanto vergognoso potesse verificarsi tra le file del nostro esercito? Eppure il filmato forniva la prova inconfutabile di ciò che era effettivamente avvenuto e la reazione degli alti gradi dell’esercito è stata estremamente severa.

Quindi, sebbene non supportate da filmati o riprese televisive, dobbiamo prestare seria e responsabile attenzione alle testimonianze dei soldati del movimento «Break the Silence». Se la nostra fiducia nei principi morali di molti dei comandanti e dei soldati di Tsahal è ben riposta, non abbiamo nulla da temere da esse.

Dobbiamo altresì ricordare una verità fondamentale: il comportamento da noi adottato nei confronti del nemico non resta al di fuori di Israele ma filtra al suo interno. La violazione di norme etiche nei rapporti con i palestinesi sotto occupazione altera e stravolge quelle stesse norme anche in Israele, nei rapporti fra i suoi cittadini. Se si preme un grilletto con eccessiva leggerezza a Hebron e a Gaza, questo avverrà anche in Israele, per esempio durante regolamenti di conti fra organizzazioni criminali nei quali spesso rimangono coinvolti cittadini innocenti. E la violenza brutale dei coloni contro l’esercito e la polizia legittimerà una condotta altrettanto brutale degli ultraortodossi nelle vie di Gerusalemme contro poliziotti e dipendenti comunali.

E in ultimo: dobbiamo mostrarci molto cauti nei nostri rapporti con i palestinesi, perché costoro saranno per sempre nostri vicini e quando sorgerà un loro Stato i nostri due popoli avranno innumerevoli occasioni di contatto. Quindi, a favore di un futuro comune, è nostro dovere rispettare fin da ora regole pragmatiche di correttezza, in guerra e nell’occupazione, e non macchiarci di vessazioni e soprusi che peseranno su un futuro processo di riavvicinamento e di ricostruzione.

Occorre quindi prestare ascolto ai soldati di «Break the Silence» che hanno scelto di «rompere il silenzio», rispettare il loro coraggio, verificare accuratamente le loro testimonianze e trarne le appropriate conclusioni.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Moi et le village un dipinto di Marc Chagall del 1911
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 12:00:10 pm
6/9/2009 (8:17) - STORIA

Viaggio all'inizio della nostra storia
 
Moi et le village un dipinto di Marc Chagall del 1911
 
Sulle tracce dei genitori della moglie, che negli Anni 20 partirono dall'Europa dell'Est alla volta della Palestina


ABRAHAM B. YEHOSHUA


L’importante e originale libro di Daniel Mendelsohn Gli scomparsi è servito d’ispirazione alla mia famiglia per un viaggio alla ricerca delle proprie radici nell’Europa dell’Est.

Daniel Mendelsohn, un classicista americano, spronato dai ricordi d’infanzia si è assunto un impegno particolare: scoprire come furono uccisi durante la Shoah sei dei suoi famigliari della cui morte il nonno si era sempre sentito colpevole. Non gli bastava sapere che erano scomparsi nell’Olocausto. Voleva fare il possibile per scoprire com’era avvenuta la loro morte per sentirsi vicino alle vittime, provare il loro terrore, concedere loro spazio emotivo e, in un certo qual modo, accompagnarli negli ultimi istanti di vita. Per raggiungere lo scopo Mendelsohn e il fratello si sono imbarcati in una complessa operazione investigativa: viaggiando tra continenti diversi e interrogando i sopravvissuti ne hanno incrociato le testimonianze e non si sono dati pace fino a che non hanno scoperto luoghi e dettagli reconditi.

Una cantina servita come ultimo rifugio o un albero contro il quale era stata messa una delle vittime prima di essere giustiziata. E hanno fatto tutto ciò con la determinazione e la perseveranza scientifica di un ricercatore che non si concede riposo fino a che non giunge alla verità.

Naturalmente io e i miei famigliari abbiamo letto parecchi libri sulla Shoah, ma il romanzo di Mendelsohn ci ha turbato in modo particolare. La morte di quegli estranei ha cessato di essere anonima, si è trasformata in qualcosa di personale. E a quel punto è nato il bisogno di seguire le tracce di chi era rimasto in vita, ovvero di recarci nell’Europa dell’Est e di ritrovare i luoghi dai quali giunsero prima della guerra i genitori di mia moglie, Berta e Nachum, che contrariamente alla gran parte degli altri ebrei decisero per tempo di assumersi la responsabilità del proprio destino e anziché trasferirsi in una nuova nazione della diaspora abbracciarono la rivoluzione sionista per cercare di normalizzare l’esistenza ebraica nella terra di Israele.

Giunsero qui una decina di anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e non in seguito a una lungimirante profezia del tremendo futuro che aspettava gli ebrei. Nessuno poteva prevedere l’orrore che sarebbe seguito. Entrambi appartenevano a famiglie benestanti e gran parte dei loro congiunti vedeva in quella decisione una sconsiderata avventura. Eppure, a dispetto di tutto, i due giovani preferirono lasciare i floridi paesi in cui erano nati per arrischiarsi a costruire una nuova vita in una terra lontana e desertica. Dissero basta allo studio di antichi testi ebraici, a sempre nuovi espedienti per riuscire a sopravvivere in un ambiente ostile, e scelsero di mettersi alla prova in una realtà che fosse completamente loro.

Nachum, suo fratello e le sue due sorelle nacquero e crebbero in una tenuta di campagna grande e fiorente nei dintorni di Suwalki, al confine tra la Polonia e la Lituania, dove i giovani ebrei venivano addestrati ai lavori agricoli a cui avrebbero dovuto attendere nella terra di Israele. I quattro ragazzi lasciarono la famiglia negli anni Venti ed emigrarono nell’allora Palestina. Nachum, mantenendo il ricordo della propria infanzia rurale, divenne medico veterinario. I genitori rimasero nella tenuta anche dopo la partenza dei figli, forse per un senso di responsabilità nei confronti dei numerosi braccianti che vi lavoravano, e quando cercarono di raggiungerli in Israele era ormai troppo tardi. Le autorità britanniche avevano vietato l’ingresso agli ebrei e i due vecchi rimasero intrappolati e perirono nell’Olocausto.

Berta, la madre di mia moglie, apparteneva a una famiglia benestante di mercanti di Vilnius. Lei e la sorella giunsero nella terra di Israele agli inizi degli anni Trenta, mentre altri due fratelli e i genitori rimasero a Vilnius. Questi ultimi e uno dei ragazzi furono uccisi nel ghetto e solo il fratello più giovane riuscì a fuggire attraverso le fognature nella foresta dove si unì ai partigiani con i quali rimase fino alla fine del conflitto. Sorprendentemente, per quanto sia anche comprensibile, i genitori di mia moglie, così come i loro fratelli e sorelle, non vollero mai tornare a visitare i luoghi in cui erano nati e cresciuti, nemmeno per cercare di scoprire come erano morti esattamente i loro congiunti. La nube nera e orribile della Shoah oscurava i luoghi che si erano lasciati alle spalle e dato che la maggior parte degli ebrei era stata sterminata non avevano nessuna voglia di incontrare un vicino lituano o polacco, né tale incontro avrebbe avuto alcun senso. La connivenza, attiva o passiva, della gente locale con gli aguzzini nazisti aveva reso tutti sospettabili di collaborazionismo e non c’era nessun desiderio di avere contatti con loro, nel bene o nel male.

Di ritorno da questo nostro entusiasmante viaggio ho espresso il mio apprezzamento per le bellezze di Vilnius allo zio di mia moglie, il giovane ex partigiano ormai ottantaseienne che non era mai più tornato a visitare la propria città natale. Lui ha ribattuto: «Vilnius con le sue magnifiche chiese, i suoi giardini, le sue foreste, non è altro che un gigantesco camposanto in cui non vi sono nemmeno delle lapidi. Per questo non mi è mai interessato tornarci».

E così, i figli nati in Israele, nonostante per parecchi anni abbiano sentito qua e là descrizioni dei luoghi da cui provenivano i genitori, non hanno mai provato il desiderio di visitarli fintanto che costoro sono rimasti in vita. In anni recenti, però (e questo fenomeno non è prerogativa esclusiva della mia famiglia) forse sentendosi prossimi all’ultimo stadio della loro vita, avvertono il bisogno di recarsi nei luoghi abbandonati dai genitori in gioventù. E così si organizzano gruppi di anziani israeliani ansiosi di ritrovare tracce di precedenti generazioni in nazioni a loro sconosciute dell’Europa dell’Est. Non necessariamente per rinvenire la presenza di persone morte, come nel caso di Daniel Mendelsohn, ma piuttosto quella di gente viva.

Io, che ho radici a Gerusalemme, mi sono unito con molto interesse a mia moglie e ai suoi famigliari - tutti anziani incanutiti - nel loro viaggio in Lituania e Polonia.

Un viaggio di questo tipo, che di solito dura pochi giorni, non può essere compiuto senza una guida, e nei paesi dell’Est è comparsa negli ultimi anni una nuova figura di accompagnatore: solitamente un ebreo locale (anche se capita di imbattersi in non ebrei) che oltre ad avere padronanza della lingua del posto - lituano, polacco o russo - possiede una buona conoscenza dell’ebraico e dell’inglese, è esperto dei luoghi, se la cava egregiamente negli spostamenti e sa rinvenire, anche grazie a documenti scovati in archivi locali, tracce della presenza ebraica del passato. In altre parole è in grado di identificare in una normale via commerciale di Vilnius l’esatto punto in cui iniziava il ghetto ebraico, l’ubicazione di case andate distrutte, e sa dare informazioni su una sinagoga che non esiste più. Una guida simile deve avere la capacità di ricostruire con l’immaginazione reperti di cui non è rimasto nemmeno il ricordo. Deve naturalmente conoscere la storia dei paesi in cui gli ebrei cercano le loro radici senza tuttavia mostrare cedimenti emotivi o rancore nei confronti della gente del posto per via della passata collaborazione con i tedeschi. E ovviamente deve conoscere gli archivi presenti nei vari luoghi e mantenere buoni rapporti con gli impiegati perché questi rintraccino per i suoi clienti i vecchi nomi delle vie, l’ordine di successione dei numeri, le scuole in cui i loro genitori avevano studiato o il nome di uno zio scomparso nella Shoah di cui si conosce l’esistenza ma che non è mai stato menzionato.

E in effetti gli impiegati degli archivi da noi visitati, lituani o polacchi che fossero (che se non sbaglio sono dipendenti statali) hanno fatto del loro meglio per rispondere alle domande dei membri del nostro gruppo. Hanno aperto i volumi riguardanti la comunità ebraica antecedenti la seconda guerra mondiale e tra le migliaia di nomi con accanto la sola data di nascita (quella della morte, avvenuta nel corso di un eccidio in una foresta o in un campo di sterminio, è sconosciuta) si sono sforzati di cercare quello di uno zio, di una via, o dei successivi proprietari della tenuta perché toccassimo con mano l’esistenza di persone ormai scomparse, un passato che quelle stesse persone non volevano ricordare né conoscere.

La nostra guida era un ebreo basso di statura, sui cinquant’anni, scapolo, con un cappellino su cui spiccava la parola «guida» in ebraico. Indossava una camicia militare israeliana con stampato il simbolo di Tsahal, lasciatagli in regalo da un gruppo di ufficiali israeliani e dalla quale faceva fatica a separarsi. Era un uomo strano e persino misterioso, con un immenso bagaglio di conoscenze e una straordinaria capacità di orientamento. Ha saputo condurci alla casa nella quale nacque e visse Berta prima di emigrare in Israele e anche nella fertile e verdeggiante tenuta polacca nella quale crebbe Nachum.

L’emozione di mia moglie, di sua sorella e dei loro cugini è stata enorme. Ogni dettaglio era importante ai loro occhi. Si sono aggirati a lungo nelle case dei genitori osservando ogni angolo e particolare, insaziabili nel desiderio di vedere e respirare l’aria del luogo. Nella tenuta di campagna hanno avviato una lunga conversazione con i contadini polacchi cercando di attingere dettagli della vita che si conduceva lì più di novant’anni fa. Un cucchiaino d’argento con il monogramma della famiglia in lettere ebraiche è stato per loro un reperto di inestimabile valore. Senza dubbio il grande amore per i loro genitori ha ammantato quei luoghi di grande bellezza e significato. È stato come se un cerchio, rimasto inconsapevolmente aperto troppo a lungo, si fosse chiuso.


da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Hezbollah e Hamas, nemici non terroristi
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:28:31 pm
9/10/2009
 
Hezbollah e Hamas, nemici non terroristi
 
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
Fin dal giorno della sua fondazione Israele è stato aggredito da nazioni arabe che non ne accettavano l’esistenza e ne volevano la distruzione. Tali nazioni venivano qualificate dagli israeliani come «nemiche», non come «terroriste». Nel 1948 la Giordania pose l’assedio ai quartieri ebraici di Gerusalemme, li bombardò per qualche mese e impedì ai residenti di approvvigionarsi di acqua e cibo. Ciò nonostante Israele non definì mai la Giordania «Stato terrorista». Anche la Siria martellò per anni le comunità civili israeliane in Galilea e nella valle del Giordano, eppure, anche nei suoi confronti, Israele evitò di usare la definizione di «Stato terrorista».

Durante la guerra del 1948, scoppiata dopo la decisione delle Nazioni Unite di dividere la regione, le vittime civili di ambo le parti furono numerose, interi villaggi (per lo più palestinesi) furono distrutti e i loro abitanti costretti alla fuga o cacciati. Ma mai quella guerra fu ritenuta, né dagli israeliani né dagli arabi, uno scontro tra «terroristi». Per lunghi mesi, dopo la guerra dei Sei giorni, Giordania, Siria, e anche Israele, presero di mira centri abitati (soprattutto lungo il Canale di Suez), eppure mai Israele considerò i suoi vicini «Stati terroristi». Li vedeva come nemici con i quali aspirava a raggiungere un giorno la pace.

A partire dagli Anni Novanta, soprattutto in seguito allo scontro prolungato con i palestinesi, il termine «nemico» cominciò a essere sostituito con quello di «terrorista». Infatti, non possedendo uno Stato, ogni azione militare compiuta dai palestinesi (da loro considerata una «legittima opposizione all’occupazione») veniva vista da Israele come un atto di terrorismo. Israele prese a utilizzare questo termine per esprimere da un lato la sua profonda diffidenza verso le intenzioni di pace dei palestinesi e dall’altro per giustificare la sua riluttanza a fare concessioni e per ottenere la simpatia generale nella lotta contro questo fenomeno, soprattutto dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Ma la sostituzione del termine «nemico» con quello di «terrorista» ha creato negli ultimi anni problemi etici complessi.

Per terrorismo si intende infatti una forma di lotta condotta verso obiettivi civili e militari da persone che, mantenendo celata la propria identità, mirano a seminare il panico tra la popolazione e a sovvertire il regime esistente o la linea politica delle sue istituzioni. Poiché i terroristi, per definizione, si discostano dalla popolazione in mezzo alla quale vivono, quest’ultima non viene associata agli atti da loro compiuti e quindi ogni azione rivolta contro di essa sarà considerata un crimine.

Ma dopo il ritiro di Israele dal Libano e dalla Striscia di Gaza sarebbe più appropriato qualificare i movimenti Hamas e Hezbollah semplicemente come «nemici» (come fanno peraltro i loro esponenti nei confronti di Israele) in quanto non rientrano nella definizione di «terrorismo». I loro rappresentanti agiscono alla luce del sole, esercitano pieno controllo sul territorio nel quale vivono, amministrano enti e istituzioni pubblici, possiedono distintivi segni di identità quali uniformi e bandiere, e mantengono un legame profondo e vincolante con la popolazione locale di cui sono i rappresentanti. Esponenti di Hezbollah, un movimento dichiaratamente armato, sono deputati nel Parlamento libanese e ministri nel suo esecutivo. E il governo di Hamas, democraticamente eletto, amministra la vita pubblica nella Striscia di Gaza.

La loro ideologia non corrisponde alla definizione corrente di terrorismo ma va ben oltre: distruggere lo Stato di Israele e rispedire gli ebrei alle nazioni dalle quali provengono. E infatti Hamas e Hezbollah si proclamano nemici giurati di Israele, come fecero la Giordania e l’Egitto dopo la nascita dello Stato ebraico e prima che le numerose guerre li inducessero a cambiare idea, a riconoscere Israele e a concludere con esso la pace. Hezbollah e Hamas vanno quindi considerati alla stregua di nemici e, stando così le cose, ne consegue che Israele non ha alcuna responsabilità legale verso i cittadini che li hanno scelti come governanti e che sono quindi parte della lotta contro di esso.

È chiaro che secondo le norme che regolano i conflitti internazionali è proibito colpire indiscriminatamente e senza motivo civili estranei ai combattimenti armati. Questo vale per Hezbollah, per Hamas e, ovviamente, per Israele. Ma da un punto di vista etico-legale è altrettanto chiaro che lo scontro che vede opposto Israele a Hamas e a Hezbollah è una guerra tra nemici e non la lotta di uno Stato contro un’organizzazione terroristica.

Tuttavia, nel momento in cui Israele proclama i suddetti movimenti «organizzazioni terroristiche», la situazione si complica giacché i civili fra i quali questi «terroristi» vivono non solo non possono essere considerati complici delle loro azioni ma sono addirittura ritenuti sorta di loro «ostaggi» e ogni volta che li si colpisce si commette un doppio crimine. E così, nonostante Israele si sia ritirato del Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza, gli insediamenti civili israeliani nella zona siano ormai un ricordo e la Striscia mantenga un valico di frontiera con l’Egitto, lo Stato ebraico viene ancora visto come responsabile di ciò che vi avviene e le sue azioni giudicate non come quelle di chi combatte contro un nemico ma come quelle di chi si trova ad affrontare attacchi terroristici in una regione sotto sua responsabilità ed è tenuto a compiere una rigorosissima distinzione tra «cattivi» e «innocenti».

Il rapporto Goldstone doveva basarsi sul presupposto che l’operazione «Piombo fuso» è stato uno scontro tra due Stati in conflitto, responsabili della difesa e della sicurezza dei propri cittadini i quali non potevano essere lasciati in balia di attacchi di razzi né della dura reazione militare che ne è conseguita. L’aver ignorato tale realtà lo ha reso lacunoso e ha inasprito le critiche nei confronti di Israele, malgrado le fondate e preoccupanti accuse di comportamenti scorretti di Tsahal verso la popolazione civile.
 
da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA In quei film manca un pezzo di Israele
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2009, 03:46:12 pm
25/11/2009

In quei film manca un pezzo di Israele
   

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Negli ultimi anni i film israeliani dedicati alla prima guerra del Libano suscitano grande interesse non solo in Israele ma anche ai festival internazionali e fra gli appassionati di cinema in Europa e in Nord America. «Beaufort» ha ottenuto il premio per la miglior regia al festival di Berlino, «Valzer con Bashir» era candidato all'Oscar nella categoria «Migliore film straniero» e «Lebanon», l'ultimo della serie, ha vinto il Leone d'oro al recente festival del cinema di Venezia.

La guerra del Libano scoppiò per iniziativa israeliana nel giugno del 1982 e Tsahal, l'esercito israeliano, vi si impantanò per 18 anni fino al suo ritiro definitivo e unilaterale nel maggio del 2000. Dopo qualche anno di calma gli scontri ripresero. Nel luglio 2006 i miliziani di Hezbollah varcarono il confine internazionale, rapirono due soldati israeliani e ne uccisero altri otto scatenando simultaneamente un attacco di razzi sulle comunità nel Nord del paese. La conseguenza fu la seconda guerra del Libano, durata poco più di un mese e a seguito della quale l'esercito libanese e contingenti militari delle Nazioni Unite si dispiegarono lungo il confine internazionale.

Qualche tempo dopo l’inizio del primo scontro libanese cineasti israeliani cominciarono a produrre film che avevano come sfondo, o come ribalta, lo scontro bellico, ma incentrati principalmente sui conflitti tra i protagonisti. Tali pellicole, girate secondo il consueto schema dei film di guerra, pur riscuotendo un buon successo di pubblico in Israele non raggiunsero le vette di gloria internazionale di quelle più recenti.

Il primo elemento distintivo dell’attuale e tardivo revival cinematografico sulla guerra del Libano è il ritorno di autori ormai non più giovani (alcuni persino alla prima regia) alle loro esperienze personali. Volendo, una sorta di «ricerca del tempo perduto», ma un «tempo perduto» tremendo e doloroso. Tali autori, dopo aver rimosso a lungo i traumi e le memorie della guerra, hanno infine tentato di elaborarli tramite il medium cinematografico. La cosa è particolarmente evidente in «Valzer con Bashir», un film d’animazione il cui protagonista tenta di ripescare reminiscenze cancellate dalla memoria in seguito al massacro perpetrato nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila da falangisti cristiano maroniti.

L’aver imperniato quei film sui ricordi e sull'esperienza personale è stata una mossa azzeccata sotto un profilo artistico. I registi infatti, tralasciando trame secondarie di amori o tensioni immaginarie in cui spesso si sfaldano le pellicole di guerra, si sono focalizzati su ciò che conta veramente spingendosi anche a sperimentare forme artistiche nuove e audaci. In «Valzer con Bashir» l’inserimento al termine del film di spezzoni documentari che ritraggono persone reali ha creato un effetto particolare e originale. In «Lebanon» l'intera trama si svolge all'interno di un carro armato e ciò che avviene all’esterno è percepito solo attraverso il periscopio del blindato. Questa scelta, non facile da un punto di vista cinematografico, porta gli spettatori a provare un senso di claustrofobia e di soffocamento simile a quello vissuto dai soldati all'interno del tank. Il film «Beaufort», interamente ambientato in un'antica fortezza, trasforma con impressionante abilità il fortilizio in un intero universo. Ma al di là dei risultati artistici e formali di queste opere nutro ancora qualche perplessità nei loro confronti. In tutte e tre infatti il «nemico» - sia esso palestinese, libanese, civile e combattente -, a eccezione di qualche piccola e insignificante scena rimane una presenza invisibile, come per esempio in «Beaufort» dove i lanci dei mortai provengono da un punto imprecisato e non individuabile. Ma ciò che mi sembra ancora più grave è la mancanza di un contesto più ampio che spieghi la guerra o che affronti, nel bene e nel male, la questione della sua imprescindibilità o legittimità. Io, cittadino israeliano che si è opposto al conflitto fin dal primo giorno, che l’ha condannato e ne ha persino previsto il fallimento, lamento l'assenza di interrogativi e di riferimenti a dubbi o a proteste contro l'inutile invasione del Libano. I soldati si preoccupano solo della propria sopravvivenza o dei loro rapporti personali. Nessuno cerca, mediante dialoghi o conversazioni, di capire il significato della guerra, il senso, la necessità.

In fondo, a distanza di anni, il bilancio negativo del conflitto, il suo fallimento su un piano morale, militare e politico, è ormai evidente anche agli autori dei film. Dopo tutto anche loro ricordano come l'ex primo ministro Menahem Begin, promotore e leader di quella guerra, abbia riconosciuto il terribile errore commesso e all'incirca un anno dopo lo scoppio delle ostilità abbia dato le dimissioni, si sia rinchiuso in casa come per autopunirsi e non ne sia più uscito fino al giorno della sua morte. Eppure, rimanendo fedeli alla propria esperienza personale, hanno dimostrato fino a che punto all'epoca i soldati stessi fossero parte di un clima di consenso nazionale, paralizzati, senza motivazioni ideologiche o morali che li inducessero a porsi domande su ciò che facevano. Ma le cose stavano davvero così? È questa la verità? Ritengo di no. Il fatto però che a distanza di tempo gli interrogativi e i dubbi di allora siano scomparsi e sia rimasta solo l’esperienza diretta dei combattimenti invita a mio giudizio a produrre una terza serie di film che prendano in esame quella guerra, così come fanno la letteratura, il teatro e il cinema israeliano con la questione palestinese. Quindi, per chi come me mantiene una posizione ferma e definita sulla guerra del Libano queste opere cinematografiche, per quanto valide su un piano artistico, sono da ritenersi comunque incomplete.

da lastampa.it


Titolo: AVRAHAM B. YEHOSHUA La sfida dei rabbini a Israele
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2009, 04:58:19 pm
31/12/2009

La sfida dei rabbini a Israele
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA


Nelle ultime settimane i rabbini appartenenti alla corrente religiosa nazionalista, e soprattutto quelli a capo delle colonie e delle accademie talmudiche della Giudea e della Samaria (i territori occupati palestinesi), si sono schierati in prima linea nell'opposizione alla decisione del governo israeliano di congelare le colonie per dieci mesi.

Alcuni di loro hanno diramato appelli ai soldati, ex studenti delle accademie talmudiche, perché rifiutino di eseguire l'eventuale ordine di evacuare gli insediamenti, sfidando così le decisioni del governo relative alla possibilità di riprendere il negoziato di pace con i palestinesi in vista di una creazione di un loro Stato. Tra i rabbini stessi, apparsi di frequente sugli schermi televisivi sia in gruppo sia singolarmente, vi sono dissensi sul modo di esprimere la loro protesta e quella dei loro allievi. Ma sia gli estremisti che i moderati sono uniti nell'impegno religioso di mantenere la sovranità ebraica su tutto il territorio dell'Israele biblico.

Io guardo questi rabbini - energici, determinati, esperti di norme di condotta religiosa e di interpretazioni di testi sacri - e mi domando dove fossero nei secoli passati i loro predecessori che di certo conoscevano bene la Halakha, la legge rabbinica, e i versetti relativi alla sacralità e all'importanza della terra di Israele. In altre parole, perché il pensiero religioso, tanto saldo per quanto concerne la santità della terra dei padri e il rifiuto di rinunciare alla benché minima parte di essa, non ha spinto gli ebrei a giungere a questa terra in passato, quando era scarsamente popolata e per lo più desolata? Perché ebrei siriani, iracheni, egiziani, greci e dell'impero ottomano - del quale la terra di Israele era parte - e i loro confratelli osservanti d'Europa - molti dei quali erravano da un Paese all'altro - non vennero a stabilirsi nella tanto preziosa terra santa in forza di un comandamento religioso?

Dico questo in quanto la mia personale biografia comprova che l'emigrazione dalla diaspora alla terra di Israele era possibile. Il mio bis bisnonno, rabbino di Praga, lasciò a metà del diciannovesimo secolo la sua città per stabilirsi a Gerusalemme. E lo stesso fecero altri rabbini miei antenati, di un diverso ramo della famiglia, più o meno nello stesso periodo: abbandonarono la città di Salonicco, all'epoca sotto dominio turco, per trasferirsi a Gerusalemme. Ma si trattava di pochissimi, ashkenaziti e sefarditi. La classica eccezione che conferma la regola. Insomma, prima che l'antisemitismo spingesse gli ebrei a svegliarsi e a concepire uno Stato esisteva la possibilità di arrivare in terra di Israele e di compiere un precetto religioso importante anche per i rabbini.

Ma c'è di più. Nei secoli antecedenti la comparsa del sionismo la stragrande maggioranza dei rabbini e dei loro discepoli non solo non incoraggiarono le comunità ebraiche a emigrare in terra di Israele bensì, al contrario, le dissuasero dal farlo. Sappiamo dell'opposizione al sionismo delle comunità hassidiche dell'Europa dell'Est. Ma anche nei lunghi secoli precedenti la comparsa dell'ideologia sionista la teologia ebraica, in tutte le sue varianti, creò una struttura religiosa che, benché accettasse l'insediamento in terra d'Israele come precetto attivo e necessario, lo riteneva un sogno messianico, una redenzione celeste attuabile solo in forza di un potere divino. E ancora oggi comunità religiose della diaspora e d'Israele guardano con sospetto la sovranità ebraica in terra di Israele e la ritengono un male necessario piuttosto che la concretizzazione di un'importante prescrizione religiosa.

Come risolvere allora questa contraddizione: l'indifferenza e l'alienazione degli ebrei osservanti nei confronti della terra santa per centinaia di anni da un lato e l'attuale concezione che il territorio sia il più importante centro di culto religioso per il quale si può e si deve persino ribellarsi al governo laico e democratico dall'altro? Ritengo che alla base della questione sia il seguente enunciato: Israele non esiste senza la Torah. Chi lo accetta considera il governo nazionale - legittimato da decisioni democratiche - vuoto di significato perché solo la Torah e la Halakha possono dare un senso al concetto di nazionalità e gli unici autorizzati a interpretare tale concetto e a stabilire le norme che lo regolano sono i rabbini.

L'intenso attaccamento religioso al territorio non è che un pretesto, un elemento della sfida a un governo democratico nazionale. Una sfida antica che è alla base dell'identità ebraica e che si è acutizzata negli ultimi anni con il forte aumento di ebrei osservanti in Israele. Ed è una sfida che ogni governo democratico israeliano dovrà affrontare se vorrà ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e arrivare a una pace con i palestinesi.

da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA I palestinesi non vogliono i pasdaran
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2010, 09:24:45 am
3/2/2010

I palestinesi non vogliono i pasdaran
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA


La Seconda guerra mondiale non ha purtroppo segnato la fine di sanguinosi conflitti bellici durante i quali si sono verificati episodi di genocidio. Ricordiamo l’Angola, ricordiamo il massacro di milioni di esseri umani in Cambogia da parte dei Khmer rossi, ricordiamo le terribili guerre tribali in Ruanda, le lotte cruente per lo smantellamento dell’ex Jugoslavia e lo sterminio dei cristiani nel Sudan meridionale. E naturalmente non possiamo dimenticare i crimini compiuti dal regime stalinista contro i popoli dell’ex impero sovietico. Eppure l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha deciso di dedicare una giornata alla memoria della Shoah degli ebrei d'Europa.

Che cosa differenzia lo sterminio degli ebrei da altre tragedie della storia umana avvenute nel ventesimo secolo? La differenza non sta solo nell’inconcepibile numero di vittime e nella ferocia con la quale questo eccidio è stato perpetrato ma anche nell’assenza dei motivi all'origine dei massacri e dei genocidi conosciuti nel secolo scorso.

I nazisti infatti non trucidarono gli ebrei perché volevano impossessarsi dei loro territori (gli ebrei non possedevano alcun territorio), né perché erano seguaci di un diverso credo religioso (i nazisti e i loro complici erano atei, nemici di qualunque fede religiosa). Non li sterminarono neppure per impossessarsi dei loro averi (la maggior parte degli ebrei era povera e chi possedeva qualcosa vi avrebbe probabilmente rinunciato per avere salva la vita), né tanto meno per motivi ideologici in quanto gli ebrei non detenevano un'ideologia a loro peculiare. I nazisti non volevano nemmeno trasformare gli ebrei, che mai prima di allora erano stati catalogati come una «razza» a sé stante, in schiavi. Li consideravano alla stregua di «microbi» e per questo li distrussero con tanta efferatezza e puntigliosità. Lo sterminio, inoltre, non fu perpetrato nella sola Germania ma in tutti i Paesi sotto occupazione nazista, talvolta con l’aiuto, o per lo meno con il silenzioso consenso, dei popoli conquistati che pure soffrivano sotto il giogo della dominazione tedesca. La Shoah fu perciò innescata da un meccanismo assurdo e fantasioso che attribuiva agli ebrei colpe inventate, da una distorsione mentale che generò un odio inspiegabile, bruciante e immotivato. Un odio che probabilmente non fu soffocato con la sconfitta del nazismo e del quale, sessantacinque anni dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ancora si intravedono segnali terrificanti. Occorre pertanto restare allerta affinché questo odio, le cui conseguenze potrebbero essere devastanti, non si ridesti, né verso gli ebrei né verso altri popoli. Per questo l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha ritenuto giusto commemorare la memoria della Shoah piuttosto che dedicare una giornata generica a tutte le tragedie umane.

I leader israeliani, con la loro partecipazione alle cerimonie ufficiali tenutesi nelle varie capitali europee nel Giorno della Memoria, non solo hanno cercato di rafforzare le difese naturali contro i fenomeni di antisemitismo che ancora sopravvivono qua e là nel mondo ma anche di ottenere sostegno politico contro la politica di armamento nucleare dell'Iran che, periodicamente, lancia minacce contro Israele e proclama di volerlo cancellare dalla faccia della terra.

L'Iran non è la Germania nazista. Il suo regime politico, la sua ideologia e naturalmente il suo potenziale bellico ed economico sono ben diversi da quelli dello Stato hitleriano. E l'Israele moderno non ricorda le deboli comunità ebraiche sparse in passato in Europa. Israele oggi non solo è in grado di difendersi da sé ma anche di causare gravi danni ai suoi nemici. Eppure, nonostante la differenza sostanziale tra l’Iran moderno e la Germania nazista, le autorità iraniane hanno adottato una bizzarra e totale opposizione all'esistenza di Israele, una presa di posizione che potrebbe farli precipitare nel meccanismo responsabile di aver generato l’odio abissale verso gli ebrei all'epoca della Shoah. Quando l’Iran possiederà armi atomiche, malgrado la sua debolezza e vulnerabilità, non è da escludere che, come la Germania nazista, possa essere risucchiato in un vortice di follia aggressiva che rischierebbe di provocare una sciagura terribile per lo Stato di Israele.

Nessuno può garantire che le sanzioni decretate dalla comunità internazionale nei confronti dell’Iran riusciranno a convincere i suoi leader a desistere dalla corsa alla produzione di armi nucleari. E un tentativo di distruggere militarmente il suo potenziale atomico potrebbe coinvolgere Israele in una lotta sfiancante e prolungata alla quale si unirebbero forse anche altri nemici dello Stato ebraico. Sono perciò molti coloro che ritengono che l'unica via giusta e morale per neutralizzare la minaccia iraniana sia quella di siglare un accordo di pace con i palestinesi.

La scorsa settimana, durante una preghiera pubblica a Ramallah alla quale hanno preso parte tutti i capi dell'Autorità palestinese, il ministro della Religione palestinese ha tenuto un sermone che ha destato speranza. Davanti alle telecamere si è pronunciato in maniera forte e risoluta contro l'ingerenza iraniana nel conflitto tra Israele e il suo popolo esprimendosi, più o meno, nei seguenti termini: «Che c'entrate voi con questo conflitto? Noi non abbiamo bisogno del vostro patrocinio né del vostro sostegno. Anziché aiutare noi e gli israeliani a giungere alla soluzione generalmente accettata da tutti, ovvero due Stati per due popoli, voi non fate che inasprire lo scontro. Spinti da motivi estranei al conflitto incoraggiate e sobillate l’estremismo di Hamas provocando così la reazione violenta di Israele, aggravando la nostra sofferenza e allontanando la conclusione alla quale noi tutti auspichiamo. Mai un vostro soldato ha versato sangue per il nostro popolo, a differenza di migliaia di soldati egiziani il cui governo ha stretto un patto di pace con Israele».

La leadership palestinese sa bene che se l'Iran dovesse lanciare un’atomica contro Israele anche il suo popolo ne soffrirebbero terribilmente. Un'eventuale pace tra Israele e i palestinesi neutralizzerebbe invece il veleno dell’odio iraniano e spezzerebbe il fantasioso meccanismo politico che lo porta a identificare Israele con il male totale, o il «piccolo satana» che occorre annientare a ogni costo. Un fronte comune a israeliani e palestinesi potrebbe spingere il popolo iraniano, che in un passato non lontano manteneva buone relazioni con lo Stato ebraico, a ribellarsi alla follia che pare essersi diffusa nella sua dirigenza. Un’azione bellica israeliana o americana rischierebbe di provocare un pericoloso peggioramento della situazione, prolungherebbe e intensificherebbe la sofferenza in questa regione tanto sensibile del mondo. Una conclusione pacifica del conflitto israelo-palestinese, viceversa, sarebbe di gran lunga più efficace di qualunque iniziativa militare.

da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Israele ascolti la voce dell'America
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 03:56:03 pm
19/3/2010

Israele ascolti la voce dell'America
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA

Nel biblico Libro dei Proverbi, il libro della saggezza e dell'ottimismo (a differenza di quello dell'Ecclesiaste, pervaso da un senso di angoscia e di rassegnazione alla morte) c'è un versetto dai toni forti: «Chi risparmia la verga odia il suo figliuolo, ma chi l'ama, lo corregge per tempo» (Libro dei Proverbi, 13, 24). Il senso di queste parole è che chi evita di rimproverare o di punire i figli per le loro cattive azioni dà prova di non amarli veramente in quanto preferisce ignorare una condotta sbagliata per mantenere la pace in famiglia ed evitare uno scontro che potrebbe causare dolore a entrambe le parti. Ma un uomo che ama veramente il figlio non teme di riprenderlo, è pronto a punirlo e persino a pregiudicare temporaneamente il rapporto con lui pur di riportarlo sulla retta via. L’attuale crisi nelle relazioni fra il governo israeliano e quello americano intorno alla costruzione di un nuovo quartiere ebraico nella Gerusalemme Est è ai miei occhi una prova di vera amicizia da parte degli Stati Uniti nei confronti del suo piccolo protégé mediorientale. L'amministrazione di Barak Obama, in un raro esempio di fermezza morale, dice agli israeliani: basta con queste inutili costruzioni a Gerusalemme Est.

Il messaggio degli Usa è che le costruzioni non solo minano il processo di pace - importante per voi, per i palestinesi e per tutto il mondo arabo moderato -, ma sono estremamente nocive anche per voi israeliani nell'ottica dell'ideale che non perdete occasione di proclamare: mantenere il carattere ebraico e democratico di Israele. Continuando a insediarvi in territorio palestinese e a erigere nuovi insediamenti compromettete la possibilità di una separazione e di un confine concordato fra Israele e la Palestina. Perciò, in mancanza della prospettiva di un vicino accordo di pace, in un prossimo futuro dovrete concedere la cittadinanza israeliana a tutti i palestinesi che avete conglobato e questo inciderà sensibilmente sul carattere ebraico della vostra nazione. Oppure, in alternativa, sarete costretti a mantenere un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi distruggendo così il sistema democratico israeliano. In un modo o nell'altro noi faremo pressione perché queste iniziative controproducenti, contrarie agli interessi da voi stessi proclamati, cessino. E questo non solo a favore del processo di pace e degli interessi americani nel mondo arabo ma per il vostro stesso bene e per quello dello Stato ebraico.

Una simile posizione è nuova per gli Stati Uniti e se non resterà un mero proclama ma sarà seguita da una decisa pressione politica su Israele proverà al mondo intero che l'America è una vera amica dello Stato ebraico e ha a cuore non solo la sua sicurezza ma anche il suo futuro e i suoi veri ideali. I veri amici non si limitano a dispensare parole di lusinga e di adulazione ma sanno anche muovere rimproveri. Nella storia dei rapporti tra i popoli in epoca moderna un capitolo speciale sarà dedicato alle incredibili relazioni tra gli Stati Uniti e Israele. L'ex segretario di Stato Henry Kissinger li definì «profondamente emotivi, laddove gli interessi strategici comuni non sono che una patina esterna dallo scarso significato». Per la maggior parte dei cittadini statunitensi lo Stato di Israele non è solo un'espressione di riscatto e di consolazione per la Shoah degli ebrei durante la seconda guerra mondiale (una tragedia che gli Stati Uniti tardarono a capire e nella quale non intervenirono, specialmente negli Anni 30 quando profughi ebrei dalla Germania e dall'Europa in fuga dalle persecuzioni naziste bussarono inutilmente alle loro porte). Per molti cittadini statunitensi, soprattutto per i numerosi cristiani, lo Stato di Israele è la concretizzazione di un ideale religioso come lo fu per i primi abitanti degli Stati Uniti l'emigrazione in quel Paese, quando parvero voltare le spalle alla loro storia e alle loro origini europee per riconoscersi nel mito della cristianità e della Bibbia dando alle loro nuove città nomi di luoghi dell'antica terra biblica: Sion, Betlemme, Hebron ecc.

Anche il regime democratico israeliano è un elemento importante nell'amicizia tra Israele e gli Stati Uniti. Quando lo Stato ebraico fu fondato dopo la seconda guerra mondiale nel mondo vi erano solo una trentina di vere democrazie e la lotta ideologica per la supremazia e la moralità dei regimi democratici rispetto a quelli totalitari era importantissima agli occhi degli americani. Un Israele democratico che combatteva con successo per la sua sopravvivenza era quindi una prova rilevante e preziosa della validità dell'ideale democratico e giustificava l'ingerenza, motivata o meno, dell'America nel mondo.

I leader israeliani perciò, anziché sottolineare ancora una volta dinanzi agli americani l'importanza di un’alleanza strategico-militare con Israele, farebbero meglio a prestare ascolto al nuovo tono di fermezza morale con il quale si rivolgono a noi dicendo: se vi concentrerete sul vero ideale di un Israele democratico ed ebraico piuttosto che accanirvi inutilmente sulle poche terre rimaste in mano ai palestinesi, capirete che la nostra rabbia nasce da sentimenti di vero affetto e di amicizia.

da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Israele ha perso la fiducia
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 06:26:57 pm
30/4/2010 - LE IDEE

Israele ha perso la fiducia

AVRAHAM B. YEHOSHUA

Dopo la Guerra dei sei giorni in Israele prese il via il dibattito sul futuro dei territori conquistati. Per anni si è potuta operare una distinzione fra i sostenitori delle diverse prese di posizione politiche in base alla percentuale di territorio che chiedevano di annettere come condizione di un accordo di pace.

Gli estremisti di destra volevano conglobare nello Stato ebraico l'intero territorio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (pari a circa seimiladuecento chilometri quadrati), mentre i propugnatori di opinioni più moderate, appartenenti al partito laburista, rivendicavano soltanto il venti o il trenta per cento di quel territorio, sia per ragioni di sicurezza sia perché non volevano annettere un’alta percentuale di popolazione palestinese.

I partiti religiosi erano attenti ai luoghi di interesse e di importanza storico-religiosa mentre la sinistra radicale si sarebbe accontentata di piccoli ritocchi ai confini di Gerusalemme Est per assicurare agli ebrei l’accesso alla città vecchia. Così, per parecchi anni, almeno in teoria, chiunque ha potuto esprimere la propria opinione politica, fosse essa di destra o di sinistra, elencando cifre e percentuali che talvolta la chiarivano meglio di quanto potesse farlo una dettagliata spiegazione verbale.

Ma i dibattiti fra la destra e la sinistra erano puramente teorici. I palestinesi più moderati non hanno infatti mai smesso di considerare le frontiere del 1967 come la base per la creazione di un loro futuro Stato (e a ragione, a mio parere). Fintanto però che nessun negoziato chiaro e vincolante veniva avviato gli israeliani continuavano a giocare con i numeri.

Di quando in quando si dovevano aggiornare le cifre, vuoi per una colonia trasformatasi nel frattempo in una vera e propria città ormai difficile da sgomberare, vuoi per il ritiro dalla Striscia di Gaza che ha di colpo sottratto al calcolo delle possibili concessioni 370 km quadrati di territorio (visto e appurato che le aree consegnate ai palestinesi non rappresentano più un argomento di dibattito in Israele).

Negli ultimi anni però queste dispute tradizionali sono cessate, soprattutto fra coloro che possiedono qualche nozione di geografia e una certa esperienza in campo militare e politico. La sempre più salda convinzione della comunità internazionale che i confini del 1967 rappresenteranno quelli del futuro Stato palestinese e la consapevolezza sempre più lucida degli israeliani che sarà impossibile mantenere il carattere democratico ed ebraico dello Stato di Israele dopo l’annessione della Cisgiordania, hanno riportato in auge lo slogan «due Stati per due popoli», e non solo fra i sostenitori della sinistra moderata. Persino il falco Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro dello Stato ebraico, ha più volte proclamato l’accettazione di tale principio.

Ciò nondimeno l’ideale di due Stati per due popoli (che dovrebbe rallegrare moltissimo chi ha lottato per lunghi anni per la pace) si rivela oggi null’altro che la dolce glassatura di un boccone estremamente amaro da inghiottire.

In altre parole questa presa di coscienza politica moderata e conciliante, considerata ormai da quasi tutti in Israele come l’unica soluzione possibile al conflitto con i palestinesi, nasconde in realtà un profondo senso di pessimismo e di incertezza nei confronti di una eventuale soluzione. Pessimismo e incertezza che non derivano necessariamente da motivi ideologici o di sicurezza e che sono presenti anche in chi in passato credeva nella pace. Vent’anni fa la sinistra moderata riteneva che fosse sufficiente ritirarsi dai territori occupati per ottenere la pace, mentre la destra oltranzista sosteneva che se avessimo annesso la Cisgiordania e costruito molti insediamenti i palestinesi avrebbero accettato la situazione e si sarebbero rassegnati alla nostra presenza. Questo approccio ottimista, sia della destra che della sinistra, si è molto indebolito negli anni a causa di un senso di sfiducia sempre più forte e di natura apolitica che contrasta con il passato spirito di intraprendenza e di creatività di Israele (che tuttavia ancora sopravvive in campo economico e culturale). Un senso di sfiducia alimentato non da principi ideologici o da timori esistenziali, ma da sentimenti di impotenza interiore, di fatalismo, di scetticismo. Neppure nei momenti più difficili del conflitto arabo-israeliano degli ultimi cento anni gli ebrei avevano perso fede nella pace.

«È vero», si sente spesso dire da molti israeliani, «la soluzione di due Stati per due popoli è l’unica possibile. Ma non riusciremo a sgomberare gli insediamenti senza che scoppi una sanguinosa guerra civile fra gli ebrei. Anche la divisione di Gerusalemme, per quanto indispensabile, è ormai impossibile da realizzare. E che faremo se dopo aver firmato un accordo i palestinesi chiederanno di tornare a Haifa o a Jaffa? O nel caso Hamas assumesse il controllo dello Stato palestinese?». Insomma, tutte queste obiezioni non hanno altro scopo che dimostrare che la pace è oggettivamente impossibile, e non a causa di ideologie contrastanti.

E così, malgrado la maggior parte della popolazione di Israele abbia accettato la formula e i principi di un accordo di pace, nello Stato ebraico regna un senso di paralisi, di alienazione politica, di indifferenza e di fatalismo che potrebbe preparare il terreno, Dio non voglia, a una guerra futura.

da lastampa.it


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Il prezzo per la libertà di Gilad Shalit
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 12:13:51 pm
1/7/2010

Il prezzo per la libertà di Gilad Shalit
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA

Tra le varie argomentazioni di chi si oppone ai termini della trattativa per la liberazione di Gilad Shalit ce n'è probabilmente solo una che abbia un qualche valore morale. Tale argomentazione non ha nulla a che vedere con l'immagine di forza che vuol dare di sé Israele, dal momento che dopo ogni guerra è già accaduto che lo Stato ebraico abbia rilasciato centinaia se non migliaia di prigionieri nemici in cambio di pochi ostaggi israeliani e quegli scambi a mio parere hanno solo rafforzato la sua dignità e il suo valore agli occhi dei suoi cittadini e di altri.

Tale argomentazione non è nemmeno inerente al consolidamento del prestigio di Hamas. La sconfitta di questa organizzazione durante l'operazione «Piombo fuso» getterebbe infatti un'ombra sul prestigio che la sua leadership deriverebbe da uno scambio di prigionieri. Inoltre la salda posizione dell'Autorità palestinese, che già da diversi anni riesce a garantire stabilità e ordine interno ai territori sotto il suo controllo e a sviluppare una solida infrastruttura economica, si basa su contingenze ideologiche e politiche inerenti alla vita e agli interessi palestinesi e non crollerà se qualche centinaio di terroristi di Hamas che hanno trascorso alcuni anni nelle prigioni israeliane verranno liberati.

Se Israele vorrà avere dei colloqui di pace diretti con l'Autorità palestinese lo farà sapendo che esiste una base affidabile sulla quale sarà possibile arrivare ad un accordo su «due Stati per due popoli», come il nostro primo ministro, a suo dire, si augura. L'unica possibile argomentazione morale valida contro la liberazione di Gilad Shalit è legata al fatto che, in base all'esperienza passata, alcuni dei prigionieri liberati potrebbero tornare a commettere atti terroristici e perciò non sarebbe giusto liberare un unico soldato in cambio della possibile perdita della vita di molti altri israeliani.

Ma nella situazione attuale un'eventuale nuova ondata di attentati in seguito alla liberazione di Shalit non è poi così plausibile. Le amare esperienze del caso di Ahmed Jibril (in cui furono rilasciati 1150 prigionieri palestinesi in cambio della liberazione di tre soldati israeliani) e del caso Goldwasser-Regev (dopo la seconda guerra del Libano) avvennero prima del ritiro dalla striscia di Gaza. Ora una parte dei prigionieri liberati tornerà a Gaza, dove il danno che potrebbero arrecare a Israele sarebbe limitato, mentre quelli che faranno ritorno in Cisgiordania dovranno confrontarsi con l'efficace collaborazione tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi che certamente potrebbero controllare le loro mosse.

Tuttavia, e sarebbe impossibile ignorare questa ipotesi, c'è comunque il rischio che una parte dei prigionieri liberati possa cercare di commettere attentati ed è questa a mio parere l'unica argomentazione morale contro la liberazione di Gilad Shalit.

Vorrei controbattere a questa argomentazione riportando alla memoria l'operazione di Entebbe, della quale tutti gli israeliani vanno fieri ancora oggi. Per liberare dei passeggeri di un volo dirottato, in mano a un'organizzazione terroristica da meno di due settimane e per i quali esisteva una plausibile possibilità che fossero rilasciati in seguito a una negoziato mediato da organismi internazionali, Israele era pronto a rischiare (e di fatto lo fece) la vita di molti di loro e dei suoi soldati. Tre israeliani, tra cui due civili e un ufficiale dell'esercito (Yonatan Netanyahu), rimasero uccisi nel corso di quella azzardata operazione che solo per miracolo non finì in maniera ancora più tragica.

Ma un rischio tanto grande viene ancora oggi guardato, e a ragione secondo me, come un atto eroico e di ardimento morale. Se quindi Israele non esitò a porre in pericolo la vita di molti suoi cittadini per ottenere la loro liberazione non c'è nessun motivo per cui, in una situazione in cui non esiste alcun margine di intervento di tipo militare, non si assuma il rischio (al momento puramente teorico) di liberare il soldato Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da quattro anni e che se non sarà liberato potrebbe pagare con la vita.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7541&ID_sezione=&sezione=


Titolo: AVRAHAM B. YEHOSHUA La rivolta degli attori di Ariel
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2010, 09:07:31 am
8/9/2010

La rivolta degli attori di Ariel

AVRAHAM B. YEHOSHUA

Nella città di Ariel, eretta dagli israeliani nel cuore dei territori palestinesi, è stato costruito un nuovo centro culturale. I suoi dirigenti hanno invitato i maggiori teatri di Israele ad allestirvi le rappresentazioni di successo e questi hanno accettato, felici di ampliare il pubblico pagante.

Ma un piccolo gruppo di attori fra i più in vista del Paese ha firmato un comunicato in cui dichiara di non avere intenzione di varcare la linea verde che separa Israele dai territori destinati al futuro Stato palestinese per recitare in un insediamento illegittimo ai loro occhi, la cui esistenza causa sofferenza ai palestinesi privati dei diritti civili, costretti a subire limitazioni negli spostamenti, posti di blocco, un arbitrario sfruttamento delle risorse idriche e l'esproprio delle terre per costruire le case di Ariel.

Il rifiuto degli attori, espressione di una ferma posizione politica (ovverosia la delegittimazione degli insediamenti israeliani sorti oltre il confine antecedente la guerra del 1967) non è tuttavia rivolto contro i residenti della città di Ariel. Se infatti costoro si recassero in gruppo a Tel Aviv o in qualunque altro luogo entro i confini di Israele per assistere a una rappresentazione teatrale quegli stessi attori di certo si direbbero disponibili a recitare, malgrado le differenti opinioni politiche. Il rifiuto è dunque verso il luogo, illegittimo anche su un piano internazionale e ostacolo alla pace in base al principio, ormai accettato da Israele, di due Stati per due popoli.

La presa di posizione degli attori complica peraltro i loro rapporti con i teatri per i quali lavorano, in quanto potrebbe compromettere la messinscena delle opere in cartellone nel nuovo centro culturale. Ma i firmatari del comunicato, e i drammaturghi a loro solidali, hanno dichiarato di essere pronti a sostenere le conseguenze legali di tale scelta. Nel frattempo il maggiore teatro di Tel Aviv ha annunciato di essere disposto ad accettare il rifiuto dei propri attori di recitare ad Ariel e a trovare loro dei sostituti. Altri teatri hanno invece optato per la linea dura, proclamando che costringeranno i loro artisti a recitare sui palcoscenici di qualunque città scelgano di mettere in scena le proprie opere, in forza dei contratti da loro siglati.

La vicenda ha suscitato molto clamore in Israele e gran parte dell’opinione pubblica ha protestato con veemenza contro il rifiuto degli attori di recitare al di là della linea verde. Qualche firmatario, spaventato dalla violenta reazione, ha ritirato la propria adesione. I più però sono rimasti fermi nel loro proposito. La reazione del ministro della cultura e del capo del governo israeliani è stata dura e singolare a un tempo. Essendo i teatri parzialmente sovvenzionati dallo Stato Netanyahu e Livnat (il ministro della cultura) considerano gli attori dei dipendenti pubblici e il loro rifiuto a recitare laddove il teatro decide è visto da loro come una violazione del contratto di lavoro che potrebbe implicare tagli alle sovvenzioni.

Questa reazione è naturalmente estremista e influenzata da chiare motivazioni politiche. È vero che lo stato sovvenziona numerose istituzioni culturali, accademiche e religiose, come è tenuto a fare, ma sarebbe impensabile considerare i lavoratori di tali istituzioni dei dipendenti statali, tenuti a uniformarsi alle tendenze politiche di questo o di quel governo.

Dinanzi alla rabbia del governo e di ampi settori dell’opinione pubblica israeliana un gruppo di intellettuali e accademici ha pubblicato una petizione a sostegno della legittimità della presa di posizione degli attori (i quali peraltro, va ricordato, corrono dei rischi in campo professionale). Ovviamente anche questa iniziativa ha sollevato un vespaio, e il clamore non si è ancora placato.

Io, che da più di quarant’anni sono coinvolto nella lotta contro gli insediamenti illegali e per il riconoscimento del diritto dei palestinesi a uno Stato, ho notato che negli ultimi tempi si è instaurato in molti miei connazionali un nuovo e insolito legame fra la tendenza al pacifismo intellettuale e quella all'estremismo emotivo. In altre parole molti israeliani, nonostante siano politicamente consapevoli che per arrivare a una normalizzazione della regione, instaurare rapporti di pace con molte nazioni arabe ed evitare che Israele diventi un’entità binazionale occorre accettare la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato nei territori conquistati nel 1967, hanno sviluppato un nuovo tipo di estremismo al limite dell’intolleranza e del nazionalismo, rivolto contro tutti coloro che condannano gli insediamenti e contro i palestinesi stessi, verso i quali si esprimono in termini inaccettabili (come ha fatto di recente il leader spirituale di un partito religioso membro della coalizione di governo).

In pratica quanto più i palestinesi danno prova di controllare il territorio, di migliorare la propria economia e di tenere a freno gli attentati terroristici, tanto più si accresce il rancore di molti israeliani nei loro confronti, come se, divenuti finalmente i palestinesi un partner serio per la pace, affiorassero in noi esitazioni e timori riguardo al prezzo che essa comporta, soprattutto quello inevitabile di smantellare gli insediamenti.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7799&ID_sezione=&sezione=


Titolo: AVRAHAM B. YEHOSHUA Sionismo la parola che divide
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2010, 04:42:12 pm
25/11/2010

Sionismo la parola che divide

AVRAHAM B. YEHOSHUA

Ultimamente mi sembra che si faccia un uso inflazionistico, fuorviante e forse dannoso del concetto di sionismo sia in Israele che all’estero. Questo accade sia fra gli esponenti della destra nazionalista e religiosa sia fra quelli della sinistra liberale, fra gli ebrei della Diaspora, i non-ebrei, e in particolare fra gli arabi. Per affinare quindi il dibattito sui problemi veri e importanti che ci affliggono e ridurre al minimo la demonizzazione di Israele (come sta accadendo in tutto il mondo intorno al concetto di sionismo) ritenterò di definire quanto più obiettivamente e logicamente tale concetto al fine di farvi ricorso in maniera consapevole ed evitare di trasformarlo in una specie di condimento da utilizzare con qualunque pietanza per migliorarne il sapore o, viceversa, peggiorarlo.

In primo luogo il sionismo non è una ideologia. Ecco infatti la definizione di ideologia secondo l’Enciclopedia ebraica: «Ideologia è un insieme sistematico e organico di idee, di principi e direttive in cui trova espressione il particolare punto di vista di una setta, di un partito o di un ceto sociale». Secondo tale chiara definizione il sionismo non può e non deve essere considerato un’ideologia poiché, come sappiamo, sia in passato che al presente, ha rappresentato una piattaforma comune a idee sociali e politiche differenti e persino contraddittorie. Il sionismo auspicava e prometteva un’unica cosa: fondare uno Stato ebraico. E ha mantenuto questa promessa soprattutto, sfortunatamente, in seguito al fenomeno dell’antisemitismo.

Il sionismo cercava di disegnare un quadro del futuro Stato ebraico, del suo carattere, del suo ordinamento politico, dei suoi confini, dei suoi valori sociali, del suo atteggiamento verso le minoranze e altro ancora. Tutti questi temi erano aperti fin dall’inizio a decine di interpretazioni e di posizioni politiche e sociali degli ebrei giunti in Israele e, naturalmente, agli sviluppi e ai cambiamenti in atto in ogni società umana.

Una volta fondato lo Stato ebraico - Israele - l’unico residuo attivo e significativo del sionismo è il principio della Legge del Ritorno! Vale a dire che lo Stato ebraico, oltre a essere controllato e governato mediante il Parlamento da tutti i suoi residenti in possesso di nazionalità israeliana, è ancora aperto a qualunque ebreo che ne voglia richiedere la cittadinanza. Un’analoga Legge del Ritorno esiste anche in altri Paesi: in Ungheria, per esempio, in Germania e in altri. E io mi auguro che possa essere presto introdotta nello Stato palestinese che sorgerà a fianco di quello ebraico. E come tale legge non sarà considerata razzista nello Stato palestinese, così non lo è in Israele. Quando nel 1947 le Nazioni Unite decisero di creare uno Stato ebraico non destinarono una parte della Palestina solamente ai seicentomila ebrei che vi risiedevano al tempo. Il presupposto morale era che tale Stato avrebbe dato rifugio a qualunque ebreo lo richiedesse.

Un israeliano - ebreo, arabo o altro - che si definisce non-sionista è un cittadino che si oppone alla Legge del Ritorno. E questa opposizione è legittima come qualunque altra opinione politica. Anti-sionista è chi vuole invece cancellare retroattivamente lo Stato di Israele e, a eccezione di sette estremistiche ultra-ortodosse o circoli radicali nella diaspora, non credo che molti ebrei sostengano questa convinzione.

Tutti i temi importanti e fondamentali in corso di dibattito in Israele - l’annessione o la non annessione dei territori occupati, il rapporto tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba, quello tra religione e Stato, il carattere e i valori della politica economica e sociale o persino l’interpretazione di eventi storici del passato - sono analoghi a quelli affrontati anche da altre nazioni in quanto toccano l’identità dinamica e in continua evoluzione di ogni popolo e Paese. E come in quei Paesi non si intende coinvolgere concetti estranei al dibattito, nemmeno noi ebrei dovremmo tirare in ballo il sionismo trasformandolo, ingiustamente, in un’arma nella lotta tra le parti, rendendo così difficilissimo il chiarimento delle polemiche e del loro livello di gravità. Il concetto di sionismo non dovrebbe sostituire quello di patriottismo o di pionierismo. Un ufficiale dell’esercito israeliano che firma per prolungare la ferma o che si stabilisce nel Negev non è più sionista del proprietario di un negozio di alimentari a Tel Aviv. È più pioniere o patriota, a seconda del significato che si attribuisce a questi termini.

Il sionismo è un concetto che ci è caro e quindi è importante che vi si faccia ricorso solamente nelle questioni che gli competono, ovvero la differenza tra noi israeliani e gli ebrei della diaspora. L’uso inutile e inflazionistico che ne facciamo confonde il dibattito morale tra quegli ebrei che hanno deciso, nel bene e nel male, di assumersi la responsabilità di tutti gli aspetti della loro vita in un territorio definito e in un regime autonomo e quelli che vivono in mezzo ad altri popoli e mantengono un’identità ebraica parziale mediante lo studio, cerimonie religiose, e limitate attività comunitarie.

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Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA I giorni bui di un Israele nazionalista
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2011, 11:07:17 am
24/1/2011 - LE IDEE

I giorni bui di un Israele nazionalista

ABRAHAM B. YEHOSHUA

È passato molto tempo da che ho scritto un articolo su ciò che accade in Israele. Mi sono chiesto se questo fosse dovuto alla recente uscita del mio ultimo romanzo: gli ultimi ritocchi alle bozze, l'invio delle prime copie agli amici e, naturalmente, l'emozione e l'attesa delle reazioni forse mi hanno distratto dai recenti avvenimenti del mio Paese. Ma dopo un esame di coscienza ho capito che questi non sono che pretesti. La vera ragione del mio silenzio è lo sconcerto che provo dinanzi alla diffusione di nuovi, sconosciuti e gravi fenomeni di sciovinismo nazionalista e di allarmante estremismo religioso in una società della quale credevo di conoscere, nel bene e nel male, tutti i codici.

In effetti i rappresentanti della mia generazione (e non importa se di sinistra o della destra moderata) che hanno accompagnato da vicino la crescita dello stato ebraico a partire dalla fine degli Anni 40, che per più di sessant'anni hanno partecipato attivamente alle lotte, interne ed esterne, per la sua esistenza e alla formulazione di convenzioni e di norme che ne regolano l'identità, rimangono sbigottiti e confusi dinanzi alla ventata di nazionalismo che cerca di minare quelle stesse norme. Un nazionalismo radicale che attinge da due fonti all'apparenza contraddittorie: da un lato i recessi oscuri della religione ebraica che, accanto a valori di carità e di amore per l'uomo, presenta anche aspetti di evidente razzismo. Dall'altro (sorprendentemente di origine secolare) il vecchio totalitarismo sovietico importato da Lieberman e dal suo partito.

Vero, in tutto il mondo il fondamentalismo religioso e il nazionalismo sono fenomeni in crescita. Rimaniamo sorpresi nel riscontrare queste tendenze in Ungheria, in Olanda, e persino qua e là nelle nazioni scandinave. Anche la nuova destra americana infrange regole ritenute intoccabili dalla vecchia. Ma tutti questi Paesi possiedono una solida identità nazionale e non devono fare i conti con nemici esterni. In Israele, invece, l'identità nazionale è ancora agli inizi. Ci sono abissali differenze tra laici e religiosi, una grande eterogeneità di gruppi di ebrei di provenienze e culture diverse, e una cospicua minoranza di arabi israeliani che rappresenta circa il venti per cento della popolazione. Tutto questo rende complicato mantenere un fondamentale senso di solidarietà sociale, fragile e incline a essere influenzato.

Assistiamo dunque a uno strano paradosso. Nell' opinione pubblica israeliana si rinsalda la convinzione generale che il consenso, in linea di principio, alla creazione di uno Stato palestinese sia la soluzione al conflitto con i palestinesi (anche se per molti questo consenso si accompagna alla pessimistica sensazione, giustificata o no, che la creazione di uno Stato palestinese avverrà in un futuro molto lontano). Persino l'ultra nazionalista ministro degli esteri Lieberman è teoricamente d'accordo con questo principio. Ma quanto più i toni del dibattito sulla creazione di questo stato si smorzano, e le reali differenze politiche sul tema scompaiono, tanto più in Israele si risveglia un'impetuosa ondata nazionalista che tende a ledere inviolabili diritti civili e a pretendere strambe dichiarazioni di fedeltà alla patria, pena la revoca della cittadinanza. Così, a momenti, sembra che l'energia che in passato era diretta verso nemici esterni sia ora convogliata verso «nemici interni», considerati dalla destra nazionalista sostenitori delle forti critiche verso Israele da parte dell'Europa. Critiche che arrivano a toccare livelli assurdi, quali la delegittimazione dello Stato ebraico, per esempio. E i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani sulla violazione dei diritti dei palestinesi nei territori, o sul comportamento brutale di alcuni soldati che violano il codice morale militare, sono visti da una parte dell'opinione pubblica israeliana quasi alla stregua di un tradimento, quando invece, per molti anni, uno dei punti di forza di Israele è stato quello di concedere piena libertà di espressione ad autocritiche ideologiche pertinenti, e alla possibilità di affrontarle pubblicamente, nel bene e nel male, senza attribuirle a fonti straniere ostili che la alimentano.

E benché sia principalmente la destra estremista a cavalcare quest'onda (con la silenziosa complicità di quella classica di Netanyahu e di alcuni esponenti del centro all'opposizione) anche l'universo religioso, con tutte le sue correnti, diventa sempre più oltranzista, inventando nuovi divieti e forme di tormento. Chi avrebbe mai pensato che nella mia città natale, Gerusalemme, sarebbe stata introdotta la separazione tra donne e uomini su alcune linee di trasporto urbano? Chi avrebbe mai pensato che gli ultra ortodossi avrebbero «conquistato» interi quartieri in varie città proibendo ai loro seguaci di affittare appartamenti agli arabi? Il ritorno al giudaismo non si esprime soltanto con lo studio di testi antichi ma anche con l'esistenza di due partiti politici controllati da anziani rabbini che impartiscono ordini e istruzioni a membri della Knesset e a ministri del governo su come comportarsi e come votare.

E cosa fa la sinistra? Anziché essere un po' più attiva sulla scena politica o ideologica si occupa di cultura. Non c'è mai stato in Israele un periodo di fioritura culturale come quello attuale. Con una popolazione di meno di sette milioni di abitanti il paese sforna decine di produzioni teatrali di tutti i generi, le sue straordinarie compagnie di ballo ottengono riconoscimenti in tutto il mondo, l'industria cinematografica è dinamica e originale, l'opera lirica è attiva e vivace, musicisti di talento riempiono le sale da concerto e numerosi libri, di narrativa e saggistica, sono tradotti in lingue straniere.

Ma sul piano politico l'attività della sinistra è limitata e debole. A eccezione di qualche sporadica manifestazione i partiti progressisti sono più che altro occupati in litigi e scissioni. Qualche loro rappresentante sostiene addirittura la coalizione Netanyahu - Lieberman mentre circoli ultra-liberali non fanno distinzione tra la tutela degli importanti diritti degli arabi israeliani e l'automatica difesa di infiltrati illegali africani. La sinistra ha da tempo perso contatto con i ceti popolari e appare debole, lamentosa e confusa.

La recente spaccatura del Labour e le dimissioni di Ehud Barak da presidente del partito potrebbero essere un'occasione di ripresa dell'ala socialdemocratica. Oppure no. I restanti otto membri del partito alla Knesset potrebbero anche mettersi a litigare su chi sarà il prossimo presidente. Triste.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8328&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Riflessioni sull'omicidio dei coloni
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2011, 10:55:54 am
27/3/2011

Riflessioni sull'omicidio dei coloni

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Nel cuore del Negev, il più grande deserto di Israele, c’è il famoso kibbutz Sde Boker. Famoso non solo perché i centri abitati del Negev sono pochi e ciascuno di essi merita di essere menzionato, ma soprattutto perché il primo capo del governo israeliano, David Ben Gurion, vi si stabilì già agli inizi degli Anni 50.

Tale scelta fu fatta per proporre alla giovane nazione di cui lui era il principale architetto la sfida di un insediamento nazionale nella regione più desertica di Israele.

Una regione vasta più della metà del suo territorio e scarsamente popolata da ebrei. «Nel Negev si determinerà il destino del popolo ebraico», aveva dichiarato Ben Gurion. E questa semplice frase è incisa su una grande roccia all’ingresso di uno dei campi militari sparsi nel deserto.

La tomba di Ben Gurion si trova nel kibbutz Sde Boker e la lapide riporta, su sua richiesta, solo tre date: quella della nascita, quella della morte, e quella della sua immigrazione in Israele. La semplice casetta di legno dove lui e sua moglie Paula hanno vissuto fino alla morte è ancora meta di pellegrinaggio per molti israeliani e turisti.

Nell’istituto di studi superiori intitolato a Ben Gurion e situato vicino al kibbutz si tengono numerose attività accademiche fra le quali ogni anno, in inverno, un festival di poesia denominato «Poesia nel deserto». A esso partecipano poeti ma anche autori di prosa, ai quali viene chiesto di leggere le loro opere. Nonostante Tel Aviv disti da Sde Boker soltanto un paio d’ore, io sono solito invitare i miei tre figli e i miei sei nipoti a unirsi a me e a mia moglie per un soggiorno nel deserto, ritenendo che ogni israeliano debba recarsi una o due volte all’anno in quei luoghi e trascorrervi almeno una notte.

Abbiamo così preso alloggio in una fattoria poco lontana da Sde Boker, chiamata Zeit Midbar (Olivo del deserto): io e mia moglie nell’unico bungalow disponibile mentre i miei figli, con relativi coniugi e prole, in tende indiane riscaldate. Lì abbiamo goduto per lunghe ore l’atmosfera del deserto, la sua luce particolare, le sue voci e la vista dei pacifici animali che ci gironzolavano intorno.

Quello stesso giorno ci sono giunte le terribili notizie del terremoto in Giappone e dell’omicidio della famiglia di coloni nell’insediamento di Itamar: padre, madre e tre figlioletti, tra cui una neonata di quattro mesi, brutalmente assassinati nel sonno da due terroristi palestinesi provenienti da un vicino villaggio.

Questo abominevole delitto è stato esplicitamente condannato non solo dal presidente dell’Autorità palestinese, ma anche dai direttori di alcuni importanti giornali della West Bank. Il primo ministro israeliano però, non contento delle condanne giunte da tutto il mondo e dall’Autorità palestinese, ha deciso di infliggere una punizione collettiva ai palestinesi annunciando l’immediato proseguimento della costruzione degli insediamenti in molte zone dei territori occupati. Dico «punizione collettiva» perché quale colpa hanno per esempio gli abitanti di Betlemme di un omicidio perpetrato a parecchi chilometri di distanza dalle loro case per essere espropriati da terreni destinati al futuro sviluppo dei loro figli?

La terra è una delle principali componenti dell’identità di un popolo, forse la più importante. L’ampio deserto che ci circonda è parte rilevante e preziosa della mia identità di israeliano e di quella dei miei figli. Se qualcuno ci espropriasse anche di una sua piccola parte protesterei e lotterei con tutte le mie forze. Lo Stato di Israele nei confini del 1967 occupava tre quarti della Palestina originale mentre allo Stato palestinese rimaneva solo un quarto. Perché dovremmo impossessarci di altri territori quando abbiamo a disposizione spazi vuoti che il padre della nostra nazione, David Ben Gurion, vedeva giustamente (sotto un profilo pratico, non romantico) come potenziali zone di insediamento?

Dopo tutto, con i moderni mezzi di trasporto (che continueranno a migliorare), il Negev non è lontano dal centro di Israele. E con i sofisticati mezzi tecnologici a nostra disposizione potremmo costruire nel Negev meravigliose città moderne come è accaduto in molti luoghi desolati del mondo. Perché investire denaro in provocatori insediamenti all’interno del tessuto del popolo palestinese, insediamenti che suscitano una forte opposizione nel mondo e nello Stato ebraico e per la cui esistenza e sicurezza entrambe le parti devono pagare con spargimenti di sangue? Il passato ci ha già insegnato che insediamenti simili nella penisola del Sinai sono stati sradicati dal governo di destra con l’avvento della pace con l’Egitto.

E altri irrazionali insediamenti ebraici nel cuore dei campi profughi della Striscia di Gaza sono stati rimossi con il pugno di ferro dal leader più nazionalista di Israele, l’ex primo ministro Ariel Sharon. Perché ripetere errori che l’intera comunità internazionale condanna? Perché stabilirsi provocatoriamente su territori che creeranno nuovi contrasti, quando invece Israele ha a sua disposizione ampie aree desertiche che attendono solo di essere popolate da ebrei (una scelta corretta anche da un punto di vista ecologico e morale)?

Queste sono state le nostre riflessioni nell’udire le tremende notizie di quel triste venerdì giunte da lontano e da vicino mentre a Sde Boker, fiorente kibbutz nel deserto, ascoltavamo le poesie di amici che ancora credono, giustamente, che la poesia sia in grado di penetrare profondamente nei cuori.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: AVRAHAM B. YEHOSHUA In occasione di Pesah, la pasqua ebraica che si festeggia...
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2011, 04:48:53 pm
18/4/2011


AVRAHAM B. YEHOSHUA

In occasione di Pesah, la pasqua ebraica che si festeggia da questa sera, il quotidiano Haaretz pubblicherà un supplemento speciale in cui intellettuali e artisti sono stati chiamati a rispondere a varie domande.

A me è stata posta la seguente: come mai non si è ancora arrivati a una pace tra israeliani e palestinesi? Apparentemente un simile interrogativo dovrebbe essere rivolto a un orientalista, a uno studioso di scienze politiche o a uno storico, non a uno scrittore esperto unicamente della propria immaginazione. Siccome però l’argomento tocca in maniera dolorosa chiunque viva in questa regione proverò a suggerire una risposta. La domanda è seria e inquietante per due ragioni: in primo luogo il conflitto israelo-palestinese è uno dei più prolungati dell’epoca moderna. Se se ne fissa l’inizio all’avvio della colonizzazione sionista della terra di Israele, negli Anni 80 del XIX secolo, ecco che questo scontro sanguinoso prosegue ormai da 130 anni.

In secondo luogo non si tratta di una contesa marginale in un luogo remoto e dimenticato da Dio, ma di una controversia costantemente al centro dell’interesse internazionale. Negli ultimi 45 anni governi e influenti organismi internazionali hanno investito seri sforzi di mediazione tra palestinesi e israeliani, presidenti degli Stati Uniti hanno cercato di intercedere tra le parti e primi ministri di tutto il mondo hanno prestato, e continuano a prestare, seria attenzione al conflitto. Inviati di alto livello arrivano nella regione nel tentativo di raggiungere un compromesso e istituzioni e singoli organizzano regolarmente simposi e incontri. Per non parlare poi delle innumerevoli ricerche, libri e proclami pubblicati in passato e nel presente. Ma nonostante si abbia a che fare con due piccole nazioni apparentemente facili da sottomettere a diktat internazionali, e nonostante accordi parziali tra le parti (grazie a colloqui diretti più o meno segreti) siano stati raggiunti in passato e chiare formule per una soluzione siano state accettate di recente, questa controversia serba un nocciolo duro refrattario alla pace. Entrambe le parti hanno commesso molti errori e mancato numerose opportunità nel corso degli anni e siccome questo conflitto non segue un andamento lineare, bensì a spirale - vale a dire che il tempo non è un fattore essenziale per la sua soluzione e la pace si avvicina e si allontana in base alle congiunture storiche -, ha senso chiedersi cosa ci sia in esso di tanto speciale. Non ho la pretesa che la mia risposta sia l’unica possibile, però la propongo qui in esame.

Il conflitto israelo-palestinese non giunge a una soluzione perché non ne è mai esistito uno simile nella storia umana. Non vi è infatti alcun precedente al fenomeno di un popolo che dopo aver perso l’indipendenza più di duemila anni fa ed essere stato disperso fra le genti abbia deciso, in seguito a circostanze interne ed esterne, di tornare nella sua antica patria e di ristabilirvi una propria sovranità. Per questo il ritorno a Sion è considerato da tutti un evento unico nella storia umana. Quindi anche i palestinesi, o arabi di Israele, sono costretti ad affrontare un fenomeno unico, come nessun altro aveva fatto prima di loro.

Agli inizi del XIX secolo risiedevano in terra di Israele 5000 ebrei e 250.000 o 300.000 arabi. All’epoca della Dichiarazione Balfour, nel 1917, c’erano circa 50.000 ebrei e 550.000 palestinesi. Nel 1948 gli ebrei erano 600.000 e i palestinesi 1.300.000. Il popolo ebraico si è quindi raccolto rapidamente in questa regione senza avere tuttavia l’intenzione di espellere i palestinesi (e di certo non di annientarli) ma nemmeno di integrarli come avevano fatto altri popoli con i residenti locali.

Inoltre gli ebrei non hanno compiuto alcun tentativo di imporre un regime coloniale, dal momento che non avevano una nazione-madre come l’Inghilterra o la Francia che li mandasse a conquistare nuovi territori. In questa parte del mondo è avvenuto qualcosa di originale e di unico nella storia dell’umanità: un popolo è arrivato nella patria di un altro per cambiarvi l’identità, sostituendola con una nuova, ma antica.

Alla base del conflitto israelo-palestinese non vi è perciò una questione territoriale, come nel caso di tante altre controversie tra nazioni. Vi è piuttosto uno scontro sull’identità nazionale dell’intera patria, di ogni sua pietra e di ogni suo angolo. A entrambe le parti però - e ai palestinesi in particolare -, non sono chiare le dimensioni del popolo che hanno di fronte. Si tratta soltanto degli ebrei israeliani o di tutti gli ebrei della diaspora? E davanti agli israeliani è schierato solo il popolo palestinese o l’intera nazione araba? In altre parole neppure il confine demografico fra le parti è chiaro. Questo contrasto profondo crea dunque una costante e profonda sfiducia tra i due popoli impedendo una possibile soluzione del conflitto.

Sarebbe possibile risolvere questo scontro senza cadere nella trappola di uno Stato binazionale? La mia risposta è sì.

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Titolo: AVRAHAM B. YEHOSHUA I confini del '67 vanno rispettati
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 04:23:02 pm
21/5/2011



ABRAHAM B.YEHOSHUA

L’accordo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese ha provocato l’ostile reazione ufficiale di Israele. Tanto per cominciare il fatto che dopo tanti tentativi di riconciliazione le due fazioni rivali del popolo palestinese abbiano firmato un accordo ha colto completamente di sorpresa i nostri servizi di intelligence. E per questo i loro responsabili si sono affrettati a proclamare che l’accordo non durerà. Non so se tale ipotesi sia veramente fondata o sia piuttosto un tentativo di giustificare lo smacco. Io, ormai, ho smesso di sgomentarmi per fiaschi ben più gravi dei servizi di intelligence di Israele e di altri Paesi. Se nessuno di loro è riuscito ad anticipare la rapida disgregazione del regime comunista sovietico e dei Paesi sotto il suo controllo faremmo meglio a non riporre troppe speranze nelle loro capacità di previsione. Spesso, invece, sono intellettuali o persone dallo sguardo acuto che non siedono in stanze buie in ascolto di messaggi segreti a possedere virtù profetiche. Ricordo un anziano professore, esperto di storia orientale antica, arrivato negli Anni 80 da Mosca alla nostra università di Haifa col quale chiacchieravo nei corridoi tra una lezione e l’altra che proclamò con sicurezza che l’impero sovietico era un castello di carte che sarebbe crollato di colpo. All’epoca pensavo che quello fosse soltanto un suo pio desiderio, ma a quanto pare proprio un docente di antichità orientali era riuscito a diagnosticare il marciume all’interno del regime comunista che a quel tempo appariva solido e forte.

Il Mossad israeliano, che gode di ottima fama presso le organizzazione di intelligence del mondo intero, non riuscì a prevedere, ad esempio, lo scoppio della seconda Intifada (che per qualche anno provocò un bagno di sangue fra palestinesi e israeliani) nel settembre 2000 nonostante i suoi agenti e le sue spie fossero sparsi in tutto il territorio palestinese. Talvolta una ricca esperienza accumulata in passato può paralizzare e distruggere ogni capacità di analisi e di comprensione di nuovi segnali. Quindi, anche se non so quali conseguenze avrà l’accordo tra il governo di Hamas a Gaza e l’Autorità palestinese, io e molti altri miei compagni del movimento pacifista israeliano speriamo, contrariamente al nostro governo, che questa riconciliazione perduri. E cercherò di spiegare la mia posizione.

1. Innanzitutto una riconciliazione di questo tipo tende a ridurre la violenza e l’estremismo giacché un governo di unità nazionale non è tenuto ad allinearsi a posizioni oltranziste e può intraprendere iniziative moderate. 2. Nonostante l’estremismo religioso di Hamas le sue posizioni non sono lontane da quelle dell’Olp di Yasser Arafat negli Anni 70 e 80 del secolo scorso. E come l’Olp ha escogitato una soluzione ideologica per retrocedere dal suo fermo rifiuto di riconoscere Israele e dichiararsi disponibile al negoziato, così Hamas (che un tempo era parte dell’Olp) potrebbe cambiare e modificare le proprie convinzioni al fine di legittimare in linea di principio l’esistenza di Israele e ricevere a sua volta un riconoscimento.

Nel corso della mia lunga vita ho assistito a cambiamenti di posizioni ideologiche sia da parte del centro destra israeliano che da parte dei palestinesi. E talvolta provo imbarazzo per il fatto che proprio noi del movimento pacifista siamo rimasto fermi nelle nostre convinzioni, non tanto a causa di una mancanza di immaginazione e flessibilità quanto, probabilmente, perché la realtà ha dimostrato che tali idee sono le più appropriate. 3. L’impegno verbale di Hamas di sottostare a un unico comando militare è estremamente importante. Non so se Hamas lo rispetterà, e soprattutto se sarà in grado di controllare tutte le piccole organizzazioni estremistiche che brulicano nella Striscia di Gaza e sfidano la sua autorità. Nel frattempo, da quando l’accordo è stato firmato, al confine tra Gaza e Israele regna la calma.

Occorre anche ricordare che la volontà di Hamas di raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese non deriva soltanto dalla debolezza del regime siriano ma soprattutto dal fallimento delle azioni belliche da esso intraprese dopo il ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005. Anche se i razzi sparati dalla Striscia sono stati estremamente molesti i danni che hanno causato in termini di vite umane e di distruzione sono stati relativi. Viceversa il prezzo pagato dagli abitanti di Gaza per le rappresaglie israeliane, per l’operazione «Piombo Fuso» e per l’assedio imposto da Israele e dall’Egitto è stato molto elevato. Così, questo accordo è un’occasione per Hamas di raggiungere un cessate il fuoco con Israele senza doverlo ammettere.

4. E un’ultima cosa. Non dobbiamo dimenticare che nonostante l’accordo tra l’Autorità palestinese e Hamas la Striscia di Gaza rimane isolata e separata dai territori dell’Autorità Palestinese e Israele è responsabile di tutti i valichi di confine tra queste due zone. La possibilità che Hamas sconfigga l’Autorità palestinese nelle prossime elezioni o provochi apertamente il governo di Abu Mazen è dunque assai limitata. Il potere di Hamas si concentra nella Striscia di Gaza e l’accordo con l’Autorità palestinese, se si rivelerà duraturo, potrà mantenere un governo unitario moderato e razionale in vista della dichiarazione di indipendenza palestinese alle Nazioni Unite il prossimo settembre.

A mio parere le giuste basi di tale dichiarazione dovrebbero essere le seguenti: 1. Il rispetto dei confini del ’67. 2. Lo smantellamento dell’artiglieria pesante nello Stato palestinese. 3. Il diritto al ritorno dei profughi del ’48 nello Stato palestinese, non in Israele. 4. Il riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale del nuovo Stato. E tutto questo sotto la stretta supervisione e con il generoso aiuto della comunità internazionale. Solo in futuro sapremo se queste ottimistiche ipotesi si riveleranno giustificate. Nel frattempo consiglio a tutti coloro che appaiono sgomenti e atterriti da questo accordo tra Hamas e l’Autorità palestinese di pazientare.

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Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA - Perché Israele deve scegliere il negoziato
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2011, 09:18:02 am
11/7/2011
 
Perché Israele deve scegliere il negoziato
 

ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.

Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.

I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.

Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.

Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato - perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967.

Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione.

Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.

L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8968&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Una proposta per far ripartire il negoziato
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:13:25 pm
25/7/2011

Una proposta per far ripartire il negoziato

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Alla ripresa dei negoziati tra Israele e i palestinesi si oppongono diversi ostacoli che non sono che una premessa di quelli che si riveleranno durante le trattative. Uno di questi è la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come Stato «ebraico», e che loro si rifiutano di soddisfare.

Diamo un’occhiata a cosa si nasconde dietro tale richiesta, avanzata, credo, già all’epoca del governo Olmert.

Se dietro a essa si nasconde il rifiuto di Israele di accogliere entro i propri confini i profughi palestinesi della guerra del ’48, perché girare intorno alla questione e non dirlo apertamente?

Ritengo che oltre il 95 per cento dei cittadini ebraici di Israele respinga fermamente questa eventualità, sia che i profughi del ’48 siano ora residenti in Cisgiordania e a Gaza, sia nei Paesi arabi. È chiaro infatti che non potranno tornare a fantomatiche «case» ormai inesistenti in un Paese per loro straniero, ma solo a una patria nella quale provino un senso di comune identità. Solo lì potranno rifarsi una vita, a una distanza massima di 10 o 15 chilometri dalle loro case distrutte e dalle terre conquistate dagli israeliani durante la guerra del ’48. In ogni caso, per ricostruire o restaurare quelle originali e ridare la terra ai profughi, Israele dovrebbe evacuare decine, se non centinaia di migliaia, di suoi cittadini, che diverrebbero a loro volta degli esuli.

Tutto il mondo può quindi capire la nostra posizione, compresi i palestinesi che sanno bene che la pretesa di un ritorno dei profughi (fatta eccezione per un numero molto limitato di persone per motivi di ricongiungimento familiare) non verrebbe mai accettata e la pongono unicamente come eventuale carta di scambio o come tentativo di impantanare i negoziati.

Ma se dietro la richiesta del governo Netanyahu di riconoscere Israele come «Stato ebraico» (che, per inciso, non è mai stata posta come condizione a un accordo di pace con l’Egitto o la Giordania) si nasconde qualcosa di più grande e profondo, giustamente i palestinesi vogliono sapere cosa. Forse il desiderio di un placet morale e politico a un’ulteriore riduzione dei diritti degli arabi israeliani? In questo caso i palestinesi avrebbero ragione a respingerla. Se invece tale governo pretende che i palestinesi riconoscano il principio che qualsiasi ebreo, in qualunque parte del mondo, fa parte dello Stato di Israele solo grazie alla sua nazionalità ebraica (cosa inaccettabile anche per molti ebrei), allora, giustamente, vorrebbero innanzi tutto sapere quale sia la definizione ufficiale di «ebreo» e, in secondo luogo, rifiuterebbero la mediazione di un inviato americano quale Dennis Ross, del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner o di altri ancora perché, essendo ebrei (e quindi «appartenenti» a Israele), non potrebbero svolgere la loro missione in maniera imparziale. Come reagirebbe infatti Israele se la futura Palestina pretendesse di essere riconosciuta come lo Stato di tutto il popolo arabo e dell’intera nazione islamica?

In poche parole nella mente politica israeliana si è creata una specie di strana idea fissa intesa a bloccare i negoziati, o a esprimere una profonda aspirazione ebraica di porre fine alle dispute in maniera teologica, come preparazione alla venuta del messia. Si vorrebbe insomma risolvere un conflitto che dura da 120 anni non come farebbero altri popoli, ma in un modo più profondo, completo, chiedendo cioè ai palestinesi di riconoscere non solo l’ideologia sionista ma anche l’intera storia ebraica.

Avrei allora una proposta alternativa, che sarebbe forse accettabile per i palestinesi. Proporrei loro di ascoltare i nostri nazionalisti fanatici - per lo più religiosi - quando cantano in preda a estasi vicino alle loro case: «La Terra di Israele appartiene al popolo di Israele» e non «La terra di Israele appartiene agli ebrei», «al popolo ebraico» o «alla nazione ebraica». Se proprio quindi non possiamo farne a meno, anziché porre loro la condizione di riconoscere Israele come «Stato ebraico», dovremmo chiedere che lo riconoscano come «lo Stato del popolo di Israele» o «del popolo israeliano». Proprio come noi riconosceremmo la Palestina come lo Stato del popolo palestinese. Questa simmetria sarebbe corretta e accettabile anche dal punto di vista della nostra terminologia storica e religiosa. Una formulazione che rimuoverebbe una mina sulla strada del negoziato e che, credo, i palestinesi non avrebbero motivo di rifiutare.

Traduzione di Alessandra Shomroni
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9016


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Giovani, indignarsi non basta
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2011, 04:23:36 pm
3/8/2011

Giovani, indignarsi non basta

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Sei mesi fa un giovane scrittore mi ha invitato come ospite di un suo laboratorio di scrittura. Sono arrivato a una casa in uno dei quartieri più eleganti di Tel Aviv il cui bel salone era affollato da una sessantina di giovani scrittori e poeti ansiosi di ricevere suggerimenti da un esperto collega. Prima di rispondere alle domande ho però detto loro: se fossi venuto a parlare della possibilità di riscattare il movimento laburista israeliano ci sarebbero state a malapena 3 o 4 persone ad ascoltarmi.

Mi sono ricordato di questo episodio osservando, stupito e soddisfatto ma anche preoccupato e confuso, le tendopoli sorte in questi giorni in Israele in segno di protesta contro la politica del governo. Una protesta decisa e autentica nella quale già si riconoscono segnali di aggressività da parte di giovani e meno giovani e incentrata, per il momento, su una sensazione di impotenza dinanzi al continuo e insostenibile aumento dei costi delle case e degli affitti. È chiaro tuttavia che dietro a tale protesta si nasconde un disagio più profondo, conseguenza del crescente indebolimento dello stato sociale e dei valori di solidarietà che sono stati per anni il fondamento dello stato ebraico. E nonostante l’economia israeliana abbia resistito bene alla crisi finanziaria globale sono stati i ceti medio bassi della popolazione a sobbarcarsi il fardello di questo successo al prezzo di una crescente difficoltà a sbarcare il lunario e di un divario sempre più ampio tra le classi sociali.

Ma questa protesta spontanea potrà trasformarsi in una presa di posizione politica e ideologica tale da garantire risultati a lungo termine in parlamento e una svolta nella linea politica dell’attuale governo? Oppure resterà una contestazione un po’ infantile, ricca di espedienti e di creatività mediatica che si esaurirà da sé, o in seguito a qualche rassicurante promessa di riforma, reale o immaginaria, già fatta dal governo Netanyahu?

Dopo tutto Israele non è la Siria o l’Egitto, nazioni prive di infrastrutture politiche e ideologiche in grado di incanalare le proteste o la «rivoluzione» democratica in atto. Israele non ha bisogno di Piazze Tahrir né di manifestazioni violente nelle principali città. Qui abbiamo partiti politici con lunghi anni di esperienza e i membri del partito laburista, di quello comunista arabo-israeliano e del Meretz alla Knesset, persone competenti e affidabili, conoscono bene i problemi sociali del Paese e già da molti anni parlano del crescente divario fra le classi e del fatto che, anche se il tasso di disoccupazione non è alto rispetto ad altri Paesi occidentali, molti lavoratori si trovano al di sotto della soglia di povertà. Tali rappresentanti propongono serie soluzioni economiche per alleviare il crescente malessere e costruiscono modelli ideologici su come mantenere lo stato sociale senza precipitare in un deficit finanziario come quello della Grecia o della Spagna. Purtroppo gli organizzatori della protesta delle tendopoli e altri cittadini in difficoltà non supportano pienamente la sinistra democratica e sono ancora indecisi se impegnarsi in un’attività politica in vista delle future elezioni. E mentre decine di migliaia di persone sfilano in cortei nelle strade delle grandi città solo poche decine sono disposte a presenziare ai raduni dei candidati del partito laburista in corsa per la leadership.

Per quale motivo? Non c’è dubbio che il tradimento del presidente Shimon Peres e del ministro della Difesa Ehud Barak, ex leader del Labour, che hanno spinto il partito a perseguire una politica sociale di destra e che poi, per opportunismo politico, lo hanno abbandonato unendosi alle fazioni di Sharon e Netanyahu, hanno danneggiato la reputazione del movimento socialdemocratico lasciandolo lacerato e impoverito. Ma ora che questo movimento cerca il riscatto grazie a leader seri, giovani o anziani, non potrà ricostruire una vera forza politica senza il sostegno dei ceti meno abbienti e senza l’entusiasmo di ragazzi che, usciti dall’apatia, hanno deciso di protestare coraggiosamente contro il governo.

Talvolta è la ricca e vivace vita culturale israeliana a prendere il posto di un’attività politica organizzata e pure le comunicazioni via Internet e la rete sociale Facebook creano un clima di beato narcisismo che non sprona la gente a recarsi a votare nel giorno delle elezioni. La destra israeliana è forte, ben organizzata e gode del sostegno incondizionato dei partiti religiosi che beneficiano di generosi sussidi, sia negli insediamenti illegali dei territori occupati sia nelle roccaforti dei centri di studio religiosi. E infatti non ci sono molti religiosi osservanti nelle tendopoli sorte nelle varie città. Se perciò i giovani organizzatori dell’attuale protesta non vogliono che il loro movimento rimanga un episodio isolato dovranno impegnarsi a portare avanti un grigio e costante lavoro politico per rivitalizzare il movimento socialdemocratico che ha dato ottimi risultati nel periodo della creazione di Israele e nel suo governo per lunghi anni. È vero, l’attività politica può essere sfibrante, frustrante e riservare non poche delusioni. Ma chi pensa di poter rimanere in disparte ed evitare di sporcarsi le mani lascerà il campo ad altri che porteranno avanti una politica di tipo diverso e si ritroverà in una tenda stretta e soffocante come parte di una protesta forse di tutto rispetto ma inefficace.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9051


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA "Oggi i problemi di noi israeliani sono altri: il nostro ...
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2011, 04:36:59 pm
Cultura

16/09/2011 - INTERVISTA

Yehoshua: si fa presto a dire letteratura ebraica

Abraham Yehoshua (qui in un disegno di Paolo Galetto) inaugura domani (ore 21, Tempio di Adriano) il IV Festival internazionale di letteratura ebraica, in scena fino al 21 settembre al Vecchio Ghetto di Roma
 
"Oggi i problemi di noi israeliani sono altri: il nostro Paese, la pace, la sicurezza, la giustizia, i rapporti con i palestinesi"

MARIO BAUDINO

La letteratura ebraica non è quel che in genere si immagina: non è tutta la letteratura scritta da ebrei, ma quella scritta da ebrei e che riguarda temi ebraici. Kafka non fa parte di quest’ambito, e tanto meno Proust. Giorgio Bassani, invece, sì. Abraham Yehoshua, domani, ne parlerà a Roma, nel fine settimana dedicato al festival della cultura ebraica. Ma questa distinzione che fa il grande scrittore israeliano non è solo tecnica, va al di là di un ragionamento di critica o storia letteraria. È noto che varie volte Yehoshua ha espresso la propria ferma opinione che per gli scrittori ebrei di tutto il mondo sarebbe importante familiarizzarsi con l’ebraico, proprio come ogni intellettuale, nel Medioevo, conosceva il latino. Anche per superare una certa disattenzione reciproca fra gli ebrei di Israele e quelli della diaspora.

Intende dire che la letteratura ebraica, che è stata così importante per la nostra cultura, dà segni di stanchezza?
«Per me come israeliano la letteratura ebraica non è così fondamentale, anche se ovviamente quella israeliana è parte di essa. O almeno, non lo è in Israele, dove i problemi sono diversi, e magari si guarda con maggiore interesse, che so, a Dostoevskij o Faulkner. La letteratura della diaspora nasce da scrittori ebrei che agivano in un ambiente non ebreo, appunto, isolati in un mondo ostile, e quindi con un forte problema legato all’identità. Dovevano confrontarsi soprattutto con l’antisemitismo. Per noi israeliani c’è semmai il rapporto con la situazione delle minoranze che vivono nel nostro Stato, coi palestinesi per esempio. Con le minacce alla sicurezza, i problemi della pace e della giustizia. L’antisemitismo, almeno per gli scrittori, non è più il tema fondamentale».

Lo scrittore ebreo esiste ancora, in quanto tale, al di fuori di Israele?
«Sì certo. Però le voglio raccontare un aneddoto. Saul Bellow era mio amico. E si chiacchierava del fatto che si sentiva sempre più infastidito al sentirsi chiamare scrittore ebreo. Lui era americano. Questo dà luogo a molte riflessioni».

In che senso?
«Nel senso che io sono indubbiamente uno scrittore ebreo. Scrivo in ebraico, mi rifaccio una tradizione che per me è importantissima, anche se non più delle altre, non più per esempio di Dante Alighieri, ma è la mia, quella della mia lingua. La letteratura ebraica in senso lato resta significativa, ma non come è stata fino alla seconda guerra mondiale, o subito dopo, basti pensare alla riflessione sull’Olocausto. Ora il problema esistenziale, dico dell’esistenza stessa degli ebrei e della loro cultura, è sentito in maniera diversa. È Israele il nodo centrale».

È questo secondo lei il motivo della straordinaria fioritura della letteratura israeliana?
«È ciò che si impone, e attrae l’attenzione di tutto il mondo. Siamo un piccolo Paese con 6 milioni di abitanti, ma la nostra letteratura interessa a tutti».

Come lo spiega?
«Perché questa letteratura parla di una società moderna e democratica che combatte per la sua vita e la sua legittimazione».

E questo è uno di quei problemi che riguardano appunto tutti?
«Le faccio un esempio italiano, di un autore a me molto caro. Leonardo Sciascia affronta il tema della mafia. Ora per questo è molto interessante, perché la mafia non riguarda solo la Sicilia, ma tutta l’Italia. E non solo l’Italia, anche Israele».

Lei si è espresso varie volte per una letteratura «impegnata», dove l’impegno consiste nell’affrontare temi sostanzialmente etici attraverso la narrazione. Ritiene che il successo degli scrittori israeliani nasca da questa forma di impegno?
«Per molti aspetti sì. La situazione del Medio Oriente pone domande cruciali, cui bisogna rispondere».

Sembra quasi che valga la formula: più problemi, più letteratura. Non è del tutto confortante.
«Se guardiamo all’Europa, vediamo una grandissima letteratura proprio al tempo dei totalitarismi. Fra il 1918 e il 1939 c’è stata una eccezionale creatività. Scrittori giganteschi, da Thomas Mann a Kafka, a Pirandello. L’Europa bruciava e la creazione diventava sempre più importante».

Una società calma, stabile, ordinata, esprime una cultura mediocre? Lei darebbe la grande letteratura israeliana in cambio della pace?
«A me basterebbe che per qualche mese almeno non si dovesse menzionare Israele sui giornali di tutto il mondo».

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/420477/


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Barack Obama ci ha deluso: forza Europa
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2011, 04:45:35 pm
10/10/2011 - ISRAELE-PALESTINA

Barack Obama ci ha deluso: forza Europa

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Barack Obama è stato nominato presidente degli Stati Uniti nel gennaio 2009, poco tempo dopo le ultime elezioni israeliane che hanno decretato la sonora sconfitta della sinistra israeliana e la presa del potere da parte del Likud guidato da Netanyahu.

Ricordo l’arrivo del presidente a Chicago con la moglie e le figlie nel novembre del 2008, dopo aver appreso il risultato delle elezioni. All’emozione e all’euforia della folla che lo acclamava, si aggiungeva quella dei sostenitori della pace israeliani.

Naturalmente eravamo felici che alla Casa Bianca stesse per insediarsi un politico di tipo diverso, un autentico progressista, che avrebbe attuato riforme in campo sanitario ed economico.

Avevamo anche la sensazione che il fatto che un uomo di colore fosse stato eletto alla carica più prestigiosa al mondo rappresentasse un grande successo per la dottrina liberale. Ricordavamo che Barack Obama era stato l’unico senatore ad avere votato contro l’invasione americana dell’Iraq e speravamo che quest’uomo di solidi principi potesse aiutare la riconciliazione tra gli Stati Uniti e il mondo arabo e imprimere slancio al processo di pace tra Israele e i palestinesi. In un certo senso l’elezione di Obama era una sorta di consolazione per la sconfitta della sinistra nelle elezioni israeliane.

L’inizio, in effetti, fu promettente, sia su un piano interno (con la riforma sanitaria) che internazionale (il discorso al mondo arabo tenuto all’Università del Cairo, la pressione su Israele per la moratoria su nuove costruzioni negli insediamenti, e il chiaro proclama che i confini del futuro stato palestinese sarebbero stati quelli del ‘67).

Lentamente, però, cominciammo ad avvertire una certa delusione dovuta alle persistenti difficoltà economiche degli Stati Uniti e allo stallo del processo di pace in Medio Oriente. Di fronte al risveglio delle forze religiose ed estremiste di destra in vista della prossima campagna per le presidenziali sembra, infatti, che Obama abbia rinunciato a tentare di convincere Israele e i palestinesi a raggiungere un accordo. Il suo fallimento nell’ottenere da Netanyahu un nuovo blocco delle costruzioni negli insediamenti e nell’impedire ai palestinesi di presentare una richiesta di riconoscimento del loro stato alle Nazioni Unite (evitando così il veto americano nel Consiglio di Sicurezza) fa pensare che le speranze riposte in questo presidente fossero eccessive. Oggi Obama ricorda più un pacato assistente sociale animato da buone intenzioni e convinto che discorsi assennati possano convincere i suoi turbolenti pazienti ad accettare soluzioni valide che un leader dotato di forte autorità in grado di imporre sanzioni.

Il suo ultimo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non solo lascia trapelare un eccessivo sostegno a Israele ma soprattutto un senso di scoramento per l’incapacità di giungere a una soluzione del conflitto israelo-palestinese. E questa è la mia sensazione da anni. La sinistra israeliana non solo è delusa da Obama ma anche dall’incapacità degli Stati Uniti di imporre a Israele un’equa soluzione di pace.

Quando parlo però con giornalisti, intellettuali e talvolta anche leader europei - italiani, francesi, tedeschi e britannici -, e chiedo loro come mai l’Europa esiti a prendere in mano le redini del processo di pace, spesso avverto un tono disfattista accompagnato da considerazioni del tipo: l’Europa è debole, divisa, non può accollarsi un simile compito. E poi cominciano le solite lamentele sull’instabilità economica del vecchio continente, sulle tensioni interne che impediscono un’azione comune, sulle divergenze vecchie e nuove, ecc. ecc.

Conoscendo però la storia dell’Europa del XX secolo consentitemi di dissociarmi un poco da questi piagnistei, soprattutto per quanto riguarda i quattro paesi leader: Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. L’Europa non è mai stata ricca, pacifica e politicamente e ideologicamente unita come lo è oggi. Non è soggetta a minacce esterne, militari o politiche. La sua popolazione è numericamente superiore a quella degli Stati Uniti e il tenore di vita dei suoi abitanti, soprattutto nelle nazioni occidentali, è mediamente migliore di quello dei cittadini statunitensi. L’Europa sarebbe perfettamente in grado, e dovrebbe persino, accollarsi il compito di condurre il processo di pace in Medio Oriente, una regione a essa geograficamente vicina e con la quale ha stretti legami storici.

È vero che l’alleanza fra Gran Bretagna e Stati Uniti scoraggia la prima a soppiantare la seconda. Ma trent’anni di dominio sulla Palestina nella prima metà del Novecento fanno sì che l’Inghilterra mantenga un certo grado di responsabilità verso una regione che è stata sotto il suo controllo. La Germania, che naturalmente prova ancora un profondo senso di colpa nei confronti degli ebrei, teme forse mosse politiche che potrebbero essere considerate ostili ad Israele, seppur compiute nel tentativo di raggiungere la pace. L’attuale governo italiano ha stipulato un’alleanza ideologica con il governo israeliano di destra e la Francia teme forse di tornare a un’epoca in cui le sue relazioni diplomatiche con Israele erano precipitate a infimi livelli in seguito allo strappo deciso da De Gaulle e dai suoi successori dopo la guerra dei Sei giorni.

Ma tutte queste argomentazioni si annullano dinanzi al ruolo di responsabilità che l’Europa dovrebbe avere nel processo di pace e nella creazione di due Stati per i due popoli, un principio accettato pubblicamente anche da palestinesi e da israeliani. E questo soprattutto alla luce del fallimento degli Stati Uniti in veste di valido intermediario. Si dovrebbe quindi trovare un modo per insediare una forza di pace europea che assicuri la smilitarizzazione dello Stato palestinese e scoraggi un eventuale esercito proveniente da oriente dal mettere a repentaglio la sicurezza di Israele. E che presidi sofisticate apparecchiature elettroniche in posizioni strategiche così da evitare il lancio di missili su centri abitati israeliani. Una forza europea potrebbe anche garantire la sicurezza dei coloni ebrei che decidano di prendere la cittadinanza palestinese piuttosto che essere sradicati dalle loro case.

Queste missioni di pace non coinvolgerebbero i contingenti europei in scontri sanguinosi ma garantirebbero un’adeguata supervisione e la fiducia di entrambe le parti.

Una mediazione di pace europea non sarebbe una provocazione nei confronti degli Stati Uniti ma aiuterebbe a sbloccare il processo di pace nella sua fase finale; una fase che si protrae da più di venti anni. E non è da escludere che una partecipazione europea, compatta, determinata e generosa, al processo di pace in Medio Oriente possa anche aiutare le nazioni del vecchio continente a liberarsi dell’atteggiamento di indulgente autocompatimento che non corrisponde, a mio vedere, alla loro situazione reale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9301


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Perché questo baratto è comunque giusto
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 09:43:13 am
17/10/2011

Perché questo baratto è comunque giusto

Non abbiamo ceduto e Hamas ha ammesso la nostra superiorità militare

ABRAHAM YEHOSHUA

Gli entusiastici festeggiamenti esplosi in Israele per l’atteso rilascio del soldato rapito Gilad Shalit potrebbero far pensare che il governo israeliano non abbia solamente concluso un accordo con Hamas (accordo a cui si poteva forse arrivare già due anni fa) ma sia riuscito a portare un israeliano su Marte e ora ne attenda il ritorno.

Anche in passato soldati e civili sono stati tenuti prigionieri in Stati arabi o presi in ostaggio da organizzazioni terroristiche o di guerriglia di vario tipo. E per ottenere la loro liberazione è stato applicato lo stesso principio di centinaia o migliaia di detenuti o prigionieri di guerra in cambio di pochi. Ma da che ricordo non si è mai registrato un entusiasmo popolare tanto travolgente quanto quello scatenatosi dopo l’annuncio del previsto rilascio del giovane Shalit.

Una delle ragioni di questo entusiasmo nasce dalla notevole capacità della famiglia Shalit e del suo entourage di tenere vivo l’interesse per le vicende del ragazzo durante i cinque anni trascorsi dal suo rapimento e di conquistare il sostegno di una vasta parte dell’opinione pubblica che non si è mai stancata di chiedere al governo israeliano di raggiungere un accordo con Hamas per il rilascio del soldato.

Molti israeliani infatti, fra cui intellettuali, membri delle forze dell’ordine e di sicurezza e appartenenti a tutte le classi sociali, si sono uniti alla campagna per ottenere la sua liberazione. Sono state organizzate manifestazioni e raduni. Si sono appesi ovunque poster e manifesti che ricordavano il numero dei giorni di prigionia. Ma alla famiglia Shalit va soprattutto il merito di avere saputo compiere un atto di coraggio: lasciare per più di un anno la propria casa in un piccolo villaggio della Galilea per erigere una tenda di protesta accanto alla residenza del primo ministro a Gerusalemme perché l’opinione pubblica non dimenticasse la sofferenza della vittima e dei suoi familiari e premesse affinché il capo del governo accettasse le dure condizioni imposte da Hamas.

Ma nonostante la simpatia popolare non pochi israeliani, non solo di destra ma anche di sinistra, si sono opposti allo scambio di un unico soldato per mille e più prigionieri palestinesi, fra cui alcuni responsabili di attentati gravissimi in cui hanno perso la vita decine di persone.

Potrei suddividere gli oppositori a questo accordo in tre categorie.

La prima è composta da coloro che vedono nei prigionieri palestinesi criminali assassini che non meritano il perdonoe il cui rilascio sarebbe un errore sia da un punto di vista legale che morale nonché un terribile colpo per i parenti delle vittime innocenti. Tali persone sarebbero quindi inevitabilmente disposte a far sì che il prigioniero rimanga in mano ai suoi carcerieri.

C’è da dire che benché questa presa di posizione non sia molto comune ha comunque alcuni sostenitori anche fra chi non appartiene ai circoli della destra.

C’è poi chi deplora la disparità numerica dello scambio. Gente che sarebbe disposta ad accettare il rilascio di un unico prigioniero palestinese, fosse anche il responsabile del più efferato attentato terroristico, ma non quello di centinaia.

A questa presa di posizione potrei replicare che fin dall’inizio del conflitto arabo-israeliano, nelle guerre combattute contro paesi arabi densamente popolati nel ’48, nel ’67 e nel ’73, gli israeliani hanno ottenuto risultati notevoli a dispetto della loro inferiorità numerica. I nostri soldati sono ben addestrati, dispongono di tecnologie avanzate e di capacità militari migliori di quelle degli arabi, e di certo di quelle dei guerriglieri palestinesi. Quindi, esigendo il rilascio di 1.000 prigionieri in cambio di un unico soldato, Hamas chiede in pratica di raggiungere un qualche equilibrio militare, non umano. In altre parole mille dei loro prigionieri che lottano con coltelli, con cinture esplosive, con ordigni e razzi primitivi valgono uno solo dei nostri soldati.

Israele è rassegnato alla propria inferiorità numerica e continuerà ad addestrare i suoi soldati in modo da poter superare questa lacuna, sia su un piano militare che morale. Un unico prigioniero in cambio di migliaia non è perciò un’umiliazione o una resa ma un accordo accettabile che riconosce, anche da parte del nemico, la capacità militare dei combattenti israeliani.

Ma c’è una terza categoria di persone che si oppone strenuamente allo scambio di prigionieri con Hamas e le cui ragioni esigono che chi, come me, lo sostiene, affronti l’argomento.

Queste ragioni sono semplici. In base all’esperienza una parte dei prigionieri liberati nel quadro di precedenti accordi è tornata all’attività terroristica progettando o compiendo attentati che hanno causato molte vittime israeliane. La liberazione di un unico soldato potrebbe quindi mettere in pericolo parecchie vite umane.

Potrei confutare tale ragionamento con tre spiegazioni possibili che, credo, saranno in grado di neutralizzarlo in maniera discreta.

1. Molti dei prigionieri liberati saranno trasferiti nella Striscia di Gaza e lì, in un territorio completamente distaccato da Israele, non potranno compiere attentati terroristici contro Israele ma tutt’al più unirsi alle forze combattenti di Hamas.

2. Un’altra parte dei prigionieri verrà espulsa dalla Cisgiordania e non verrà in contatto con la popolazione israeliana, sia in Giudea e in Samaria sia in Israele.

3. I prigionieri che rimarranno in Cisgiordania, alcuni dei quali potrebbero ripetere atti di terrorismo, si troveranno non solo sotto la supervisione dei servizi di sicurezza israeliani (che sanno di loro tutto ciò che c’è da sapere) ma anche di quelli dell’Autorità Palestinese, un elemento nuovo che non esisteva in passato. L’Autorità Palestinese negli ultimi anni si occupa in maniera efficace di prevenire atti di terrorismo e di violenza con l’intento di stabilizzare la situazione in Cisgiordaniae preparare il nuovo Stato palestinese che sorgerà. In altre parole i prigionieri che torneranno alle loro case in Cisgiordania, una settantina credo, non solo saranno sotto il costante controllo dei servizi di sicurezza israeliani ma potrebbero anche essere influenzati dall’atmosfera positiva che si respira nei territori dell’Autorità palestinese in attesa della ripresa di un negoziato per la soluzione di due stati per i due popoli.

E chissà, forse come è successo in altre nazioni, dal carcere potrebbero uscire nuovi capi disposti a collaborare con un nemico che in passato è stato il loro aguzzino.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9330


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA - La Palestina e l'ignoranza di Gingrich
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 06:51:38 pm
16/12/2011

La Palestina e l'ignoranza di Gingrich

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Mi hanno detto che Newt Gingrich, candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, è uno storico di formazione più ampia rispetto alla media dei membri del Congresso e del Senato statunitense. Se questo è vero allora le sue affermazioni durante un’intervista a un canale televisivo ebraico americano - sul fatto che il popolo palestinese sia «inventato» e che i confini del ‘67 non sarebbero difendibili - lo rendono sospetto di ignoranza storica e di superficialità politica.

Gingrich dice che non è mai esistito uno stato palestinese e che la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano fino all’occupazione britannica. Anche gli Stati Uniti d’America non erano una nazione prima del 1779 bensì una colonia dell’impero britannico nel Nord America. Questo implica forse che i residenti di quei territori non avessero diritto di fondare un loro stato indipendente? Lo stesso si può dire di decine di stati fondati durante l’ultimo secolo da popoli che erano parte di vasti imperi quali quello britannico, quello francese o persino quello austro-ungarico. Ed era diritto degli abitanti della ex Cecoslovacchia di dividersi in due stati - la Repubblica Ceca e la Slovacchia - in base a una ripartizione territoriale. È infatti il territorio a stabilire la realtà dei suoi abitanti, sia che essi si definiscano un popolo a sé, o parte di una popolazione più ampia.

Palestina è un nome antico che risale all’epoca romana ed è chiaro che i residenti di questa regione siano autorizzati a definirsi «palestinesi» e, in quanto tali, possano decidere se far parte di un Paese arabo o avere uno stato indipendente che mantenga legami e affinità culturali e religiosi con la grande nazione araba.

Come può il signor Gingrich sostenere che i palestinesi e lo stato palestinese siano «inventati»? Il 29 novembre 1947 il rappresentante degli Stati Uniti, insieme con la maggior parte del mondo libero e dei paesi appartenenti al blocco sovietico, votò a favore della spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. Lo stato ebraico si chiama oggi Israele e quello arabo che sorgerà si chiamerà Palestina. Con che diritto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti afferma che questa decisione non è valida o è un’invenzione?

La superficialità del signor Gingrich si fa evidente quando afferma che i confini del ‘67 non sono difendibili. Se avesse studiato bene la mappa di Israele, o della Palestina, avrebbe visto che l’ampiezza del futuro stato palestinese, la cosiddetta Cisgiordania, o Giudea e Samaria, è di circa 60 chilometri in base ai confini del ‘67. Se Israele spingesse i suoi confini dieci chilometri più a Est riuscirebbe a proteggersi meglio dal lancio di missili o da tiri di artiglieria? La difesa di Israele dipende forse dall’annessione di qualche chilometro quadrato di territorio palestinese in cui ora Israele stipa coloni ebrei? O dipende in primo luogo dai rapporti di pace e di fiducia che riuscirà a stabilire con i palestinesi e dalla demilitarizzazione di ogni arma offensiva nel loro territorio sotto stretto controllo internazionale?

E anche se il signor Gingrich nega la creazione di uno stato palestinese cosa ne pensa dei milioni di palestinesi che vivono in Giudea e Samaria? Può una persona cresciuta in base ai valori democratici del suo Paese permettere che milioni di altre persone siano private dei diritti civili e del diritto di voto nella propria madrepatria come lo sono oggi?

Quando uno dei principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti rilascia dichiarazioni talmente irresponsabili per attrarre i voti della comunità ebraica (in gran parte sostenitrice dei democratici) si può capire perché è difficile sperare che gli Usa possano davvero guidare il processo di pace in Medio Oriente e, alla luce di questo, reputare che il ruolo dell’Europa come guida di questo processo diventi sempre più vitale e necessario.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9552


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA I pericoli di uno Stato binazionale
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2012, 10:29:36 am
8/1/2012



ABRAHAM B. YEHOSHUA

In un articolo pubblicato il 23 dicembre scorso sul quotidiano Haaretz Abraham Burg formula una nuova ipotesi secondo la quale è giunto il momento di prendere in considerazione la possibilità che Israele proceda ciecamente e inesorabilmente verso la creazione di uno Stato unico, o binazionale.

A eccezione dei sostenitori dello schieramento religioso (per via della struttura stessa dell’identità religiosa), di quelli della destra radicale laica (per via delle loro fantasie di violenza), e di quelli della sinistra post-sionista (per via dei loro ideali umanisti-cosmopoliti), tutte le altre fazioni politiche e ideologiche di Israele capiscono e dichiarano che uno Stato israeliano binazionale sarebbe un’eventualità pessima e pericolosa, sia a breve che, ovviamente, a lungo termine. Ciò nonostante procediamo ineluttabilmente verso la realizzazione di tale possibilità che, in determinati periodi della storia sionista, è stata considerata ragionevole e accettabile da certi ambienti.

Anche se molti di noi credono che si possa evitare la creazione di uno Stato binazionale grazie a un'incisiva azione politica, abbiamo tuttavia il dovere di prepararci, ideologicamente ed emotivamente, a una tale eventualità (così come ci si prepara ad altre potenziali emergenze) affinché essa non sconvolga la struttura democratica di Israele e non distrugga completamente l'identità israeliana-ebraica consolidatasi negli ultimi decenni.

Va compreso che uno Stato binazionale potrebbe sorgere non solo in seguito all'operato di Israele ma anche a una cooperazione segreta fra le diverse fazioni palestinesi, sia all'interno del territorio israeliano sia in Giudea e in Samaria. Persino gli esponenti più pragmatici di Hamas vorrebbero trascinare Israele in una prima fase di tale processo. Non solo per via del discutibile presupposto che ciò che è male per gli ebrei è certamente bene per i palestinesi ma perché per i palestinesi uno Stato binazionale nella terra di Israele sarebbe, a lungo termine, una possibilità più allettante del controllo sul territorio spezzettato e smembrato che potrebbero, con grande sforzo e probabile spargimento di sangue, estrarre dalle fauci di Israele.

Uno Stato binazionale, anche solo in parte democratico, potrebbe garantire ai palestinesi, grazie alla solida economia israeliana e ai suoi legami forti e profondi con l'Occidente, una vita migliore e più sicura, ma soprattutto un territorio più ampio che, entro qualche decina di anni, potrebbe diventare Palestina in toto.

Ovunque sentiamo parlare del sogno palestinese di uno Stato binazionale. E questo può forse spiegare l'insistenza dell'Olp a Camp David nel 2000, dell'Autorità palestinese durante i colloqui con il governo Olmert e anche nel corso dei recenti approcci dell'attuale governo israeliano, a non addentrarsi in negoziati seri con l'intenzione di arrivare a una vera conclusione. Questo sogno spiega anche l'incomprensibile paralisi dei palestinesi nell'organizzare una protesta civile e non violenta contro gli insediamenti, e forse pure il loro profondo sopore notturno quando dei vandali bruciavano le loro moschee. A differenza dei loro fratelli in Siria o in altri Paesi arabi che affrontano a torso nudo i proiettili dell'esercito i palestinesi osservano passivamente l'accelerato ampliamento degli insediamenti trascinandoci, con pazienza, verso uno Stato binazionale.

Al tempo stesso gli ebrei, forti di una «competenza» millenaria, tornano a insediarsi e a intrecciarsi nella trama dell'identità di un popolo straniero - parte dell'enorme nazione araba - come hanno fatto per secoli in Ucraina, in Polonia, nello Yemen, in Iraq o in Germania, lasciandosi trascinare con timore, o forse con entusiasmo, in una situazione che ha causato loro grandi catastrofi ma che soprattutto potrebbe distruggere definitivamente la possibilità di normalizzazione della sovranità israeliana.

Alla gran maggioranza dei religiosi estremisti, o anche parzialmente moderati, l'ideale di uno Stato binazionale non appare tanto minaccioso. Chi ha saputo mantenere la propria identità per secoli in ogni parte del mondo per mezzo di testi scritti e di una vita comunitaria ristretta riuscirebbe di certo a serbarla anche in un singolo avamposto circondato da villaggi arabi con una compagine militare a garantirne la sicurezza.

Gli estremisti di destra, dal canto loro, che considerano Israele una gigantesca portaerei statunitense (secondo le parole del ministro Uzi Landau), credono che quella confusa potenza concederà loro di risolvere il problema demografico al momento opportuno con una serie di silenziosi trasferimenti di popolazione. E nemmeno gli umanisti cresciuti nell'ideale di fratellanza fra i popoli secondo gli insegnamenti dei movimenti politici Hashomer Hatzair e Brith Shalom non vedrebbero nulla di male nella futura presenza di uffici di Hamas nelle torri Azrieli di Tel Aviv, fintanto che questi non intralcino il loro approccio umanistico.

Ma per chi ha creduto e sognato un'identità ebraica indipendente che metta alla prova, nel bene e nel male, i propri valori in una realtà territoriale nazionale, uno Stato binazionale spezzerebbe dolorosamente questo sogno e sarebbe fonte di duri conflitti, come dimostra il fallimento di altri Stati binazionali costituiti da popoli molto più vicini sotto un profilo religioso, economico, storico e di valori comuni di quanto lo siano ebrei e palestinesi.

È ancora possibile evitare il male che ci aspetta? Riusciremo a convincere i palestinesi a realizzare l'ideale di due Stati per due popoli (anche nel quadro di una federazione)? È ancora possibile convincere i sostenitori di Israele negli Stati Uniti e in Europa a mostrare risolutezza morale e a impedire a Israele di seguire l'ambigua via che ha intrapreso? E nel caso in cui il binazionalismo dovesse diventare realtà, come potremmo limitarne i danni? Come potremmo prepararci senza che esso distrugga l'indipendenza laica israeliana e non ci schiacci fra la discriminazione femminile di stampo ebraico e quella di stampo musulmano? Queste sono domande serie e nuove alle quali anche i sostenitori della pace devono trovare una risposta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9626


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA - Intervista DI MARIO BAUDINO
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 11:56:43 am
Cultura

10/04/2012 - intervista

Abraham Yehoshua "Il vero castigo di Günter Grass"

Abraham Yehoshua (Gerusalemme, 1936).
Günter Grass (Danzica, 1927), premio Nobel nel 1999

Lo scrittore israeliano risponde al Nobel tedesco dopo la poesia-denuncia sulla potenza nucleare di Gerusalemme come minaccia per la pace mondiale

MARIO BAUDINO

“Perché dico solo adesso, / da vecchio e con l’ultimo inchiostro: / La potenza nucleare di Israele minaccia / la così fragile pace mondiale? / Perché deve essere detto / quello che già domani potrebbe essere troppo tardi». Günter Grass, con questi versi che fanno parte di una lunga poesia pubblicata nei giorni scorsi, si è guadagnato la qualifica di «persona non grata» in Israele, i calorosi complimenti del regime iraniano, un nugolo di polemiche, accuse vibranti di antisemitismo. Nello stesso testo si dichiara peraltro «amico» dello Stato di Israele. Per lo scrittore tedesco, il suo è un invito alla pace. Per uno scrittore israeliano come Abraham Yehoshua queste parole suonano come poco più di una pericolosa sciocchezza. Dal suo ufficio di Haifa, ci spiega d’aver letto la versione ebraica «pubblicata sui nostri quotidiani». Ne è stato piuttosto colpito.

Che cosa ha pensato?
«Che quando un autore di prosa comincia a scrivere poesie diventa pericoloso. Ma al di là delle battute, proprio non capisco perché uno come Günter Grass, a 85 anni, con un Nobel alle spalle, un nuovo libro, una fama consolidata, una stima diffusa nel mondo intellettuale, possa affrontare i problemi del Medio Oriente accontentandosi di valutazioni così approssimative».

Che cosa gli rimprovera?
«Di non aver capito il pericolo rappresentato dall’Iran nel processo di pace. Che è peraltro ben chiaro agli stessi palestinesi. L’Iran è un paese con cui abbiamo avuto nel tempo molti legami, c’è persino una comunità ebraica. Ora però un regime fanatico non ha altra scelta, per perpetuarsi, di riunire gli islamici sotto la bandiera della sharia contro Israele. Rappresenta un pericolo gravissimo, cui non possiamo cedere».

Dunque Grass si è accontenato di luoghi comuni, non ha approfondito l’argomento. È solo questo il problema?
«Ma sì, non ha capito niente. Pensare che non era così complicato informarsi. I palestinesi, per esempio, sono ben consci che le minacce iraniane a Israele rappresentano un pericolo anche per loro. Il nostro premier Netanyahu, in maniera speculare, tende a spostare la questione palestinese sulla questione iraniana. Ma sono proprio i palestinesi a chiedere agli iraniani: che ci fate qui. A tenerli il più possibile lontani».

La poesia e ciò che ne è seguito sono solo un gigantesco equivoco, una gaffe?
«Se Grass si fosse informato, avrebbe evitato di scrivere cose non vere. Si deve parlare di palestinesi e di processo di pace, questo sì. Non capisco perché non l’abbia fatto».

È stato accusato di antisemitismo.
«Nella storia il rapporto con gli ebrei di tanto in tanto diventa folle, impazzisce, questo è certo. Non credo però che Grass sia antisemita. Anzi lo escludo. Non tutti ricordano che partecipò alla visita di Willy Brandt nel 1973, la prima visita ufficiale di un cancelliere tedesco in Israele. Diciamo piuttosto che le sue posizioni e analisi politiche non sono sempre state particolarmente felici».

Sta pensando all’89?
«Quando si dichiarò contrario all’unificazione tedesca, annunciando che non avrebbe funzionato. Guardi il risultato: la Germania è ora uno degli Stati più prosperi e potenti del mondo».

Sta dicendo che non va preso troppo sul serio?
«Io sotto questo aspetto non lo prendo sul serio. E aggiungo: prima di scrivere poesie, ci pensi un po’».

Il vostro governo lo ha dichiarato persona non grata. Come forma di critica letteraria non è un po’ eccessiva?
«Il bando non va bene, assolutamente no. Ognuno deve essere libero di visitare Israele. Anzi, la risposta migliore a Grass sarebbe di lasciarlo venire, in modo che magari riesca a capire meglio la situazione».

Lei stesso però ha detto di considerarlo pericoloso. In che senso?
«Perché invece di criticare la politica israeliana sui vari problemi all’ordine del giorno, che ci sono, e gravi, sposta l’attenzione su temi propagandistici. Infatti il regime iraniano si è subito complimentato con lui. E non solo».

Sta pensando ai neonazisti tedeschi?
«Che sono sempre più attivi, e rappresentano un altro pericolo vero».

Il vostro ministro degli Esteri, Liebermann, ha parlato esplicitamente di razzismo. Il ministro dell’Interno, Yishai, ha ricordato la militanza giovanile di Grass nelle SS, che lui stesso aveva confessato nell’autobiografia.
«Ripeto, non è un problema di antisemitismo. Anzi, il plauso che gli è venuto anche dai neonazisti mi pare sia già, di per sé, il vero castigo di Grass».

da - http://www.webwarper.net/ww/www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/449561/


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Israele troppi africani clandestini
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2012, 06:59:48 pm
5/6/2012

Israele troppi africani clandestini

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima.

Poiché i confini con la Siria e il Libano, due nazioni ancora ostili a Israele, sono ermeticamente chiusi, nessun rifugiato o immigrato avrebbe la possibilità di superarli. Anche la frontiera fra Israele e la Giordania è sotto la stretta supervisione delle due parti a causa di problemi di sicurezza con i palestinesi.

Ma lungo il confine tra Israele ed Egitto, tra il grande deserto del Sinai (che secondo il trattato di pace tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato) e quello israeliano del Negev in anni recenti è iniziata l’infiltrazione di migliaia di africani provenienti dal Sudan e dal Sudan meridionale, dall’Etiopia, dall’Eritrea e, più di recente, da Paesi anche più lontani. Uomini e donne che, dopo aver percorso a piedi migliaia di chilometri condotti da guide e da contrabbandieri profumatamente pagati, arrivano in Israele non alla ricerca di asilo politico ma soprattutto di un lavoro.

Israele, che dopo la Shoah ha accolto centinaia di migliaia di profughi ebrei provenienti anche da paesi arabi e ha dovuto fare i conti con la richiesta di lavoro dei residenti dei territori palestinesi, si trova a fronteggiare un nuovo problema, simile a quello di molti Paesi europei.

Una minoranza di questi infiltrati sono profughi in fuga dall’orrore della guerra. La più parte, però, sono persone in cerca di lavoro che, come in molte grandi città d'Europa, si stabiliscono in aree urbane economicamente e socialmente deboli dove vivono in condizioni di grande povertà, entrando in competizione sul mercato locale come manodopera a basso costo e priva di diritti sociali. Dal momento che Israele è un paese gradevole dal punto di vista climatico, di certo per gli africani, costoro non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv.

I residenti locali sono furiosi con il governo che non impedisce questa invasione illegale, della quale sono soprattutto loro a pagare il prezzo. E quando a questa situazione si vanno ad aggiungere qua e là occasionali atti criminosi da parte degli infiltrati, la protesta della popolazione locale si fa violenta.

I membri delle organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra tendono a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista.

Ci sono inoltre persone e aziende che per realizzare profitti si avvalgono di questa manodopera a basso costo e affittano appartamenti fatiscenti a prezzi oltraggiosi. In questo modo non solo i salari dei lavoratori israeliani, compresi quelli degli arabi israeliani, tendono a diminuire ma gli affitti degli appartamenti nelle zone periferiche aumentano in maniera inverosimile.

Qual è la soluzione? Innanzi tutto bloccare la frontiera col deserto, cosa che sta già rapidamente avvenendo. Se ciò non accadesse Israele potrebbe essere travolta da un vero e proprio tsunami africano. Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base ad accurati controlli il numero dei rifugiati con diritto di asilo politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite, dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno, un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei loro paesi d’origine.

Rimane la domanda riguardo a chi prenderà il posto degli immigrati nel mercato del lavoro che necessita anche di manodopera a basso costo e non qualificata. A questo punto entrano in gioco i palestinesi, il vero motivo per cui ho scritto questo articolo.

Nella Striscia di Gaza vivono migliaia di palestinesi bisognosi di una fonte di reddito e ansiosi di trovare un lavoro. L’apertura dei confini di Gaza a qualche gruppo di migliaia di lavoratori palestinesi che abbiano superato attenti controlli di sicurezza potrebbe portare benefici sia all’economia palestinese che al mercato del lavoro israeliano e promuovere una normalizzazione della situazione politica fra la Striscia di Gaza e Israele.

I lavoratori palestinesi conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv) questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza.

Un simile stato di cose è andato avanti per molti anni dopo la guerra del ’67 dimostrandosi vantaggioso per entrambi i popoli costretti a vivere fianco a fianco con la speranza di promuovere una pacifica convivenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10191


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Quell'ostacolo sul futuro di Israele
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 10:00:09 am
10/7/2012

Quell'ostacolo sul futuro di Israele

ABRAHAM YEHOSHUA

Tutti i miei figli e nipoti vivono a Tel Aviv e perciò, con grande rammarico, mia moglie ed io abbiamo deciso di trasferirci da Haifa – la bellissima città portuale arroccata su un monte dove abbiamo trascorso 45 splendidi anni – in quello che viene ironicamente chiamato «lo stato di Tel Aviv».

Quando abbiamo cominciato a svuotare cassetti e ad aprire vecchie scatole ci siamo imbattuti in un fascio di vecchie lettere che avevamo scritto ai genitori verso la fine della nostra lunga permanenza in Francia negli Anni Sessanta. Lettere personali, vergate ogni giorno a partire dal maggio ’67 al luglio dello stesso anno.

Scritte dapprima con l’ansia e la paura dell’attesa di una guerra che di giorno in giorno appariva più certa, poi nel corso della guerra stessa (protrattasi come si sa solo sei giorni) e infine durante il burrascoso periodo seguito alla vittoria di Israele.

Quel periodo è stato oggetto di ricerche e analisi giornalistiche e accademiche scritte da ogni prospettiva ma sono rimasto colpito dalla nostra esperienza personale, dalla testimonianza diretta di quelle lettere, dal divario tra l’ansia, il sostegno e l’ammirazione degli europei – che sentivamo forte intorno a noi – per Israele quarantacinque anni fa e le loro crescenti riserve negli ultimi anni. Riserve che giungono talvolta a mettere in discussione la legittimità stessa dello Stato ebraico e a ventilare l’ipotesi della sua scomparsa entro la fine di questo secolo.

Come e perché si è verificata una tale, profonda trasformazione? Quale ne è la radice e da cosa deriva?

Dopo tutto la preoccupazione per l’Israele di 45 anni fa era genuina e profonda, non erano solo parole e manifestazioni di piazza ma anche file di europei, giovani e vecchi (tra cui molti non ebrei) che si arruolavano come volontari per combattere fianco a fianco degli israeliani durante una guerra considerata pericolosa e forse perduta in partenza. In quelle settimane c’era la sensazione che la difesa di Israele fosse non solo una questione politica ma un obbligo morale e di coscienza, come durante la guerra civile spagnola.

Anche la folgorante vittoria di Israele non affievolì quel sostegno. La gente non diceva: forse Israele ci ha ingannati, ha esagerato il suo stato di pericolo, il bisogno di aiuto, ha finto di essere debole mentre in realtà era forte. No, al contrario. La netta vittoria di Israele fu considerata giusta e morale così come il pericolo e la minaccia erano stati considerati autentici prima della guerra. Il sostegno popolare per Israele era travolgente e valicava la cortina di ferro anche dopo che il blocco comunista, nella sua frustrazione, aveva interrotto le relazioni con lo Stato ebraico.

Di più. La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al termine della guerra sostenne la vittoria israeliana all’unanimità e fu chiaramente stabilito che i territori occupati nel corso del conflitto non sarebbero stati restituiti ai paesi arabi sconfitti se non in cambio della pace e della loro smilitarizzazione.

Da quel momento in poi la storia è nota. Dapprima vi fu il fermo rifiuto arabo di avviare qualsiasi negoziato con Israele. Cominciò allora una guerra di attrito lungo i nuovi confini accompagnata dal perentorio rifiuto dei palestinesi di arrivare a un qualsivoglia compromesso con lo Stato ebraico e in seguito iniziò una brutale ondata di terrore in Cisgiordania a Gaza e all’interno di Israele stesso. Nonostante ciò già all’epoca cominciò una crescente erosione dello status morale di Israele. E malgrado gli accordi di pace con l’Egitto e la Giordania e la restituzione della penisola del Sinai all’Egitto il sostegno, la simpatia e l’ammirazione del passato si trasformarono in rabbia e delusione.

Gli atti di occupazione di Israele sono nulla in confronto ai fallimenti disastrosi e alle folli atrocità perpetrate da altre nazioni nel ventesimo secolo, per esempio nei Balcani, in Vietnam, in Cambogia e in molti Paesi africani, per non parlare degli orrori della Germania nazista e della Russia sovietica. Eppure persino nell’inferno della Seconda Guerra Mondiale nessuno, nemmeno un ebreo, ha mai sostenuto che lo Stato tedesco andasse delegittimato e cancellato dalla faccia della terra.

Quando esamino tutti gli argomenti, giustificati o meno, nei confronti della politica di Israele di questi anni ne trovo uno che ha maggiore peso rispetto agli altri e che secondo me è alla radice dell’estrema e talvolta sfrenata avversione nei confronti di Israele. Mi riferisco agli insediamenti che continuano a essere costruiti in territorio palestinese. Molti accettano il diritto di Israele a difendersi. Molti altri accettano il diritto di Israele a richiedere, a causa delle sue ridotte dimensioni e della sua vulnerabilità, che i territori occupati che saranno evacuati debbano essere smilitarizzati. Ma nessuna persona di coscienza e con un senso della storia può accettare che Israele eriga insediamenti espropriando arbitrariamente e ingiustamente territori che dovrebbero essere, a detta di tutti, dello Stato palestinese. Questo è un atto scorretto e intollerabile che mette in discussione la giusta vittoria della Guerra dei sei giorni. Ed è lo sconvolgimento emotivo dovuto al passaggio dal sostegno e dall’ammirazione del passato alla delusione amara del presente a portare a mettere in dubbio la legittimità di Israele.

La maggior parte degli israeliani considera gli insediamenti una questione secondaria, forse ingiusta e di cui si potrebbe fare a meno, comunque marginale nel quadro della battaglia di Israele per la sopravvivenza e la pace, e non capisce fino a che punto gli insediamenti minino la posizione morale di Israele agli occhi di molti. Io, da parte mia, ritengo che, per la sua legittimità, la giustificazione morale dello Stato ebraico sia molto più importante della democrazia, della memoria della Shoah e di tutti i beni economici, politici, militari e culturali che Israele ha diligentemente accumulato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10314


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Netanyahu deve parlare agli iraniani
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 03:05:52 pm
Editoriali

01/10/2012 - le idee

Netanyahu deve parlare agli iraniani

Abraham B. Yehoshua

Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene un discorso davanti all’assemblea delle Nazioni Unite si rivolge solitamente a tre o quattro diversi gruppi di ascoltatori: innanzi tutto ai cittadini e al governo degli Stati Uniti, in secondo luogo agli ebrei americani che prestano grande attenzione alle sue parole, in terzo luogo ai rappresentanti dei paesi più o meno amici di Israele in Europa, in Sud America e in Asia e, infine, alla popolazione del suo Paese (benché abbia anche altre occasioni di rivolgersi a noi israeliani). 

 

A giudicare dal suo recente discorso all’Onu risulta comunque chiaro che Netanyahu non aveva nessuna intenzione di includere fra i suoi ascoltatori anche il popolo iraniano, l’opinione pubblica di quel Paese o i suoi alleati, nonostante sapesse che, in un mondo di rapide e intense comunicazioni come il nostro, il suo discorso avrebbe potuto facilmente arrivare ai ceti colti dell’Iran e dei Paesi arabi.

 

Sembra infatti che Netanyahu e i suoi consiglieri considerino perduta in partenza la battaglia per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica iraniana, e questo contrariamente alla tradizione politica sionista che, fin dai suoi albori, si è rivolta ai cittadini arabi e ha continuato a farlo anche negli anni in cui la stampa scritta ed elettronica veniva bloccata dai regimi totalitari dei loro Paesi e del blocco sovietico.

 

I leader e i portavoce israeliani si indirizzavano alle popolazioni arabe per spiegar loro nel miglior modo possibile il retroterra storico del popolo ebraico, le sue battaglie, la sua presenza in passato in questa regione e molto altro ancora. E nonostante il perdurare di un muro di ostilità sembra che qualcosa sia filtrato nelle loro coscienze se si è giunti non solo agli accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania ma anche a quelli di Oslo e di Ginevra con i palestinesi.

 

Io non sono un esperto dei trucchi propagandistici della leadership iraniana ma ho l’impressione che ultimamente sia passata dall’ignobile negazione della Shoah al totale disconoscimento del passato storico degli ebrei in Medio Oriente. Il nostro primo ministro, però, forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si è dato la pena di citare concreti fatti storici. Ancora una volta ha optato per i cliché del Regno di Davide, delle promesse divine fatte nella Bibbia al popolo ebraico e del legame spirituale di quest’ultimo con la terra di Israele.

 

Non gli è venuto in mente, per esempio, di parlare dell’editto di Ciro, re di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadinejad e suscitato forse un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla profonda coscienza storica). Non gli è venuto nemmeno in mente di parlare della presenza millenaria di comunità ebraiche nelle nazioni del Medio Oriente tra cui, naturalmente, l’Iran, e di lodare persino l’atteggiamento di relativa tolleranza e rispetto dimostrato da questo Paese verso gli ebrei suoi residenti. Non gli è venuto in mente di parlare del riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Iran e della Turchia, due potenze musulmane, dopo la sua fondazione e del mantenimento dei rapporti diplomatici con esso per più di trent’anni. Non gli è venuto in mente di parlare degli israeliani di origine iraniana che hanno occupato, e ancora occupano, posizioni di primo piano nell’amministrazione civile e militare israeliana. E ai suoi consiglieri non è venuto in mente di suggerirgli di parlare della delegazione israeliana guidata da Lova Eliav rimasta per due anni nella regione iraniana di Qazvin negli Anni 60 per prestare soccorso alle vittime di un terribile terremoto.

 

Informazioni di questo tipo avrebbero potuto rappresentare una novità non solo per decine di rappresentanti di nazioni africane, sudamericane e asiatiche ma anche per gli stessi iraniani e per i palestinesi rimasti ad ascoltare le parole di Netanyahu. Informazioni di questo tipo avrebbero forse aiutato a confutare le affermazioni iraniane sulla nostra estraneità alla regione, più di riferimenti a promesse divine e al Regno di Davide.

E, in generale, perché assumere sempre il ruolo della vittima costretta a seminare minacce e avvertimenti? E perché rivolgersi soprattutto agli americani, come se Israele fosse davvero una loro succursale o, secondo le parole di uno dei ministri del Likud, una portaerei americana in Medio Oriente?

 

L’eccessiva «americanizzazione» del primo ministro israeliano è ormai più dannosa che utile. 

 da - http://www.lastampa.it/2012/10/01/cultura/opinioni/editoriali/netanyahu-deve-parlare-agli-iraniani-eKcW3qlHEAjLdWPPw6BgtN/index.html


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Perché serve un accordo con Hamas
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 12:12:49 pm
Editoriali
26/11/2012

Perché serve un accordo con Hamas

Abraham B. Yehoshua


Durante la guerra di Indipendenza del 1948 la Giordania bombardò la zona ebraica di Gerusalemme per diversi mesi, pose la città sotto assedio e impedì i rifornimenti di acqua e carburante. Centinaia di civili rimasero uccisi sotto le bombe eppure Israele non definì i giordani «terroristi» e dopo il cessate il fuoco fu avviato un negoziato tra le parti al termine del quale fu firmato un armistizio. 

 

Anche i siriani prima della guerra dei Sei Giorni bombardarono per anni la Galilea settentrionale uccidendo e ferendo molti civili. E un articolo della Costituzione del partito siriano Ba’ath prevede persino la distruzione di Israele. 

 

Eppure gli israeliani non hanno mai definito «terroristi» i siriani. Li hanno sempre chiamati «nemici» e negli anni hanno raggiunto vari accordi con loro, fra cui il disimpegno dei rispettivi eserciti dopo la guerra del Kippur. 

 

Gli egiziani guidati da Abdul Nasser proclamarono più volte di volere distruggere Israele, ed era questa la loro intenzione alla vigilia della guerra dei Sei Giorni. Eppure il dittatore egiziano non fu visto come un terrorista ma come un nemico.

 

Di più. Neppure i nazisti furono definiti terroristi. Commisero indicibili atrocità indossando un’uniforme e sottostando agli ordini di un governo riconosciuto. Sono stati i nemici più brutali nella storia dell’umanità ma non erano terroristi.

 

È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.

 

Oggigiorno Hamas è in controllo di un territorio, possiede un esercito, istituzioni governative, canali radiotelevisivi ed è riconosciuto da numerosi Paesi. Un’organizzazione responsabile di uno Stato dovrebbe essere definita «nemica», non «terroristica».

 

Ma perché è importante la terminologia? È solo una questione di semantica? Non esattamente. Con un nemico si può infatti instaurare un dialogo e concludere accordi anche parziali mentre tentare di dialogare con «un’organizzazione terroristica» non avrebbe senso e di certo non ci sarebbe nessuna speranza di accordo. Occorre pertanto legittimare il tentativo di stipulare un qualsivoglia accordo diretto con Hamas.

Non dobbiamo infatti dimenticare che i palestinesi saranno per sempre i nostri vicini e se non patteggeremo con loro una separazione ragionevole finiremo inevitabilmente per convivere in uno Stato binazionale, un’eventualità deleteria e pericolosa per entrambe le parti. Un accordo con Hamas è quindi importante non solo per normalizzare la situazione al confine con Gaza ma anche per creare la base di un eventuale Stato palestinese a fianco di quello israeliano.

 

Il regime di Hamas, eletto dopo l’evacuazione israeliana della Striscia di Gaza, mostra comunque preoccupanti segni di perdita del senso della realtà, di incapacità di comprendere ciò che è possibile e ciò che non è possibile. E le dure reazioni militari di Israele non solo non lo portano a rinsavire ma rafforzano il suo vittimismo aggressivo.

 

A cosa è dovuta la ferocia e la violenza di Hamas? Il fanatismo religioso è un fenomeno diffuso ma neppure un regime fanatico si esporrebbe alla reazione distruttiva di un esercito come quello israeliano, uno dei più forti al mondo.

 

Alla base del comportamento di Hamas c’è una contraddizione. Da un lato i suoi leader provano un giustificato senso di eroismo e di audacia per avere allontanato i coloni e l’esercito israeliano da Gaza, dall’altro avvertono una profonda frustrazione dovuta al duro isolamento imposto a una striscia di terra tanto stretta, distaccata non solo da Israele ma soprattutto dai palestinesi in Cisgiordania.

 

I leader di Hamas, incoraggiati dal successo del ritiro israeliano, ritengono di potere quindi cacciare i «sionisti» da tutti i «territori occupati», o per lo meno di costringerli a rimuovere il blocco. Non avendo fiducia nelle intenzioni di Israele, convinti che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania serva gli interessi di quest’ultimo e consapevoli che lo Stato ebraico non tenterà più di riconquistare e di governare la Striscia di Gaza, anziché cercare di risollevare l’economia del territorio, di fermare la violenza, di costruire una vita normale e di convincere gli israeliani a consentire alla popolazione libertà di movimento scelgono la strada che si è dimostrata efficace in passato: una costante aggressione.

 

Ma nonostante il recente cessate il fuoco le due parti non hanno la sensazione che la spirale di violenza si sia conclusa. Il comportamento di Hamas denota un istinto suicida che, con l’incoraggiamento scellerato dell’Iran, potrebbe portare altra distruzione e morte. Occorre perciò fare uno sforzo per instaurare un vero e proprio dialogo con i suoi leader. E come «un’organizzazione terroristica» quale l’Olp si è trasformata nell’Autorità palestinese così Hamas dovrebbe essere considerata non «un’organizzazione terroristica» ma il rappresentante di un governo con il quale, mediante negoziati diretti, si possa giungere a un accordo basato su quattro principi:

1. L’accettazione da parte di Hamas di una rigorosa supervisione internazionale sullo smantellamento dei lanciarazzi nella Striscia di Gaza.

2. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e l’Egitto.

3. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e Israele per un transito controllato di lavoratori palestinesi.

4. L’apertura graduale di un corridoio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania – in base alle norme stabilite a Oslo – perché venga ripristinata l’unità palestinese in vista di un negoziato con Israele.

 

L’Autorità palestinese non potrebbe infatti completare o concludere un accordo di pace con Israele senza la partecipazione attiva o passiva di Hamas. Una decisione su questioni nazionali di primaria importanza richiede un ampio consenso nazionale, come avviene in molti Paesi, tra i quali Israele. 

 

Il dialogo con Hamas e un graduale ripristino delle sue relazioni con la Cisgiordania sono quindi condizioni essenziali per il raggiungimento di un accordo che preveda due Stati per i due popoli e che porti all’arresto di un’avanzata lenta ma costante verso uno Stato binazionale. È questo ciò che spera la maggioranza della popolazione israeliana. 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/26/cultura/opinioni/editoriali/perche-serve-un-accordo-con-hamas-PgwZdYbJ2NjmaAc4UDsQVN/pagina.html


Titolo: Abraham B. Yehoshua Non sono terroristi ma solo nemici
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2014, 05:51:58 pm
Editoriali
13/07/2014
Non sono terroristi ma solo nemici
Abraham B. Yehoshua

Quando Israele fu fondato nel 1948 i giordani bombardarono Gerusalemme, la posero sotto assedio e uccisero centinaia di suoi cittadini. I combattenti della Legione Araba conquistarono i centri ebraici di Gush Etzion, in Giudea, trucidarono molti israeliani e assassinarono a sangue freddo numerosi prigionieri. Ma durante tutti quei mesi di guerra dura e brutale nessuno definì i giordani «terroristi». Erano «nemici». E malgrado lo spargimento di sangue ci furono contatti tra ufficiali israeliani e giordani per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e la firma di una tregua precaria, ottenuta nel 1949 grazie alla mediazione delle Nazioni Unite.

Prima della guerra dei sei giorni, nel 1967, i siriani bombardarono i centri abitati israeliani dell’alta Galilea, uccisero e ferirono non poche persone, eppure nessuno definì la Siria «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E Israele, ovviamente, non solo non lo riforniva di carburante ed energia elettrica ma, di quando in quando, inviava suoi emissari a incontrare i loro omologhi siriani per chiarimenti e colloqui circa un’eventuale tregua.

Fino alla guerra dei sei giorni gruppi di terroristi provenienti dall’Egitto seminarono morte negli insediamenti israeliani lungo il confine, ma anche in questo caso l’Egitto non venne definito «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E nonostante Egitto e Siria dichiarassero apertamente la loro intenzione di distruggere Israele il Primo Ministro israeliano, a ogni apertura dell’anno parlamentare, lanciava un appello ai loro leader perché avviassero colloqui per ripristinare la calma e raggiungere un accordo di pace.

Che cosa è successo dunque dopo il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, l’evacuazione degli insediamenti ebraici e il trasferimento del controllo della Striscia a Hamas che ci impedisce di definire il suo governo «nemico» e non «terrorista»?

Forse questo aggettivo è più incisivo di quello di «nemico»? Oppure suggerisce che, nel profondo del cuore, ancora vediamo la Striscia di Gaza come parte della Terra di Israele, un luogo dove abbiamo tentato senza successo di insediarci e al quale forse speriamo di tornare, e pertanto non consideriamo i suoi residenti come cittadini di uno Stato nemico ma come arabi israeliani fra i quali operano cellule terroristiche? O magari avvertiamo un senso di responsabilità verso la popolazione della Striscia di Gaza come non ci accadeva con gli abitanti di Siria o Egitto e per questo continuiamo a rifornirli di carburante, di elettricità e di cibo ma, al tempo stesso - e questa è la cosa più importante - ci rifiutiamo di proporre al governo di Hamas di negoziare con noi, come abbiamo fatto in passato con siriani, giordani ed egiziani?

 Tutte queste perplessità e complicazioni derivano forse dal timore che eventuali colloqui con Hamas per un cessate il fuoco e una stabile tregua possano «indebolire» Abu Mazen. Ma probabilmente i morti a Gaza indeboliscono ancora di più colui che si considera il leader del popolo palestinese. E anche supponendo che sia questa la nostra preoccupazione rimane la domanda perché non abbiamo approfittato del governo di unità nazionale palestinese recentemente istituito e di cui Hamas è membro per avviare un dialogo con questa organizzazione.

La profonda frustrazione di Hamas deriva, a mio parere, da una sostanziale mancanza di riconoscimento della sua legittimità agli occhi di Israele e di gran parte del mondo. Una frustrazione che lo porta a commettere devastanti atti di disperazione. Per questo è importante considerare Hamas almeno come un nemico legittimo, con il quale poter arrivare a un accordo o contro il quale combattere in uno scontro armato frontale, con tutto ciò che questo comporta. È così che abbiamo agito in passato con i Paesi arabi. Fintanto che definiremo Hamas una banda di terroristi che ha preso il sopravvento su una popolazione innocente non potremo fermare i bombardamenti nel Sud di Israele con un’adeguata reazione militare e, ancor più importante, non potremo negoziare apertamente con il suo governo per raggiungere un accordo graduale che comprenda una supervisione internazionale della rimozione dei missili da parte di Hamas e del blocco aereo, marittimo e terrestre della Striscia da parte di Israele, l’apertura dei valichi di frontiera per permettere il passaggio di lavoratori e quella di un eventuale, futuro corridoio di transito sicuro fra la Striscia e la Cisgiordania.

Ma se, diranno i più scettici, Hamas non vorrà negoziare apertamente con noi? In questo caso gli proporremo di farlo nell’ambito del governo di unità palestinese. E semmai dovesse rifiutare anche questa proposta allora lo combatteremo in maniera legittima, secondo le regole della guerra. 

Non dimentichiamo però che i palestinesi di Gaza saranno nostri vicini per l’eternità, come noi lo saremo per loro. Non guariremo questo ascesso sanguinante con discorsi sul terrorismo ma con il dialogo o con la guerra, scontrandoci con un nemico legittimo verso il quale non abbiamo rivendicazioni territoriali o nessun’altra pretesa che non sia quella di un cessate il fuoco.

Da - http://lastampa.it/2014/07/13/cultura/opinioni/editoriali/non-sono-terroristi-ma-solo-nemici-O3TIJYsciENMNTmPBDE2yN/pagina.html


Titolo: ABRAHAM B. YEHOSHUA Israele aiuti Gaza e se stessa
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2014, 11:09:58 pm
Israele aiuti Gaza e se stessa
09/09/2014

Abraham B. Yehoshua

Dopo lunghi giorni di duri scontri fra Israele e Hamas è arrivato il cessate il fuoco ed entrambe le parti si domandano (al di là delle vittorie e delle sconfitte, reali o immaginarie) se la guerra appena conclusa sia stata l’ennesimo, inutile conflitto nella serie di quelli avvenuti in Medio Oriente, o se possa essere una base per un nuovo e migliorato assetto politico. 

È possibile dare una risposta convincente a questa domanda nel caos turbinoso in cui si trova la regione? La morte e la distruzione causate da questa guerra ai residenti della Striscia di Gaza e, in misura minore agli abitanti di Israele, mi costringono a respingere il fatalismo di chi già predice un prossimo round di violenza e a provare a infondere, o forse a «creare», una possibile speranza. 

Una speranza semplice e senza pretese. Non mi aspetto, infatti, un accordo di pace tra Hamas e Israele. Piuttosto una convivenza tollerabile e soprattutto non violenta. Questa mia speranza si basa sul fatto che in questa guerra Israele, malgrado la sua grande supremazia militare, non ha ottenuto una vittoria inequivocabile. E nonostante i suoi leader, e in primo luogo il premier Netanyahu, cantino vittoria, sondaggi affidabili indicano che la maggioranza dei cittadini non sembra trovarsi d’accordo con le loro arroganti dichiarazioni.

 Molti esprimono delusione per un’operazione non portata a termine, o per una promessa non mantenuta. Ed è proprio questo senso di frustrazione a infondere speranza. In base all’esperienza passata ho infatti l’impressione che le guerre che si concludono senza una netta vittoria possano rappresentare un presupposto per un nuovo ordine di cose, non violento. 

 A Gaza hanno festeggiato la vittoria, è vero, ma queste celebrazioni, avvenute in un regime totalitario dove i cittadini non sono autorizzati a esprimere il loro vero parere e con un bilancio di migliaia di morti, di decine di migliaia di feriti, di centinaia di migliaia di sfollati e di case e infrastrutture distrutte, sono completamente assurde. Occorre inoltre considerare la posizione estremamente dura dell’Egitto verso Hamas, che ha costretto quest’ultimo ad accettare il cessate il fuoco senza che nessuna delle richieste per le quali aveva aperto il fuoco contro Israele sia stata soddisfatta. E la freddezza mostrata dai palestinesi di Israele e di Cisgiordania per la devastazione e i morti nella Striscia di Gaza rivela che lo spirito di solidarietà che Hamas si aspettava da loro non si è risvegliato. Per quei palestinesi, infatti, Hamas ha fomentato inutilmente il fuoco e trascinato la popolazione di Gaza in uno scontro duro e pericoloso senza un chiaro scopo. 

 

Ciononostante i miliziani di Hamas possono dire di aver combattuto con coraggio e, sebbene la maggior parte dei loro razzi siano stati intercettati dagli israeliani e non abbiano causato ingenti danni materiali, hanno comunque terrorizzato e sconvolto la popolazione e, in molti casi, paralizzato la vita di Israele. E questo potrebbe essere un motivo di orgoglio per una organizzazione piccola come Hamas. 

La cosa principale, però, è che Israele non solo non ha osato penetrare in profondità nella Striscia per conquistarla, ma ha anche stranamente dichiarato che non era sua intenzione rimuovere il regime di Hamas bensì solo indebolirlo, affinché bande armate senza una chiara identità o forze anarchiche incontrollate, analoghe a quelle che si aggirano oggi in Iraq e in Siria, non ne prendessero il posto. 

Se a tutto questo aggiungiamo che durante l’intero periodo degli scontri, mentre aerei e artiglieria israeliani martellavano Gaza e Hamas, da parte sua, non cessava di lanciare razzi sui centri abitati israeliani, giganteschi camion carichi di rifornimenti, di cibo e di beni di prima necessità entravano quotidianamente nella Striscia da Israele, non possiamo non constatare l’esistenza di un vincolo particolare dello Stato ebraico con i residenti di Gaza e di un suo chiaro senso di responsabilità nei loro confronti. Non riesco infatti a ricordare nessuna guerra in cui una delle parti, pur combattendo contro un nemico che non cessa di bombardarlo, continui a rifornirlo di viveri e di medicinali. 

Ed è proprio su questa assurda situazione che si basa la mia speranza per il futuro. Se infatti i contatti tra Israele e Gaza, malgrado la retorica dell’odio reciproco, non si sono interrotti nemmeno durante gli scontri a fuoco, il particolare senso di responsabilità di Israele potrebbe essere incanalato ora in direzioni positive, in primo luogo verso un’interruzione dell’isolamento della Striscia e un ripristino dei contatti fra i suoi abitanti e i palestinesi di Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp. Questo ripristino dovrebbe avvenire in maniera graduale, parallelamente alla progressiva smilitarizzazione della Striscia. L’isolamento degli abitanti di Gaza dai loro fratelli in Cisgiordania, dallo Stato di Israele (che in passato dava loro lavoro) e dall’Egitto (che ha voltato loro le spalle dopo l’ingerenza di Hamas negli affari interni del Paese durante il governo dei Fratelli Musulmani), è infatti alla base della loro furia suicida e delle tendenze violente che ormai hanno perso ogni freno. Ma dopo quest’ultima guerra i dirigenti di Hamas possono aspirare a stabilire un nuovo ordine di cose non da una posizione di resa e di sconfitta bensì da una di chi ha dato prova del proprio valore. E Israele ha capito che, nonostante la sua forza, non potrà sopportare un’altra estate dura e violenta come quella appena trascorsa. Soprattutto ora che l’Egitto e il governo di Abu Mazen hanno dimostrato di potergli garantire una mediazione equa per il raggiungimento di una pace a lungo termine. 

Una società occidentale, democratica e con un così alto livello di sviluppo economico come quella israeliana non può permettersi, a intervalli di pochi anni, di azzuffarsi con una collettività primitiva, isolata, povera e fanatica. Dovrebbe piuttosto cercare di aiutare quella collettività a risollevarsi, a ricostruire, e, come prima cosa, a uscire dall’isolamento.

Da - http://www.lastampa.it/2014/09/09/cultura/opinioni/editoriali/israele-aiuti-gaza-e-se-stessa-fAAFjZ6Kv9LgNLts8pu5RN/pagina.html