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Autore Discussione: ABRAHAM B. YEHOSHUA  (Letto 25349 volte)
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« inserito:: Luglio 24, 2008, 01:13:30 pm »

24/7/2008
 
Quello scambio coi morti
 
 
 
 
 
ABRAHAM YEHOSHUA
 
Negli ultimi mesi i media israeliani hanno ospitato accesi dibattiti sulla questione dello scambio di prigionieri con il Libano. Da una parte si sono schierati i propugnatori (e io fra loro) della restituzione dei corpi dei due soldati israeliani (rimasti probabilmente uccisi già nel primo giorno della seconda guerra del Libano) in cambio di alcuni prigionieri libanesi fra cui Samir Kuntar, detenuto nelle carceri israeliani per 29 anni.

Dall’altra risuonava imperiosa la voce di chi si opponeva a questo accordo, sia da un punto di vista politico che etico. Tale divisione non ricalcava il tradizionale dualismo politico, ossia la destra contraria allo scambio e la sinistra a favore. Anche personalità politiche e del giornalismo, solitamente di idee moderate, si sono espresse con grande veemenza contro la consegna di un assassino che aveva ucciso una bambina di quattro anni sotto gli occhi del padre (poi a sua volta trucidato) per riavere indietro cadaveri. Poiché il dibattito intorno allo scambio di prigionieri non è ancora concluso e Israele dovrà affrontare la domanda se è giusto e lecito liberare 400 prigionieri palestinesi (tra cui numerosi mandanti ed esecutori di sanguinosi attentati) in cambio di Gilad Shalit, il soldato rapito da Hamas a Gaza, vorrei prendere in esame la questione sia da un punto di vista politico che morale.

Quando i primi sionisti si stabilirono nella terra di Israele agli inizi del ventesimo secolo il numero degli ebrei qui presenti era risibile: meno dell’un per cento di quelli sparsi per il mondo. Gli ebrei, infatti, non si azzardavano a trasferirsi nella terra di Israele, tanto lontana e problematica, per prender parte all’avventura della creazione di uno stato ebraico indipendente. Vista la situazione i dirigenti sionisti presero un’importante decisione: chiunque si fosse stabilito nella terra di Israele avrebbe goduto di garanzie sociali e del sostegno economico della comunità. In altre parole avrebbe ottenuto rapidamente un lavoro fisso, goduto di una completa copertura sanitaria, di sussidi di disoccupazione, di garanzie di supporto sociale e di aiuto in caso di bisogno. Poiché gli ebrei erano, e continueranno a essere, in numero nettamente inferiore ai loro nemici, fu stabilita anche la regola secondo la quale ogni soldato ferito non sarebbe stato abbandonato sul campo di battaglia, ai corpi dei caduti sarebbe stata data una degna sepoltura e non si sarebbero risparmiati sforzi per ottenere la liberazione di prigionieri. Dopo la fondazione dello stato di Israele le norme che sancivano il sostegno della comunità a favore del singolo si tradussero in leggi e non furono più affidate, come durante la diaspora, alla buona volontà o alla compassione degli altri.

Per questo motivo gli scambi di prigionieri e di caduti tra Israele e gli stati arabi o i vari e numerosi gruppi armati palestinesi sono stati compiuti con la consapevolezza di dover accettare un forte squilibrio numerico. In cambio di uno o due ostaggi israeliani sono stati liberati centinaia di palestinesi, siriani o egiziani. Questa asimmetria appare però giusta e lecita alla società israeliana. Infatti non solo gli ebrei sono sempre stati numericamente inferiori ai palestinesi e agli arabi ma il valore della vita, ai nostri occhi, si è fatto immensamente più sacro e prezioso dopo la Shoah, le cui vittime, per lo più, non hanno mai avuto sepoltura. Proprio l’anonimato del grande massacro ha acuito e accresciuto la sensibilità verso la peculiarità del singolo, vivo o morto che sia.

Gli arabi, naturalmente, hanno capito questo stato di cose e in tutti gli scambi di prigionieri hanno avanzato pretese altissime, anche nel caso in cui l’accordo comportava la riconsegna di corpi di soldati israeliani in cambio di persone vive. Il dilemma in Israele non riguarda però la disponibilità a pagare un prezzo elevato per la liberazione dei prigionieri ma tre questioni di ordine morale.

1) I sentimenti dei familiari delle vittime dei prigionieri palestinesi in procinto di essere liberati.
2) La futura prevenzione di atti di terrorismo (la prospettiva di pesanti pene detentive come punizioni per i mandanti o i fautori di attentati potrebbe infatti non essere più un deterrente se costoro sanno di poter tornare presto liberi in scambi di questo tipo. Anzi, questa situazione potrebbe indurre gruppi terroristici a tentare nuovi rapimenti).
3) Il ritorno al terrorismo di alcuni prigionieri scarcerati dopo lunghi anni di detenzione, cosa che ha reso il loro rilascio particolarmente doloroso.

Il problema dei sentimenti delle famiglie colpite dal terrorismo è stato superato dalla società israeliana grazie al principio del sostegno reciproco. Nella maggior parte dei casi, infatti, quelle famiglie non hanno opposto resistenza allo scambio di prigionieri poiché si identificavano con i parenti degli ostaggi, fossero essi vivi o morti. Sono anche consapevoli che i loro cari non sono stati uccisi o feriti per motivi personali ma nella bufera della guerra e in un certo senso un cittadino israeliano rimasto vittima di un attentato terroristico non è diverso da chi cade colpito da una granata o da un missile.

Il secondo dilemma si pone più raramente giacché nella maggior parte dei casi è più facile per i terroristi uccidere che fare prigionieri, o rapire. Se quindi Israele si mostrerà più risoluto nel pretendere le prove che i prigionieri sono in vita, il prezzo dello scambio, per quanto lo riguarda, potrebbe diminuire.

In merito al terzo dilemma ritengo che sia il caso di stabilire a priori una pena particolarmente severa per quei terroristi che, una volta scarcerati, tornino a compiere attentati. Israele obbliga i prigionieri a firmare un documento secondo il quale essi si impegnano a non riprendere un’attività terroristica dopo la loro scarcerazione e, nella maggior parte dei casi, credo che questo impegno sia stato mantenuto. L’idea che dei terroristi che hanno agito per motivi ideologici siano dei criminali potenzialmente recidivi non è dunque corretta.

Non invidio i dirigenti israeliani chiamati a prendere decisioni difficili relative allo scambio di prigionieri. Ma se i principi che governano questo tipo di accordi saranno chiari - a loro e alla società israeliana - tali decisioni si renderanno accettabili sotto un profilo etico.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 24, 2008, 12:16:30 pm »

24/9/2008
 
Israele-Iran chi spegne la miccia
 
 
 
 
 
AVRAHAM B. YEHOSHUA
 
Con mio grande rammarico, nel resoconto fatto da Farian Sabahi (La Stampa di lunedì) di una conversazione telefonica intercorsa fra di noi circa un mese fa, ci sono alcuni errori. Non ho mai detto che l’Iran non è un pericolo per Israele. Ho detto invece che l’Iran è un pericolo non solo per Israele, il che fa una bella differenza. In effetti, durante tutta la conversazione, ho ripetuto e insistito sul fatto che la produzione della bomba atomica da parte dell’Iran costituisce un problema per tutta la zona del Golfo e per il Medio Oriente, e che potrebbe diventare anche un problema nel contesto dei rapporti fra il mondo islamico estremista e il resto del mondo. Per questo sono contrario a che Israele, il mio Paese – nonostante sia quello più direttamente e principalmente minacciato – si assuma il compito di un intervento militare tanto complesso come la distruzione delle centrali nucleari iraniane, rischiando con ciò una grave, violenta reazione.

Se, dopo la conquista dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, l’Iran ha davvero timore che la discutibile dottrina formulata da Bush in merito alla «ricostruzione dei popoli» possa metterlo di fronte al rischio di un’invasione americana mossa allo scopo di cambiare il suo regime, se questa fosse la ragione per cui l’Iran sta sviluppando il suo programma nucleare, in tal caso toccherebbe alla comunità internazionale dare all’Iran concrete garanzie che le cose non stanno così. A condizione, ovviamente, che l’Iran interrompa il suo programma di armamento nucleare. Non ho mai detto che gli Stati Uniti hanno già invaso altri Paesi del Medio Oriente, oltre all’Iraq.

In breve, quello dell’Iran è un problema internazionale, e non tocca a Israele risolverlo per conto del resto del mondo. Da questo punto di vista, le interviste rilasciate da Barack Obama offrono un’ottima disamina della questione: per un verso l’umiliazione concreta delle sanzioni internazionali imposte all’Iran, ma per l’altro anche la proposta di avvio di un dialogo altrettanto concreto fra Stati Uniti e Iran. Benché molti siano portati a un paragone automatico fra la Germania nazista e l’Iran khomeinista, io ancora penso che ci siano molte differenze. Perché l’Iran è consapevole che se attaccasse Israele, potrebbe confrontarsi con una reazione di ordine atomico. Perciò non si deve aver premura di accendere una miccia così temibile; si tratta invece di optare per sistemi più morbidi, più semplici, che possano risolvere o quanto meno mitigare il problema nucleare dell’Iran.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 30, 2008, 09:53:40 am »

29/12/2008 (7:36) - ANALISI

"Una tregua subito. Dobbiamo parlarci"
 
Venti di guerra soffiano nella Striscia di Gaza

Olmert si rivolga ai palestinesi: basta violenza

ABRAHAM B. YEHOSHUA


Ciò che sta avvenendo in queste ore nella Striscia di Gaza era quasi inevitabile. La brutalità con cui Hamas ha posto fine alla tregua non ha lasciato altra scelta a Israele.

Se non quella di ricorrere alla forza per porre fine ai massicci lanci di razzi (una settantina al giorno) sulle comunità civili nel Sud del Paese. Ma, per quanto la distruzione di centri di comando militari e l’eliminazione di alcuni capi di Hamas possa risultare efficace, la tranquillità non sarà ristabilita se Israele non proporrà subito generose condizioni per una nuova e prolungata tregua. Oltre a trattative indirette per una rinnovata interruzione delle ostilità le autorità israeliane dovrebbero rivolgersi ai cittadini della Striscia di Gaza, lanciar loro un appello che provenga direttamente dal cuore. Dichiarazioni ufficiali non mancano, ma mai i leader israeliani si sono rivolti alla popolazione palestinese. Ciò che io propongo qui è un appello che il primo ministro Olmert dovrebbe rivolgere con urgenza proprio ora, mentre il fuoco divampa su entrambi i lati del confine, agli abitanti della Striscia di Gaza. Mi rivolgo a voi, residenti di Gaza, in nome di tutta la popolazione israeliana.

A voi, uomini e donne, commercianti, operai, insegnanti, casalinghe, pescatori. Gente di città e di paese, residenti in villaggi e in campi profughi. Prima che vi siano nuovi spargimenti di sangue, prima che altri, voi o noi, conoscano devastazione e dolore, vi prego di darmi ascolto. Vi chiedo di far cessare la violenza, di aiutarmi a convincere i vostri leader che ci sono altri modi per stabilire rapporti di buon vicinato. Le nostre città sono contigue alle vostre. Dietro il reticolato che le separa vediamo operai e contadini che lavorano la terra, camion che trasportano merci, bambini che vanno a scuola. E lo stesso è per voi. Potete scorgere facilmente i nostri agricoltori nei campi, i bambini che vanno a scuola, le casalinghe che escono a fare la spesa. Saremo vicini in eterno, le cose non cambieranno. Voi non riuscirete a cacciarci da qui, a cancellare la nostra esistenza, e nemmeno noi la vostra (e neppure lo vogliamo). Per parecchi anni abbiamo mantenuto rapporti attivi. I vostri operai arrivavano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri campi. Non solo in centri a voi vicini ma anche nelle grandi città - a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Natanya.

I nostri commercianti e industriali si recavano da voi per acquistare prodotti agricoli, erigere nuove fabbriche alla periferia di Gaza. Per parecchi anni abbiamo mantenuto un articolato sistema di scambi che ha portato beneficio a entrambe le parti. Tre anni fa abbiamo evacuato i nostri concittadini, smantellato le nostre basi militari e raso al suolo, su vostra richiesta, i pochi insediamenti che avevamo nella Striscia di Gaza. L’occupazione di quella regione è completamente cessata. Ci siamo ritirati oltre il confine internazionale riconosciuto da tutto il mondo: quello antecedente la guerra del 1967. Credevamo che dopo questo sarebbe iniziato un periodo di sviluppo e di ricostruzione. Che avreste ricostituito un sistema amministrativo e che, un giorno, a tempo debito, vi sareste ricollegati, tramite un corridoio sicuro, ai vostri confratelli in Cisgiordania per creare uno Stato palestinese indipendente che noi tutti crediamo e vogliamo che sorga e che ci siamo impegnati a riconoscere in ambito internazionale. Ma anziché l’agognata tranquillità sono arrivati razzi che hanno seminato distruzione e morte nelle nostre città e nei nostri villaggi. Anziché opere di edilizia e di ricostruzione abbiamo assistito a un riarmo senza precedenti. E quelle armi sono state puntate contro di noi.

C’è tra voi chi ci spara addosso razzi e granate in cambio di somme di denaro elargite da Stati e organizzazioni che vogliono la nostra distruzione. E voi, gente di Gaza, pagate le conseguenze delle nostre reazioni con la sofferenza e la distruzione delle vostre case. Non vogliamo combattervi, non vogliamo tornare a governarvi. Ce ne siamo andati per non tornare più. Sappiamo che sarete voi, civili innocenti, donne e bambini, residenti dei campi profughi, operai e commercianti, a pagare il prezzo di un’eventuale, malaugurata guerra.

Ma dovete capite che non abbiamo scelta. Non possiamo continuare a sopportare i lanci di razzi Qassam sui nostri cittadini indifesi. Sta a voi, cittadini di Gaza, appellarvi ai vostri governanti perché mettano fine al lancio di razzi e accettino una vera tregua, prolungata, durante la quale verranno aperti i valichi di confine, sarà permesso il passaggio di merci e, col tempo, gli operai di Gaza potranno tornare a lavorare in Israele. Invece di manifestare a favore di irrealizzabili sogni di distruzione e di vendetta, uscite nelle strade e chiedete la fine della violenza, chiedete che i vostri figli, e i nostri, possano vivere sicuri su entrambi i lati del confine. Chiedete la vita e non la morte.


Traduzione di A. Shomroni
da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 24, 2009, 04:58:57 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:45:24 am »

6/1/2009
 
Tregua, subito
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 

Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.

Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso.
Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina.

A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza.

Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi.

Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile.

È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare.

(Traduzione di A. Shomroni)
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 18, 2009, 11:46:41 am »

18/1/2009
 
Noi ebrei e i razzi di Gaza

 
ABRHAM B. YEHOSHUA
 

Caro Gideon,
negli ultimi anni ero solito telefonarti per complimentarmi per i tuoi articoli e reportage sulle ingiustizie, i soprusi, gli espropri, le angherie e le sopraffazioni commessi nei Territori occupati sia dall’esercito israeliano sia dai coloni. Non ti domandavo come mai non ti recavi anche negli ospedali israeliani per riferire le storie dei civili rimasti coinvolti in attentati terroristici. Accettavo la tua posizione che ci sono abbastanza giornalisti che svolgono questo tipo di lavoro mentre tu ti eri assunto l’impegno di mostrare la sofferenza dell’altra parte, dei nostri nemici di oggi e vicini di domani. Ed è in considerazione di questa stima nei tuoi confronti che ritengo giusto reagire ai tuoi recenti articoli sulla guerra in corso, perché la tua voce possa continuare a serbare l’autorità morale che la contraddistingue.

Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera. Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare. Non ricevetti da te alcuna risposta. I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco.

Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi abitanti (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile. Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio. Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni.


Lettera a Gideon Levi, amico e giornalista di Haaretz, che ha aspramente criticato Israele proponendo che i suoi leader vengano giudicati per crimini di guerra davanti a un tribunale internazionale.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 14, 2009, 12:09:06 pm »

14/2/2009
 
La destra fa bene a Israele
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 

Europei e americani interessati ai problemi del Medio Oriente non possono analizzare e comprendere i risultati delle ultime elezioni in Israele unicamente in base al solito criterio: sinistra opposta a destra, colombe che sostengono il processo di pace e la formula «due Stati per due popoli» contro falchi che lo osteggiano.

Più che in molti altri Paesi, infatti, in Israele i conflitti politici e ideologici non rispecchiano soltanto i rapporti di forza e i contrasti su opinioni e valori interni alla società israeliana, ma sono significativamente influenzati dalle posizioni e dall’atteggiamento degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare. Il successo della destra israeliana alle recenti elezioni è dunque anche dovuto all’aggressività di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano dopo il ritiro unilaterale da quelle zone operato dai governi di centro-sinistra. Ironicamente, si potrebbe affermare che queste organizzazioni terroristiche potrebbero reclamare un posto nella futura coalizione di Netanyahu per il «lavoro» svolto a suo favore negli ultimi anni. Sarebbe quindi un errore pensare che la svolta a destra dell’elettorato israeliano segni un ribaltamento ideologico. Tutto sommato è più questione di Stato d’animo che di ideologia.

Da 42 anni sono schierato a sinistra. Dalla guerra dei Sei giorni sostengo il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese entro i confini del 1967. Dalla metà degli Anni 70 riconosco gli esponenti dell’Olp come i rappresentanti del popolo palestinese e asserisco la necessità di condurre un negoziato di pace con loro a patto che riconoscano lo Stato di Israele.

Posso dunque testimoniare che l’intero sistema politico israeliano è in continuo e lento movimento verso le posizioni di pace della sinistra. Non dimentichiamo che fino a una decina di anni fa anche Tzipi Livni e molti esponenti di Kadima erano membri del Likud e sostenitori dell’ideologia del «Grande Israele» prima di moderare le loro convinzioni. E al di là delle sue posizioni razziste e nazionaliste anche «Israel Beitenu» di Avigdor Lieberman, partito sostanzialmente laico, è a favore di concessioni territoriali ai palestinesi, non tanto come riconoscimento dei loro diritti ma per limitare il loro numero entro i confini di Israele. Quindi, malgrado il rammarico e l’amarezza per la svolta a destra dell’elettorato israeliano, occorre capire che questo risultato è determinato più dall’umore della gente che da ferme convinzioni ideologiche.

Nel 2003 un nuovo partito denominato «Shinui», assertore di un’ideologia strenuamente antireligiosa, aveva ricevuto l’ampio sostegno degli elettori in un periodo in cui i ricatti politici dei partiti religiosi indisponevano molti di loro. Questo partito nel frattempo è sparito dal panorama politico e il suo posto è stato preso dalla formazione di ultradestra di Lieberman che mescola scaltramente laicità e nazionalismo e gode del favore di numerosi israeliani di origine russa. Nel 2006 era stato il turno di un bizzarro partito per i diritti dei pensionati, completamente scomparso dopo il voto dell’altro ieri, di ottenere non pochi seggi in Parlamento.

Gli israeliani non sono dunque autonomi nelle loro decisioni ma interagiscono con chi li circonda e dipendono dalle posizioni e dalle azioni dei loro nemici. Talvolta la loro reazione ad ansie e timori è giustificata, talaltra eccessiva, ma sempre contrassegnata da un senso di sfiducia di base. Ciò che avviene in Israele dipende inoltre dalle posizioni del governo degli Stati Uniti e dalle promesse della comunità europea di garantire la sicurezza dello Stato ebraico.

Quindi, nonostante i comprensibili timori per il rafforzamento della destra, non dobbiamo dimenticare che il nuovo governo americano e la comunità europea hanno la forza, il dovere e anche il diritto di spingerci verso grandi concessioni sia sul tema della pace con la Siria sia su quello della creazione di uno Stato palestinese. E come nel caso dell’accordo di pace con l’Egitto, siglato nel 1979 da un leader storico della destra, Menachem Begin, è forse più opportuno che sia un esecutivo di destra, supportato dalle fazioni di sinistra della Knesset, a fare future concessioni piuttosto che un governo composto unicamente da partiti di sinistra.

(Traduzione di A. Shomroni)
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 24, 2009, 04:58:35 pm »

24/3/2009
 
Israele voltafaccia a sinistra
 
AVRAHAM B. YEHOSHUA
 
Il risultato delle recenti elezioni ha rappresentato un duro colpo per entrambe le ali della sinistra israeliana: quella più moderata del partito laburista, compartecipe negli ultimi anni delle coalizioni di governo di Sharon e di Olmert e i cui leader sono stati ministri della Difesa durante la seconda guerra del Libano e l’ultima operazione a Gaza, e quella del piccolo partito di opposizione Meretz.

I laburisti, da decenni al centro della vita politica israeliana e il cui mitico leader, David Ben Gurion, è stato fondatore e primo ministro di Israele, hanno perso negli ultimi tempi la fiducia dei propri elettori. Tale defezione non è dovuta a una radicalizzazione del loro programma politico o alla corruzione dei loro dirigenti, ma a una tendenza diffusa a voltare le spalle ai partiti della sinistra che ha portato i laburisti a perdere quasi un terzo dei voti e a ottenere a malapena il dieci per cento dei seggi alla Knesset.

Il piccolo partito di opposizione Meretz, a dispetto del mio voto, ha fatto registrare un risultato ancora più deludente. All’epoca del governo Rabin, più di quindici anni fa, il Meretz poteva contare sul dieci per cento dei seggi in Parlamento mentre nelle ultime elezioni ne ha ottenuto solo il due per cento, nonostante da anni non faccia parte di nessuna coalizione e non abbia responsabilità di sorta in insuccessi politici. Per anni, e con grande impegno, il Meretz ha tenuto alto il vessillo della pace e del compromesso e i suoi rappresentanti non sono mai stati coinvolti in scandali pubblici. Eppure, sebbene questo piccolo partito condensi il buono e il bello di Israele, alle ultime elezioni ha ottenuto solo tre seggi alla Knesset.

Quali sono i motivi di questa débâcle? Da un lato la sinistra israeliana va fiera del fatto che gli ideali per i quali ha lottato per anni, ovvero il riconoscimento del diritto dei palestinesi a uno Stato che coesista in pace e in sicurezza a fianco di quello israeliano, sono ora accettati da gran parte dell’opinione pubblica. Dall’altro, proprio la sinistra propugnatrice di questi ideali perde l’appoggio dell’elettorato e viene abbandonata persino da vecchi sostenitori.

Una delle spiegazioni di questa sconfitta viene indicata nella scelta degli elettori tradizionali della sinistra di votare Kadima, un partito composto per lo più da ex esponenti della destra, Tzipi Livni in testa, per arginare l’avanzata della destra radicale di Benyamin Netanyahu. Ma tale spiegazione, a mio parere, è puramente tecnica. Un voto mirato ad «arginare» la destra radicale non rispecchia il profilo socio-intellettuale degli elettori di Meretz, in gran parte persone istruite, sorrette da una precisa ideologia, appartenenti ai ceti medio alti e con un’ampia e profonda visione politica. Era infatti apodittico che l’incarico di formare una coalizione di governo non sarebbe stato affidato al leader del partito che avesse ottenuto il maggiore numero di voti ma a quello della coalizione con le migliori chance di costituire un esecutivo. E un voto a sinistra avrebbe comunque rafforzato il blocco guidato da Tzipi Livni.

Ritengo che il drammatico voltafaccia degli elettori della sinistra sia probabilmente di origine emotiva. Senza rinunciare alle speranze di pace, molti di loro hanno espresso in questo modo la disapprovazione verso il tono cinico, lamentoso e ferocemente critico nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni recentemente adottato da portavoce e giornalisti della sinistra (soprattutto da quelli di Haaretz, il più importante quotidiano liberale di Israele). Durante l’ultima operazione a Gaza molti di loro non hanno esitato a bollare i loro connazionali come «criminali di guerra» e ad accogliere le posizioni dei palestinesi senza muovere alcuna critica verso le loro aggressioni. Nell’opinione pubblica si è diffusa la sensazione che tali personaggi avessero perso il naturale senso di solidarietà col loro popolo e soprattutto con gli abitanti del Sud di Israele, bersagliati dal fuoco di Hamas dalla striscia di Gaza.

Talvolta sembrava che i loro attacchi velenosi non fossero rivolti a questa o quella decisione del governo ma si unissero alle critiche della sinistra mondiale verso la legittimità stessa di Israele. La negazione dell’ideale di uno Stato ebraico è infatti comune a circoli religiosi ultraortodossi e alla sinistra antisionista. Le fasce più deboli della società israeliana hanno spesso criticato la sinistra nei seguenti termini: voi vi preoccupate più degli arabi che di noi. Tali critiche sono state puntualmente respinte. Per la prima volta però ho la sensazione che alcuni miei vecchi amici, accantonato l’impegno della lotta ideologica a favore di «due stati per due popoli», principio ormai generalmente accolto, mantengano una carica di energia polemica non ben finalizzata e abbiano cominciato a lanciare fuoco e fiamme contro le fondamenta stesse dello Stato.

Io personalmente non ho fatto dietrofront, non ho cambiato opinione e alle ultime elezioni ho votato, come tradizione, per il piccolo Meretz. Ritengo però che se la sinistra israeliana non vuole scomparire alle prossime elezioni deve farsi un approfondito esame di coscienza, non solo a livello politico e organizzativo ma anche a livello emotivo e spirituale.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 11, 2009, 09:39:02 am »

11/5/2009
 
La mediazione di Benedetto
 
 

ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
E’ la terza volta che un Pontefice visita Israele. Questa visita però non potrà assomigliare a quella di dieci anni fa di Giovanni Paolo II, un Papa amato da tutti, anche nello Stato ebraico, per le sue vicende personali durante la Seconda guerra mondiale, per il contributo spirituale al movimento polacco Solidarnosc e per la sua personalità che irradiava umanità. Papa Benedetto XVI irradia altro. In primo luogo incarna la figura di un teologo, di un intellettuale che talvolta, molto poco politicamente, palesa coraggio e onestà ma talaltra cade in malintesi storico-politici come nel caso della revoca della scomunica al vescovo negazionista.

Non sono ovviamente un esperto dei meandri della politica vaticana, ma se mi venisse chiesto quale messaggio mi aspetti dalla visita di Benedetto XVI in Israele, al di là delle esternazioni generiche che ogni leader fa in merito alle speranze di pace, alla condanna della violenza e alla solidarietà verso i poveri e i sofferenti, elencherei almeno tre punti.

Primo. Da un Papa di origini tedesche mi aspetterei che durante la visita al memoriale della Shoah «Yad Vashem» a Gerusalemme si esprimesse in maniera ferma e significativa sulla debolezza morale e il tradimento teologico della Chiesa cattolica e dei cristiani in genere di fronte al fenomeno del nazismo e del fascismo in Europa, e non solo in relazione al genocidio degli ebrei. Anche se non si fossero accaniti contro gli ebrei, Hitler e il nazismo, nel pensiero e nell’azione, erano una sorta di incarnazione dell’Anticristo e i cristiani, ovunque nel mondo, e di certo la Chiesa cattolica in tutti i suoi substrati e sotto la guida del Pontefice, avrebbero dovuto combatterli con tutte le loro forze. Non ho dubbi che se Gesù fosse vissuto nella Germania degli Anni 30 sarebbe stato il più strenuo oppositore del nazismo. E il fatto che i cristiani tedeschi e del mondo intero non abbiano preso una netta posizione contro questo fenomeno è in primo luogo un segno di debolezza e di fallimento teologico, non solo morale. A mio parere sono passati abbastanza anni da allora e la Chiesa è sufficientemente sicura di sé perché un Papa «teologico» quale Ratzinger si esprima su questo argomento nel luogo più appropriato per farlo, il memoriale Yad Vashem di Gerusalemme.

Secondo. Vorrei che la visita del Papa rafforzasse non solo su un piano umano ma anche teologico la posizione in Terra Santa degli arabi cristiani, i quali, indipendentemente dalla comunità o etnia di appartenenza, si ritrovano negli ultimi anni schiacciati tra l’integralismo musulmano e quello ebraico e scelgono purtroppo spesso di emigrare verso le nazioni europee o gli Stati Uniti. I palestinesi cristiani non si sono mostrati meno patrioti dei loro fratelli musulmani. Per anni sono stati a capo del movimento nazionale palestinese e lo hanno rappresentato anche al parlamento israeliano con fedeltà e saggio pragmatismo. I cristiani vivevano in Terra Santa già molti anni prima della conquista araba musulmana ed è dunque molto importante, anche per gli israeliani, che lo status di questa comunità venga riaffermato, sia in Israele sia nei territori dell’Autorità palestinese. I palestinesi di fede cristiana rappresentano in genere il settore più progredito e liberale di questo popolo, e non possiamo permettere, né a musulmani né a ebrei estremisti, di limitare la loro libertà d’azione. Non è possibile comprendere l’essenza dell’ebraismo senza capire anche il principio teologico alla base del distacco del cristianesimo da esso. Ebraismo e cristianesimo sono religioni sorelle che, benché per secoli antagoniste, hanno esercitato una profonda influenza l’una sull’altra. La presenza di cristiani all’interno dello Stato ebraico è dunque importante, a mio vedere, non solo per il cristianesimo ma anche per l’ebraismo stesso.

Terzo. L’ultimo punto attiene ai luoghi sacri di Gerusalemme. Non vi sarà pace tra israeliani e palestinesi senza che questa città torni a essere divisa, eppure la città vecchia, racchiusa entro le mura e con un’alta concentrazione di luoghi sacri all’ebraismo, all’Islam e alla cristianità, non potrà mai essere ripartita in zone sovrane. I luoghi sacri sono infatti contigui gli uni agli altri e l’imposizione di confini politici trasformerebbe quest’area di nemmeno un chilometro quadrato in un conglomerato di check point e di posti di blocco. L’unica soluzione sarebbe dunque una «vaticanizzazione» della città vecchia, ovvero l’abrogazione di ogni governo nazionale e la costituzione di un’autorità comune alle tre religioni. I cristiani dovrebbero mostrarsi più attivi e partecipi nel pretendere una soluzione in questo senso, impedendo a palestinesi e israeliani di accapigliarsi vanamente per ogni pietra e vicolo. Su questo punto il Papa potrebbe non solo esprimersi con chiarezza ma anche proporre l’esperienza e il modello vaticano al fine di convincere le due parti (soprattutto quella israeliana) a muoversi in questa direzione. È vero che il Papa è il rappresentante soltanto dei cattolici, ma in merito a questo problema potrebbe parlare a nome di tutti i cristiani del mondo. Questo è ciò che mi attendo dalla visita di Benedetto XVI, perché rimanga impressa nella coscienza collettiva e non venga dimenticata a breve come quella di molti altri leader che vanno e vengono in questa regione in un incessante viavai.

 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:38:25 pm »

5/6/2009
 
L'amico che vorrei a fianco
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
Da cosa si riconosce un vero amico? Dal fatto che chi si definisce tale crede e ha fiducia in te, si preoccupa dei tuoi veri bisogni, anche a lungo termine, ti indica onestamente i tuoi errori e cerca di aiutarti a correggerli. Questo è l’amico che vorrei al mio fianco. Non chi approva automaticamente qualunque cosa io faccia, dichiara il suo amore per me e mi accetta così come sono. A partire dalla grande vittoria militare di Israele nel 1967, quando venne respinta la grave minaccia militare rappresentata da Egitto, Siria e Giordania che proclamarono apertamente di volere distruggere lo Stato ebraico e concentrarono grandi eserciti lungo il suo confine, Israele è precipitato in un vortice ideologico e militare innescato dalla conquista di vasti territori durante quel conflitto.

Doveva considerare fin dal principio quelle regioni come merce di scambio e indurre il mondo arabo e i palestinesi a cercare la pace. E invece Israele - vuoi per sfiducia nei confronti delle vere intenzioni dei suoi nemici e del loro impegno a rispettare fedelmente un’eventuale intesa di pace, vuoi per la sua aspirazione ad annettersi quei territori (soprattutto quelli con un significato storico e religioso) - ha iniziato una politica di insediamenti e creato una realtà difficile da sovvertire.

Tali comunità civili erano, e sono tuttora, irrilevanti per la sicurezza dello Stato ebraico. Al contrario. Poiché ubicate nel cuore della popolazione palestinese sono obiettivo di attacchi terroristici e richiedono speciali misure di difesa e l’impegno di ingenti forze militari in compiti di sorveglianza e pattugliamento. Anche sulle alture del Golan, dove non c’è una presenza siriana, i centri ebraici situati a pochi chilometri da enormi concentrazioni di truppe siriane rappresentano un intralcio poiché, in caso di guerra, l’esercito israeliano si vedrebbe costretto ad evacuarli rapidamente, come è avvenuto nella guerra del Kippur nell’ottobre del 1973.

Gli insediamenti israeliani acuiscono dunque l’odio dei palestinesi verso Israele. Infatti, oltre a occupare le loro terre, a sfruttare le loro risorse idriche e a imporre limiti alla loro libertà di circolazione, essi simboleggiano la volontà dello Stato ebraico di restare, la sua riluttanza a concedere l’indipendenza al popolo palestinese, anche qualora questi ne riconoscesse la legittimità e si mostrasse disposto a una convivenza pacifica.

Israele ha investito grandi risorse finanziarie in quegli insediamenti, spesso ignorando importanti bisogni interni o lo sviluppo di centri abitati entro la linea verde. I coloni, in gran parte sostenitori di movimenti e partiti religiosi-nazionalisti, ostentano sovente un atteggiamento di superiorità nei confronti delle autorità israeliane, pretendono uno status speciale non solo rispetto ai palestinesi ma anche rispetto agli altri cittadini israeliani e, come possiamo renderci conto in questi giorni, c’è chi, fra loro, nemmeno riconosce più l’autorità giuridica dello Stato israeliano. Ciò che è difficile da accettare, ed è fonte di preoccupazione, è che se quegli insediamenti continueranno ad ampliarsi la soluzione di due Stati per due popoli sarà compromessa e, prima o poi, tra il Giordano e il Mar Mediterraneo si estenderà un unico Stato popolato da due etnie che, in ragione della crescita demografica palestinese, a poco a poco si trasformerà in uno Stato a maggioranza palestinese. Una ricetta sicura per la fine di Israele.

La maggior parte degli israeliani ha ormai compreso tutto ciò eppure, come un tossicodipendente schiavo della droga, non è in grado di dire: basta, abbiamo commesso un errore a cui occorre porre rimedio prima che sia troppo tardi. È vero, quando fu firmato l’accordo di pace con l’Egitto coloni ebrei furono evacuati a forza dai territori del Sinai. E quando la situazione delle comunità civili ebraiche della Striscia di Gaza divenne insopportabile il leader della destra Ariel Sharon sgomberò a forza novemila coloni che vivevano frammisti a un milione e mezzo di palestinesi: un evento traumatico che ha lasciato cicatrici in entrambe le parti. Ma in Cisgiordania vivono 250.000 israeliani e la loro evacuazione potrebbe innescare una guerra civile.

Tutti gli Stati del mondo disapprovano gli insediamenti israeliani sorti dopo la Guerra dei Sei giorni, e fra questi gli Stati Uniti. Eppure, malgrado in passato i governanti a Washington abbiano avuto l’opportunità di far valere la loro influenza, hanno preferito permettere a Israele, Stato alleato e amico, di fare ciò che voleva. È arrivato il momento della verità ed è un bene che un leader saggio e coraggioso quale Barack Obama che (non ne ho alcun dubbio) ancor prima che il rafforzamento della sua nazione agli occhi del mondo musulmano vede il bene di Israele e la sua sicurezza, proclami: basta, voi non fate che del male a voi stessi, danneggiate il vostro futuro. Pur non credendo a una genuina volontà di pace dei palestinesi, alla loro capacità di tenere a bada le organizzazioni terroristiche e a una sincera rinuncia alla pretesa del diritto del ritorno dei profughi, potete sempre garantire la vostra sicurezza grazie a una presenza militare nei territori palestinesi ed evitare di pregiudicare un’eventuale pace e la creazione di due Stati con ulteriori ampliamenti di insediamenti comunque inutili.

Con un appello tanto diretto e chiaro al governo israeliano non solo il Presidente statunitense ha espresso ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore ma ha dato prova della sua profonda amicizia con lo Stato ebraico.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Giugno 18, 2009, 10:19:40 am da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Giugno 18, 2009, 10:19:14 am »

18/6/2009
 
La pretesa inutile di Israele
 
 
AVRAHAM B. YEHOSHUA
 
Da più di quarantadue anni, a partire dalla Guerra dei Sei Giorni, un esiguo numero di israeliani, e non tutti di sinistra, ha sostenuto l’ideale di due Stati, israeliano e palestinese, come soluzione imprescindibile del conflitto mediorientale.

La maggioranza dei loro concittadini ha rifiutato questa soluzione in passato, così come i palestinesi. Per parecchi anni gli israeliani si sono chiesti innocentemente: chi sono mai questi palestinesi per avere uno Stato? E questi ultimi, di rimando: gli ebrei non sono che una comunità religiosa sparsa per il mondo. Perché mai dovrebbero possederne uno loro?

Molta acqua è passata sotto i ponti prima che questa soluzione cominciasse a filtrare negli ambienti politici e ideologici israeliani e palestinesi, sia su un piano morale che pratico. È vero, riconoscere a parole questo principio non ha ancora portato alla creazione di uno Stato palestinese e spesso gli eventi sono stati d’intralcio nel realizzare questa aspirazione. Ma sia israeliani che palestinesi hanno cominciato ad abituarsi a questa espressione, «Stato palestinese», e chi fra loro ne ha abbracciato l’ideale ha ottenuto sostegno e lustro sul piano internazionale.

Dopo i laburisti Peres, Rabin e Barak, si sono registrati i primi tentativi degli esponenti del Likud - Tzipi Livni, Ehud Olmert e Ariel Sharon - a muoversi in questo senso. Ed ecco che ora, dal baluardo della destra, è il turno di Benjamin Netanyahu. Ci si può quindi congratulare esclamando: meglio tardi che mai.

Noi tutti siamo consapevoli che il cammino verso la realizzazione di questo sogno è irto di difficoltà e ostacoli, sia da parte palestinese che israeliana. Ritengo che alcune delle condizioni poste dal primo ministro nel suo discorso tenuto all’università di Bar Ilan siano necessarie, altre invece sono inutili e complicano ancora di più una situazione già di per sé problematica e complessa. La pretesa di una smilitarizzazione del futuro Stato palestinese è necessaria, ragionevole e indispensabile e chiunque dia un’occhiata a una mappa geografica della regione può capirla e giustificarla. Anche l’Egitto, nazione grande e indipendente, accettò a suo tempo la smilitarizzazione del Sinai. Smilitarizzazione che rappresenta uno degli elementi fondamentali alla stabilità della pace con Israele. E paesi grandi e importanti quali il Giappone, la Germania e l’Austria sono soggetti da decenni a limitazioni nell’acquisto di armamenti ed equipaggiamento militare.

E pure la negazione del ritorno dei profughi palestinesi entro i confini di Israele è comprensibile, logica e giusta. Che senso avrebbe infatti riportare milioni di palestinesi in uno Stato il cui carattere e i cui simboli sono a loro estranei? Dove la maggior parte dei cittadini appartiene a un’etnia diversa dalla loro? A case e a terre che di fatto non esistono più? Quei profughi potrebbero viceversa stabilirsi in Palestina, loro madrepatria, tra loro concittadini, sotto la bandiera e l’autorità palestinese e a una distanza di soli trenta o trentacinque chilometri dalle case e dalle terre che abbandonarono, o da cui furono cacciati, più di sessant’anni fa.

Ma la condizione posta da Netanyahu che i palestinesi riconoscano il diritto del popolo ebraico di possedere uno Stato, o l’esistenza della nazionalità ebraica, è del tutto arbitraria. A mio parere è infatti superfluo chiedere ai palestinesi di riconoscere la nazionalità di un popolo che vanta una storia millenaria e il cui Stato mantiene rapporti diplomatici con più di centocinquanta paesi. Una simile pretesa non fu avanzata né verso l’Egitto né verso la Giordania e costituisce un ostacolo del tutto inutile. Sarebbe più che sufficiente chiedere ai palestinesi di riconoscere la legittimità di Israele, uno Stato la cui identità territoriale e politica è nota a tutti. Anche noi, da parte nostra, riconosceremo non tanto il popolo palestinese, che un domani potrebbe fondersi con quello giordano, quanto uno Stato palestinese sovrano e indipendente entro i confini del 1967.

La questione della nazionalità ebraica è infatti complessa anche per gli ebrei stessi, giacché molti di loro si considerano tali esclusivamente da un punto di vista religioso, e il rifiuto dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico è motivato altresì dalla presenza di una minoranza palestinese all’interno dei suoi confini. Ecco, dunque, un altro buon motivo per accantonare questa pretesa. I rapporti tra la maggioranza ebraica e la minoranza palestinese sono una questione interna, delicata, nella quale non ritengo sia il caso di coinvolgere i palestinesi al di fuori di Israele. Per più di sessant’anni la maggioranza ebraica e la minoranza araba sono riuscite a convivere in maniera accettabile affrontando con relativa dignità l’inferno del terrorismo e dell’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Con l’avvento della pace noi tutti speriamo che questo legame si rinsaldi intorno alla comune cittadinanza israeliana.

In conclusione: nel negoziato per la creazione di uno Stato palestinese non mancheranno problemi e ostacoli. Concentriamoci quindi nel risolvere quelli principali - smilitarizzazione, insediamenti, confini e profughi - e lasciamo che la realtà della pace metta in ombra, o rimandi a un futuro più lontano, la soluzione di quesiti di natura teologica e storica.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 21, 2009, 11:08:11 pm »

21/7/2009
 
Se Israele rompe il silenzio
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
Dopo più di tre anni dal ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e dallo smantellamento degli insediamenti e delle basi militari, Israele non poteva permettere che il governo di Hamas, pervicace nel rifiuto di riconoscere lo Stato ebraico e nell’invocarne l’annientamento, proseguisse i massicci lanci di missili e di granate verso i suoi centri abitati del Sud. Neppure l’embargo parziale messo in atto contro la Striscia giustificava un simile bombardamento giacché il valico di frontiera di Rafah (al confine con l’Egitto) permetteva a Hamas di mantenere un legame col mondo esterno e solo la chiusura di questo valico ha reso completo il blocco della Striscia, facendone quindi ricadere la responsabilità sull’Egitto.

Era imperativo porre dunque fine al fuoco di Hamas e solo con questo scopo lo Stato ebraico si è imbarcato nell’operazione «Piombo Fuso». Non per sovvertire il governo di Hamas né tanto meno per imporre a Gaza un nuovo regime. Prova ne è che dopo settimane di distruzione e di morte i leader di Hamas, nascosti negli scantinati degli ospedali, hanno ripreso i loro posti e sono ancora gli indiscussi capi della Striscia.

Israele ha mostrato il pugno di ferro mettendo in campo un’enorme potenza di fuoco in zone urbane densamente popolate. I motivi di questa scelta sono vari e complessi. Innanzi tutto lo Stato ebraico temeva una forte resistenza di Hamas, com’è accaduto con Hezbollah durante la seconda guerra del Libano. In secondo luogo voleva concludere al più presto l’operazione con perdite minime tra i suoi soldati. E in ultimo i soldati israeliani hanno incontrato oggettive difficoltà nel distinguere fra i combattenti di Hamas, per lo più senza divisa, e i civili.

Nel complesso l’operazione è riuscita. I bombardamenti sulle città e sui villaggi israeliani sono cessati e il contrabbando di armi dall’Egitto alla Striscia è stato presumibilmente interrotto dalla polizia egiziana, o per lo meno ridimensionato. Durante gli scontri si sono però verificati episodi di brutalità da parte dei soldati di Tsahal che non hanno tenuto troppo conto della popolazione civile coinvolta suo malgrado nei combattimenti.

Alcuni di questi soldati, combattenti in prima linea e preoccupati della propria incolumità non meno dei loro compagni, hanno ritenuto opportuno riportare trasgressioni ingiustificate all’etica bellica e riferire la loro testimonianza perché sia le alte cariche dell’esercito, sia la società civile che lo sostiene, sappiano ciò che è accaduto.

Faremmo bene a prestare seria attenzione a queste testimonianze, verificarle una a una e trarne insegnamenti per il futuro. E anche se alcune di esse si riveleranno gonfiate o scorrette, dobbiamo tuttavia rispettare i motivi che hanno spinto i soldati a parlare, perché nessuno di loro lo ha fatto per trarne un vantaggio personale. Tutt’altro: il loro coraggio civico potrebbe avere un alto prezzo attirandogli l’astio dei compagni e dell’opinione pubblica.

Qualche tempo fa la televisione israeliana ha trasmesso un filmato in cui si vedeva il comandante di un battaglione tenere per la spalla un prigioniero palestinese legato e intimare a un suo sottoposto - distante all’incirca mezzo metro dal prigioniero - di sparargli una pallottola di gomma alla gamba. Se questo filmato non fosse stato reso pubblico, se vi fosse stata soltanto una testimonianza orale di ciò che era accaduto, avremmo potuto pensare a un’ennesima fantasiosa calunnia nei nostri confronti. Perché chi mai avrebbe creduto che un episodio tanto vergognoso potesse verificarsi tra le file del nostro esercito? Eppure il filmato forniva la prova inconfutabile di ciò che era effettivamente avvenuto e la reazione degli alti gradi dell’esercito è stata estremamente severa.

Quindi, sebbene non supportate da filmati o riprese televisive, dobbiamo prestare seria e responsabile attenzione alle testimonianze dei soldati del movimento «Break the Silence». Se la nostra fiducia nei principi morali di molti dei comandanti e dei soldati di Tsahal è ben riposta, non abbiamo nulla da temere da esse.

Dobbiamo altresì ricordare una verità fondamentale: il comportamento da noi adottato nei confronti del nemico non resta al di fuori di Israele ma filtra al suo interno. La violazione di norme etiche nei rapporti con i palestinesi sotto occupazione altera e stravolge quelle stesse norme anche in Israele, nei rapporti fra i suoi cittadini. Se si preme un grilletto con eccessiva leggerezza a Hebron e a Gaza, questo avverrà anche in Israele, per esempio durante regolamenti di conti fra organizzazioni criminali nei quali spesso rimangono coinvolti cittadini innocenti. E la violenza brutale dei coloni contro l’esercito e la polizia legittimerà una condotta altrettanto brutale degli ultraortodossi nelle vie di Gerusalemme contro poliziotti e dipendenti comunali.

E in ultimo: dobbiamo mostrarci molto cauti nei nostri rapporti con i palestinesi, perché costoro saranno per sempre nostri vicini e quando sorgerà un loro Stato i nostri due popoli avranno innumerevoli occasioni di contatto. Quindi, a favore di un futuro comune, è nostro dovere rispettare fin da ora regole pragmatiche di correttezza, in guerra e nell’occupazione, e non macchiarci di vessazioni e soprusi che peseranno su un futuro processo di riavvicinamento e di ricostruzione.

Occorre quindi prestare ascolto ai soldati di «Break the Silence» che hanno scelto di «rompere il silenzio», rispettare il loro coraggio, verificare accuratamente le loro testimonianze e trarne le appropriate conclusioni.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:00:10 pm »

6/9/2009 (8:17) - STORIA

Viaggio all'inizio della nostra storia
 
Moi et le village un dipinto di Marc Chagall del 1911
 
Sulle tracce dei genitori della moglie, che negli Anni 20 partirono dall'Europa dell'Est alla volta della Palestina


ABRAHAM B. YEHOSHUA


L’importante e originale libro di Daniel Mendelsohn Gli scomparsi è servito d’ispirazione alla mia famiglia per un viaggio alla ricerca delle proprie radici nell’Europa dell’Est.

Daniel Mendelsohn, un classicista americano, spronato dai ricordi d’infanzia si è assunto un impegno particolare: scoprire come furono uccisi durante la Shoah sei dei suoi famigliari della cui morte il nonno si era sempre sentito colpevole. Non gli bastava sapere che erano scomparsi nell’Olocausto. Voleva fare il possibile per scoprire com’era avvenuta la loro morte per sentirsi vicino alle vittime, provare il loro terrore, concedere loro spazio emotivo e, in un certo qual modo, accompagnarli negli ultimi istanti di vita. Per raggiungere lo scopo Mendelsohn e il fratello si sono imbarcati in una complessa operazione investigativa: viaggiando tra continenti diversi e interrogando i sopravvissuti ne hanno incrociato le testimonianze e non si sono dati pace fino a che non hanno scoperto luoghi e dettagli reconditi.

Una cantina servita come ultimo rifugio o un albero contro il quale era stata messa una delle vittime prima di essere giustiziata. E hanno fatto tutto ciò con la determinazione e la perseveranza scientifica di un ricercatore che non si concede riposo fino a che non giunge alla verità.

Naturalmente io e i miei famigliari abbiamo letto parecchi libri sulla Shoah, ma il romanzo di Mendelsohn ci ha turbato in modo particolare. La morte di quegli estranei ha cessato di essere anonima, si è trasformata in qualcosa di personale. E a quel punto è nato il bisogno di seguire le tracce di chi era rimasto in vita, ovvero di recarci nell’Europa dell’Est e di ritrovare i luoghi dai quali giunsero prima della guerra i genitori di mia moglie, Berta e Nachum, che contrariamente alla gran parte degli altri ebrei decisero per tempo di assumersi la responsabilità del proprio destino e anziché trasferirsi in una nuova nazione della diaspora abbracciarono la rivoluzione sionista per cercare di normalizzare l’esistenza ebraica nella terra di Israele.

Giunsero qui una decina di anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e non in seguito a una lungimirante profezia del tremendo futuro che aspettava gli ebrei. Nessuno poteva prevedere l’orrore che sarebbe seguito. Entrambi appartenevano a famiglie benestanti e gran parte dei loro congiunti vedeva in quella decisione una sconsiderata avventura. Eppure, a dispetto di tutto, i due giovani preferirono lasciare i floridi paesi in cui erano nati per arrischiarsi a costruire una nuova vita in una terra lontana e desertica. Dissero basta allo studio di antichi testi ebraici, a sempre nuovi espedienti per riuscire a sopravvivere in un ambiente ostile, e scelsero di mettersi alla prova in una realtà che fosse completamente loro.

Nachum, suo fratello e le sue due sorelle nacquero e crebbero in una tenuta di campagna grande e fiorente nei dintorni di Suwalki, al confine tra la Polonia e la Lituania, dove i giovani ebrei venivano addestrati ai lavori agricoli a cui avrebbero dovuto attendere nella terra di Israele. I quattro ragazzi lasciarono la famiglia negli anni Venti ed emigrarono nell’allora Palestina. Nachum, mantenendo il ricordo della propria infanzia rurale, divenne medico veterinario. I genitori rimasero nella tenuta anche dopo la partenza dei figli, forse per un senso di responsabilità nei confronti dei numerosi braccianti che vi lavoravano, e quando cercarono di raggiungerli in Israele era ormai troppo tardi. Le autorità britanniche avevano vietato l’ingresso agli ebrei e i due vecchi rimasero intrappolati e perirono nell’Olocausto.

Berta, la madre di mia moglie, apparteneva a una famiglia benestante di mercanti di Vilnius. Lei e la sorella giunsero nella terra di Israele agli inizi degli anni Trenta, mentre altri due fratelli e i genitori rimasero a Vilnius. Questi ultimi e uno dei ragazzi furono uccisi nel ghetto e solo il fratello più giovane riuscì a fuggire attraverso le fognature nella foresta dove si unì ai partigiani con i quali rimase fino alla fine del conflitto. Sorprendentemente, per quanto sia anche comprensibile, i genitori di mia moglie, così come i loro fratelli e sorelle, non vollero mai tornare a visitare i luoghi in cui erano nati e cresciuti, nemmeno per cercare di scoprire come erano morti esattamente i loro congiunti. La nube nera e orribile della Shoah oscurava i luoghi che si erano lasciati alle spalle e dato che la maggior parte degli ebrei era stata sterminata non avevano nessuna voglia di incontrare un vicino lituano o polacco, né tale incontro avrebbe avuto alcun senso. La connivenza, attiva o passiva, della gente locale con gli aguzzini nazisti aveva reso tutti sospettabili di collaborazionismo e non c’era nessun desiderio di avere contatti con loro, nel bene o nel male.

Di ritorno da questo nostro entusiasmante viaggio ho espresso il mio apprezzamento per le bellezze di Vilnius allo zio di mia moglie, il giovane ex partigiano ormai ottantaseienne che non era mai più tornato a visitare la propria città natale. Lui ha ribattuto: «Vilnius con le sue magnifiche chiese, i suoi giardini, le sue foreste, non è altro che un gigantesco camposanto in cui non vi sono nemmeno delle lapidi. Per questo non mi è mai interessato tornarci».

E così, i figli nati in Israele, nonostante per parecchi anni abbiano sentito qua e là descrizioni dei luoghi da cui provenivano i genitori, non hanno mai provato il desiderio di visitarli fintanto che costoro sono rimasti in vita. In anni recenti, però (e questo fenomeno non è prerogativa esclusiva della mia famiglia) forse sentendosi prossimi all’ultimo stadio della loro vita, avvertono il bisogno di recarsi nei luoghi abbandonati dai genitori in gioventù. E così si organizzano gruppi di anziani israeliani ansiosi di ritrovare tracce di precedenti generazioni in nazioni a loro sconosciute dell’Europa dell’Est. Non necessariamente per rinvenire la presenza di persone morte, come nel caso di Daniel Mendelsohn, ma piuttosto quella di gente viva.

Io, che ho radici a Gerusalemme, mi sono unito con molto interesse a mia moglie e ai suoi famigliari - tutti anziani incanutiti - nel loro viaggio in Lituania e Polonia.

Un viaggio di questo tipo, che di solito dura pochi giorni, non può essere compiuto senza una guida, e nei paesi dell’Est è comparsa negli ultimi anni una nuova figura di accompagnatore: solitamente un ebreo locale (anche se capita di imbattersi in non ebrei) che oltre ad avere padronanza della lingua del posto - lituano, polacco o russo - possiede una buona conoscenza dell’ebraico e dell’inglese, è esperto dei luoghi, se la cava egregiamente negli spostamenti e sa rinvenire, anche grazie a documenti scovati in archivi locali, tracce della presenza ebraica del passato. In altre parole è in grado di identificare in una normale via commerciale di Vilnius l’esatto punto in cui iniziava il ghetto ebraico, l’ubicazione di case andate distrutte, e sa dare informazioni su una sinagoga che non esiste più. Una guida simile deve avere la capacità di ricostruire con l’immaginazione reperti di cui non è rimasto nemmeno il ricordo. Deve naturalmente conoscere la storia dei paesi in cui gli ebrei cercano le loro radici senza tuttavia mostrare cedimenti emotivi o rancore nei confronti della gente del posto per via della passata collaborazione con i tedeschi. E ovviamente deve conoscere gli archivi presenti nei vari luoghi e mantenere buoni rapporti con gli impiegati perché questi rintraccino per i suoi clienti i vecchi nomi delle vie, l’ordine di successione dei numeri, le scuole in cui i loro genitori avevano studiato o il nome di uno zio scomparso nella Shoah di cui si conosce l’esistenza ma che non è mai stato menzionato.

E in effetti gli impiegati degli archivi da noi visitati, lituani o polacchi che fossero (che se non sbaglio sono dipendenti statali) hanno fatto del loro meglio per rispondere alle domande dei membri del nostro gruppo. Hanno aperto i volumi riguardanti la comunità ebraica antecedenti la seconda guerra mondiale e tra le migliaia di nomi con accanto la sola data di nascita (quella della morte, avvenuta nel corso di un eccidio in una foresta o in un campo di sterminio, è sconosciuta) si sono sforzati di cercare quello di uno zio, di una via, o dei successivi proprietari della tenuta perché toccassimo con mano l’esistenza di persone ormai scomparse, un passato che quelle stesse persone non volevano ricordare né conoscere.

La nostra guida era un ebreo basso di statura, sui cinquant’anni, scapolo, con un cappellino su cui spiccava la parola «guida» in ebraico. Indossava una camicia militare israeliana con stampato il simbolo di Tsahal, lasciatagli in regalo da un gruppo di ufficiali israeliani e dalla quale faceva fatica a separarsi. Era un uomo strano e persino misterioso, con un immenso bagaglio di conoscenze e una straordinaria capacità di orientamento. Ha saputo condurci alla casa nella quale nacque e visse Berta prima di emigrare in Israele e anche nella fertile e verdeggiante tenuta polacca nella quale crebbe Nachum.

L’emozione di mia moglie, di sua sorella e dei loro cugini è stata enorme. Ogni dettaglio era importante ai loro occhi. Si sono aggirati a lungo nelle case dei genitori osservando ogni angolo e particolare, insaziabili nel desiderio di vedere e respirare l’aria del luogo. Nella tenuta di campagna hanno avviato una lunga conversazione con i contadini polacchi cercando di attingere dettagli della vita che si conduceva lì più di novant’anni fa. Un cucchiaino d’argento con il monogramma della famiglia in lettere ebraiche è stato per loro un reperto di inestimabile valore. Senza dubbio il grande amore per i loro genitori ha ammantato quei luoghi di grande bellezza e significato. È stato come se un cerchio, rimasto inconsapevolmente aperto troppo a lungo, si fosse chiuso.


da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:28:31 pm »

9/10/2009
 
Hezbollah e Hamas, nemici non terroristi
 
 
ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
Fin dal giorno della sua fondazione Israele è stato aggredito da nazioni arabe che non ne accettavano l’esistenza e ne volevano la distruzione. Tali nazioni venivano qualificate dagli israeliani come «nemiche», non come «terroriste». Nel 1948 la Giordania pose l’assedio ai quartieri ebraici di Gerusalemme, li bombardò per qualche mese e impedì ai residenti di approvvigionarsi di acqua e cibo. Ciò nonostante Israele non definì mai la Giordania «Stato terrorista». Anche la Siria martellò per anni le comunità civili israeliane in Galilea e nella valle del Giordano, eppure, anche nei suoi confronti, Israele evitò di usare la definizione di «Stato terrorista».

Durante la guerra del 1948, scoppiata dopo la decisione delle Nazioni Unite di dividere la regione, le vittime civili di ambo le parti furono numerose, interi villaggi (per lo più palestinesi) furono distrutti e i loro abitanti costretti alla fuga o cacciati. Ma mai quella guerra fu ritenuta, né dagli israeliani né dagli arabi, uno scontro tra «terroristi». Per lunghi mesi, dopo la guerra dei Sei giorni, Giordania, Siria, e anche Israele, presero di mira centri abitati (soprattutto lungo il Canale di Suez), eppure mai Israele considerò i suoi vicini «Stati terroristi». Li vedeva come nemici con i quali aspirava a raggiungere un giorno la pace.

A partire dagli Anni Novanta, soprattutto in seguito allo scontro prolungato con i palestinesi, il termine «nemico» cominciò a essere sostituito con quello di «terrorista». Infatti, non possedendo uno Stato, ogni azione militare compiuta dai palestinesi (da loro considerata una «legittima opposizione all’occupazione») veniva vista da Israele come un atto di terrorismo. Israele prese a utilizzare questo termine per esprimere da un lato la sua profonda diffidenza verso le intenzioni di pace dei palestinesi e dall’altro per giustificare la sua riluttanza a fare concessioni e per ottenere la simpatia generale nella lotta contro questo fenomeno, soprattutto dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Ma la sostituzione del termine «nemico» con quello di «terrorista» ha creato negli ultimi anni problemi etici complessi.

Per terrorismo si intende infatti una forma di lotta condotta verso obiettivi civili e militari da persone che, mantenendo celata la propria identità, mirano a seminare il panico tra la popolazione e a sovvertire il regime esistente o la linea politica delle sue istituzioni. Poiché i terroristi, per definizione, si discostano dalla popolazione in mezzo alla quale vivono, quest’ultima non viene associata agli atti da loro compiuti e quindi ogni azione rivolta contro di essa sarà considerata un crimine.

Ma dopo il ritiro di Israele dal Libano e dalla Striscia di Gaza sarebbe più appropriato qualificare i movimenti Hamas e Hezbollah semplicemente come «nemici» (come fanno peraltro i loro esponenti nei confronti di Israele) in quanto non rientrano nella definizione di «terrorismo». I loro rappresentanti agiscono alla luce del sole, esercitano pieno controllo sul territorio nel quale vivono, amministrano enti e istituzioni pubblici, possiedono distintivi segni di identità quali uniformi e bandiere, e mantengono un legame profondo e vincolante con la popolazione locale di cui sono i rappresentanti. Esponenti di Hezbollah, un movimento dichiaratamente armato, sono deputati nel Parlamento libanese e ministri nel suo esecutivo. E il governo di Hamas, democraticamente eletto, amministra la vita pubblica nella Striscia di Gaza.

La loro ideologia non corrisponde alla definizione corrente di terrorismo ma va ben oltre: distruggere lo Stato di Israele e rispedire gli ebrei alle nazioni dalle quali provengono. E infatti Hamas e Hezbollah si proclamano nemici giurati di Israele, come fecero la Giordania e l’Egitto dopo la nascita dello Stato ebraico e prima che le numerose guerre li inducessero a cambiare idea, a riconoscere Israele e a concludere con esso la pace. Hezbollah e Hamas vanno quindi considerati alla stregua di nemici e, stando così le cose, ne consegue che Israele non ha alcuna responsabilità legale verso i cittadini che li hanno scelti come governanti e che sono quindi parte della lotta contro di esso.

È chiaro che secondo le norme che regolano i conflitti internazionali è proibito colpire indiscriminatamente e senza motivo civili estranei ai combattimenti armati. Questo vale per Hezbollah, per Hamas e, ovviamente, per Israele. Ma da un punto di vista etico-legale è altrettanto chiaro che lo scontro che vede opposto Israele a Hamas e a Hezbollah è una guerra tra nemici e non la lotta di uno Stato contro un’organizzazione terroristica.

Tuttavia, nel momento in cui Israele proclama i suddetti movimenti «organizzazioni terroristiche», la situazione si complica giacché i civili fra i quali questi «terroristi» vivono non solo non possono essere considerati complici delle loro azioni ma sono addirittura ritenuti sorta di loro «ostaggi» e ogni volta che li si colpisce si commette un doppio crimine. E così, nonostante Israele si sia ritirato del Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza, gli insediamenti civili israeliani nella zona siano ormai un ricordo e la Striscia mantenga un valico di frontiera con l’Egitto, lo Stato ebraico viene ancora visto come responsabile di ciò che vi avviene e le sue azioni giudicate non come quelle di chi combatte contro un nemico ma come quelle di chi si trova ad affrontare attacchi terroristici in una regione sotto sua responsabilità ed è tenuto a compiere una rigorosissima distinzione tra «cattivi» e «innocenti».

Il rapporto Goldstone doveva basarsi sul presupposto che l’operazione «Piombo fuso» è stato uno scontro tra due Stati in conflitto, responsabili della difesa e della sicurezza dei propri cittadini i quali non potevano essere lasciati in balia di attacchi di razzi né della dura reazione militare che ne è conseguita. L’aver ignorato tale realtà lo ha reso lacunoso e ha inasprito le critiche nei confronti di Israele, malgrado le fondate e preoccupanti accuse di comportamenti scorretti di Tsahal verso la popolazione civile.
 
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 25, 2009, 03:46:12 pm »

25/11/2009

In quei film manca un pezzo di Israele
   

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Negli ultimi anni i film israeliani dedicati alla prima guerra del Libano suscitano grande interesse non solo in Israele ma anche ai festival internazionali e fra gli appassionati di cinema in Europa e in Nord America. «Beaufort» ha ottenuto il premio per la miglior regia al festival di Berlino, «Valzer con Bashir» era candidato all'Oscar nella categoria «Migliore film straniero» e «Lebanon», l'ultimo della serie, ha vinto il Leone d'oro al recente festival del cinema di Venezia.

La guerra del Libano scoppiò per iniziativa israeliana nel giugno del 1982 e Tsahal, l'esercito israeliano, vi si impantanò per 18 anni fino al suo ritiro definitivo e unilaterale nel maggio del 2000. Dopo qualche anno di calma gli scontri ripresero. Nel luglio 2006 i miliziani di Hezbollah varcarono il confine internazionale, rapirono due soldati israeliani e ne uccisero altri otto scatenando simultaneamente un attacco di razzi sulle comunità nel Nord del paese. La conseguenza fu la seconda guerra del Libano, durata poco più di un mese e a seguito della quale l'esercito libanese e contingenti militari delle Nazioni Unite si dispiegarono lungo il confine internazionale.

Qualche tempo dopo l’inizio del primo scontro libanese cineasti israeliani cominciarono a produrre film che avevano come sfondo, o come ribalta, lo scontro bellico, ma incentrati principalmente sui conflitti tra i protagonisti. Tali pellicole, girate secondo il consueto schema dei film di guerra, pur riscuotendo un buon successo di pubblico in Israele non raggiunsero le vette di gloria internazionale di quelle più recenti.

Il primo elemento distintivo dell’attuale e tardivo revival cinematografico sulla guerra del Libano è il ritorno di autori ormai non più giovani (alcuni persino alla prima regia) alle loro esperienze personali. Volendo, una sorta di «ricerca del tempo perduto», ma un «tempo perduto» tremendo e doloroso. Tali autori, dopo aver rimosso a lungo i traumi e le memorie della guerra, hanno infine tentato di elaborarli tramite il medium cinematografico. La cosa è particolarmente evidente in «Valzer con Bashir», un film d’animazione il cui protagonista tenta di ripescare reminiscenze cancellate dalla memoria in seguito al massacro perpetrato nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila da falangisti cristiano maroniti.

L’aver imperniato quei film sui ricordi e sull'esperienza personale è stata una mossa azzeccata sotto un profilo artistico. I registi infatti, tralasciando trame secondarie di amori o tensioni immaginarie in cui spesso si sfaldano le pellicole di guerra, si sono focalizzati su ciò che conta veramente spingendosi anche a sperimentare forme artistiche nuove e audaci. In «Valzer con Bashir» l’inserimento al termine del film di spezzoni documentari che ritraggono persone reali ha creato un effetto particolare e originale. In «Lebanon» l'intera trama si svolge all'interno di un carro armato e ciò che avviene all’esterno è percepito solo attraverso il periscopio del blindato. Questa scelta, non facile da un punto di vista cinematografico, porta gli spettatori a provare un senso di claustrofobia e di soffocamento simile a quello vissuto dai soldati all'interno del tank. Il film «Beaufort», interamente ambientato in un'antica fortezza, trasforma con impressionante abilità il fortilizio in un intero universo. Ma al di là dei risultati artistici e formali di queste opere nutro ancora qualche perplessità nei loro confronti. In tutte e tre infatti il «nemico» - sia esso palestinese, libanese, civile e combattente -, a eccezione di qualche piccola e insignificante scena rimane una presenza invisibile, come per esempio in «Beaufort» dove i lanci dei mortai provengono da un punto imprecisato e non individuabile. Ma ciò che mi sembra ancora più grave è la mancanza di un contesto più ampio che spieghi la guerra o che affronti, nel bene e nel male, la questione della sua imprescindibilità o legittimità. Io, cittadino israeliano che si è opposto al conflitto fin dal primo giorno, che l’ha condannato e ne ha persino previsto il fallimento, lamento l'assenza di interrogativi e di riferimenti a dubbi o a proteste contro l'inutile invasione del Libano. I soldati si preoccupano solo della propria sopravvivenza o dei loro rapporti personali. Nessuno cerca, mediante dialoghi o conversazioni, di capire il significato della guerra, il senso, la necessità.

In fondo, a distanza di anni, il bilancio negativo del conflitto, il suo fallimento su un piano morale, militare e politico, è ormai evidente anche agli autori dei film. Dopo tutto anche loro ricordano come l'ex primo ministro Menahem Begin, promotore e leader di quella guerra, abbia riconosciuto il terribile errore commesso e all'incirca un anno dopo lo scoppio delle ostilità abbia dato le dimissioni, si sia rinchiuso in casa come per autopunirsi e non ne sia più uscito fino al giorno della sua morte. Eppure, rimanendo fedeli alla propria esperienza personale, hanno dimostrato fino a che punto all'epoca i soldati stessi fossero parte di un clima di consenso nazionale, paralizzati, senza motivazioni ideologiche o morali che li inducessero a porsi domande su ciò che facevano. Ma le cose stavano davvero così? È questa la verità? Ritengo di no. Il fatto però che a distanza di tempo gli interrogativi e i dubbi di allora siano scomparsi e sia rimasta solo l’esperienza diretta dei combattimenti invita a mio giudizio a produrre una terza serie di film che prendano in esame quella guerra, così come fanno la letteratura, il teatro e il cinema israeliano con la questione palestinese. Quindi, per chi come me mantiene una posizione ferma e definita sulla guerra del Libano queste opere cinematografiche, per quanto valide su un piano artistico, sono da ritenersi comunque incomplete.

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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 31, 2009, 04:58:19 pm »

31/12/2009

La sfida dei rabbini a Israele
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA


Nelle ultime settimane i rabbini appartenenti alla corrente religiosa nazionalista, e soprattutto quelli a capo delle colonie e delle accademie talmudiche della Giudea e della Samaria (i territori occupati palestinesi), si sono schierati in prima linea nell'opposizione alla decisione del governo israeliano di congelare le colonie per dieci mesi.

Alcuni di loro hanno diramato appelli ai soldati, ex studenti delle accademie talmudiche, perché rifiutino di eseguire l'eventuale ordine di evacuare gli insediamenti, sfidando così le decisioni del governo relative alla possibilità di riprendere il negoziato di pace con i palestinesi in vista di una creazione di un loro Stato. Tra i rabbini stessi, apparsi di frequente sugli schermi televisivi sia in gruppo sia singolarmente, vi sono dissensi sul modo di esprimere la loro protesta e quella dei loro allievi. Ma sia gli estremisti che i moderati sono uniti nell'impegno religioso di mantenere la sovranità ebraica su tutto il territorio dell'Israele biblico.

Io guardo questi rabbini - energici, determinati, esperti di norme di condotta religiosa e di interpretazioni di testi sacri - e mi domando dove fossero nei secoli passati i loro predecessori che di certo conoscevano bene la Halakha, la legge rabbinica, e i versetti relativi alla sacralità e all'importanza della terra di Israele. In altre parole, perché il pensiero religioso, tanto saldo per quanto concerne la santità della terra dei padri e il rifiuto di rinunciare alla benché minima parte di essa, non ha spinto gli ebrei a giungere a questa terra in passato, quando era scarsamente popolata e per lo più desolata? Perché ebrei siriani, iracheni, egiziani, greci e dell'impero ottomano - del quale la terra di Israele era parte - e i loro confratelli osservanti d'Europa - molti dei quali erravano da un Paese all'altro - non vennero a stabilirsi nella tanto preziosa terra santa in forza di un comandamento religioso?

Dico questo in quanto la mia personale biografia comprova che l'emigrazione dalla diaspora alla terra di Israele era possibile. Il mio bis bisnonno, rabbino di Praga, lasciò a metà del diciannovesimo secolo la sua città per stabilirsi a Gerusalemme. E lo stesso fecero altri rabbini miei antenati, di un diverso ramo della famiglia, più o meno nello stesso periodo: abbandonarono la città di Salonicco, all'epoca sotto dominio turco, per trasferirsi a Gerusalemme. Ma si trattava di pochissimi, ashkenaziti e sefarditi. La classica eccezione che conferma la regola. Insomma, prima che l'antisemitismo spingesse gli ebrei a svegliarsi e a concepire uno Stato esisteva la possibilità di arrivare in terra di Israele e di compiere un precetto religioso importante anche per i rabbini.

Ma c'è di più. Nei secoli antecedenti la comparsa del sionismo la stragrande maggioranza dei rabbini e dei loro discepoli non solo non incoraggiarono le comunità ebraiche a emigrare in terra di Israele bensì, al contrario, le dissuasero dal farlo. Sappiamo dell'opposizione al sionismo delle comunità hassidiche dell'Europa dell'Est. Ma anche nei lunghi secoli precedenti la comparsa dell'ideologia sionista la teologia ebraica, in tutte le sue varianti, creò una struttura religiosa che, benché accettasse l'insediamento in terra d'Israele come precetto attivo e necessario, lo riteneva un sogno messianico, una redenzione celeste attuabile solo in forza di un potere divino. E ancora oggi comunità religiose della diaspora e d'Israele guardano con sospetto la sovranità ebraica in terra di Israele e la ritengono un male necessario piuttosto che la concretizzazione di un'importante prescrizione religiosa.

Come risolvere allora questa contraddizione: l'indifferenza e l'alienazione degli ebrei osservanti nei confronti della terra santa per centinaia di anni da un lato e l'attuale concezione che il territorio sia il più importante centro di culto religioso per il quale si può e si deve persino ribellarsi al governo laico e democratico dall'altro? Ritengo che alla base della questione sia il seguente enunciato: Israele non esiste senza la Torah. Chi lo accetta considera il governo nazionale - legittimato da decisioni democratiche - vuoto di significato perché solo la Torah e la Halakha possono dare un senso al concetto di nazionalità e gli unici autorizzati a interpretare tale concetto e a stabilire le norme che lo regolano sono i rabbini.

L'intenso attaccamento religioso al territorio non è che un pretesto, un elemento della sfida a un governo democratico nazionale. Una sfida antica che è alla base dell'identità ebraica e che si è acutizzata negli ultimi anni con il forte aumento di ebrei osservanti in Israele. Ed è una sfida che ogni governo democratico israeliano dovrà affrontare se vorrà ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e arrivare a una pace con i palestinesi.

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