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Autore Discussione: ABRAHAM B. YEHOSHUA  (Letto 22308 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 03, 2010, 09:24:45 am »

3/2/2010

I palestinesi non vogliono i pasdaran
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA


La Seconda guerra mondiale non ha purtroppo segnato la fine di sanguinosi conflitti bellici durante i quali si sono verificati episodi di genocidio. Ricordiamo l’Angola, ricordiamo il massacro di milioni di esseri umani in Cambogia da parte dei Khmer rossi, ricordiamo le terribili guerre tribali in Ruanda, le lotte cruente per lo smantellamento dell’ex Jugoslavia e lo sterminio dei cristiani nel Sudan meridionale. E naturalmente non possiamo dimenticare i crimini compiuti dal regime stalinista contro i popoli dell’ex impero sovietico. Eppure l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha deciso di dedicare una giornata alla memoria della Shoah degli ebrei d'Europa.

Che cosa differenzia lo sterminio degli ebrei da altre tragedie della storia umana avvenute nel ventesimo secolo? La differenza non sta solo nell’inconcepibile numero di vittime e nella ferocia con la quale questo eccidio è stato perpetrato ma anche nell’assenza dei motivi all'origine dei massacri e dei genocidi conosciuti nel secolo scorso.

I nazisti infatti non trucidarono gli ebrei perché volevano impossessarsi dei loro territori (gli ebrei non possedevano alcun territorio), né perché erano seguaci di un diverso credo religioso (i nazisti e i loro complici erano atei, nemici di qualunque fede religiosa). Non li sterminarono neppure per impossessarsi dei loro averi (la maggior parte degli ebrei era povera e chi possedeva qualcosa vi avrebbe probabilmente rinunciato per avere salva la vita), né tanto meno per motivi ideologici in quanto gli ebrei non detenevano un'ideologia a loro peculiare. I nazisti non volevano nemmeno trasformare gli ebrei, che mai prima di allora erano stati catalogati come una «razza» a sé stante, in schiavi. Li consideravano alla stregua di «microbi» e per questo li distrussero con tanta efferatezza e puntigliosità. Lo sterminio, inoltre, non fu perpetrato nella sola Germania ma in tutti i Paesi sotto occupazione nazista, talvolta con l’aiuto, o per lo meno con il silenzioso consenso, dei popoli conquistati che pure soffrivano sotto il giogo della dominazione tedesca. La Shoah fu perciò innescata da un meccanismo assurdo e fantasioso che attribuiva agli ebrei colpe inventate, da una distorsione mentale che generò un odio inspiegabile, bruciante e immotivato. Un odio che probabilmente non fu soffocato con la sconfitta del nazismo e del quale, sessantacinque anni dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ancora si intravedono segnali terrificanti. Occorre pertanto restare allerta affinché questo odio, le cui conseguenze potrebbero essere devastanti, non si ridesti, né verso gli ebrei né verso altri popoli. Per questo l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha ritenuto giusto commemorare la memoria della Shoah piuttosto che dedicare una giornata generica a tutte le tragedie umane.

I leader israeliani, con la loro partecipazione alle cerimonie ufficiali tenutesi nelle varie capitali europee nel Giorno della Memoria, non solo hanno cercato di rafforzare le difese naturali contro i fenomeni di antisemitismo che ancora sopravvivono qua e là nel mondo ma anche di ottenere sostegno politico contro la politica di armamento nucleare dell'Iran che, periodicamente, lancia minacce contro Israele e proclama di volerlo cancellare dalla faccia della terra.

L'Iran non è la Germania nazista. Il suo regime politico, la sua ideologia e naturalmente il suo potenziale bellico ed economico sono ben diversi da quelli dello Stato hitleriano. E l'Israele moderno non ricorda le deboli comunità ebraiche sparse in passato in Europa. Israele oggi non solo è in grado di difendersi da sé ma anche di causare gravi danni ai suoi nemici. Eppure, nonostante la differenza sostanziale tra l’Iran moderno e la Germania nazista, le autorità iraniane hanno adottato una bizzarra e totale opposizione all'esistenza di Israele, una presa di posizione che potrebbe farli precipitare nel meccanismo responsabile di aver generato l’odio abissale verso gli ebrei all'epoca della Shoah. Quando l’Iran possiederà armi atomiche, malgrado la sua debolezza e vulnerabilità, non è da escludere che, come la Germania nazista, possa essere risucchiato in un vortice di follia aggressiva che rischierebbe di provocare una sciagura terribile per lo Stato di Israele.

Nessuno può garantire che le sanzioni decretate dalla comunità internazionale nei confronti dell’Iran riusciranno a convincere i suoi leader a desistere dalla corsa alla produzione di armi nucleari. E un tentativo di distruggere militarmente il suo potenziale atomico potrebbe coinvolgere Israele in una lotta sfiancante e prolungata alla quale si unirebbero forse anche altri nemici dello Stato ebraico. Sono perciò molti coloro che ritengono che l'unica via giusta e morale per neutralizzare la minaccia iraniana sia quella di siglare un accordo di pace con i palestinesi.

La scorsa settimana, durante una preghiera pubblica a Ramallah alla quale hanno preso parte tutti i capi dell'Autorità palestinese, il ministro della Religione palestinese ha tenuto un sermone che ha destato speranza. Davanti alle telecamere si è pronunciato in maniera forte e risoluta contro l'ingerenza iraniana nel conflitto tra Israele e il suo popolo esprimendosi, più o meno, nei seguenti termini: «Che c'entrate voi con questo conflitto? Noi non abbiamo bisogno del vostro patrocinio né del vostro sostegno. Anziché aiutare noi e gli israeliani a giungere alla soluzione generalmente accettata da tutti, ovvero due Stati per due popoli, voi non fate che inasprire lo scontro. Spinti da motivi estranei al conflitto incoraggiate e sobillate l’estremismo di Hamas provocando così la reazione violenta di Israele, aggravando la nostra sofferenza e allontanando la conclusione alla quale noi tutti auspichiamo. Mai un vostro soldato ha versato sangue per il nostro popolo, a differenza di migliaia di soldati egiziani il cui governo ha stretto un patto di pace con Israele».

La leadership palestinese sa bene che se l'Iran dovesse lanciare un’atomica contro Israele anche il suo popolo ne soffrirebbero terribilmente. Un'eventuale pace tra Israele e i palestinesi neutralizzerebbe invece il veleno dell’odio iraniano e spezzerebbe il fantasioso meccanismo politico che lo porta a identificare Israele con il male totale, o il «piccolo satana» che occorre annientare a ogni costo. Un fronte comune a israeliani e palestinesi potrebbe spingere il popolo iraniano, che in un passato non lontano manteneva buone relazioni con lo Stato ebraico, a ribellarsi alla follia che pare essersi diffusa nella sua dirigenza. Un’azione bellica israeliana o americana rischierebbe di provocare un pericoloso peggioramento della situazione, prolungherebbe e intensificherebbe la sofferenza in questa regione tanto sensibile del mondo. Una conclusione pacifica del conflitto israelo-palestinese, viceversa, sarebbe di gran lunga più efficace di qualunque iniziativa militare.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 19, 2010, 03:56:03 pm »

19/3/2010

Israele ascolti la voce dell'America
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA

Nel biblico Libro dei Proverbi, il libro della saggezza e dell'ottimismo (a differenza di quello dell'Ecclesiaste, pervaso da un senso di angoscia e di rassegnazione alla morte) c'è un versetto dai toni forti: «Chi risparmia la verga odia il suo figliuolo, ma chi l'ama, lo corregge per tempo» (Libro dei Proverbi, 13, 24). Il senso di queste parole è che chi evita di rimproverare o di punire i figli per le loro cattive azioni dà prova di non amarli veramente in quanto preferisce ignorare una condotta sbagliata per mantenere la pace in famiglia ed evitare uno scontro che potrebbe causare dolore a entrambe le parti. Ma un uomo che ama veramente il figlio non teme di riprenderlo, è pronto a punirlo e persino a pregiudicare temporaneamente il rapporto con lui pur di riportarlo sulla retta via. L’attuale crisi nelle relazioni fra il governo israeliano e quello americano intorno alla costruzione di un nuovo quartiere ebraico nella Gerusalemme Est è ai miei occhi una prova di vera amicizia da parte degli Stati Uniti nei confronti del suo piccolo protégé mediorientale. L'amministrazione di Barak Obama, in un raro esempio di fermezza morale, dice agli israeliani: basta con queste inutili costruzioni a Gerusalemme Est.

Il messaggio degli Usa è che le costruzioni non solo minano il processo di pace - importante per voi, per i palestinesi e per tutto il mondo arabo moderato -, ma sono estremamente nocive anche per voi israeliani nell'ottica dell'ideale che non perdete occasione di proclamare: mantenere il carattere ebraico e democratico di Israele. Continuando a insediarvi in territorio palestinese e a erigere nuovi insediamenti compromettete la possibilità di una separazione e di un confine concordato fra Israele e la Palestina. Perciò, in mancanza della prospettiva di un vicino accordo di pace, in un prossimo futuro dovrete concedere la cittadinanza israeliana a tutti i palestinesi che avete conglobato e questo inciderà sensibilmente sul carattere ebraico della vostra nazione. Oppure, in alternativa, sarete costretti a mantenere un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi distruggendo così il sistema democratico israeliano. In un modo o nell'altro noi faremo pressione perché queste iniziative controproducenti, contrarie agli interessi da voi stessi proclamati, cessino. E questo non solo a favore del processo di pace e degli interessi americani nel mondo arabo ma per il vostro stesso bene e per quello dello Stato ebraico.

Una simile posizione è nuova per gli Stati Uniti e se non resterà un mero proclama ma sarà seguita da una decisa pressione politica su Israele proverà al mondo intero che l'America è una vera amica dello Stato ebraico e ha a cuore non solo la sua sicurezza ma anche il suo futuro e i suoi veri ideali. I veri amici non si limitano a dispensare parole di lusinga e di adulazione ma sanno anche muovere rimproveri. Nella storia dei rapporti tra i popoli in epoca moderna un capitolo speciale sarà dedicato alle incredibili relazioni tra gli Stati Uniti e Israele. L'ex segretario di Stato Henry Kissinger li definì «profondamente emotivi, laddove gli interessi strategici comuni non sono che una patina esterna dallo scarso significato». Per la maggior parte dei cittadini statunitensi lo Stato di Israele non è solo un'espressione di riscatto e di consolazione per la Shoah degli ebrei durante la seconda guerra mondiale (una tragedia che gli Stati Uniti tardarono a capire e nella quale non intervenirono, specialmente negli Anni 30 quando profughi ebrei dalla Germania e dall'Europa in fuga dalle persecuzioni naziste bussarono inutilmente alle loro porte). Per molti cittadini statunitensi, soprattutto per i numerosi cristiani, lo Stato di Israele è la concretizzazione di un ideale religioso come lo fu per i primi abitanti degli Stati Uniti l'emigrazione in quel Paese, quando parvero voltare le spalle alla loro storia e alle loro origini europee per riconoscersi nel mito della cristianità e della Bibbia dando alle loro nuove città nomi di luoghi dell'antica terra biblica: Sion, Betlemme, Hebron ecc.

Anche il regime democratico israeliano è un elemento importante nell'amicizia tra Israele e gli Stati Uniti. Quando lo Stato ebraico fu fondato dopo la seconda guerra mondiale nel mondo vi erano solo una trentina di vere democrazie e la lotta ideologica per la supremazia e la moralità dei regimi democratici rispetto a quelli totalitari era importantissima agli occhi degli americani. Un Israele democratico che combatteva con successo per la sua sopravvivenza era quindi una prova rilevante e preziosa della validità dell'ideale democratico e giustificava l'ingerenza, motivata o meno, dell'America nel mondo.

I leader israeliani perciò, anziché sottolineare ancora una volta dinanzi agli americani l'importanza di un’alleanza strategico-militare con Israele, farebbero meglio a prestare ascolto al nuovo tono di fermezza morale con il quale si rivolgono a noi dicendo: se vi concentrerete sul vero ideale di un Israele democratico ed ebraico piuttosto che accanirvi inutilmente sulle poche terre rimaste in mano ai palestinesi, capirete che la nostra rabbia nasce da sentimenti di vero affetto e di amicizia.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:26:57 pm »

30/4/2010 - LE IDEE

Israele ha perso la fiducia

AVRAHAM B. YEHOSHUA

Dopo la Guerra dei sei giorni in Israele prese il via il dibattito sul futuro dei territori conquistati. Per anni si è potuta operare una distinzione fra i sostenitori delle diverse prese di posizione politiche in base alla percentuale di territorio che chiedevano di annettere come condizione di un accordo di pace.

Gli estremisti di destra volevano conglobare nello Stato ebraico l'intero territorio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (pari a circa seimiladuecento chilometri quadrati), mentre i propugnatori di opinioni più moderate, appartenenti al partito laburista, rivendicavano soltanto il venti o il trenta per cento di quel territorio, sia per ragioni di sicurezza sia perché non volevano annettere un’alta percentuale di popolazione palestinese.

I partiti religiosi erano attenti ai luoghi di interesse e di importanza storico-religiosa mentre la sinistra radicale si sarebbe accontentata di piccoli ritocchi ai confini di Gerusalemme Est per assicurare agli ebrei l’accesso alla città vecchia. Così, per parecchi anni, almeno in teoria, chiunque ha potuto esprimere la propria opinione politica, fosse essa di destra o di sinistra, elencando cifre e percentuali che talvolta la chiarivano meglio di quanto potesse farlo una dettagliata spiegazione verbale.

Ma i dibattiti fra la destra e la sinistra erano puramente teorici. I palestinesi più moderati non hanno infatti mai smesso di considerare le frontiere del 1967 come la base per la creazione di un loro futuro Stato (e a ragione, a mio parere). Fintanto però che nessun negoziato chiaro e vincolante veniva avviato gli israeliani continuavano a giocare con i numeri.

Di quando in quando si dovevano aggiornare le cifre, vuoi per una colonia trasformatasi nel frattempo in una vera e propria città ormai difficile da sgomberare, vuoi per il ritiro dalla Striscia di Gaza che ha di colpo sottratto al calcolo delle possibili concessioni 370 km quadrati di territorio (visto e appurato che le aree consegnate ai palestinesi non rappresentano più un argomento di dibattito in Israele).

Negli ultimi anni però queste dispute tradizionali sono cessate, soprattutto fra coloro che possiedono qualche nozione di geografia e una certa esperienza in campo militare e politico. La sempre più salda convinzione della comunità internazionale che i confini del 1967 rappresenteranno quelli del futuro Stato palestinese e la consapevolezza sempre più lucida degli israeliani che sarà impossibile mantenere il carattere democratico ed ebraico dello Stato di Israele dopo l’annessione della Cisgiordania, hanno riportato in auge lo slogan «due Stati per due popoli», e non solo fra i sostenitori della sinistra moderata. Persino il falco Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro dello Stato ebraico, ha più volte proclamato l’accettazione di tale principio.

Ciò nondimeno l’ideale di due Stati per due popoli (che dovrebbe rallegrare moltissimo chi ha lottato per lunghi anni per la pace) si rivela oggi null’altro che la dolce glassatura di un boccone estremamente amaro da inghiottire.

In altre parole questa presa di coscienza politica moderata e conciliante, considerata ormai da quasi tutti in Israele come l’unica soluzione possibile al conflitto con i palestinesi, nasconde in realtà un profondo senso di pessimismo e di incertezza nei confronti di una eventuale soluzione. Pessimismo e incertezza che non derivano necessariamente da motivi ideologici o di sicurezza e che sono presenti anche in chi in passato credeva nella pace. Vent’anni fa la sinistra moderata riteneva che fosse sufficiente ritirarsi dai territori occupati per ottenere la pace, mentre la destra oltranzista sosteneva che se avessimo annesso la Cisgiordania e costruito molti insediamenti i palestinesi avrebbero accettato la situazione e si sarebbero rassegnati alla nostra presenza. Questo approccio ottimista, sia della destra che della sinistra, si è molto indebolito negli anni a causa di un senso di sfiducia sempre più forte e di natura apolitica che contrasta con il passato spirito di intraprendenza e di creatività di Israele (che tuttavia ancora sopravvive in campo economico e culturale). Un senso di sfiducia alimentato non da principi ideologici o da timori esistenziali, ma da sentimenti di impotenza interiore, di fatalismo, di scetticismo. Neppure nei momenti più difficili del conflitto arabo-israeliano degli ultimi cento anni gli ebrei avevano perso fede nella pace.

«È vero», si sente spesso dire da molti israeliani, «la soluzione di due Stati per due popoli è l’unica possibile. Ma non riusciremo a sgomberare gli insediamenti senza che scoppi una sanguinosa guerra civile fra gli ebrei. Anche la divisione di Gerusalemme, per quanto indispensabile, è ormai impossibile da realizzare. E che faremo se dopo aver firmato un accordo i palestinesi chiederanno di tornare a Haifa o a Jaffa? O nel caso Hamas assumesse il controllo dello Stato palestinese?». Insomma, tutte queste obiezioni non hanno altro scopo che dimostrare che la pace è oggettivamente impossibile, e non a causa di ideologie contrastanti.

E così, malgrado la maggior parte della popolazione di Israele abbia accettato la formula e i principi di un accordo di pace, nello Stato ebraico regna un senso di paralisi, di alienazione politica, di indifferenza e di fatalismo che potrebbe preparare il terreno, Dio non voglia, a una guerra futura.

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 01, 2010, 12:13:51 pm »

1/7/2010

Il prezzo per la libertà di Gilad Shalit
   
AVRAHAM B. YEHOSHUA

Tra le varie argomentazioni di chi si oppone ai termini della trattativa per la liberazione di Gilad Shalit ce n'è probabilmente solo una che abbia un qualche valore morale. Tale argomentazione non ha nulla a che vedere con l'immagine di forza che vuol dare di sé Israele, dal momento che dopo ogni guerra è già accaduto che lo Stato ebraico abbia rilasciato centinaia se non migliaia di prigionieri nemici in cambio di pochi ostaggi israeliani e quegli scambi a mio parere hanno solo rafforzato la sua dignità e il suo valore agli occhi dei suoi cittadini e di altri.

Tale argomentazione non è nemmeno inerente al consolidamento del prestigio di Hamas. La sconfitta di questa organizzazione durante l'operazione «Piombo fuso» getterebbe infatti un'ombra sul prestigio che la sua leadership deriverebbe da uno scambio di prigionieri. Inoltre la salda posizione dell'Autorità palestinese, che già da diversi anni riesce a garantire stabilità e ordine interno ai territori sotto il suo controllo e a sviluppare una solida infrastruttura economica, si basa su contingenze ideologiche e politiche inerenti alla vita e agli interessi palestinesi e non crollerà se qualche centinaio di terroristi di Hamas che hanno trascorso alcuni anni nelle prigioni israeliane verranno liberati.

Se Israele vorrà avere dei colloqui di pace diretti con l'Autorità palestinese lo farà sapendo che esiste una base affidabile sulla quale sarà possibile arrivare ad un accordo su «due Stati per due popoli», come il nostro primo ministro, a suo dire, si augura. L'unica possibile argomentazione morale valida contro la liberazione di Gilad Shalit è legata al fatto che, in base all'esperienza passata, alcuni dei prigionieri liberati potrebbero tornare a commettere atti terroristici e perciò non sarebbe giusto liberare un unico soldato in cambio della possibile perdita della vita di molti altri israeliani.

Ma nella situazione attuale un'eventuale nuova ondata di attentati in seguito alla liberazione di Shalit non è poi così plausibile. Le amare esperienze del caso di Ahmed Jibril (in cui furono rilasciati 1150 prigionieri palestinesi in cambio della liberazione di tre soldati israeliani) e del caso Goldwasser-Regev (dopo la seconda guerra del Libano) avvennero prima del ritiro dalla striscia di Gaza. Ora una parte dei prigionieri liberati tornerà a Gaza, dove il danno che potrebbero arrecare a Israele sarebbe limitato, mentre quelli che faranno ritorno in Cisgiordania dovranno confrontarsi con l'efficace collaborazione tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi che certamente potrebbero controllare le loro mosse.

Tuttavia, e sarebbe impossibile ignorare questa ipotesi, c'è comunque il rischio che una parte dei prigionieri liberati possa cercare di commettere attentati ed è questa a mio parere l'unica argomentazione morale contro la liberazione di Gilad Shalit.

Vorrei controbattere a questa argomentazione riportando alla memoria l'operazione di Entebbe, della quale tutti gli israeliani vanno fieri ancora oggi. Per liberare dei passeggeri di un volo dirottato, in mano a un'organizzazione terroristica da meno di due settimane e per i quali esisteva una plausibile possibilità che fossero rilasciati in seguito a una negoziato mediato da organismi internazionali, Israele era pronto a rischiare (e di fatto lo fece) la vita di molti di loro e dei suoi soldati. Tre israeliani, tra cui due civili e un ufficiale dell'esercito (Yonatan Netanyahu), rimasero uccisi nel corso di quella azzardata operazione che solo per miracolo non finì in maniera ancora più tragica.

Ma un rischio tanto grande viene ancora oggi guardato, e a ragione secondo me, come un atto eroico e di ardimento morale. Se quindi Israele non esitò a porre in pericolo la vita di molti suoi cittadini per ottenere la loro liberazione non c'è nessun motivo per cui, in una situazione in cui non esiste alcun margine di intervento di tipo militare, non si assuma il rischio (al momento puramente teorico) di liberare il soldato Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da quattro anni e che se non sarà liberato potrebbe pagare con la vita.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7541&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 08, 2010, 09:07:31 am »

8/9/2010

La rivolta degli attori di Ariel

AVRAHAM B. YEHOSHUA

Nella città di Ariel, eretta dagli israeliani nel cuore dei territori palestinesi, è stato costruito un nuovo centro culturale. I suoi dirigenti hanno invitato i maggiori teatri di Israele ad allestirvi le rappresentazioni di successo e questi hanno accettato, felici di ampliare il pubblico pagante.

Ma un piccolo gruppo di attori fra i più in vista del Paese ha firmato un comunicato in cui dichiara di non avere intenzione di varcare la linea verde che separa Israele dai territori destinati al futuro Stato palestinese per recitare in un insediamento illegittimo ai loro occhi, la cui esistenza causa sofferenza ai palestinesi privati dei diritti civili, costretti a subire limitazioni negli spostamenti, posti di blocco, un arbitrario sfruttamento delle risorse idriche e l'esproprio delle terre per costruire le case di Ariel.

Il rifiuto degli attori, espressione di una ferma posizione politica (ovverosia la delegittimazione degli insediamenti israeliani sorti oltre il confine antecedente la guerra del 1967) non è tuttavia rivolto contro i residenti della città di Ariel. Se infatti costoro si recassero in gruppo a Tel Aviv o in qualunque altro luogo entro i confini di Israele per assistere a una rappresentazione teatrale quegli stessi attori di certo si direbbero disponibili a recitare, malgrado le differenti opinioni politiche. Il rifiuto è dunque verso il luogo, illegittimo anche su un piano internazionale e ostacolo alla pace in base al principio, ormai accettato da Israele, di due Stati per due popoli.

La presa di posizione degli attori complica peraltro i loro rapporti con i teatri per i quali lavorano, in quanto potrebbe compromettere la messinscena delle opere in cartellone nel nuovo centro culturale. Ma i firmatari del comunicato, e i drammaturghi a loro solidali, hanno dichiarato di essere pronti a sostenere le conseguenze legali di tale scelta. Nel frattempo il maggiore teatro di Tel Aviv ha annunciato di essere disposto ad accettare il rifiuto dei propri attori di recitare ad Ariel e a trovare loro dei sostituti. Altri teatri hanno invece optato per la linea dura, proclamando che costringeranno i loro artisti a recitare sui palcoscenici di qualunque città scelgano di mettere in scena le proprie opere, in forza dei contratti da loro siglati.

La vicenda ha suscitato molto clamore in Israele e gran parte dell’opinione pubblica ha protestato con veemenza contro il rifiuto degli attori di recitare al di là della linea verde. Qualche firmatario, spaventato dalla violenta reazione, ha ritirato la propria adesione. I più però sono rimasti fermi nel loro proposito. La reazione del ministro della cultura e del capo del governo israeliani è stata dura e singolare a un tempo. Essendo i teatri parzialmente sovvenzionati dallo Stato Netanyahu e Livnat (il ministro della cultura) considerano gli attori dei dipendenti pubblici e il loro rifiuto a recitare laddove il teatro decide è visto da loro come una violazione del contratto di lavoro che potrebbe implicare tagli alle sovvenzioni.

Questa reazione è naturalmente estremista e influenzata da chiare motivazioni politiche. È vero che lo stato sovvenziona numerose istituzioni culturali, accademiche e religiose, come è tenuto a fare, ma sarebbe impensabile considerare i lavoratori di tali istituzioni dei dipendenti statali, tenuti a uniformarsi alle tendenze politiche di questo o di quel governo.

Dinanzi alla rabbia del governo e di ampi settori dell’opinione pubblica israeliana un gruppo di intellettuali e accademici ha pubblicato una petizione a sostegno della legittimità della presa di posizione degli attori (i quali peraltro, va ricordato, corrono dei rischi in campo professionale). Ovviamente anche questa iniziativa ha sollevato un vespaio, e il clamore non si è ancora placato.

Io, che da più di quarant’anni sono coinvolto nella lotta contro gli insediamenti illegali e per il riconoscimento del diritto dei palestinesi a uno Stato, ho notato che negli ultimi tempi si è instaurato in molti miei connazionali un nuovo e insolito legame fra la tendenza al pacifismo intellettuale e quella all'estremismo emotivo. In altre parole molti israeliani, nonostante siano politicamente consapevoli che per arrivare a una normalizzazione della regione, instaurare rapporti di pace con molte nazioni arabe ed evitare che Israele diventi un’entità binazionale occorre accettare la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato nei territori conquistati nel 1967, hanno sviluppato un nuovo tipo di estremismo al limite dell’intolleranza e del nazionalismo, rivolto contro tutti coloro che condannano gli insediamenti e contro i palestinesi stessi, verso i quali si esprimono in termini inaccettabili (come ha fatto di recente il leader spirituale di un partito religioso membro della coalizione di governo).

In pratica quanto più i palestinesi danno prova di controllare il territorio, di migliorare la propria economia e di tenere a freno gli attentati terroristici, tanto più si accresce il rancore di molti israeliani nei loro confronti, come se, divenuti finalmente i palestinesi un partner serio per la pace, affiorassero in noi esitazioni e timori riguardo al prezzo che essa comporta, soprattutto quello inevitabile di smantellare gli insediamenti.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7799&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 25, 2010, 04:42:12 pm »

25/11/2010

Sionismo la parola che divide

AVRAHAM B. YEHOSHUA

Ultimamente mi sembra che si faccia un uso inflazionistico, fuorviante e forse dannoso del concetto di sionismo sia in Israele che all’estero. Questo accade sia fra gli esponenti della destra nazionalista e religiosa sia fra quelli della sinistra liberale, fra gli ebrei della Diaspora, i non-ebrei, e in particolare fra gli arabi. Per affinare quindi il dibattito sui problemi veri e importanti che ci affliggono e ridurre al minimo la demonizzazione di Israele (come sta accadendo in tutto il mondo intorno al concetto di sionismo) ritenterò di definire quanto più obiettivamente e logicamente tale concetto al fine di farvi ricorso in maniera consapevole ed evitare di trasformarlo in una specie di condimento da utilizzare con qualunque pietanza per migliorarne il sapore o, viceversa, peggiorarlo.

In primo luogo il sionismo non è una ideologia. Ecco infatti la definizione di ideologia secondo l’Enciclopedia ebraica: «Ideologia è un insieme sistematico e organico di idee, di principi e direttive in cui trova espressione il particolare punto di vista di una setta, di un partito o di un ceto sociale». Secondo tale chiara definizione il sionismo non può e non deve essere considerato un’ideologia poiché, come sappiamo, sia in passato che al presente, ha rappresentato una piattaforma comune a idee sociali e politiche differenti e persino contraddittorie. Il sionismo auspicava e prometteva un’unica cosa: fondare uno Stato ebraico. E ha mantenuto questa promessa soprattutto, sfortunatamente, in seguito al fenomeno dell’antisemitismo.

Il sionismo cercava di disegnare un quadro del futuro Stato ebraico, del suo carattere, del suo ordinamento politico, dei suoi confini, dei suoi valori sociali, del suo atteggiamento verso le minoranze e altro ancora. Tutti questi temi erano aperti fin dall’inizio a decine di interpretazioni e di posizioni politiche e sociali degli ebrei giunti in Israele e, naturalmente, agli sviluppi e ai cambiamenti in atto in ogni società umana.

Una volta fondato lo Stato ebraico - Israele - l’unico residuo attivo e significativo del sionismo è il principio della Legge del Ritorno! Vale a dire che lo Stato ebraico, oltre a essere controllato e governato mediante il Parlamento da tutti i suoi residenti in possesso di nazionalità israeliana, è ancora aperto a qualunque ebreo che ne voglia richiedere la cittadinanza. Un’analoga Legge del Ritorno esiste anche in altri Paesi: in Ungheria, per esempio, in Germania e in altri. E io mi auguro che possa essere presto introdotta nello Stato palestinese che sorgerà a fianco di quello ebraico. E come tale legge non sarà considerata razzista nello Stato palestinese, così non lo è in Israele. Quando nel 1947 le Nazioni Unite decisero di creare uno Stato ebraico non destinarono una parte della Palestina solamente ai seicentomila ebrei che vi risiedevano al tempo. Il presupposto morale era che tale Stato avrebbe dato rifugio a qualunque ebreo lo richiedesse.

Un israeliano - ebreo, arabo o altro - che si definisce non-sionista è un cittadino che si oppone alla Legge del Ritorno. E questa opposizione è legittima come qualunque altra opinione politica. Anti-sionista è chi vuole invece cancellare retroattivamente lo Stato di Israele e, a eccezione di sette estremistiche ultra-ortodosse o circoli radicali nella diaspora, non credo che molti ebrei sostengano questa convinzione.

Tutti i temi importanti e fondamentali in corso di dibattito in Israele - l’annessione o la non annessione dei territori occupati, il rapporto tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba, quello tra religione e Stato, il carattere e i valori della politica economica e sociale o persino l’interpretazione di eventi storici del passato - sono analoghi a quelli affrontati anche da altre nazioni in quanto toccano l’identità dinamica e in continua evoluzione di ogni popolo e Paese. E come in quei Paesi non si intende coinvolgere concetti estranei al dibattito, nemmeno noi ebrei dovremmo tirare in ballo il sionismo trasformandolo, ingiustamente, in un’arma nella lotta tra le parti, rendendo così difficilissimo il chiarimento delle polemiche e del loro livello di gravità. Il concetto di sionismo non dovrebbe sostituire quello di patriottismo o di pionierismo. Un ufficiale dell’esercito israeliano che firma per prolungare la ferma o che si stabilisce nel Negev non è più sionista del proprietario di un negozio di alimentari a Tel Aviv. È più pioniere o patriota, a seconda del significato che si attribuisce a questi termini.

Il sionismo è un concetto che ci è caro e quindi è importante che vi si faccia ricorso solamente nelle questioni che gli competono, ovvero la differenza tra noi israeliani e gli ebrei della diaspora. L’uso inutile e inflazionistico che ne facciamo confonde il dibattito morale tra quegli ebrei che hanno deciso, nel bene e nel male, di assumersi la responsabilità di tutti gli aspetti della loro vita in un territorio definito e in un regime autonomo e quelli che vivono in mezzo ad altri popoli e mantengono un’identità ebraica parziale mediante lo studio, cerimonie religiose, e limitate attività comunitarie.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8131&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #21 inserito:: Gennaio 24, 2011, 11:07:17 am »

24/1/2011 - LE IDEE

I giorni bui di un Israele nazionalista

ABRAHAM B. YEHOSHUA

È passato molto tempo da che ho scritto un articolo su ciò che accade in Israele. Mi sono chiesto se questo fosse dovuto alla recente uscita del mio ultimo romanzo: gli ultimi ritocchi alle bozze, l'invio delle prime copie agli amici e, naturalmente, l'emozione e l'attesa delle reazioni forse mi hanno distratto dai recenti avvenimenti del mio Paese. Ma dopo un esame di coscienza ho capito che questi non sono che pretesti. La vera ragione del mio silenzio è lo sconcerto che provo dinanzi alla diffusione di nuovi, sconosciuti e gravi fenomeni di sciovinismo nazionalista e di allarmante estremismo religioso in una società della quale credevo di conoscere, nel bene e nel male, tutti i codici.

In effetti i rappresentanti della mia generazione (e non importa se di sinistra o della destra moderata) che hanno accompagnato da vicino la crescita dello stato ebraico a partire dalla fine degli Anni 40, che per più di sessant'anni hanno partecipato attivamente alle lotte, interne ed esterne, per la sua esistenza e alla formulazione di convenzioni e di norme che ne regolano l'identità, rimangono sbigottiti e confusi dinanzi alla ventata di nazionalismo che cerca di minare quelle stesse norme. Un nazionalismo radicale che attinge da due fonti all'apparenza contraddittorie: da un lato i recessi oscuri della religione ebraica che, accanto a valori di carità e di amore per l'uomo, presenta anche aspetti di evidente razzismo. Dall'altro (sorprendentemente di origine secolare) il vecchio totalitarismo sovietico importato da Lieberman e dal suo partito.

Vero, in tutto il mondo il fondamentalismo religioso e il nazionalismo sono fenomeni in crescita. Rimaniamo sorpresi nel riscontrare queste tendenze in Ungheria, in Olanda, e persino qua e là nelle nazioni scandinave. Anche la nuova destra americana infrange regole ritenute intoccabili dalla vecchia. Ma tutti questi Paesi possiedono una solida identità nazionale e non devono fare i conti con nemici esterni. In Israele, invece, l'identità nazionale è ancora agli inizi. Ci sono abissali differenze tra laici e religiosi, una grande eterogeneità di gruppi di ebrei di provenienze e culture diverse, e una cospicua minoranza di arabi israeliani che rappresenta circa il venti per cento della popolazione. Tutto questo rende complicato mantenere un fondamentale senso di solidarietà sociale, fragile e incline a essere influenzato.

Assistiamo dunque a uno strano paradosso. Nell' opinione pubblica israeliana si rinsalda la convinzione generale che il consenso, in linea di principio, alla creazione di uno Stato palestinese sia la soluzione al conflitto con i palestinesi (anche se per molti questo consenso si accompagna alla pessimistica sensazione, giustificata o no, che la creazione di uno Stato palestinese avverrà in un futuro molto lontano). Persino l'ultra nazionalista ministro degli esteri Lieberman è teoricamente d'accordo con questo principio. Ma quanto più i toni del dibattito sulla creazione di questo stato si smorzano, e le reali differenze politiche sul tema scompaiono, tanto più in Israele si risveglia un'impetuosa ondata nazionalista che tende a ledere inviolabili diritti civili e a pretendere strambe dichiarazioni di fedeltà alla patria, pena la revoca della cittadinanza. Così, a momenti, sembra che l'energia che in passato era diretta verso nemici esterni sia ora convogliata verso «nemici interni», considerati dalla destra nazionalista sostenitori delle forti critiche verso Israele da parte dell'Europa. Critiche che arrivano a toccare livelli assurdi, quali la delegittimazione dello Stato ebraico, per esempio. E i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani sulla violazione dei diritti dei palestinesi nei territori, o sul comportamento brutale di alcuni soldati che violano il codice morale militare, sono visti da una parte dell'opinione pubblica israeliana quasi alla stregua di un tradimento, quando invece, per molti anni, uno dei punti di forza di Israele è stato quello di concedere piena libertà di espressione ad autocritiche ideologiche pertinenti, e alla possibilità di affrontarle pubblicamente, nel bene e nel male, senza attribuirle a fonti straniere ostili che la alimentano.

E benché sia principalmente la destra estremista a cavalcare quest'onda (con la silenziosa complicità di quella classica di Netanyahu e di alcuni esponenti del centro all'opposizione) anche l'universo religioso, con tutte le sue correnti, diventa sempre più oltranzista, inventando nuovi divieti e forme di tormento. Chi avrebbe mai pensato che nella mia città natale, Gerusalemme, sarebbe stata introdotta la separazione tra donne e uomini su alcune linee di trasporto urbano? Chi avrebbe mai pensato che gli ultra ortodossi avrebbero «conquistato» interi quartieri in varie città proibendo ai loro seguaci di affittare appartamenti agli arabi? Il ritorno al giudaismo non si esprime soltanto con lo studio di testi antichi ma anche con l'esistenza di due partiti politici controllati da anziani rabbini che impartiscono ordini e istruzioni a membri della Knesset e a ministri del governo su come comportarsi e come votare.

E cosa fa la sinistra? Anziché essere un po' più attiva sulla scena politica o ideologica si occupa di cultura. Non c'è mai stato in Israele un periodo di fioritura culturale come quello attuale. Con una popolazione di meno di sette milioni di abitanti il paese sforna decine di produzioni teatrali di tutti i generi, le sue straordinarie compagnie di ballo ottengono riconoscimenti in tutto il mondo, l'industria cinematografica è dinamica e originale, l'opera lirica è attiva e vivace, musicisti di talento riempiono le sale da concerto e numerosi libri, di narrativa e saggistica, sono tradotti in lingue straniere.

Ma sul piano politico l'attività della sinistra è limitata e debole. A eccezione di qualche sporadica manifestazione i partiti progressisti sono più che altro occupati in litigi e scissioni. Qualche loro rappresentante sostiene addirittura la coalizione Netanyahu - Lieberman mentre circoli ultra-liberali non fanno distinzione tra la tutela degli importanti diritti degli arabi israeliani e l'automatica difesa di infiltrati illegali africani. La sinistra ha da tempo perso contatto con i ceti popolari e appare debole, lamentosa e confusa.

La recente spaccatura del Labour e le dimissioni di Ehud Barak da presidente del partito potrebbero essere un'occasione di ripresa dell'ala socialdemocratica. Oppure no. I restanti otto membri del partito alla Knesset potrebbero anche mettersi a litigare su chi sarà il prossimo presidente. Triste.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 27, 2011, 10:55:54 am »

27/3/2011

Riflessioni sull'omicidio dei coloni

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Nel cuore del Negev, il più grande deserto di Israele, c’è il famoso kibbutz Sde Boker. Famoso non solo perché i centri abitati del Negev sono pochi e ciascuno di essi merita di essere menzionato, ma soprattutto perché il primo capo del governo israeliano, David Ben Gurion, vi si stabilì già agli inizi degli Anni 50.

Tale scelta fu fatta per proporre alla giovane nazione di cui lui era il principale architetto la sfida di un insediamento nazionale nella regione più desertica di Israele.

Una regione vasta più della metà del suo territorio e scarsamente popolata da ebrei. «Nel Negev si determinerà il destino del popolo ebraico», aveva dichiarato Ben Gurion. E questa semplice frase è incisa su una grande roccia all’ingresso di uno dei campi militari sparsi nel deserto.

La tomba di Ben Gurion si trova nel kibbutz Sde Boker e la lapide riporta, su sua richiesta, solo tre date: quella della nascita, quella della morte, e quella della sua immigrazione in Israele. La semplice casetta di legno dove lui e sua moglie Paula hanno vissuto fino alla morte è ancora meta di pellegrinaggio per molti israeliani e turisti.

Nell’istituto di studi superiori intitolato a Ben Gurion e situato vicino al kibbutz si tengono numerose attività accademiche fra le quali ogni anno, in inverno, un festival di poesia denominato «Poesia nel deserto». A esso partecipano poeti ma anche autori di prosa, ai quali viene chiesto di leggere le loro opere. Nonostante Tel Aviv disti da Sde Boker soltanto un paio d’ore, io sono solito invitare i miei tre figli e i miei sei nipoti a unirsi a me e a mia moglie per un soggiorno nel deserto, ritenendo che ogni israeliano debba recarsi una o due volte all’anno in quei luoghi e trascorrervi almeno una notte.

Abbiamo così preso alloggio in una fattoria poco lontana da Sde Boker, chiamata Zeit Midbar (Olivo del deserto): io e mia moglie nell’unico bungalow disponibile mentre i miei figli, con relativi coniugi e prole, in tende indiane riscaldate. Lì abbiamo goduto per lunghe ore l’atmosfera del deserto, la sua luce particolare, le sue voci e la vista dei pacifici animali che ci gironzolavano intorno.

Quello stesso giorno ci sono giunte le terribili notizie del terremoto in Giappone e dell’omicidio della famiglia di coloni nell’insediamento di Itamar: padre, madre e tre figlioletti, tra cui una neonata di quattro mesi, brutalmente assassinati nel sonno da due terroristi palestinesi provenienti da un vicino villaggio.

Questo abominevole delitto è stato esplicitamente condannato non solo dal presidente dell’Autorità palestinese, ma anche dai direttori di alcuni importanti giornali della West Bank. Il primo ministro israeliano però, non contento delle condanne giunte da tutto il mondo e dall’Autorità palestinese, ha deciso di infliggere una punizione collettiva ai palestinesi annunciando l’immediato proseguimento della costruzione degli insediamenti in molte zone dei territori occupati. Dico «punizione collettiva» perché quale colpa hanno per esempio gli abitanti di Betlemme di un omicidio perpetrato a parecchi chilometri di distanza dalle loro case per essere espropriati da terreni destinati al futuro sviluppo dei loro figli?

La terra è una delle principali componenti dell’identità di un popolo, forse la più importante. L’ampio deserto che ci circonda è parte rilevante e preziosa della mia identità di israeliano e di quella dei miei figli. Se qualcuno ci espropriasse anche di una sua piccola parte protesterei e lotterei con tutte le mie forze. Lo Stato di Israele nei confini del 1967 occupava tre quarti della Palestina originale mentre allo Stato palestinese rimaneva solo un quarto. Perché dovremmo impossessarci di altri territori quando abbiamo a disposizione spazi vuoti che il padre della nostra nazione, David Ben Gurion, vedeva giustamente (sotto un profilo pratico, non romantico) come potenziali zone di insediamento?

Dopo tutto, con i moderni mezzi di trasporto (che continueranno a migliorare), il Negev non è lontano dal centro di Israele. E con i sofisticati mezzi tecnologici a nostra disposizione potremmo costruire nel Negev meravigliose città moderne come è accaduto in molti luoghi desolati del mondo. Perché investire denaro in provocatori insediamenti all’interno del tessuto del popolo palestinese, insediamenti che suscitano una forte opposizione nel mondo e nello Stato ebraico e per la cui esistenza e sicurezza entrambe le parti devono pagare con spargimenti di sangue? Il passato ci ha già insegnato che insediamenti simili nella penisola del Sinai sono stati sradicati dal governo di destra con l’avvento della pace con l’Egitto.

E altri irrazionali insediamenti ebraici nel cuore dei campi profughi della Striscia di Gaza sono stati rimossi con il pugno di ferro dal leader più nazionalista di Israele, l’ex primo ministro Ariel Sharon. Perché ripetere errori che l’intera comunità internazionale condanna? Perché stabilirsi provocatoriamente su territori che creeranno nuovi contrasti, quando invece Israele ha a sua disposizione ampie aree desertiche che attendono solo di essere popolate da ebrei (una scelta corretta anche da un punto di vista ecologico e morale)?

Queste sono state le nostre riflessioni nell’udire le tremende notizie di quel triste venerdì giunte da lontano e da vicino mentre a Sde Boker, fiorente kibbutz nel deserto, ascoltavamo le poesie di amici che ancora credono, giustamente, che la poesia sia in grado di penetrare profondamente nei cuori.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 18, 2011, 04:48:53 pm »

18/4/2011


AVRAHAM B. YEHOSHUA

In occasione di Pesah, la pasqua ebraica che si festeggia da questa sera, il quotidiano Haaretz pubblicherà un supplemento speciale in cui intellettuali e artisti sono stati chiamati a rispondere a varie domande.

A me è stata posta la seguente: come mai non si è ancora arrivati a una pace tra israeliani e palestinesi? Apparentemente un simile interrogativo dovrebbe essere rivolto a un orientalista, a uno studioso di scienze politiche o a uno storico, non a uno scrittore esperto unicamente della propria immaginazione. Siccome però l’argomento tocca in maniera dolorosa chiunque viva in questa regione proverò a suggerire una risposta. La domanda è seria e inquietante per due ragioni: in primo luogo il conflitto israelo-palestinese è uno dei più prolungati dell’epoca moderna. Se se ne fissa l’inizio all’avvio della colonizzazione sionista della terra di Israele, negli Anni 80 del XIX secolo, ecco che questo scontro sanguinoso prosegue ormai da 130 anni.

In secondo luogo non si tratta di una contesa marginale in un luogo remoto e dimenticato da Dio, ma di una controversia costantemente al centro dell’interesse internazionale. Negli ultimi 45 anni governi e influenti organismi internazionali hanno investito seri sforzi di mediazione tra palestinesi e israeliani, presidenti degli Stati Uniti hanno cercato di intercedere tra le parti e primi ministri di tutto il mondo hanno prestato, e continuano a prestare, seria attenzione al conflitto. Inviati di alto livello arrivano nella regione nel tentativo di raggiungere un compromesso e istituzioni e singoli organizzano regolarmente simposi e incontri. Per non parlare poi delle innumerevoli ricerche, libri e proclami pubblicati in passato e nel presente. Ma nonostante si abbia a che fare con due piccole nazioni apparentemente facili da sottomettere a diktat internazionali, e nonostante accordi parziali tra le parti (grazie a colloqui diretti più o meno segreti) siano stati raggiunti in passato e chiare formule per una soluzione siano state accettate di recente, questa controversia serba un nocciolo duro refrattario alla pace. Entrambe le parti hanno commesso molti errori e mancato numerose opportunità nel corso degli anni e siccome questo conflitto non segue un andamento lineare, bensì a spirale - vale a dire che il tempo non è un fattore essenziale per la sua soluzione e la pace si avvicina e si allontana in base alle congiunture storiche -, ha senso chiedersi cosa ci sia in esso di tanto speciale. Non ho la pretesa che la mia risposta sia l’unica possibile, però la propongo qui in esame.

Il conflitto israelo-palestinese non giunge a una soluzione perché non ne è mai esistito uno simile nella storia umana. Non vi è infatti alcun precedente al fenomeno di un popolo che dopo aver perso l’indipendenza più di duemila anni fa ed essere stato disperso fra le genti abbia deciso, in seguito a circostanze interne ed esterne, di tornare nella sua antica patria e di ristabilirvi una propria sovranità. Per questo il ritorno a Sion è considerato da tutti un evento unico nella storia umana. Quindi anche i palestinesi, o arabi di Israele, sono costretti ad affrontare un fenomeno unico, come nessun altro aveva fatto prima di loro.

Agli inizi del XIX secolo risiedevano in terra di Israele 5000 ebrei e 250.000 o 300.000 arabi. All’epoca della Dichiarazione Balfour, nel 1917, c’erano circa 50.000 ebrei e 550.000 palestinesi. Nel 1948 gli ebrei erano 600.000 e i palestinesi 1.300.000. Il popolo ebraico si è quindi raccolto rapidamente in questa regione senza avere tuttavia l’intenzione di espellere i palestinesi (e di certo non di annientarli) ma nemmeno di integrarli come avevano fatto altri popoli con i residenti locali.

Inoltre gli ebrei non hanno compiuto alcun tentativo di imporre un regime coloniale, dal momento che non avevano una nazione-madre come l’Inghilterra o la Francia che li mandasse a conquistare nuovi territori. In questa parte del mondo è avvenuto qualcosa di originale e di unico nella storia dell’umanità: un popolo è arrivato nella patria di un altro per cambiarvi l’identità, sostituendola con una nuova, ma antica.

Alla base del conflitto israelo-palestinese non vi è perciò una questione territoriale, come nel caso di tante altre controversie tra nazioni. Vi è piuttosto uno scontro sull’identità nazionale dell’intera patria, di ogni sua pietra e di ogni suo angolo. A entrambe le parti però - e ai palestinesi in particolare -, non sono chiare le dimensioni del popolo che hanno di fronte. Si tratta soltanto degli ebrei israeliani o di tutti gli ebrei della diaspora? E davanti agli israeliani è schierato solo il popolo palestinese o l’intera nazione araba? In altre parole neppure il confine demografico fra le parti è chiaro. Questo contrasto profondo crea dunque una costante e profonda sfiducia tra i due popoli impedendo una possibile soluzione del conflitto.

Sarebbe possibile risolvere questo scontro senza cadere nella trappola di uno Stato binazionale? La mia risposta è sì.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #24 inserito:: Maggio 21, 2011, 04:23:02 pm »

21/5/2011



ABRAHAM B.YEHOSHUA

L’accordo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese ha provocato l’ostile reazione ufficiale di Israele. Tanto per cominciare il fatto che dopo tanti tentativi di riconciliazione le due fazioni rivali del popolo palestinese abbiano firmato un accordo ha colto completamente di sorpresa i nostri servizi di intelligence. E per questo i loro responsabili si sono affrettati a proclamare che l’accordo non durerà. Non so se tale ipotesi sia veramente fondata o sia piuttosto un tentativo di giustificare lo smacco. Io, ormai, ho smesso di sgomentarmi per fiaschi ben più gravi dei servizi di intelligence di Israele e di altri Paesi. Se nessuno di loro è riuscito ad anticipare la rapida disgregazione del regime comunista sovietico e dei Paesi sotto il suo controllo faremmo meglio a non riporre troppe speranze nelle loro capacità di previsione. Spesso, invece, sono intellettuali o persone dallo sguardo acuto che non siedono in stanze buie in ascolto di messaggi segreti a possedere virtù profetiche. Ricordo un anziano professore, esperto di storia orientale antica, arrivato negli Anni 80 da Mosca alla nostra università di Haifa col quale chiacchieravo nei corridoi tra una lezione e l’altra che proclamò con sicurezza che l’impero sovietico era un castello di carte che sarebbe crollato di colpo. All’epoca pensavo che quello fosse soltanto un suo pio desiderio, ma a quanto pare proprio un docente di antichità orientali era riuscito a diagnosticare il marciume all’interno del regime comunista che a quel tempo appariva solido e forte.

Il Mossad israeliano, che gode di ottima fama presso le organizzazione di intelligence del mondo intero, non riuscì a prevedere, ad esempio, lo scoppio della seconda Intifada (che per qualche anno provocò un bagno di sangue fra palestinesi e israeliani) nel settembre 2000 nonostante i suoi agenti e le sue spie fossero sparsi in tutto il territorio palestinese. Talvolta una ricca esperienza accumulata in passato può paralizzare e distruggere ogni capacità di analisi e di comprensione di nuovi segnali. Quindi, anche se non so quali conseguenze avrà l’accordo tra il governo di Hamas a Gaza e l’Autorità palestinese, io e molti altri miei compagni del movimento pacifista israeliano speriamo, contrariamente al nostro governo, che questa riconciliazione perduri. E cercherò di spiegare la mia posizione.

1. Innanzitutto una riconciliazione di questo tipo tende a ridurre la violenza e l’estremismo giacché un governo di unità nazionale non è tenuto ad allinearsi a posizioni oltranziste e può intraprendere iniziative moderate. 2. Nonostante l’estremismo religioso di Hamas le sue posizioni non sono lontane da quelle dell’Olp di Yasser Arafat negli Anni 70 e 80 del secolo scorso. E come l’Olp ha escogitato una soluzione ideologica per retrocedere dal suo fermo rifiuto di riconoscere Israele e dichiararsi disponibile al negoziato, così Hamas (che un tempo era parte dell’Olp) potrebbe cambiare e modificare le proprie convinzioni al fine di legittimare in linea di principio l’esistenza di Israele e ricevere a sua volta un riconoscimento.

Nel corso della mia lunga vita ho assistito a cambiamenti di posizioni ideologiche sia da parte del centro destra israeliano che da parte dei palestinesi. E talvolta provo imbarazzo per il fatto che proprio noi del movimento pacifista siamo rimasto fermi nelle nostre convinzioni, non tanto a causa di una mancanza di immaginazione e flessibilità quanto, probabilmente, perché la realtà ha dimostrato che tali idee sono le più appropriate. 3. L’impegno verbale di Hamas di sottostare a un unico comando militare è estremamente importante. Non so se Hamas lo rispetterà, e soprattutto se sarà in grado di controllare tutte le piccole organizzazioni estremistiche che brulicano nella Striscia di Gaza e sfidano la sua autorità. Nel frattempo, da quando l’accordo è stato firmato, al confine tra Gaza e Israele regna la calma.

Occorre anche ricordare che la volontà di Hamas di raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese non deriva soltanto dalla debolezza del regime siriano ma soprattutto dal fallimento delle azioni belliche da esso intraprese dopo il ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005. Anche se i razzi sparati dalla Striscia sono stati estremamente molesti i danni che hanno causato in termini di vite umane e di distruzione sono stati relativi. Viceversa il prezzo pagato dagli abitanti di Gaza per le rappresaglie israeliane, per l’operazione «Piombo Fuso» e per l’assedio imposto da Israele e dall’Egitto è stato molto elevato. Così, questo accordo è un’occasione per Hamas di raggiungere un cessate il fuoco con Israele senza doverlo ammettere.

4. E un’ultima cosa. Non dobbiamo dimenticare che nonostante l’accordo tra l’Autorità palestinese e Hamas la Striscia di Gaza rimane isolata e separata dai territori dell’Autorità Palestinese e Israele è responsabile di tutti i valichi di confine tra queste due zone. La possibilità che Hamas sconfigga l’Autorità palestinese nelle prossime elezioni o provochi apertamente il governo di Abu Mazen è dunque assai limitata. Il potere di Hamas si concentra nella Striscia di Gaza e l’accordo con l’Autorità palestinese, se si rivelerà duraturo, potrà mantenere un governo unitario moderato e razionale in vista della dichiarazione di indipendenza palestinese alle Nazioni Unite il prossimo settembre.

A mio parere le giuste basi di tale dichiarazione dovrebbero essere le seguenti: 1. Il rispetto dei confini del ’67. 2. Lo smantellamento dell’artiglieria pesante nello Stato palestinese. 3. Il diritto al ritorno dei profughi del ’48 nello Stato palestinese, non in Israele. 4. Il riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale del nuovo Stato. E tutto questo sotto la stretta supervisione e con il generoso aiuto della comunità internazionale. Solo in futuro sapremo se queste ottimistiche ipotesi si riveleranno giustificate. Nel frattempo consiglio a tutti coloro che appaiono sgomenti e atterriti da questo accordo tra Hamas e l’Autorità palestinese di pazientare.

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« Risposta #25 inserito:: Luglio 11, 2011, 09:18:02 am »

11/7/2011
 
Perché Israele deve scegliere il negoziato
 

ABRAHAM B. YEHOSHUA
 
La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.

Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.

I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.

Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.

Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato - perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967.

Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione.

Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.

L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
 
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« Risposta #26 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:13:25 pm »

25/7/2011

Una proposta per far ripartire il negoziato

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Alla ripresa dei negoziati tra Israele e i palestinesi si oppongono diversi ostacoli che non sono che una premessa di quelli che si riveleranno durante le trattative. Uno di questi è la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come Stato «ebraico», e che loro si rifiutano di soddisfare.

Diamo un’occhiata a cosa si nasconde dietro tale richiesta, avanzata, credo, già all’epoca del governo Olmert.

Se dietro a essa si nasconde il rifiuto di Israele di accogliere entro i propri confini i profughi palestinesi della guerra del ’48, perché girare intorno alla questione e non dirlo apertamente?

Ritengo che oltre il 95 per cento dei cittadini ebraici di Israele respinga fermamente questa eventualità, sia che i profughi del ’48 siano ora residenti in Cisgiordania e a Gaza, sia nei Paesi arabi. È chiaro infatti che non potranno tornare a fantomatiche «case» ormai inesistenti in un Paese per loro straniero, ma solo a una patria nella quale provino un senso di comune identità. Solo lì potranno rifarsi una vita, a una distanza massima di 10 o 15 chilometri dalle loro case distrutte e dalle terre conquistate dagli israeliani durante la guerra del ’48. In ogni caso, per ricostruire o restaurare quelle originali e ridare la terra ai profughi, Israele dovrebbe evacuare decine, se non centinaia di migliaia, di suoi cittadini, che diverrebbero a loro volta degli esuli.

Tutto il mondo può quindi capire la nostra posizione, compresi i palestinesi che sanno bene che la pretesa di un ritorno dei profughi (fatta eccezione per un numero molto limitato di persone per motivi di ricongiungimento familiare) non verrebbe mai accettata e la pongono unicamente come eventuale carta di scambio o come tentativo di impantanare i negoziati.

Ma se dietro la richiesta del governo Netanyahu di riconoscere Israele come «Stato ebraico» (che, per inciso, non è mai stata posta come condizione a un accordo di pace con l’Egitto o la Giordania) si nasconde qualcosa di più grande e profondo, giustamente i palestinesi vogliono sapere cosa. Forse il desiderio di un placet morale e politico a un’ulteriore riduzione dei diritti degli arabi israeliani? In questo caso i palestinesi avrebbero ragione a respingerla. Se invece tale governo pretende che i palestinesi riconoscano il principio che qualsiasi ebreo, in qualunque parte del mondo, fa parte dello Stato di Israele solo grazie alla sua nazionalità ebraica (cosa inaccettabile anche per molti ebrei), allora, giustamente, vorrebbero innanzi tutto sapere quale sia la definizione ufficiale di «ebreo» e, in secondo luogo, rifiuterebbero la mediazione di un inviato americano quale Dennis Ross, del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner o di altri ancora perché, essendo ebrei (e quindi «appartenenti» a Israele), non potrebbero svolgere la loro missione in maniera imparziale. Come reagirebbe infatti Israele se la futura Palestina pretendesse di essere riconosciuta come lo Stato di tutto il popolo arabo e dell’intera nazione islamica?

In poche parole nella mente politica israeliana si è creata una specie di strana idea fissa intesa a bloccare i negoziati, o a esprimere una profonda aspirazione ebraica di porre fine alle dispute in maniera teologica, come preparazione alla venuta del messia. Si vorrebbe insomma risolvere un conflitto che dura da 120 anni non come farebbero altri popoli, ma in un modo più profondo, completo, chiedendo cioè ai palestinesi di riconoscere non solo l’ideologia sionista ma anche l’intera storia ebraica.

Avrei allora una proposta alternativa, che sarebbe forse accettabile per i palestinesi. Proporrei loro di ascoltare i nostri nazionalisti fanatici - per lo più religiosi - quando cantano in preda a estasi vicino alle loro case: «La Terra di Israele appartiene al popolo di Israele» e non «La terra di Israele appartiene agli ebrei», «al popolo ebraico» o «alla nazione ebraica». Se proprio quindi non possiamo farne a meno, anziché porre loro la condizione di riconoscere Israele come «Stato ebraico», dovremmo chiedere che lo riconoscano come «lo Stato del popolo di Israele» o «del popolo israeliano». Proprio come noi riconosceremmo la Palestina come lo Stato del popolo palestinese. Questa simmetria sarebbe corretta e accettabile anche dal punto di vista della nostra terminologia storica e religiosa. Una formulazione che rimuoverebbe una mina sulla strada del negoziato e che, credo, i palestinesi non avrebbero motivo di rifiutare.

Traduzione di Alessandra Shomroni
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9016
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 03, 2011, 04:23:36 pm »

3/8/2011

Giovani, indignarsi non basta

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Sei mesi fa un giovane scrittore mi ha invitato come ospite di un suo laboratorio di scrittura. Sono arrivato a una casa in uno dei quartieri più eleganti di Tel Aviv il cui bel salone era affollato da una sessantina di giovani scrittori e poeti ansiosi di ricevere suggerimenti da un esperto collega. Prima di rispondere alle domande ho però detto loro: se fossi venuto a parlare della possibilità di riscattare il movimento laburista israeliano ci sarebbero state a malapena 3 o 4 persone ad ascoltarmi.

Mi sono ricordato di questo episodio osservando, stupito e soddisfatto ma anche preoccupato e confuso, le tendopoli sorte in questi giorni in Israele in segno di protesta contro la politica del governo. Una protesta decisa e autentica nella quale già si riconoscono segnali di aggressività da parte di giovani e meno giovani e incentrata, per il momento, su una sensazione di impotenza dinanzi al continuo e insostenibile aumento dei costi delle case e degli affitti. È chiaro tuttavia che dietro a tale protesta si nasconde un disagio più profondo, conseguenza del crescente indebolimento dello stato sociale e dei valori di solidarietà che sono stati per anni il fondamento dello stato ebraico. E nonostante l’economia israeliana abbia resistito bene alla crisi finanziaria globale sono stati i ceti medio bassi della popolazione a sobbarcarsi il fardello di questo successo al prezzo di una crescente difficoltà a sbarcare il lunario e di un divario sempre più ampio tra le classi sociali.

Ma questa protesta spontanea potrà trasformarsi in una presa di posizione politica e ideologica tale da garantire risultati a lungo termine in parlamento e una svolta nella linea politica dell’attuale governo? Oppure resterà una contestazione un po’ infantile, ricca di espedienti e di creatività mediatica che si esaurirà da sé, o in seguito a qualche rassicurante promessa di riforma, reale o immaginaria, già fatta dal governo Netanyahu?

Dopo tutto Israele non è la Siria o l’Egitto, nazioni prive di infrastrutture politiche e ideologiche in grado di incanalare le proteste o la «rivoluzione» democratica in atto. Israele non ha bisogno di Piazze Tahrir né di manifestazioni violente nelle principali città. Qui abbiamo partiti politici con lunghi anni di esperienza e i membri del partito laburista, di quello comunista arabo-israeliano e del Meretz alla Knesset, persone competenti e affidabili, conoscono bene i problemi sociali del Paese e già da molti anni parlano del crescente divario fra le classi e del fatto che, anche se il tasso di disoccupazione non è alto rispetto ad altri Paesi occidentali, molti lavoratori si trovano al di sotto della soglia di povertà. Tali rappresentanti propongono serie soluzioni economiche per alleviare il crescente malessere e costruiscono modelli ideologici su come mantenere lo stato sociale senza precipitare in un deficit finanziario come quello della Grecia o della Spagna. Purtroppo gli organizzatori della protesta delle tendopoli e altri cittadini in difficoltà non supportano pienamente la sinistra democratica e sono ancora indecisi se impegnarsi in un’attività politica in vista delle future elezioni. E mentre decine di migliaia di persone sfilano in cortei nelle strade delle grandi città solo poche decine sono disposte a presenziare ai raduni dei candidati del partito laburista in corsa per la leadership.

Per quale motivo? Non c’è dubbio che il tradimento del presidente Shimon Peres e del ministro della Difesa Ehud Barak, ex leader del Labour, che hanno spinto il partito a perseguire una politica sociale di destra e che poi, per opportunismo politico, lo hanno abbandonato unendosi alle fazioni di Sharon e Netanyahu, hanno danneggiato la reputazione del movimento socialdemocratico lasciandolo lacerato e impoverito. Ma ora che questo movimento cerca il riscatto grazie a leader seri, giovani o anziani, non potrà ricostruire una vera forza politica senza il sostegno dei ceti meno abbienti e senza l’entusiasmo di ragazzi che, usciti dall’apatia, hanno deciso di protestare coraggiosamente contro il governo.

Talvolta è la ricca e vivace vita culturale israeliana a prendere il posto di un’attività politica organizzata e pure le comunicazioni via Internet e la rete sociale Facebook creano un clima di beato narcisismo che non sprona la gente a recarsi a votare nel giorno delle elezioni. La destra israeliana è forte, ben organizzata e gode del sostegno incondizionato dei partiti religiosi che beneficiano di generosi sussidi, sia negli insediamenti illegali dei territori occupati sia nelle roccaforti dei centri di studio religiosi. E infatti non ci sono molti religiosi osservanti nelle tendopoli sorte nelle varie città. Se perciò i giovani organizzatori dell’attuale protesta non vogliono che il loro movimento rimanga un episodio isolato dovranno impegnarsi a portare avanti un grigio e costante lavoro politico per rivitalizzare il movimento socialdemocratico che ha dato ottimi risultati nel periodo della creazione di Israele e nel suo governo per lunghi anni. È vero, l’attività politica può essere sfibrante, frustrante e riservare non poche delusioni. Ma chi pensa di poter rimanere in disparte ed evitare di sporcarsi le mani lascerà il campo ad altri che porteranno avanti una politica di tipo diverso e si ritroverà in una tenda stretta e soffocante come parte di una protesta forse di tutto rispetto ma inefficace.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9051
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 18, 2011, 04:36:59 pm »

Cultura

16/09/2011 - INTERVISTA

Yehoshua: si fa presto a dire letteratura ebraica

Abraham Yehoshua (qui in un disegno di Paolo Galetto) inaugura domani (ore 21, Tempio di Adriano) il IV Festival internazionale di letteratura ebraica, in scena fino al 21 settembre al Vecchio Ghetto di Roma
 
"Oggi i problemi di noi israeliani sono altri: il nostro Paese, la pace, la sicurezza, la giustizia, i rapporti con i palestinesi"

MARIO BAUDINO

La letteratura ebraica non è quel che in genere si immagina: non è tutta la letteratura scritta da ebrei, ma quella scritta da ebrei e che riguarda temi ebraici. Kafka non fa parte di quest’ambito, e tanto meno Proust. Giorgio Bassani, invece, sì. Abraham Yehoshua, domani, ne parlerà a Roma, nel fine settimana dedicato al festival della cultura ebraica. Ma questa distinzione che fa il grande scrittore israeliano non è solo tecnica, va al di là di un ragionamento di critica o storia letteraria. È noto che varie volte Yehoshua ha espresso la propria ferma opinione che per gli scrittori ebrei di tutto il mondo sarebbe importante familiarizzarsi con l’ebraico, proprio come ogni intellettuale, nel Medioevo, conosceva il latino. Anche per superare una certa disattenzione reciproca fra gli ebrei di Israele e quelli della diaspora.

Intende dire che la letteratura ebraica, che è stata così importante per la nostra cultura, dà segni di stanchezza?
«Per me come israeliano la letteratura ebraica non è così fondamentale, anche se ovviamente quella israeliana è parte di essa. O almeno, non lo è in Israele, dove i problemi sono diversi, e magari si guarda con maggiore interesse, che so, a Dostoevskij o Faulkner. La letteratura della diaspora nasce da scrittori ebrei che agivano in un ambiente non ebreo, appunto, isolati in un mondo ostile, e quindi con un forte problema legato all’identità. Dovevano confrontarsi soprattutto con l’antisemitismo. Per noi israeliani c’è semmai il rapporto con la situazione delle minoranze che vivono nel nostro Stato, coi palestinesi per esempio. Con le minacce alla sicurezza, i problemi della pace e della giustizia. L’antisemitismo, almeno per gli scrittori, non è più il tema fondamentale».

Lo scrittore ebreo esiste ancora, in quanto tale, al di fuori di Israele?
«Sì certo. Però le voglio raccontare un aneddoto. Saul Bellow era mio amico. E si chiacchierava del fatto che si sentiva sempre più infastidito al sentirsi chiamare scrittore ebreo. Lui era americano. Questo dà luogo a molte riflessioni».

In che senso?
«Nel senso che io sono indubbiamente uno scrittore ebreo. Scrivo in ebraico, mi rifaccio una tradizione che per me è importantissima, anche se non più delle altre, non più per esempio di Dante Alighieri, ma è la mia, quella della mia lingua. La letteratura ebraica in senso lato resta significativa, ma non come è stata fino alla seconda guerra mondiale, o subito dopo, basti pensare alla riflessione sull’Olocausto. Ora il problema esistenziale, dico dell’esistenza stessa degli ebrei e della loro cultura, è sentito in maniera diversa. È Israele il nodo centrale».

È questo secondo lei il motivo della straordinaria fioritura della letteratura israeliana?
«È ciò che si impone, e attrae l’attenzione di tutto il mondo. Siamo un piccolo Paese con 6 milioni di abitanti, ma la nostra letteratura interessa a tutti».

Come lo spiega?
«Perché questa letteratura parla di una società moderna e democratica che combatte per la sua vita e la sua legittimazione».

E questo è uno di quei problemi che riguardano appunto tutti?
«Le faccio un esempio italiano, di un autore a me molto caro. Leonardo Sciascia affronta il tema della mafia. Ora per questo è molto interessante, perché la mafia non riguarda solo la Sicilia, ma tutta l’Italia. E non solo l’Italia, anche Israele».

Lei si è espresso varie volte per una letteratura «impegnata», dove l’impegno consiste nell’affrontare temi sostanzialmente etici attraverso la narrazione. Ritiene che il successo degli scrittori israeliani nasca da questa forma di impegno?
«Per molti aspetti sì. La situazione del Medio Oriente pone domande cruciali, cui bisogna rispondere».

Sembra quasi che valga la formula: più problemi, più letteratura. Non è del tutto confortante.
«Se guardiamo all’Europa, vediamo una grandissima letteratura proprio al tempo dei totalitarismi. Fra il 1918 e il 1939 c’è stata una eccezionale creatività. Scrittori giganteschi, da Thomas Mann a Kafka, a Pirandello. L’Europa bruciava e la creazione diventava sempre più importante».

Una società calma, stabile, ordinata, esprime una cultura mediocre? Lei darebbe la grande letteratura israeliana in cambio della pace?
«A me basterebbe che per qualche mese almeno non si dovesse menzionare Israele sui giornali di tutto il mondo».

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/420477/
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 10, 2011, 04:45:35 pm »

10/10/2011 - ISRAELE-PALESTINA

Barack Obama ci ha deluso: forza Europa

ABRAHAM B. YEHOSHUA

Barack Obama è stato nominato presidente degli Stati Uniti nel gennaio 2009, poco tempo dopo le ultime elezioni israeliane che hanno decretato la sonora sconfitta della sinistra israeliana e la presa del potere da parte del Likud guidato da Netanyahu.

Ricordo l’arrivo del presidente a Chicago con la moglie e le figlie nel novembre del 2008, dopo aver appreso il risultato delle elezioni. All’emozione e all’euforia della folla che lo acclamava, si aggiungeva quella dei sostenitori della pace israeliani.

Naturalmente eravamo felici che alla Casa Bianca stesse per insediarsi un politico di tipo diverso, un autentico progressista, che avrebbe attuato riforme in campo sanitario ed economico.

Avevamo anche la sensazione che il fatto che un uomo di colore fosse stato eletto alla carica più prestigiosa al mondo rappresentasse un grande successo per la dottrina liberale. Ricordavamo che Barack Obama era stato l’unico senatore ad avere votato contro l’invasione americana dell’Iraq e speravamo che quest’uomo di solidi principi potesse aiutare la riconciliazione tra gli Stati Uniti e il mondo arabo e imprimere slancio al processo di pace tra Israele e i palestinesi. In un certo senso l’elezione di Obama era una sorta di consolazione per la sconfitta della sinistra nelle elezioni israeliane.

L’inizio, in effetti, fu promettente, sia su un piano interno (con la riforma sanitaria) che internazionale (il discorso al mondo arabo tenuto all’Università del Cairo, la pressione su Israele per la moratoria su nuove costruzioni negli insediamenti, e il chiaro proclama che i confini del futuro stato palestinese sarebbero stati quelli del ‘67).

Lentamente, però, cominciammo ad avvertire una certa delusione dovuta alle persistenti difficoltà economiche degli Stati Uniti e allo stallo del processo di pace in Medio Oriente. Di fronte al risveglio delle forze religiose ed estremiste di destra in vista della prossima campagna per le presidenziali sembra, infatti, che Obama abbia rinunciato a tentare di convincere Israele e i palestinesi a raggiungere un accordo. Il suo fallimento nell’ottenere da Netanyahu un nuovo blocco delle costruzioni negli insediamenti e nell’impedire ai palestinesi di presentare una richiesta di riconoscimento del loro stato alle Nazioni Unite (evitando così il veto americano nel Consiglio di Sicurezza) fa pensare che le speranze riposte in questo presidente fossero eccessive. Oggi Obama ricorda più un pacato assistente sociale animato da buone intenzioni e convinto che discorsi assennati possano convincere i suoi turbolenti pazienti ad accettare soluzioni valide che un leader dotato di forte autorità in grado di imporre sanzioni.

Il suo ultimo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non solo lascia trapelare un eccessivo sostegno a Israele ma soprattutto un senso di scoramento per l’incapacità di giungere a una soluzione del conflitto israelo-palestinese. E questa è la mia sensazione da anni. La sinistra israeliana non solo è delusa da Obama ma anche dall’incapacità degli Stati Uniti di imporre a Israele un’equa soluzione di pace.

Quando parlo però con giornalisti, intellettuali e talvolta anche leader europei - italiani, francesi, tedeschi e britannici -, e chiedo loro come mai l’Europa esiti a prendere in mano le redini del processo di pace, spesso avverto un tono disfattista accompagnato da considerazioni del tipo: l’Europa è debole, divisa, non può accollarsi un simile compito. E poi cominciano le solite lamentele sull’instabilità economica del vecchio continente, sulle tensioni interne che impediscono un’azione comune, sulle divergenze vecchie e nuove, ecc. ecc.

Conoscendo però la storia dell’Europa del XX secolo consentitemi di dissociarmi un poco da questi piagnistei, soprattutto per quanto riguarda i quattro paesi leader: Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. L’Europa non è mai stata ricca, pacifica e politicamente e ideologicamente unita come lo è oggi. Non è soggetta a minacce esterne, militari o politiche. La sua popolazione è numericamente superiore a quella degli Stati Uniti e il tenore di vita dei suoi abitanti, soprattutto nelle nazioni occidentali, è mediamente migliore di quello dei cittadini statunitensi. L’Europa sarebbe perfettamente in grado, e dovrebbe persino, accollarsi il compito di condurre il processo di pace in Medio Oriente, una regione a essa geograficamente vicina e con la quale ha stretti legami storici.

È vero che l’alleanza fra Gran Bretagna e Stati Uniti scoraggia la prima a soppiantare la seconda. Ma trent’anni di dominio sulla Palestina nella prima metà del Novecento fanno sì che l’Inghilterra mantenga un certo grado di responsabilità verso una regione che è stata sotto il suo controllo. La Germania, che naturalmente prova ancora un profondo senso di colpa nei confronti degli ebrei, teme forse mosse politiche che potrebbero essere considerate ostili ad Israele, seppur compiute nel tentativo di raggiungere la pace. L’attuale governo italiano ha stipulato un’alleanza ideologica con il governo israeliano di destra e la Francia teme forse di tornare a un’epoca in cui le sue relazioni diplomatiche con Israele erano precipitate a infimi livelli in seguito allo strappo deciso da De Gaulle e dai suoi successori dopo la guerra dei Sei giorni.

Ma tutte queste argomentazioni si annullano dinanzi al ruolo di responsabilità che l’Europa dovrebbe avere nel processo di pace e nella creazione di due Stati per i due popoli, un principio accettato pubblicamente anche da palestinesi e da israeliani. E questo soprattutto alla luce del fallimento degli Stati Uniti in veste di valido intermediario. Si dovrebbe quindi trovare un modo per insediare una forza di pace europea che assicuri la smilitarizzazione dello Stato palestinese e scoraggi un eventuale esercito proveniente da oriente dal mettere a repentaglio la sicurezza di Israele. E che presidi sofisticate apparecchiature elettroniche in posizioni strategiche così da evitare il lancio di missili su centri abitati israeliani. Una forza europea potrebbe anche garantire la sicurezza dei coloni ebrei che decidano di prendere la cittadinanza palestinese piuttosto che essere sradicati dalle loro case.

Queste missioni di pace non coinvolgerebbero i contingenti europei in scontri sanguinosi ma garantirebbero un’adeguata supervisione e la fiducia di entrambe le parti.

Una mediazione di pace europea non sarebbe una provocazione nei confronti degli Stati Uniti ma aiuterebbe a sbloccare il processo di pace nella sua fase finale; una fase che si protrae da più di venti anni. E non è da escludere che una partecipazione europea, compatta, determinata e generosa, al processo di pace in Medio Oriente possa anche aiutare le nazioni del vecchio continente a liberarsi dell’atteggiamento di indulgente autocompatimento che non corrisponde, a mio vedere, alla loro situazione reale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9301
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