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Autore Discussione: GOFFREDO DE MARCHIS.  (Letto 75796 volte)
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« inserito:: Marzo 04, 2008, 11:27:14 pm »

POLITICA

Il leader antimafia potrebbe candidarsi con Di Pietro: "Dimenticata la lotta ai boss"

Alla fine della riunione un brindisi alla "Marini" con l'amaro Lucano

Lumia, Ceccanti e i cattolici Ds vittime della guerra dei seggi

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
ROMA - Beppe Fioroni in assetto da battaglia, maniche di camicia e telefonino sul tavolo, impegnato a difendere con i denti le candidature cattoliche ed ex popolari. Maurizio Migliavacca imperturbabile ma spietato: su tutti i candidati di provenienza Ds il vecchio coordinatore del partito ha detto l'ultima parola. Nel bene e nel male. Dario Franceschini col portatile davanti agli occhi occupatissimo a spostare, tagliare e infilare nomi e a garantire gli accordi presi dal vertice del partito. Alla fine, alla cinque di ieri mattina, hanno anche brindato alla chiusura delle liste.

È stato Migliavacca a ricordare l'antica usanza di Marini, un tempo re delle trattative sindacali prima elettorali poi, oggi sostituito da Fioroni: "Franco finiva la nottata con un bicchierino di amaro Lucano". Franceschini allora ha ordinato una bottiglia per il cin cin senza bollicine. Ai tanti esclusi, ai morti e feriti lasciati sul campo non avrà fatto piacere.

È stata davvero una notte lunghissima, è stata anche l'ultima volta al Botteghino per una riunione importante. Si sono visti lì, a Via Nazionale nella sala dedicata a Willy Brandt, i segretari regionali, gli ambasciatori delle correnti (ma Rosy Bindi si è rappresentata da sola con tabelle, quote, pronta a far valere la sua percentuale alle primarie del 14 ottobre) e i candidati che non volevano essere tagliati fuori all'ultimo minuto.

Decine di persone, ma erano pochissimi quelli che avevano il potere di vita o di morte sui candidati. Fra loro, oltre ai tre big, il veltroniano Goffredo Bettini, il franceschiniano Antonello Giacomelli, il dalemiano Nicola Latorre. Loro hanno lasciato il posto libero a Tiziano Treu, che in extremis ha ottenuto da Veltroni il lasciapassare, loro hanno tagliato i cattolici che ai tempi del maggioritario avevano scelto i Ds anziché il Ppi e la Margherita.

Mimmo Lucà è rimasto di sasso per la collocazione al nono posto in Piemonte, casella che garantisce più la trombatura che il seggio sicuro. Si è già dimesso da coordinatore dei Cristiano sociali e stamattina il piccolo gruppo riunisce il suo organismo. Di quella pattuglia c'è però Giorgio Tonini, capolista nelle Marche, ma "lui è un cattolico veltroniano", sibila Lucà. Fratelli coltelli, questi cattolici. "Vedo che ci sono tutti gli organizzatori del convegno della scorsa settimana: Fioroni, Franceschini, i teodem. Veltroni ha scelto loro e emarginato noi", dice Lucà incavolato.

Non entreranno in Parlamento, oltre al coordinatore, Marcella Lucidi e Stefano Ceccanti, il costituzionalista che lavorato gomito a gomito con Veltroni in queste settimane e che si è cercato invano di recuperare a tarda sera. In Sicilia la tagliola delle candidature ha fatto molte vittime. Loredana Ilardi, lavoratrice del call center presentata dal leader Democratico a Palermo come capolista, è scivolata al nono posto nella circoscrizione occidentale.

Ma è l'esclusione di Giuseppe Lumia a fare più rumore. Il vicepresidente della commissione Antimafia non ha ottenuto la deroga. Adesso incassa la solidarietà piena della Confindustria siciliana, dei movimenti siciliani anticriminalità. Ma le sue considerazioni sono comunque amarissime. Come il liquore servito al Botteghino. "Legalità e sviluppo non sono presenti nelle liste siciliane del Pd - osserva Lumia - basta leggerle. Io vedo il nome di Crisafulli, per esempio. Insomma, la lotta alla mafia non è una priorità del Pd e il rinnovamento in Sicilia non esiste". Lumia spiega che la Sicilia è stata trattata come terra di conquista dai paracadutati di Roma, è convinto che da oggi "gli imprenditori che fanno la battaglia contro il pizzo sono più soli". A questo punto, il leader antimafia ha tutte le caratteristiche per passare con Antonio Di Pietro. Lui non lo esclude e risponde: "Vediamo".

In Sicilia, Nuccio Cusumano, il senatore che ruppe con Mastella per salvare Prodi, non è tra i candidati sicuri. È uno sgarbo che, dice, "non mi fa piacere".

La notte di Via Nazionale ha portato ad altre esclusione eccellenti. Il veneto Gabriele Frigato aveva la deroga garantita, ma nelle liste è scivolato oltre la soglia di sicurezza. La sottosegretaria toscana Beatrice Magnolfi, appena una legislatura e mezza nel curriculum, non è stata ricandidata: "Sono amareggiata, ma non è una tragedia. Dico solo che nella selezione il merito individuale non ha premiato".

Alcuni ingressi dell'ultima ora invece sono destinati a far discutere. Salvatore Cardinale, in Sicilia, ha rinunciato la seggio, ma verrà sostituito dalla figlia Daniela, 26 anni. A sorpresa nel Lazio 2, il "regno" di Fioroni, la capolista sarà Donatella Ferranti, pm che a Viterbo diede vita a una Mani pulite locale prima dell'arresto di Mario Chiesa e che oggi è il segretario generale del Csm. E accanto agli imprenditori, il Pd schiera una fetta della Cgil: Paolo Nerozzi corre in Veneto mentre Achille Passoni, che lavorava già con Veltroni alla campagna elettorale, l'uomo che organizzò la manifestazione dei tre milioni per Sergio Cofferati, sarà eletto in Toscana.

(4 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 15, 2008, 05:22:16 pm »

POLITICA IL RETROSCENA

Massimo schiera centristi e sinistra è l'anteprima del congresso Pd

L'ex vicepremier, attaccato dai veltroniani, riunisce le opposizioni

Il segretario: confronto interno sulle riforme.

Oggi si decide sulle Europee

di GOFFREDO DE MARCHIS

 

ROMA - "Ci potevo pensare prima sul sistema tedesco? Beh, le esperienze vanno fatte e questo è il bilancio di quindici anni: un disastro", dice Massimo D'Alema in un angolo a Cesare Salvi. Dal palco gli risponde Walter Veltroni: "È vero, la Seconda repubblica non ha funzionato ma non si può tornare al periodo precedente. Dobbiamo muoverci fuori dalle nostalgie". I due leader del Pd parlano a breve distanza nel giro di venti minuti concludendo il seminario sulle riforme organizzato da Italianieuropei, Astrid e altre 12 fondazioni. È un confronto che ha il sapore dell'antipasto congressuale, di una sfida di linee e di prospettive: su alleanze, riforme, dialogo. Ma al residence di Ripetta ci sono anche molti ospiti di partiti diversi, professori, un pubblico non solo democratico. È un seminario, non una sede di partito. Il confronto dentro il Pd è rimandato, ma avverrà. Anche presto, se è vero che Veltroni pensa a un'occasione di confronto sul sistema elettorale tutta interna al Partito democratico "perché la nostra posizione non si può costruire in un'arena nobile ma estranea al Pd. Così si fa confusione su un tema molto rilevante". Insomma, sulle riforme non ci si deve far dettare l'agenda, né da Casini né da Rifondazione e neanche da D'Alema, naturalmente. Dunque se ne riparlerà o in un appuntamento ad hoc o al congresso tematico di autunno. Quella di ieri è stata solo un'anteprima.

A un seminario che conta sulla presenza di costituzionalisti illustri (gli ex presidenti della Consulta Onida e Capotosti per esempio), costituzionalisti più giovani (Andrea Giorgis e Anna Chimenti tra gli altri), il duello vero del Partito democratico è stato affidato agli esperti delle rispettive squadre. Il pasdaran veltroniano Salvatore Vassallo ricorda all'ex ministro degli Esteri quando era un fervente sostenitore del modello francese, presidenziale e a doppio turno, cioè il contrario del metodo proporzionale come quello in vigore a Berlino. L'altro esperto vicinissimo a Veltroni Stefano Ceccanti affonda il documento istruttorio del convegno accusandolo di essere fuori dallo statuto e dal programma del Partito democratico e di puntare "un Pd piccolo". Alludendo anche al fatto che D'Alema insegue "un modello alternativo", che proprio nel giorno della presa della Bastiglia, il presidente di Italinieuropei mostra la sua disposizione vandeana, cioè una posizione conservatrice, mentre per una volta bisogna essere giacobini.

Ma lo sviluppo della giornata ha fatto capire che i margini di manovra per i sostenitori del tedesco sono veramente stretti, "quasi impossibili" sottolinea persino il tifoso Salvi dopo la chiusura netta di Fabrizio Cicchitto e la diplomazia inusuale di Roberto Calderoli. Dunque alla fine Veltroni ha fatto finta di niente, corteggiando nientedimeno che il terzo incomodo di questo congresso democratico in piccolo, Pier Ferdinando Casini. Ha accolto la proposta del leader Udc del quorum di due terzi per l'elezione dei presidenti delle Camere, ha evitato di rispondergli sul governo ombra definito da Casini "uno strumento di pura propaganda, un regalo a Berlusconi".
D'Alema può dire di aver riunito, intorno a una proposta comune, una larga fetta dell'opposizione, dall'Udc a chi è fuori dal Parlamento come la sinistra radicale. Al seminario c'era anche Antonio Di Pietro, che ha parlato. Ma poi hanno preso la parola anche Cicchitto e Calderoli. La loro chiusura ha fatto capire che chi nel Pd cercava sponde dentro la maggioranza per smontare la linea veltroniana, oggi ha pochissimo spazio. D'Alema si è messo idealmente alla guida di un fronte composito, almeno sulle riforme, ma che è molto lontano da una maggioranza parlamentare. "Per me la qualità dei governi è molto più importante della stabilità", spiega. E di fronte a questo assunto non si preoccupa neanche di una eventualità che il sistema tedesco mette nel conto: la grande coalizione. "Non mi sembra una prospettiva spaventosa. Fa parte fisiologicamente di una democrazia dell'alternanza".

Solo una battuta per Ceccanti: "I giacobini fecero una brutta fine. Finirono a forconate...". Dibattito accademico dunque? Francesco Rutelli ricorda che il referendum elettorale scoccherà la prossima primavera, una linea ci vuole e subito. Lui è contrario, lo considera l'arma che ha ucciso il governo Prodi. D'Alema concorda: "Una consultazione al limite del colpo di Stato", sentenzia. È un nodo che può venire al pettine, dentro il Partito democratico. Ma prima tocca alle legge per le Europee. Oggi la direzione del Pd discuterà anche di questo. Perché sono tutti d'accordo su uno sbarramento al 3 per cento con le preferenze. Ma Berlusconi ha un'altra idea (5 per cento e abolizione delle preferenze). E come dimostra il seminario di ieri è il Cavaliere a decidere.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 03, 2008, 06:07:53 pm »

Sarebbe facilmente eletto in questa legislatura, ma l'erede di Napolitano sarà scelto dal prossimo Parlamento

Bossi pronto a votare il premier: sarà lui il prossimo presidente. Anche Gianni Letta tra i papabili

Ma il Cavaliere studia la scalata al Quirinale "Con la mia storia perché non pensarci?"

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
ROMA - Un giornalista sportivo lo inquadrò alla prima rivoluzionaria conferenza stampa da neopresidente del Milan, nel lontano marzo '86: "Questo qui un giorno leggerà il messaggio di fine anno". Quel commento di 22 anni fa oggi è qualcosa più di una profetica battuta perché Silvio Berlusconi è sceso in campo nel '94, è a Palazzo Chigi per la terza volta, è un leader per il momento senza rivali "nella politica, nei poteri forti e tra la gente", dice sconsolato il centrista Bruno Tabacci.

Malgrado Giorgio Napolitano occupi egregiamente e saldamente la poltrona di presidente della Repubblica con un mandato che scade nel 2013, il sogno quirinalizio del Cavaliere viene evocato sempre più spesso. Berlusconi ha due strade per cullarlo: il voto parlamentare con le regole attuali o l'elezione diretta del capo dello Stato decisa da una riforma che instauri una repubblica presidenziale. "Uno con la mia storia perché non dovrebbe pensarci", si è lasciato sfuggire il premier tradendo la sua cautela sull'argomento.

La Grande riforma è stata "disegnata" due settimane fa, a grandi linee, dal potente coordinatore di Forza Italia Denis Verdini: "Il centrodestra è maggioranza nel Paese da anni. Avrà il diritto di eleggere un capo dello Stato? Se non ci siamo ancora riusciti è perché va corretto l'attuale sistema di elezione". È l'annuncio di un progetto di repubblica presidenziale? Il senatore del Pdl Gaetano Quagliariello coordina il gruppo di lavoro sulle riforme lavorando soprattutto sul premierato.

Ma ai vertici del Pdl ha svelato anche un'altra carta: "È vero però che i sistemi presidenziali, in un momento di crisi della politica, ti offrono una riserva più ampia di legittimità". Quagliariello la chiama "una riflessione di fondo". Poi il Cavaliere sale su un predellino e trasforma la riflessione di fondo in un fatto compiuto...

Bossi ha parlato di Berlusconi al Quirinale domenica: "Sarà lui il prossimo presidente, noi lo voteremo". Con la consueta franchezza, il leader del Carroccio ha svelato un segreto di Pulcinella: il vero traguardo del premier. Che sarebbe realtà certa se si votasse per il Colle in questa legislatura e con questo Parlamento: Berlusconi andrebbe in carrozza al Quirinale. Ma il calendario è diverso: con le scadenze naturali e la Costituzione vigente saranno le prossime Camere a eleggere il presidente, il mandato di Napolitano finisce infatti tra cinque anni, dopo le elezioni politiche.

Toccherebbe perciò affrontare dei passaggi preliminari, una nuova campagna elettorale (a 77 anni) e il voto del popolo. Una strada più impervia che autorizza l'ipotesi di altre soluzioni, a cominciare dalla possibile revisione della Carta.

Il diretto interessato si è sempre tenuto alla larga da questi discorsi, a parte un "non escludo una candidatura al Colle" nel 2005 con la precisazione che anche "il dottor Letta" poteva essere un ottimo nome. Letta è il braccio destro del Cavaliere, ma può diventare un concorrente nella lunga marcia al Colle. Walter Veltroni sembra saperlo molto bene.

Il segretario del Pd ha stuzzicato il Cavaliere dopo la chiusura positiva del caso Alitalia esaltando il ruolo del sottosegretario alla presidenza, "il suo senso di responsabilità. Io e Gianni Letta abbiamo la stessa cultura". Come dire: lui sì che è un uomo delle istituzioni. Berlusconi si è vendicato pochi giorni dopo mettendo uno contro l'altro Veltroni e D'Alema. E attribuendo all'ex ministro degli Esteri il merito di aver fermato il leader del Pd che "giocava per la rottura".

Schermaglie contingenti, ma a gioco lungo si possono leggere anche in chiave-Quirinale. Segnalano che per il dialogo tra maggioranza e opposizione e alla lunga per il Colle Letta è una figura decisiva.

Nell'ottica di un salto di qualità si muove anche Giulio Tremonti. La poltrona di ministro dell'Economia è un trampolino per la presidenza della Repubblica (vedi Carlo Azeglio Ciampi). Tremonti coltiva rapporti bipartisan attraverso l'Aspen Institute (è di due giorni fa un dibattito sulla religione con D'Alema e il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone).

L'alternativa è la leadership del Pdl per la quale la sfida è con Gianfranco Fini. Il Pd osserva le mosse, ma si schiera. D'Alema ha "autorizzato" l'ascesa di Berlusconi al Colle con un sistema presidenziale: "In quel caso ci sarebbero pesi e contrappesi". Meglio del presidenzialismo strisciante di oggi, ma l'ex ministro ha chiarito: "Io non sono presidenzialista. Penso a una legge elettorale tedesca e al rafforzamento delle Camere".

Veltroni dice un no netto a Berlusconi e all'elezione diretta. Però Tabacci punta il dito: "Il centrosinistra ha contribuito a creare questo clima presidenzialista. Hanno proposto la repubblica presidenziale, ci hanno ripensato, poi l'hanno proposta di nuovo. Ed era Veltroni a cavalcare il sindaco d'Italia. Ma il sindaco d'Italia ora lo fa Berlusconi". Se il Cavaliere può coltivare il sogno presidenziale quindi, la colpa è anche un po' del Pd.

(3 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:49:37 am »

Anche Bettini insiste. Follini: caso Villari figlio di molti errori.

Le due linee del Pd

Dalemiani critici: "Massimo si era messo a disposizione, ma nessuno gli ha detto nulla"

"Dobbiamo uscire presto dal torbido" pressing su Veltroni per il congresso

di GOFFREDO DE MARCHIS

 

ROMA - "Rivendico la linearità del nostro comportamento sulla vicenda della Vigilanza". Walter Veltroni tiene il punto. Nessuna autocritica, nessun cedimento. Anche dopo che si è consumata l'espulsione di Riccardo Villari dal gruppo democratico del Senato e lui però resta al suo posto: presidente della commissione sulla Rai. Eppure il caso Villari sembra aver aperto, nel Pd, una lunga, forse lunghissima fase congressuale, in cui cominciano a delinearsi schieramenti contrapposti che presto potrebbero diventare una maggioranza e una minoranza.

Nell'ipotesi migliore, più normale, naturale, verrebbe da dire democratica, visto che a sinistra certi conti si sono regolati spesso in un'altra maniera: con le scissioni. Ecco perché il segretario difende i passaggi politici che hanno segnato il faticosissimo percorso della Vigilanza: "La lealtà verso Di Pietro, la trattativa condotta di comune accordo con Casini, l'individuazione del nome migliore da mettere sul tavolo, quello di Zavoli". Ma a prescindere dall'esito finale, i suoi avversari cercheranno di metterlo con le spalle al muro criticando la gestione del caso, le scelte, le alleanze, i comportamenti.

Che nel Pd stiano emergendo con chiarezza due linee, sintetizzate, anzi semplificate con la solita formula dalemiani-veltroniani, ormai è chiaro. Processi, sospetti, veleni e pizzini: questi sono i termini più usati in queste ore. Marco Follini viene indicato come vicino alle posizione di Massimo D'Alema. Ha ottimi rapporti con Nicola Latorre. Si è espresso a favore dell'espulsione di Villari "perché si è creato un contrasto reale tra lui e il partito".

Ma nel direttivo del gruppo ha parlato a lungo anche degli errori di Veltroni, dei suoi passi falsi, della pessima conduzione della vicenda: "Villari è semplicemente il figlio di una linea sbagliata". Perciò spiega che il "congresso nel Pd è già cominciato". Il dramma è "che il partito avrebbe bisogno di uno scontro duro, anche durissimo, ma leale. Invece vive in un perenne confronto apparentemente meno aspro, però opaco, poco chiaro e quindi per niente leale".

Giorgio Tonini, vicino a Veltroni, sottoscrive le parole di Follini. Lui chiede il congresso dal giorno dopo la sconfitta elettorale e la vicenda Villari ha solo radicato la sua scelta. "I nostri elettori sono nauseati da un duello fatto di veleni, pugnali e pizzini.

Parteciperebbero invece con passione a un vero confronto. Dunque o trasformiamo la conferenza programmatica di gennaio in una cosa seria oppure meglio un congresso anticipato". Goffredo Bettini, braccio destro del segretario, ieri lo ha ripetuto direttamente a Veltroni: "Dobbiamo anticipare il congresso, non è possibile aspettare le Europee".

Al "partito del congresso" la risposta di Veltroni è sempre la stessa: "No". Per ora. Ma il coordinamento del Pd, convocato per martedì, ruoterà intorno a questa domanda. In quella sede si capirà come la pensano Franceschini e Fioroni, l'anima popolare. Non sapremo lì qual è la valutazione di D'Alema e dei dalemiani che non fanno parte dell'organismo.

"D'Alema fa parte della maggioranza, ma non è stato informato quando si è costituito il coordinamento, si è messo a disposizione ma non ha ricevuto risposte. Allora, forse è bene che nel partito le posizioni vengano chiarite", dice il dalemiano Roberto Gualtieri.

Succederà probabilmente il 15 dicembre, nella direzione, slittata a dopo le elezioni abruzzesi. Tonini spiega i dubbi del segretario sulle assise: "Non vuole dare l'impressione di un partito concentrato tutto su se stesso". E se nei fatti fosse già così? "Quando succede qualcosa come l'elezione di Villari bisogna uscire dal torbido", insiste Tonini. Il "processo" dei senatori contro il loro collega Villari ha finito per interessare persino il Quirinale.

A riunione appena finita, la capogruppo Anna Finocchiaro si è infilata di corsa nella sua stanza: "Mi sta cercando il presidente della Repubblica", ha detto ai suoi collaboratori. Giorgio Napolitano non voleva certo immischiarsi nelle tensioni interne del Pd, semmai capire come stava evolvendo una situazione che coinvolge le istituzioni. Ma tanti dirigenti e tanti elettori invece si chiedono: cosa accade tra i democratici?

(21 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:53:25 pm »

Scontro Pd, ma il congresso sfuma

Veltroni critica il premier: tutto concesso

 
■ Il leader del Pd: in Italia giustizia negata, no alle riforme imposte
ROMA (21 novembre) - Affondo di Walter Veltroni contro il premier Silvio Berlusconi oggi: «Voglio vedere domani i giornali - ha detto - se noi avessimo sciolto i nostri partiti in dieci minuti, come ha fatto oggi Forza Italia, avremmo avuto 12 editoriali contro. Ma per loro, in questo momento, tutto gli è concesso».

Veltroni al bivio sul congresso. In casa Pd è scontro. Sale la tensione tra le diverse componenti del partito. La vicenda Vigilanza ha contribuito a creare le tensioni. Pochi però sostengono l'opportunità di un congresso anticipato prima delle europee, ipotesi che i veltroniani rilanciano come sfida ai critici interni. «Abbiamo toccato un livello bassissimo, è necessario trovare i modi per discutere», invocano molti big del partito, come Anna Finocchiaro. Le questioni da risolvere non sono poche.

C'è chi, come Rosy Bindi, critica «il tasso di ambiguità e strumentalità» da parte dei vertici del partito nella vicenda Vigilanza, definisce «insopportabile la logica delle decisioni calate dall'alto» e avverte che «non ci faremo stritolare» dalle «antiche rivalità tra ex Ds e sulle quali si innestano i metodi degli ex democristiani». E, nonostante sembrasse essere stata raggiunta un'intesa sul Pd federato in Europa con il Pse, è di nuovo scontro aperto, dopo le parole di Francesco Rutelli, tra l'area ex Dl che contesta l'ingresso nel Pse e chi, come gli ex Ds, critica chi mette veti.

Quanto basta per preoccupare Veltroni ed i vertici del partito. «Credo che sia arrivato il momento - è l'altolà di Bersani - di dire basta ai lanci di pietre. Nel Pd bisogna discutere». Discutere sì ma per molti non è il caso di convocare un congresso «sia perché - spiega un dirigente - sarebbe difficile organizzarlo in un partito che non ha ancora finito le iscrizioni sia perchè, non essendoci evidenti linee alternative, si risolverebbe in una resa dei conti alla vigilia delle europee».

E in molti sono convinti che alla fine anche Veltroni non ascolterà gli ultras del congresso ma gli chiedono di intervenire «perchè questo Paese - sostiene Finocchiaro - ha bisogno di un Pd forte e autorevole e non lacerato».
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 18, 2008, 10:38:59 am »

Il leader blinda l'unità del Pd. L'ex pm: siate più umili

Verso nuove sanzioni. Fassino: non scarichiamo sul passato i problemi di oggi

Veltroni: "Subito pulizia nel partito"

Di Pietro: via dalle giunte campane


di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Una lunghissima riunione del coordinamento: tre ore di analisi per uscire dall'angolo. Walter Veltroni ora guarda a un altro giorno difficile, quello di domani quando si riunisce la direzione. All'emergenza si risponde scegliendo un metodo che tenga insieme tutte le anime del Pd: il segretario ha ascoltato i membri dell'esecutivo, oggi sentirà altri dirigenti nazionali e locali, poi scriverà una relazione "unitaria", spiega il portavoce Andrea Orlando.

Il chiarimento tanto atteso, in un momento così delicato, alla fine si trasformerà in un tentativo di blindatura. Anche il voto finale non sarà la conta che molti si aspettavano prima della bufera giudiziaria. Non ci si esprimerà più probabilmente sulla relazione del segretario, ma su un documento finale al quale tutti saranno chiamati a partecipare. Un documento che dovrà essere un segnale di forte unità.

Ma andranno registrate alcune delle questioni emerse ieri. Piero Fassino (e con lui Pierluigi Bersani) ha contestato l'idea dei vecchi partiti che risucchiano il nuovo Pd: "Non scarichiamo le colpe di oggi sulle esperienze precedenti". Acceso il confronto anche sulle primarie. Ormai una larga parte del partito è favorevole a una frenata della consultazione diretta, Veltroni compreso.

Goffredo Bettini insiste per un ricambio accelerato: "Non possiamo aspettare il congresso". Il segretario domani parlerà dell'etica della politica e insisterà per un forte ricambio dei dirigenti, per l'innovazione, per la nascita vera del partito nuovo. La questione morale sarà al centro del suo discorso di domani. Ma lascerà ad altri il compito di illustrare le nuove misure per tutelare il partito dalle indagini di tutta Italia. Il presidente del collegio dei garanti Luigi Berlinguer presenterà un aggiornamento dello statuto che oggi non prevede sanzioni nemmeno per gravi casi di coinvolgimento in procedimenti penali.

Anche i commissariamenti, secondo le regole attuali, non sono appannaggio della segreteria centrale. Diventeranno più semplici per Veltroni e il gruppo dirigente. Così scatteranno i provvedimenti per la Sardegna, l'Abruzzo e forse altre regioni. "Dobbiamo stabilire un principio d'ordine", spiega il deputato Salvatore Vassallo che contribuisce a scrivere quella che assomiglia a una nuova "legge speciale" per affrontare l'emergenza arresti. Sono integrazioni previste, obbligate, dicono, ma danno il segno di un partito nella bufera.

Il rilancio dello spirito di innovazione significa che Veltroni considera ancora salda la sua leadership. E che non ci sono sponde per chi la contesta, per chi l'ha messa nel mirino. Della fase di piena emergenza però è figlia la proposta di Sergio Chiamparino. "Se vogliamo farci gratuitamente del male parliamo pure di sostituire Veltroni - dice il sindaco di Torino all'Espresso -. Io pongo un altro problema: va costruito intorno a Walter un assetto che garantisca la rappresentanza reale del Pd nel paese. La situazione è drammatica. Serve un segnale di straordinarietà. Un gabinetto di crisi che guidi il Pd nei prossimi mesi".

Alla direzione è destinato a rispuntare il tema di un partito più radicato sul territorio, della nascita di una serie di leadership locali. Non a caso anche il sindaco di Firenze Leonardo Domenici sostiena la proposta di Chiamparino. "Dobbiamo passare da un Pd federazione di correnti a un Pd federazione di territori", insiste il primo cittadino torinese.

Certo, Antonio Di Pietro non molla l'osso. Vuole dare il colpo di grazia al Pd. Eppure raccontano di un Veltroni che sul tema dell'alleanza con l'ex pm non ha intenzione di dilungarsi troppo. Non crede che sia lì il punto. Il leader dell'Italia dei Valori attacca: "La questione morale non è stata risolta siamo ancora in mezzo al guado e noi non possiamo restare a guardare. Il Pd invece di prendersela con noi dovrebbe fare un bel bagno di umiltà". Lui reagisce a modo suo, con messaggi efficaci nella sua chiarezza. Via dalla giunta di Napoli, per cominciare. Via da tutte le giunte campane "finché non sarà risolto il nodo della questione morale". E Tonino sarà a Napoli lunedì per rendere ancora più scenografica questa decisione. All'ex pm risponde Dario Franceschini: "Le alleanze non vanno decise adesso. Ma non creiamo un'inutile competizione tra di noi".

(18 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 10, 2009, 06:22:36 pm »

IL RETROSCENA /

Giro di colloqui diplomatici di Franceschini per ottenere una tregua fino al voto.

Gli ex popolari temono soprattutto il feeling tra Rutelli e Casini

Veltroni vede l'incubo scissione "Qui salta tutto, non solo io"

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
ROMA - Assediato dai "cacicchi", con il partito commissariato in molte zone d'Italia (l'arrivo di Vannino Chiti a Firenze per vigilare sulle primarie è più di una semplice supervisione), Veltroni si è dato una scadenza per sé e anche per il futuro del Pd: le elezioni europee e le amministrative di giugno. "Adesso impegniamoci tutti insieme, poi si vedrà", ha detto durante la riunione del governo ombra, giovedì. E a molti dei presenti è sembrato liberarsi di un peso mentre pronunciava queste parole. Ma in quali condizioni arriverà il Partito democratico a quegli appuntamenti, la leadership veltroniana reggerà ancora cinque mesi, lo spettro di una scissione può materializzarsi prima?

Se lo chiedono quasi tutti i dirigenti del Pd. Dario Franceschini, il vicesegretario, su mandato del leader ha cominciato un giro d'orizzonte fatto di incontri riservati, di contatti, di attività diplomatica alla ricerca di una tregua. Franceschini ne ha già parlato con Massimo D'Alema nei giorni scorsi, ha visto Franco Marini, ha sentito Piero Fassino. Parola d'ordine: non farsi del male fino alle Europee, anche perché al Nazareno circolano sondaggi pessimi che collocano il partito intorno al 25 per cento, ben al di sotto della soglia di di sopravvivenza del 27 per cento.

In ballo non c'è più solo il posto di Veltroni ma l'intero progetto. Gli ex popolari sono preoccupati per l'offensiva dei rutelliani e di Francesco Rutelli in persona. I suoi messaggi verso il centro di Pier Ferdinando Casini, il suo disagio all'interno del Pd "che somiglia troppo al Pci" colpisce soprattutto loro, l'anima cattolica del partito. "Perché il messaggio di Rutelli arriva a una fetta del nostro elettorato", dice sconsolato il braccio destro di Franceschini, Antonello Giacomelli. E l'altro collaboratore del vicesegretario, Francesco Saverio Garofani, si spinge oltre: "Se il segretario dell'Udc, dico il segretario, soffia sulla scissione di un altro partito e invita i rutelliani nella Costituente di centro, vuol dire che qualcosa si può concretizzare davvero". Ossia che una scissione non poi un'idea peregrina.

Le divisioni quindi sono trasversali anche ai vecchi partiti, Ds e Margherita. Quelli sono contenitori pronti ad accogliere un eventuale ritorno al passato e le polemiche sui soldi sono soprattutto dettate dalle difficoltà politiche. È chiaro che due forze sedute su una montagna di soldi (come sono appunto la Quercia e Dl) hanno la possibilità di ricominciare daccapo la loro attività. La direzione del 19 dicembre aveva segnato una tregua, ma era stata punteggiata di interventi all'insegna della nostalgia per le antiche sigle. Dei diessini e della Margherita (lo stesso Rutelli aveva ricordato come il Pd avesse perso ben un terzo dei voti di Dl).

Ma dopo quella data ci sono state le crisi di Pescara (con il ritiro delle dimissioni di D'Alfonso), le dichiarazioni del governatore del Trentino Lorenzo Dellai, le dimissioni di Nicolais a Napoli e l'incredibile episodio della riunione registrata dal sindaco Rosa Russo Jervolino. Un ritorno ai "giocarelli", ai vecchi partiti, era stato dipinto tre settimane fa da Veltroni "come un suicidio collettivo" con tanto di citazione del reverendo James e della sua setta del Tempio di Dio.

Ma adesso Veltroni sembra aver messo nel conto anche il sacrificio di massa e chiede al partito di evitare bagni sangue almeno fino alle Europee. Che significa anche interrompere il risiko della leadership, che vede ora in campo Renato Soru, il governatore della Sardegna, e altri fra i quali il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti che dice: "Per il momento do il mio contributo, poi si vedrà". Ma leadership di cosa? Ancora del Partito democratico? È questa la vera domanda.


(10 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 12, 2009, 03:52:13 pm »

L'INTERVISTA.

Dario Franceschini risponde ai dubbi sul sì al Referendum

"Se vuole il premier vince da solo anche con la legge attuale"

"La linea è decisa, basta sbandare in politica non si cambia per paura"

"In direzione 100 hanno votato per il sì e 5 per il no dopo questo voto non si può riaprire un dibattito già risolto"

di GOFFREDO DE MARCHIS


 ROMA - "Abbiamo discusso, abbiamo votato, abbiamo deciso. E da segretario dico che un partito non può sbandare continuamente. Chiti e Rutelli chiedono di ripensare il sostegno al referendum? Capisco tutto, anche lo spirito costruttivo con cui mi rivolgono questo appello, ma la mia riposta è no". Dario Franceschini parla al telefono dal treno con cui attraversa la Basilicata e la Puglia. "Siamo impegnati in una campagna elettorale d'ascolto. Cerchiamo di entrare in contatto con l'Italia che non si vede in televisione, vogliamo accendere i riflettori sui problemi tenuti nascosti dal governo. Un grande partito riformista può fare il bene del proprio Paese anche stando all'opposizione. Abbiamo il dovere di seguire questa strada, non di riaprire un dibattito che si è già risolto nella direzione, dopo tanti approfondimenti, con più di 100 voti a favore del Sì e 5 contrari".

Ma lei sa che la richiesta di una marcia indietro cresce per via del pronunciamento di Silvio Berlusconi. Il timore è che il premier approfitti di un successo del referendum per tornare al voto e conquistare, da solo, la maggioranza assoluta.
"Che partito sarebbe un partito che cambia idea, ripeto: dopo aver a lungo discusso, solo perché il premier distrattamente ha detto a Varsavia che sosterrà il Sì. La domanda alla quale gli italiani devono rispondere il 21 giugno è la seguente: volete abrogare la legge porcata, quella che sottrae agli elettori il diritto di scegliersi non solo i partiti ma anche le persone da mandare in Parlamento? Togliendo di mezzo la politologia, chi ha contrastato con durezza quella norma non può che rispondere Sì. Poi ci saranno 4 anni, qualunque sia l'esito referendario, per fare una buona legge elettorale".

Non bisogna tenere conto delle parole di autorevoli dirigenti del Pdl che hanno già detto: nessuna riforma, se passano i quesiti si applica la norma uscita dalle urne?
"Ricordo al Pdl e a coloro che si mostrano impauriti per le dichiarazioni di Cicchitto e Gasparri che il partito di Berlusconi ha 271 deputati su 630. Tutti gli altri sono più che sufficienti per varare un nuovo sistema di voto. E a chi mi chiede di ascoltare la Lega e il suo appello contro il referendum, rispondo: se vincono le astensioni o il No la stessa Lega dirà che il voto degli italiani conferma la legge Calderoli. Capisce cosa significa? Ce la dovremo tenere a vita. Sarebbe un pessimo risultato per chi l'ha sempre contrastata, non crede?".

Resta il pericolo di un Berlusconi piglia-tutto se il premio di maggioranza va al partito maggiore.
"Chi crede, o finge di credere, alla presunta minaccia di Berlusconi, sciolgo le Camere e riporto il Paese alle urne, dovrebbe riflettere su un dato molto semplice: non c'è bisogno di alcun referendum per dare seguito a questo progetto. Il Cavaliere può cavalcarlo anche con la legge attuale: va da solo e se arriva primo si prende la maggioranza dei seggi. Questa paura dunque è insensata. E quando in politica vince la paura si commettono errori fatali".

Oggi però le voci di dissenso dentro il Pd sono molte. Tre disegni di legge in campo per altrettanti modelli elettorali, comitati per l'astensione, alleati schierati con il No. Dopo le elezioni europee, il Pd potrebbe riesaminare la sua scelta?
"Ho preso un impegno con l'assemblea costituente che mi ha eletto e finché sono il segretario intendo mantenerlo. L'impegno è questo: ci si chiude nelle sale riunioni, si discute, se capita si litiga ma non sui giornali o in pubblico. Poi, democraticamente si decide e tutti insieme si sostiene la stessa linea. È esattamente ciò che abbiamo fatto sul referendum. Perciò sono convinto che queste mie parole chiudano definitamente il dibattito".

Intanto Di Pietro approfitta delle vostre divisioni, cambia idea e annuncia una battaglia contro il referendum che consegna l'Italia a Berlusconi. I distinguo del Pd ricominciano a fare danni?
"Io so che la nostra posizione è giusta e l'abbiamo decisa a larghissima maggioranza. Quanto a Di Pietro, mi sono impegnato a non fare polemiche con i "colleghi" dell'opposizione. Abbiamo tutti un avversario più grande: la destra. Ma se uno cambia idea come riflesso condizionato per le parole di Berlusconi dopo aver raccolto con entusiasmo le firme per i quesiti, come ha fatto proprio Di Pietro mica noi, beh c'è un problema irrisolto con la politica. Sa una cosa? Sono veramente preoccupato all'idea di vedere Di Pietro su un palco accanto a Bossi e Calderoli che gridano insieme: "Votate no". Proponendo cioè all'Italia di tenersi la legge porcata...".

Rutelli spiega che la tattica del Pd non ha funzionato: inutile far finta che il referendum non esista sperando che fallisca il quorum. Chiti raccoglie firme sotto il suo disegno di legge con l'Udc prefigurando nuove possibili alleanze. È già cominciato lo scontro per il congresso del Pd?
"Non è possibile vedere dietro ogni critica chissà quale retroscena. E io stimo sia Rutelli sia Chiti. Ma da segretario, finché sono al mio posto, dico: il Partito democratico ha discusso e deciso. Adesso concentriamoci sui problemi veri degli italiani".

(12 maggio 2009)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Maggio 19, 2009, 10:06:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 19, 2009, 10:08:10 am »

IL RETROSCENA.

Domani è previsto un primo pacchetto di nomine

Mazza a RaiUno, Orfeo al Tg2. Petruni a RaiDue. L'opposizione non voterà

Rai, via libera a Minzolini per il Tg1 ma la Lega blocca le vicedirezioni

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
ROMA - Oggi la comunicazione ai consiglieri, domani le nomine. Sembra ormai decisa la road map per la scelta dei nuovi direttori della Rai. L'improvvisa accelerazione serve soprattutto a blindare l'accordo raggiunto nel centrodestra dopo le mille tensioni di questi giorni. Si è risolto il conflitto tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, anche se in zona Cesarini, potrebbe esplodere quello con la Lega. E se manca il voto della consigliere leghista Giovanna Bianchi Clerici salta tutto.

Il direttore generale ha pronto un pacchetto di otto nomine. I nomi sono quelli di Augusto Minzolini, editorialista della Stampa, per la direzione del Tg1, la poltrona più ambita. Mauro Mazza, oggi alla guida del Tg2, va a dirigere Raiuno. Mario Orfeo, oggi direttore del Mattino, prenderà il posto di Mazza al telegiornale della seconda rete. Susanna Petruni, da anni inviata del Tg1 al seguito del Cavaliere, finirà alla direzione di Raidue. Verranno decisi anche i vicedirettori generali: Antonio Marano, che viene da Raidue, Lorenza Lei, Gianfranco Comanducci e Giancarlo Leone (per lui una conferma).

Ma su Marano rischia di aprirsi un caso che può bloccare tutto. Masi infatti sarebbe intenzionato a lasciare i suoi vice senza deleghe, per il momento. Uno smacco per il dirigente legato al Carroccio che già puntava a essere da solo il numero due dell'azienda e ha dovuto ingoiare gli affiancamenti. Strappando però la promessa delle competenze più importanti, quelle sul prodotto. Anche la Lei punterebbe al salto di qualità: vicedirettore vicario. Ma è un'altra richiesta che sta provocando un terremoto al settimo piano di Viale Mazzini. Se queste matasse verranno sbrogliate nella notte Masi presenterà stamattina curricula e motivazioni delle sue scelte al Cda.

L'opposizione dei consiglieri sarà fermissima. Quasi certamente di fronte al pacchetto di nomine Nino Rizzo Nervo (Pd), Rodolo De Laurentiis (Udc) e Giorgio Van Straten (Pd) lasceranno la stanza del consiglio rifiutandosi di votare. Dice Rizzo Nervo: "Viene confermato lo schema uscito dal vertice di Palazzo Grazioli. Queste nomine sono state fatte a casa del premier. E 4 vicedirettori alla Rai non si vedevano dalla Prima repubblica". Aggiunge Van Straten: "La nostra reazione sarà durissima". Per Paolo Gentiloni, responsabile della politica televisiva del Partito democratico, nel blitz che si prepara "c'è tutta l'esibizione del conflitto d'interessi: persone scelte a Palazzo Grazioli e insediate alla vigilia delle elezioni". L'opposizione annuncia un muro contro muro, batterà sul tasto del blitz in piena campagna elettorale, solleverà il tema del conflitto d'interessi. Proprio mentre la tv di Stato affronta il lancio del digitale terrestre, con uno sforzo notevole: lettere agli abbonati, spot, la garanzia del presidente Paolo Garimberti: "Nessuno sarà lasciato indietro e saremo i primi nell'innovazione".

Berlusconi ha messo nel conto il conflitto. Pensa alla contromossa: nomine fatte domani, ma operative dopo l'8 giugno per dribblare l'accusa di "occupazione" militare. L'Usigrai, il sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini, ha però scritto a Giorgio Napolitano per difendere il pluralismo. Lettera giudicata da Maurizio Gasparri "una gravissima intimidazione".

(19 maggio 2009)
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 21, 2009, 10:22:18 am »

Il presidente della Rai sulla graticola: la sua mediazione non ha trovato l'appoggio del Pd e della parte che lo ha proposto.

Il prossimo nodo sarà il contratto Sky

I consiglieri Pd e Udc non fanno sconti "Paolo, metti a rischio il ruolo di garante"

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
ROMA - "Così metti a rischio il tuo ruolo di garanzia. Lasciati qualche margine di manovra". I consiglieri di minoranza della Rai Nino Rizzo Nervo, Giorgio Van Straten, Rodolfo De Laurentiis hanno provato fino all'ultimo a cercare una via d'uscita, ad evitare lo schiaffo a Paolo Garimberti in questa prima vera prova da presidente bipartisan della Rai. Ma alla fine lo schiaffo è arrivato. Con il loro gesto, l'uscita dalla sala al momento di votare le nomine, hanno voluto certificare la frattura schiacciando il numero uno di Viale Mazzini solo su una parte, quella della maggioranza di governo. Anche Dario Franceschini, l'artefice della sua elezione, lo ha in qualche modo "scaricato" lasciandolo senza la copertura del Partito democratico: "Su questa linea non posso seguirti", era il testo del messaggino arrivato ieri mattina sul cellulare del presidente. Alla fine della lunga giornata in trincea, Garimberti ha potuto verificare sulla sua pelle, scorrendo le reazioni democratiche, di avere scavato un fossato con chi lo aveva scelto per quella poltrona. E certo il voto favorevole al pacchetto di promozioni non lo ha aiutato.

Nella riunione del Cda il presidente ha tirato fuori gli schemini usciti sui giornali dopo il vertice di Palazzo Grazioli, casa del premier, per mostrare che la casella del Tg1 aveva subito un cambiamento. Ha letto una dichiarazione di Silvio Berlusconi che dall'Aquila un mese fa intimava: "Le nomine vanno fatte tutte insieme". Ha anche parlato con i consiglieri dissidenti uno a uno, prima del consiglio. Ma non li ha portati dalla sua parte. Si aspettava perciò l'uscita fragorosa dalla sala del settimo piano di Rizzo Nervo, Van Straten e De Laurentiis. L'affronto (e le conseguenze).

A quel punto gli avevano consigliato di astenersi, in fondo avrebbe anche avuto il pretesto dello strappo plateale della minoranza. Invece c'è il suo sì, insieme con quelli dei consiglieri di Pdl e Lega, sotto le nomine di Minzolini, Mazza e dei quattro vicedirettori generali.
"Per coerenza", dicono i suoi collaboratori. "Proprio per non usare le armi ipocrite della politica". Non poteva fare finta di niente di fronte a una mediazione che lui stesso aveva faticosamente costruito. E al secondo round potrà avere più forza per correggere, cancellare i desiderata della maggioranza, spiegano. A questa promessa non detta Garimberti affida la speranza di ricucitura con il Pd e l'Udc, con il presidente della commissione di Vigilanza Sergio Zavoli in vista dell'altro giro di nomine a metà giugno. Ma adesso la valanga è travolgente, il Pd non gli fa sconti, l'Udc tantomeno, l'Italia dei Valori è pronta a usare le nomine come arma della campagna elettorale piazzando una manifestazione sul pluralismo a due giorni dal voto. E il Pd non ne uscirà indenne.

Nella riunione del consiglio lo scontro è ruotato intorno alla figura del presidente. Rizzo Nervo, Van Straten e De Laurentiis hanno supplicato Garimberti di prendere le distanze dalle nomine.

Per un attimo i consiglieri di Pd e Udc hanno pensato di poter giocare di sponda con Angelo Maria Petroni. Il membro del cda indicato dal ministero dell'Economia, l'uomo di Giulio Tremonti alla Rai, ha voluto far sapere quello che pensa l'inquilino di via XX settembre delle manovre berlusconiane sulla Rai. "Forse è vero, si potevano trovare dei nomi migliori. E non condivido la nomina di 4 vicedirettori generali che sembrano più collaboratori di staff che manager aziendali". Un critica che però non si è spinta fino alla spaccatura della maggioranza. I tre "dissidenti" si sono alzati e hanno sbattuto la porta infilandosi in un'altra stanza di Viale Mazzini per la conferenza stampa quando ha parlato Guglielmo Rositani, membro in quota An. "State portando la politica nel consiglio di amministrazione. ". E' stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Speravano in un intervento deciso di Garimberti. Non c'è stato. "Sei spudorato", hanno risposto a Rositani.

Il presidente della Rai ha comunque tirato dritto. Confermando l'urgenza delle nomine a Raiuno e Tg1, per l'efficienza del servizio. Precisando che da Masi si aspetta una riorganizzazione aziendale più chiara. Ma adesso bisognerà lavorare per riavviare il dialogo. Già il 10 giugno il cda potrebbe essere riconvocato per una nuova tornata di promozioni. Allora toccherà anche al centrosinistra dare qualche nome per le posizioni che la politica gli assegna nella mappa dell'azienda. Le tensioni su Raitre e Tg3 per il momento sono rimaste sottotraccia, ma sembrano destinate ad esplodere proprio dopo le elezioni europee e amministrative quando le preferenze degli eletti e i risultati generali delineeranno i nuovi equilibri di Largo del Nazareno.

La poltrona più ambita è quella della rete, oggi occupata da Paolo Ruffini alla quale ambisce Antonio Di Bella. Secondo le indiscrezioni, Franceschini punta a mantenere lo status quo, ma i dalemiani penserebbero a un ricambio. Il congresso democratico rischia di cominciare nelle stanze di Viale Mazzini.

(21 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 15, 2009, 06:40:27 pm »

Bersani fa sapere che non si ferma ma per la segreteria c'è anche l'ipotesi Zingaretti

Franceschini: sempre alla stessa partita.

Malumori dopo il successo Serracchiani

"Modello Debora", proteste nel Pd rispunta il duello D'Alema-Veltroni

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
Debora Serracchiani
ROMA - Incredibile ma vero. La nuova guerra del Pd è quella vecchia, il duello tra due bandoleri evidentemente non stanchi ma sempre gli stessi. Così la racconta un uomo vicinissimo a Franceschini, uno di quelli che ha la stanza accanto alla sua nell'ala nobile del secondo piano di Largo del Nazareno dove le applique sono di design e gli infissi delle porte più rifiniti. "D'Alema e Veltroni tirano la giacca di Dario da domenica notte. Massimo ci ha fatto arrivare mille messaggi per organizzare un incontro e studiare un percorso sul dopo. L'altro ieri attraverso i suoi ambasciatori ci aveva annunciato che avrebbe in qualche modo rotto la tregua perché tirava una brutta aria, voci su candidati dalemiani poco votati, su regioni a loro vicine cedute al Pdl, insomma veleni, hanno detto, cui dovevano rispondere. La reazione di Walter è stata uguale e contraria. Ha spiegato a Dario che il grande successo è quello degli eletti veramente nuovi, i sinceri democratici come li chiama lui: Sassoli, Crocetta... E che per non darla vinta ai conservatori Bersani e D'Alema un segnale di novità in vista del congresso sarebbe stato il ticket con la Serracchiani".

Un vero "lavaggio del cervello" dal quale il segretario si è difeso con l'arma imparata sui banchi della Democrazia cristiana: fare finta di essere lì per caso. "Aspettiamo i ballottaggi per aprire le danze. E poi lo sapete che il mio mandato scade a ottobre, non mi chiedete niente adesso perché neanche io so se mi ricandido o meno".

La tregua non ha retto e non è che Franceschini si facesse molte illusioni. Conosce l'irresistibile attrazione del centrosinistra per la tempesta perfetta, per la litigiosità permanente. I risultati elettorali non hanno aiutato a placare gli animi. Sotto sotto farebbe a meno del sostegno sia di D'Alema sia di Veltroni. Per dire, il segretario ha candidato la Serracchiani, l'ha sostenuta, la stima, si scambia con lei messaggini continui, ma da qui a immaginarla accanto a lui nella battaglia congressuale ce ne corre. "Anche il neo-onorevole Mario Pirillo ha battuto Berlusconi in Calabria come ha fatto Debora in Friuli. Eppure nessuno ne parla, nessuno lo candida a posti di rilievo nazionale. Potenza del sistema mediatico...", sospirano i suoi fedelissimi. Franceschini ha annusato anche che sulla pelle della nuova star democratica si sta giocando un fragoroso scontro sul tema del ricambio generazionale e quindi ci vuole molta cautela per non smarrire quel poco di tessuto organizzativo rimasto sul territorio.

Tanti dirigenti locali sono infuriati non per il successo di Debora ma per il "modello Serracchiani", dove il criterio di selezione della nuova classe dirigente è solo "stare al posto giusto nel momento giusto", com'è capitato a lei all'assemblea dei circoli del 21 marzo dove pronunciò il suo ottimo discorso rimbalzato sui tanti blog democratici. "E pensare che andò al microfono perché al Friuli toccava scegliere una donna", racconta Maurizio Migliavacca, l'organizzatore di quell'evento.

Una settimana fa, a notte fonda, il segretario provinciale di Prato si sfogava con Gianni Cuperlo: "Mi sento mortificato da questa storia della Serracchiani. Non per lei, per il messaggio che è passato. La promozione casuale, il mito dell'outsider, dell'extra politico. Noi allora che ci stiamo a fare?". Tanti nuovi dirigenti locali sono professionisti, impiegati che si fanno il giro dei circoli prima di tornare a casa la sera, dopo il lavoro. E se il loro impegno venisse a mancare?
Franceschini ha letto le parole di D'Alema a Repubblica (anche se fa di nuovo finta di niente "leggerò l'articolo dopo i ballottaggi") con un certa soddisfazione nell'ottica dell'ipotetica sfida con Pierluigi Bersani. Il ritorno al centrosinistra col trattino? "Se questo è il profilo di Pierluigi, gli innovatori siamo noi", esulta il dirigente vicinissimo al segretario. E per la proprietà transitiva conservatore è anche l'ex ministro degli Esteri. Alla fine di marzo, durante una cena sopra il porto di Valparaiso in Cile, Franceschini si lasciò scappare una battuta su D'Alema: "Gioca sempre lo stesso schema. Ha riflessi vecchi, superati".

Commentava l'appello di Gianfranco Fini per riforme condivise e soprattutto l'immediata apertura di credito del presidente di Italianieuropei. Bersani viene ora dato in difficoltà, ma lui fa sapere che non si ferma. "So preparando la piattaforma. Farò il mio percorso tra gli iscritti e tra gli elettori. Così si fa il congresso del Pd". I ruoli si ribaltano: l'ex ministro dell'Industria prepara l'appello al popolo delle primarie, Veltroni si muove da kingmaker sponsorizzando il nuovo. Ma tanti giovani promossi proprio da lui, da Vinicio Peluffo, ad Andrea Orlando, a Andrea Martella, non ci stanno a farsi scavalcare da Debora. Hanno individuato da tempo il terzo candidato. "Ma non mi posso muovere da qui per il momento", ha risposto Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma. Che nel curriculum sembra davvero alternativo: un uomo di apparato capace però di vincere nella Capitale mentre Alemanno saliva al Campidoglio.

(11 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 19, 2009, 11:27:34 am »

17/7/2009


Derby con l'arena Bindi-Bersani: «Se vinciamo un simbolo più ulivista»


di Goffredo De Marchis - da La Repubblica


Bandiere dell'Ulivo, tirate fuori dal cassetto del cuore. Rosy Bindi ha tappezzato la sala della sua convention di sostegno a Bersani con il simbolo della stagione prodiana. «Non è un vezzo, è un programma politico», spiega. Nella platea dell'Auditorium di Via Rieti a Roma molti supporter sognano anche qualcosa di più. «Se vinciamo cambieremo il simbolo del Pd. Il ramoscello diventerà più visibile». Bersani certo non può dirlo adesso, in piena campagna elettorale, ma il logo democratico gli è sempre piaciuto poco. «Noi ne abbiamo cambiati tanti, non ci facciamo più caso. Ma sono proprio i giovani ad avere bisogno di un richiamo forte. Di un simbolo vero», diceva a febbraio, quando lanciò la sua candidatura.


Anche oggi non si fa pregare: il rametto va fatto crescere, non può essere solo un apostrofo verde tra le parole partito e democratico: «Riapriremo il cantiere dell' Ulivo», annuncia. A via Rieti si fa l'Ulivo, all'Acquario di Roma, dove Dario Franceschini lancia la sua candidatura, si costruisce invece il Partito democratico autentico, secondo l' interpretazione maliziosa di Piero Fassino. «Avete visto, qui c'è il vero Pd, fatto di tante componenti, tante teste, largo, plurale. Questa eterogeneità è una ricchezza, non un punto debole». Da contrapporre, sottinteso, all'egemonia diessina dell' altro campo, al profilo solo identitario di Bersani.

Sono partite dunque le sfide incrociate, a distanza per ora, in attesa di un faccia a faccia, si scalda il gioco delle primarie democratiche. Appuntamenti contemporanei e per questo considerati ostili come quello organizzato dalla Bindi, con l'inevitabile gioco a chi ha l' ultima parola di giornata. Ieri per esempio se l'è presa la Bindi, dopo aver addomesticato un' assemblea che le ha chiesto conto della scelta a favore dell'ex comunista: «Ho dato una scorsa veloce alle parole di Franceschini e confermo: Pierluigi ha più spessore». Ma il confronto è anche più diretto, l'ultima parola è sempre la penultima. Dice Franceschini descrivendo il suo Pd ideale, un mix di iscritti ed elettori «per fare un partito solido, che non significa tornare ai modelli di 50 anni fa». Bersani risponde da lontano: «Solo un cretino può pensare ai partiti di 50 anni addietro. Non credo che Dario si riferisse a me». Comunque lui quel cretino non è, fa intendere.

Franceschini cancella per sempre il trattino del centrosinistra, il Pd può rappresentare quel campo per larga parte. Bersani invece non ha paura degli aggettivi del secolo scorso: «Il Pd è un partito popolare, laico e di sinistra, non bisogna temere questa parola, che vuol dire pari dignità e uguaglianza per tutti». È il confronto vero che tutti aspettavano, dal quale dovrà uscire il profilo di un partito che finora ha macinato traumi, sconfitte, liti interne. Il segretario ha già alcuni sondaggi che lo danno saldamente in testa per il giorno che conta, il 25 ottobre. «Basterebbero la metà dei voti che hanno preso alle Europee Sassoli, la Serracchiani, Cofferati e la Barraciu, tutti schierati con noi, per cantare subito vittoria», spiegano spavaldi gli uomini del suo staff.

Eppure nel derby si comincia a vedere con chiarezza che sia Franceschini sia Bersani possono muoversi su un terreno comune. Le primarie, per esempio. Bersani pensa a una riforma, ma non alla cancellazione. Franceschini le difende, però gli dà una robusta sforbiciata: «Valgono solo per il segretario nazionale». Vanno abolite quindi per l' elezione dei segretari regionali. Il pontiere Franco Marini scommette senza dubbi su un accordo per il dopo. «Chiamiamola gestione unitaria o come volete. Ma per salvare il partito alla fine del congresso è necessaria un'intesa. Io ne ho parlato con tutti, anche con D'Alema. In fondo, Dario e Pierluigi sono complementari. E tutto il mondo è paese. Anche in America, dove alle primarie scorre il sangue, oggi Obama è il presidente e Hillary Clinton segretario di Stato».


da democraticidavvero.it
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 19, 2009, 12:04:36 pm »

L'Ipsos ribalta i dati Ipr: Franceschini in vantaggio.

E Bersani va da Cl

L'ex ministro attacca Di Pietro, il segretario avverte: "Il nemico è Berlusconi"

Congresso Pd, la guerra dei sondaggi

Accantonate le promesse di fair play

di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - La guerra dei sondaggi: Franceschini, dagli inizi di agosto, tiene nel cassetto una ricerca commissionata all'Ispos di Nando Pagnoncelli che ribalta i risultati del pronostico dell'Ipr. Altro che 20 punti di vantaggio per Bersani. Il segretario, a due mesi dalle primarie del 25 ottobre, è in testa di 10 punti e sfonda nei territori dello sfidante. La guerra delle parole: Franceschini ha atteso di vedere lo slogan dell'avversario ("un senso a questa storia") e ha deciso di giocare di contropiede. Nel "titolo" della sua campagna ci sarà un riferimento al "futuro" in contrapposizione alla "storia" di Bersani (e di Vasco Rossi...). Nuovo contro vecchio, in poche parole. La guerra della simbologia: Franceschini sfida Massimo D'Alema, grande sponsor di Bersani, nella tana del lupo, a Gallipoli. In Salento, dopo il debutto alla festa democratica di Genova lunedì, farà una delle sue prime tappe dopo le vacanze mercoledì 26 invitato dall'ex fedelissimo dalemiano Flavio Fasano (l'ex ministro è stato anche suo testimone di nozze), oggi capo della mozione del segretario in Puglia.

Il congresso del Partito democratico sta per entrare nel vivo e le promesse di fair play rischiano di andare a farsi benedire. Per esempio, la lettura del sondaggio di Pagnoncelli che si fa nello staff di Franceschini è molto maliziosa. Di più: tendenziosa. Il segretario avrebbe dieci punti complessivi di vantaggio su Bersani nelle primarie del 25 ottobre. E il suo successo verrebbe costruito proprio nelle regioni che per storia e competenze (le piccole e medie imprese, l'artigianato) dovrebbero invece favorire lo sfidante. In Piemonte, Liguria, Veneto, Lombardia e Friuli Venezia Giulia Franceschini è largamente in testa. Lo sarebbe, e qui il dato va sicuramente verificato, persino in Emilia Romagna, l'orticello di casa bersaniano, roccaforte del dalemismo, con il governatore Vasco Errani schierato ventre a terra dalla parte dell'uomo delle liberalizzazioni. Franceschini ha un largo vantaggio nelle grandi città, cioè dove si forma il voto di opinione. È in difficoltà invece nel Sud, al massimo regge un testa a testa ma in molti casi si ferma sotto la quota di Bersani. Come dire: nelle aree dominate dai signori delle tessere, Bersani corre in discesa.

Ma Franceschini non si ferma qui. Ha già commissionato un nuovo sondaggio per il 15 settembre, quando sarà finita la sarabanda delle feste di partito, dei convegni post vacanzieri e dei dibattiti in riva al mare. E un nuovo pronostico Pagnoncelli dovrà sfornarlo tra il 5 e il 10 ottobre, alla vigilia del congresso quando la sfida interna, quella del voto degli iscritti, sarà già decisa. Mancheranno però ancora due settimane prima del bagno popolare delle primarie, il verdetto definitivo. Il sondaggio dice anche che potenzialmente Franceschini è più forte nell'elettorato di centrosinistra, Pd a parte. Mentre Bersani gode di un maggiore apprezzamento tra i cittadini del centrodestra. Questa sottolineatura a occhio e croce è un'altra stoccata. Ma lo stesso studio conferma il pronostico sugli iscritti: quella partita molto probabilmente la vincerà lo sfidante.

Ai sostenitori di Franceschini non è piaciuto il mancato invito al Meeting di Cl, dove invece sarà protagonista Pierluigi Bersani. Franceschini comunque rilancia sul fronte cattolico annunciando la sua partecipazione all'assemblea delle Acli. Ma è Di Pietro a scaldare gli animi tra i duellanti. Bersani liquida l'Italia dei Valori come fenomeno passeggero. "Se costruiamo un'alternativa credibile al governo, tanti torneranno con noi e non soffriremo più il fenomeno Di Pietro". Capitolo chiuso, perciò, l'alleanza del 2008. Franceschini risponde telegraficamente su Twitter: "Il nostro avversario è Berlusconi, non Di Pietro".

(19 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 27, 2009, 04:27:31 pm »



POLITICA

       
Il presidente della Camera ospite dei Democratici a Genova

Applausi, richieste di autografi, la sala piena ad ascoltare

Dal testamento biologico ai migranti così Gianfranco scalda la Festa del Pd

di GOFFREDO DE MARCHIS


GENOVA - Gli applausi, le richieste di autografo, la sala sul molo piena, gli extracomunitari che si fermano ad ascoltare seduti un po' in disparte, il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma c'è anche un altro Gianfranco Fini, è uno storico militante comunista del quartiere Cornigliano, volontario alla friggitoria della Festa democratica, che gli mostra la sua carta d'identità: "Adesso questo nome non mi imbarazza più". Tocca al presidente della Camera frenare l'entusiasmo dicendo all'omonimo, con un sorriso, almeno due cose di destra. "Beh, prima di Fiuggi avrai avuto qualche problema". Poi, rigirando il documento tra le dita: "Hai visto il numero? Comincia con An. Abbiamo qualcos'altro in comune.".

La fine della visita di Fini alla kermesse del Pd è uguale all'inizio: accoglienza caldissima, nemmeno l'ombra di una contestazione, scontro ideologico lontano, sepolto, battimani ripetuti e convinti di una platea che accoglie anche elettori del Pdl ma è a larghissima maggioranza democratica. L'attacco alla Lega sull'immigrazione, la posizione ferma contro la legge sul testamento biologico voluta dalla maggioranza, la difesa della laicità, persino l'accenno a una ferita ancora aperta a Genova gradito e applaudito.

Tutto piace ai militanti della Festa del nuovo Fini, del "compagno" Fini, quello in abito blu, senza parannanza. "A proposito di G8, come italiano sono soddisfatto che la Corte europea abbia detto in maniera inequivocabile che Placanica ha agito per legittima difesa". Un secondo di silenzio, il ricordo del 2001 che scorre, Carlo Giuliani a terra, le immagini con l'assalto alla camionetta dei Carabinieri. In quei giorni Fini era qui, nella sala operativa delle forze dell'ordine.

Cambia il vento o no nella sala gremita al Porto antico? No. La gente apprezza e Fini risalendo in macchina commenterà: "Mi ha colpito molto quell'applauso". Gli altri momenti a suo favore li aveva messi in conto e non poteva essere diversamente. La sua nettezza sui temi etici i democratici vorrebbero sentirla dai loro leader. Per ora si accontentano delle parole del presidente della Camera.

Accanto all'ex presidente del Senato Franco Marini, nel dibattito condotto dal direttore del Tg2 Mario Orfeo, Fini parla così della laicità: "Io non ho il dono della fede, anche se riconosco il grande ruolo della Chiesa, la sua storia, i suoi valori. Ma la contrapposizione su certi argomenti non può essere tra laici e cattolici. Lo sapevano bene due credenti come Elia e Scoppola. Lo scontro c'è solo tra laici e clericali". Lui sta con i primi, deciso a far sì che il testo della legge sul testamento biologico cambi arrivando alla Camera. "Non si tratta di favorire la morte, ma di prendete atto dell'impossibilità di impedirla". E "senza fare crociate contro i cattolici" se qualcuno pensa che "decide il Vaticano e non il Parlamento, io, Costituzione alla mano, dico no".

Fini ripete spesso di voler guardare avanti, che lui "nelle vecchie gabbie di destra e sinistra" non si riconosce più. "Le differenze esistono, ma lo scontro ideologico è finito", sentenzia raccontando le discussioni con la figlia più grande. E' alle nuove generazioni che bisogna guardare anche quando si parla di immigrazione, di diritto alla cittadinanza. Arrivando a mettere in discussione una parola chiave della destra italiana: patria. "In tutte le lingue europee significa terra dei padri. Ma oggi cosa diciamo ai figli nati qui che hanno genitori nati altrove e vestono le maglie delle nostre nazionali, come Balotelli o i giovani campioni juniores di cricket?". Non sono italiani anche loro? E non sono esseri umani quelli che muoiono nel Mediterraneo o riescono ad arrivare stremati sulle nostre coste? Le risposte della Lega a queste domande "sono superficiali, propagandistiche e vagamente razziste".

Marini naturalmente condivide e declina il problema in termini economici: "Andatelo a chiedere alle industrie se non abbiamo bisogno di loro. O alle famiglie con le badanti". Aggiunge Fini: "La Chiesa lancia un messaggio di carattere universale, non fa comizi di periferia. Ma anche i trattati ci impogono di rispettare la dignità dell'uomo".

Nessun lassismo "perché la Lega comunque ha colto una questione vera", ma ricette nuove sì. Aiuti ai Paesi poveri, più cooperazione, "minore accondiscendenza con certe dittature", più impegno della parte ricca del mondo. Se poi il Pdl "sui temi dell'immigrazione si limita a produrre la fotocopia dell'originale, alla gente piacerà sempre l'originale, cioè la Lega. Sarebbe il caso di affinare l'approccio". E aggiunge: "Dicono: è colpa di Malta. Mi viene da ridere. Malta è un piccolo Paese dell'Unione europea, che può fare? A Strasburgo piuttosto destra e sinistra lavorino a una soluzione comune".

(27 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 11, 2009, 11:18:16 am »

Dopo il caso Gabanelli, contratto in ritardo per Fazio. Rinvii e direzione sotto scacco

Il direttore della rete: "Puntano su una tv McDonald, tutta uguale. Ed è un grave errore"

La destra all'assedio finale del fortino rosso di Raitre

L'ironia della Littizzetto: "Non capisco dove Silvio veda da noi tutto 'sto comunismo"


di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Un editto soft, una goccia cinese che scava la roccia fino all'obiettivo finale: addomesticare la Gabanelli, Fazio, la Littizzetto, Bertolino, "Parla con me", ridimensionare, cancellare forse. Silvio Berlusconi l'ha anche detto: quei programmi di Raitre non mi piacciono.
Senza i toni concitati di Sofia, ma l'ha detto. E da tempo il direttore generale Mauro Masi lavora per trovare un sostituto di chi Raitre la dirige con quei volti, con quegli artisti. Gioca di sponda, propone nomi su nomi, cerca professionisti dal curriculum impeccabile. Non spiega esattamente per quale motivo, ma va sostituito Paolo Ruffini, che gestisce la baracca da sette anni. Il resto, la normalizzazione dei programmi sgraditi, verrà da sé. "Dove lo vede Silvio tutto questo comunismo a Raitre, cosa c'è di anormale? Se il problema è che Fazio è un uomo e io una donna, ci operiamo. Così rientriamo nei loro canoni di normalità", scherza Luciana Littizzetto, appuntamento fisso del week-end di Che tempo che fa, pubblico trasversale, risate a sinistra e a destra. Magari questo dà fastidio.

La Rai della nuova era Berlusconi non vuole mandare nessuno a Casablanca, ma qualcuno a casa sì. Il pressing sul Partito democratico per avvicendare i vertici di Tg3 e Raitre e incrinare un'identità non è solo un'indiscrezione. Comunque ci sono anche gli indizi, i dati di fatto: l'intenzione resa esplicita da Masi di togliere la tutela legale a un programma di inchiesta che giocoforza si porta dietro grane su grane come "Report". E un giallo finora rimasto sottotraccia su "Che tempo che fa". Il contratto tra Rai e Endemol, la produzione del programma, non è ancora stato firmato. Un ritardo che appare poco tecnico e molto politico a sole tre settimane dalla messa in onda (3 ottobre).

Il senso di Raitre secondo Fazio è "mettere in luce la vera funzione del servizio pubblico: che è somma di voci, non sottrazione. È scambio di idee, pluralità, polifonia in una grande azienda culturale". L'idea di chiudere qualche bocca (e qualche programma) "mi sembra ancora prima che sbagliata anti-moderna. La televisione di tutti deve far parlare tutti anziché limitarsi a non dire niente".

Semmai la critica rivolta a Fazio è quella di essere troppo moderato, poco cattivo, accomodante. "Ma capisco l'imbarazzo di alcuni. Da noi si respira un'aria di libertà, per altri invece è scontato che i programmi si costruiscano sentendo le segreterie dei partiti".

Il paradosso dello scontro campale giocato sulla pelle di Raitre è che tutti i programmi sono ormai in rampa di lancio. "Parla con me" scatta il 29 settembre, "Report" cascasse il mondo, anche senza copertura legale, l'11 ottobre, Fazio la settimana prima. Ruffini gira come una trottola per le conferenze stampa della nuova stagione. Poi torna in trincea, nell'ufficio al primo piano di Viale Mazzini. Non pronuncia mai la parola censura, ma difende il carattere della rete che fu del maestro Guglielmi, il suo essere portabandiera del servizio pubblico. "Un'offerta multipla arricchisce la Rai, non la penalizza.

Il pluralismo è patrimonio collettivo", dice Ruffini. E se la direzione generale la pensa diversamente, commette un errore. "Perché fare delle tre reti un indistinto omogeneizzato? Avremmo l'effetto McDonald, che ha gli stessi panini in tutte le parti del mondo".

Dicono le malelingue che un ottimo uomo Rai come Giovanni Minoli sarebbe disposto a ridimensionare i volti noti e di successo della rete, sbarcando al posto di Ruffini. Dicono che non si preoccupi dell'opposizione dei consiglieri del Pd, pronto a incassare soltanto i voti della maggioranza. Ma dagli artisti, ai dirigenti e ai 100 lavoratori della terza rete, Ruffini continua a ottenere in queste ore sostegno e riconoscimenti che superano persino la prova del settimo anno di vita in comune.

Il direttore di Raitre sarà in piazza il 19 per la libertà di stampa. Anche Milena Gabanelli parteciperà. Con l'occhio sempre attento allo sviluppo della trattativa con la Rai per la tutela legale. "Report" punta allo scudo di Viale Mazzini perché se si crede in un prodotto lo si difende, altrimenti lo si cancella. E la filosofia della stakanovista Gabanelli è che delle due l'una: o si lavora pancia a terra a caccia di scoop o si perde la giornata a parlare con gli avvocati. "Ruffini - racconta Fazio - ha sempre garantito a me e alla mia squadra condivisione del progetto e assoluta autonomia. Sono elementi essenziali di qualsiasi lavoro, compreso il nostro".

Eppoi gli ascolti di Raitre vanno bene, dunque la "prima domanda non è chi al posto di chi, ma perché. Perché bisogna cambiare?". Per creare un coro monocorde al servizio del pensiero unico berlusconiano? "Nel servizio pubblico devono esserci tante verità - dice Ruffini - . Questa è la sua missione, nel rispetto degli spettatori, dell'editore, delle persone. Si vuole invece una verità di Stato? Allora siamo in Unione sovietica".

La Littizzetto, con la sua leggerezza, spiega bene cosa non va nell'assedio al fortino di Raitre. Per la comica c'entra la politica sì, ma anche "una grande confusione del Paese in cui nessuno si fida di nessuno e proliferano i più realisti del re". Gli ospiti di "Che tempo che fa" davvero importanti, davvero graditi dal pubblico non sono i Prodi, i Veltroni, gli esponenti della sinistra che secondo i falchi del Pdl occupano le poltrona bianca di fronte a Fazio senza contraddittorio e senza un bilanciamento di ospiti a destra. "Il nostro merito è di mettere in onda volti nuovi, assolutamente spiazzanti. Ceronetti non ha niente di televisivo, è un personaggio inconsueto, fuori dal coro e dal circuito. Eppure la sua presenza dà i brividi". L'"alto" dello scrittore torinese, il "basso" delle battute fulminanti della Littizzetto pochi minuti dopo. Anche questa è Raitre. "A Ruffini darei il Telegatto", esclama Luciana. Ma i vertici della Rai appoggeranno la candidatura?

(11 settembre 2009)
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