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Autore Discussione: GOFFREDO DE MARCHIS.  (Letto 70786 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Marzo 07, 2013, 06:52:56 am »

Pd, Bersani ora rinuncia all'ultimatum.

"Dopo di me non ci sono solo le elezioni"

"Ma mai un governo con Berlusconi". Le frizioni con il Quirinale.

Secondo i fedelissimi del segretario, anche Napolitano "deve discutere con noi".

Il leader democratico rilancerà i suoi otto punti per l'accordo con il M5S

di GOFFREDO DE MARCHIS


Per tenere unito il Pd, Bersani non minaccerà le elezioni a giugno, eviterà l'aut aut "o il mio governo o si torna a votare". Anche Giorgio Napolitano, con il quale i rapporti non sono idilliaci in questa fase, osserva le mosse della direzione democratica. Ma il segretario pianterà un paletto che sembra destinato a escludere qualsiasi forma di collaborazione con gli avversari di sempre. E quindi a restringere il campo di un'alternativa alla sua impresa.

"Che sia tecnico, del presidente, di emergenza, per me non esiste alcun governo con Berlusconi". Con il politico che "compra De Gregorio", che secondo la procura avrebbe avvicinato "anche Razzi e Scilipoti", non si tratta e non si vota la fiducia.

Il paletto può essere accettato da tutti e scongiurare una conta che, all'indomani della sconfitta, rischierebbe di spaccare il Partito democratico definitivamente seppellendolo sotto le macerie. Ognuno però ascolterà le parole del segretario con un retropensiero diverso, con orizzonti che non hanno lo stesso colore. Per i bersaniani di più stretta osservanza la partita non è ancora persa. "Qualcosa si muoverà nel Movimento di Grillo. Noi dobbiamo proporci con umiltà e con senso di responsabilità. Dando la prova di un cambiamento radicale".

Questa prova è affidata agli 8 punti del programma: Europa (correzione delle politiche Ue, non solo rigore ma crescita), misure urgenti per il lavoro e sul fronte sociale, riforma della politica, leggi contro corruzione e mafia, conflitti di interesse, green economy ed efficienza energetica, diritti, istruzione e ricerca. È la base di un corteggiamento che ha già registrato molti rifiuti netti dai grillini. Secondo Bersani, però, non sta in piedi una seconda scelta "e anche Napolitano deve discutere con noi", dice un collaboratore del leader.

Ma la linea oltranzista, nel corso di questi giorni, è stata abbandonata. Anche Bersani si chiede se non ci sia uno sbocco differente, anche senza Berlusconi, magari rinunciando a guidare in prima persona l'esecutivo. Il segretario ha perso pezzi della sua maggioranza interna sulla trincea delle elezioni immediate. Da D'Alema a Enrico Letta, i suggerimenti di prudenza sono arrivati forti e chiari.

I due dirigenti hanno garantito lealtà assoluta al tentativo bersaniano, ma avvertendolo: "Se non va in porto l'intesa con Grillo, si azzera tutto e si ricomincia daccapo". Cioè, la parola passa al capo dello Stato e si esaminano anche soluzioni nuove che non portino il Paese dritto dritto alle urne.  Stavolta D'Alema e Matteo Renzi navigano nella stessa identica direzione. Il sindaco di Firenze conferma che "non pugnalerà Bersani" e che non gradisce le prese di distanza del giorno dopo. Ma è convinto che il segretario non ce la farà.

La direzione di oggi segnerà anche un passaggio importante per la storia futura del Partito democratico. Renzi infatti, seppure sulla posizione della lealtà estrema, prenderà la parola. È la prima volta che lo fa in quella sede, davanti alla nomenklatura del Pd che non lo ama. In altre occasioni si era sempre limitato a un'assenza giustificata (si fa per dire) o una breve visita prima di riprendere al volo il treno.

Renzi non pugnala perciò, ma sente "l'odore del sangue". "Non c'è dubbio, il suo discorso sarà uno spartiacque. Mette un piede dentro al partito per conquistarlo", è l'opinione di D'Alema e Letta. Quando alludono all'azzeramento, l'ex premier e il vicesegretario pensano del resto anche alla leadership del Pd, al ruolo di Bersani, che in caso di bocciatura del governo Pd-M5s, è destinato a lasciare la segreteria aprendo la corsa alla successione. Con Renzi grande favorito.

Bersani si gioca tutto, sul fronte del governo e sul fronte del Pd. A invocare le elezioni anticipate sono rimasti i giovani turchi di Matteo Orfini e Stefano Fassina. Non a caso, ieri, esclusi dalle consultazioni del segretario e del suo staff. Il segretario non li segue, preferisce giocarsi le sue carte in Parlamento e al Quirinale. Perché il suo obiettivo è far partire comunque un governo, presentandolo alle Camere, cercando lì i voti necessari ad andare avanti. "Un sentiero strettissimo, ma quello di una maggioranza con Berlusconi lo è anche di più".

(06 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/06/news/bersani_rinuncia_a_ultimatum-53958894/
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« Risposta #76 inserito:: Marzo 07, 2013, 05:10:45 pm »

Se il leader fallisce, avanti una donna.

Il Pd vuole evitare un altro tecnico

Il Colle preoccupato per il veto sul Pdl.

Se l'M5S dirà no, tornerà l'ipotesi di un rapporto con il centrodestra ma senza Berlusconi.

Idea Finocchiaro.

Gira anche il nome di Barca, se fosse necessario dare un segno di netta discontinuità

di GOFFREDO DE MARCHIS e UMBERTO ROSSO


ROMA - Il no a Berlusconi risuona più forte del sì alla trattativa impossibile con Beppe Grillo. Ed è il segno che il Partito democratico, a dispetto delle apparenze, scivola verso un piano B che si chiama ritorno al voto in poche settimane. "La vera riunione della direzione - dicono infatti i sostenitori delle elezioni immediate - sarà la prossima". Quella in cui il Pd potrebbe essere costretto a certificare il fallimento del tentativo di Bersani e dovrà fare i conti (e la conta interna) con l'ipotesi di un governo del presidente che tenga nella maggioranza anche il Pdl. Ma le alternative non si fermano alle urne. Ce n'è una che viaggia su un binario sotterraneo e per ora viene tenuta coperta. È quella di un rapporto con il centrodestra de-berlusconizzato (come lo ha dipinto ieri D'Alema) che non prevede un tecnico alla guida di Palazzo Chigi, ma un altro esponente del Pd. In questo caso occorrerebbe dare il senso di una netta discontinuità con il passato, rappresentare cioè una novità assoluta nella storia repubblicana. Una donna premier corrisponde a questo identikit.

Se è vero che in caso di rifiuto del Movimento 5stelle "si azzera tutto", come dicono a Largo del Nazareno, alcuni, tra le tante ipotesi, ragionano anche sulla soluzione a sorpresa: perché non dovrebbe essere il Pd a gestire un nuovo tentativo, cambiando protagonista? Si fa il nome di Fabrizio Barca, ministro tecnico del governo Monti, ma vicinissimo ai democratici. La novità
però sarebbe un volto femminile e il pensiero corre subito ad Anna Finocchiaro. È solo una suggestione perché in questo momento il piano A è in campo senza subordinate. E perché Berlusconi regna incontrastato nel suo partito. Non ha fatto alcun passo indietro.

Anche ieri, nella telefonata tra Bersani e Napolitano, non si è parlato di vie d'uscita diverse da quelle di un governo del segretario Pd. Il presidente della Repubblica ha molto gradito il gesto di cortesia, così come ha registrato con soddisfazione che nessuno, nella direzione, ha fatto cenno alle elezioni anticipate, immaginando "disegni precostituiti" che Napolitano aveva con durezza criticato. Questo non significa che il Colle non continui ad avere dei dubbi sull'aggancio dei 5Stelle. E che il no forte e chiaro del Pd rispetto a un dialogo con il Cavaliere sia un ulteriore ostacolo sulla strada di costruire un governo in tempi brevi, come da giorni chiedono tutte le Cancellerie rivolgendosi all'unico presidio certo rimasto: il Quirinale.

Molto si capirà dal gioco di incastri per le presidenze delle Camere. "Quando arrivi a decidere come vengono assegnate Camera e Senato, hai capito anche come va a finire il rebus del governo", dicono al Pd. Se Berlusconi si ritira dalla corsa di Palazzo Madama, si può votare un esponente del Pdl? La partita è apertissima. I sondaggi del dopo voto arrivati sul tavolo di Largo del Nazareno dicono che non soffia una buona aria per i democratici. Dunque, la via del ritorno alle urne è poco conveniente. Ma le bocce sono ferme e gli otto punti di Bersani per il "governo di cambiamento" hanno appena cominciato a essere seminati nel campo dei grillini.

Fino alle consultazioni del capo dello Stato, il Pd è unito intorno al suo segretario. Cosa succederà però se il tentativo di Bersani fallisce? Ieri si è capito bene che il partito potrebbe esplodere. Che le tante voci favorevoli a un possibile governo del presidente (apprezzate da Napolitano) rischiano di scontrarsi con chi nega in radice una maggioranza con il Pdl e il ritorno di un tecnico. C'è davvero il pericolo serio di spaccatura definitiva nel Pd. Per questo, per evitare lo showdown, può uscire dal cassetto l'idea di mandare avanti un altro esponente del Pd.

(07 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/07/news/pd_evitare_tecnico-54018555/?ref=HRER2-1
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« Risposta #77 inserito:: Marzo 21, 2013, 05:55:56 pm »

Il segretario pronto a incontrare i 5Stelle: "Il mio sarà l'esecutivo del cambiamento"

La proposta al Colle, ma nel partito c'è anche l'ipotesi Grasso.

Spunta anche il nome di Enrico Letta per un secondo tentativo, ma lui nega.

Per il leader non esistono soluzioni alternative e tantomeno larghe intese col Pdl 

di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - "Governo del cambiamento". È una proposta secca quella che Pier Luigi Bersani porterà stasera al Colle. Rivendicando non la guida per sé, ma spiegando che solo il centrosinistra, e quindi il suo candidato premier, può riuscire nell'impresa. Significa che non esistono soluzioni alternative, tantomeno maggioranze del passato come l'asse che ha retto il governo Monti con Silvio Berlusconi protagonista. "Sabato si mobilitano in piazza a Roma contro i magistrati. Un governo col Pdl? Ma di cosa stiamo parlando", dicono in queste ore a Largo del Nazareno.

Per il vertice democratico la strada rimane una sola: un esecutivo con il Movimento 5stelle, con Sel, con Scelta civica. Magari con un'astensione tecnica della Lega. Mai con il Cavaliere. Sul nome del premier, il segretario si rimetterà al capo dello Stato, com'è doveroso. Che non vuole dire aprire a un'altra ipotesi. "Si parte dal voto del 24 e 25 febbraio - dicono i suoi fedelissimi - e dal candidato di quelle elezioni. Il cambiamento può guidarlo solo Pierluigi".

Questa sono le basi su cui Bersani intende poggiare l'incarico, che dopo le prime consultazioni di Giorgio Napolitano, appare più vicino. I numeri del Senato, ovvero la maggioranza che non c'è, sono il rovello del presidente della Repubblica. Lo ha ripetuto più volte ieri alle delegazioni salite al Colle. "E i voti?". Già, un problema da niente.

Ieri sono venuti a mancare anche quelli di Scelta civica che preferisce un esecutivo di larghe intese. "Ma ogni giorno il quadro può cambiare", ripetono gli uomini più vicini al segretario del Pd. "E se i grillini e Monti non ci stanno, non si farà il governo del cambiamento. Ma ognuno si assumerà le proprie responsabilità". Sembrano parole di resa, ma l'interpretazione autentica dei bersaniani è che siamo davanti a "una sfida".

Bersani la gioca senza pensare al domani, ma muovendosi a tutto campo. Sta aprendo ai suoi interlocutori su tutto: le vicepresidenze delle Camere, le presidenze di commissione, i questori dei due rami del Parlamento. Mosse disperate secondo alcuni, anche dentro il Pd. Una prova di subalternità inconcepibile e pericolosa per le istituzioni. Eppure si può avere anche un diverso punto di vista. "Non credo stia pensando a se stesso, Pierluigi. Si sta facendo carico di nuovi equilibri. Cerca di tirare dentro le istituzioni anche chi ne è stato fuori fino a tre giorni fa - spiega Antonello Giacomelli, che pure viene dalla dolorosa rinuncia alla Camera del suo amico Franceschini - è cambiato il mondo, il segretario ne prende atto. Bersani sta lasciando qualcosa anche per il dopo, se non dovesse farcela". Un riconoscimento pieno.

Il leader del Pd si presenta davanti al capo dello Stato con il mandato della direzione (votato all'unanimità). Mandato che parla chiaro: dialogo con Grillo, apertura ai montiani, otto punti di programma urgenti e dettagliati, mai con Berlusconi. Dalla riunione del parlamentino democratico, sono però passati alcuni giorni e le risposte dei potenziali alleati sono tutt'altro che incoraggianti. Il segretario ha sparigliato sulle presidenze delle Camere, è riuscito ad aprire un cuneo nei 5stelle al Senato, ha dialogato fino all'ultimo con Scelta civica offrendogli la presidenza della Camera. Ma alla fine, arrivati al bivio cruciale delle consultazioni, la situazione di partenza non è mutata. Certo, anche al Senato, prima del voto su Pietro Grasso, si è navigato a vista. Poi, i grillini si sono spaccati e il Pdl è stato sconfitto. Ma la partita oggi è più complicata.

Il giorno di Bersani è arrivato. Se avrà il via libera del Colle, potrà giocarsi le sue carte nelle consultazioni da premier incaricato. Sul no al Pdl, il segretario è convinto di poter reggere evitando spaccature nel partito, anche se il segnale arrivato martedì nel voto per il capogruppo è stato ricevuto. Forte e chiaro. Una crepa nella strategia del leader. L'alternativa di Grasso per un governo istituzionale è ben presente a una larga fetta dei dirigenti Pd. Sta lì, a disposizione di Napolitano. Ci sono anche sirene per Enrico Letta, potrebbe essere a lui a guidare un secondo tentativo. Ma, raggiunto da queste voci, il vicesegretario ha fatto sapere di non aver avuto nessun abboccamento di questo tipo e che la proposta non è in campo. Non esiste, insomma.

I bersaniani sono sicuri che il partito non dirà mai di sì a un esecutivo con il centrodestra, anche di scopo. Se si arrivasse a questo snodo, andrebbe riunita di nuovo la direzione e la conta potrebbe rivelarsi sanguinosa. Detto questo, c'è chi lavora sull'ipotesi Grasso e non crede allo show down, cioè a elezioni immediate. Il voto che ha eletto Roberto Speranza capogruppo alla Camera dimostra che è finita la compattezza del Pd intorno all'impresa difficilissima del segretario.

Ma il film può cambiare. Al Senato, sabato scorso, è già cambiato, no? Ieri Bersani ha parlato a lungo con Nichi Vendola e Riccardo Nencini, dopo i loro colloqui al Quirinale. Ha avuto la conferma che nella Sala alla Vetrata non si ragiona su piani B. Ma quello che conta sono le consultazioni di oggi e il faccia a faccia con il presidente. Il punto è agganciare Grillo. Da premier incaricato Bersani si prepara a incontrare lui e Casaleggio, come farà oggi il presidente della Repubblica. Sarà quella la "sfida" decisiva.
 

(21 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/21/news/il_segretario_pronto_a_incontrare_i_5stelle_il_mio_sar_l_esecutivo_del_cambiamento-55011468/?ref=HREA-1
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« Risposta #78 inserito:: Marzo 26, 2013, 12:04:00 pm »

Bersani vuole la sfida in Parlamento

Al premier incaricato mancano ancora numeri certi, ma a Napolitano chiederà di andare in Aula.

Presenterà un calendario di scadenze e riforme da realizzate entro 18 mesi.

E avverte Berlusconi: sul Quirinale non puoi imporre nomi. Monti decisivo

di GOFFREDO DE MARCHIS


Prepararsi al secondo round al Quirinale. Senza offrire la certezza dei numeri che Giorgio Napolitano ha chiesto espressamente. Mancano ancora due giorni di consultazioni, fra l'altro quelle decisive con i partiti, ma Bersani pensa già all'appuntamento di giovedì al Colle.

Ha messo in conto lo stallo e l'ipotesi di proporre al capo dello Stato "un avvio della legislatura" con il suo governo anche in mancanza di un paracadute sicuro. Il presidente dovrebbe quindi compiere un atto di fede. Credere, insieme con il segretario del Pd, nel miracolo.

Oggi e domani Bersani si giocherà le carte finali. Cominciando da Scelta civica perché se anche Mario Monti si sfila, non si può nemmeno tentare l'azzardo. Ieri il premier incaricato e quello uscente hanno parlato a lungo al telefono. Al Professore si chiede un appoggio pieno al governo del cambiamento, sulla base di una forte impronta europeista. Bersani ha sottolineato l'esito del dibattito di ieri alla Camera, la paradossale sintonia di Pdl e Movimento 5stelle in una critica all'Unione. Il tutto condito da attacchi feroci a Monti. "Noi ci stiamo, ma vogliamo un esecutivo che non nasca sulla base di uscite dall'aula o voti sparsi - ha risposto il premier - Dev'essere stabile e con una maggioranza riconoscibile". L'apertura c'è. L'appello alla responsabilità in un momento delicatissimo può fare il resto e regalare, dopo le consultazioni di oggi, il sì dei centristi. Ma anche così i voti non sono sufficienti e per questo Bersani lavora sul doppio binario delle riforme istituzionali con il centrodestra.

La prima di queste "riforme", la più sentita da Berlusconi, è la scelta del nuovo presidente della Repubblica. La vera garanzia risiede al Colle, dura sette anni e, come si è visto nel recente passato, è centrale per i destini di ogni governo, ogni maggioranza. La trattativa è avviata, ma non registra passi in avanti. La minaccia del Partito democratico però cresce d'intensità. "Possiamo tagliare fuori il Pdl dall'elezione del presidente. Gli conviene?". I numeri, in questo caso, sono certi. Il quorum per eleggere l'inquilino del Colle, a maggioranza semplice, è 505 voti. Il centrosinistra, con i delegati regionali, dispone di 480 preferenze. "Noi - ragionano a Largo del Nazareno - abbiamo tre risultati utili a disposizione. Berlusconi uno solo". Il Pd può eleggere il capo dello Stato con una maggioranza larga che comprenda il Pdl, ed è la strada offerta al centrodestra, come ha detto ieri Enrico Letta. Ma può farlo con Monti e basta. In casi estremi, riuscirebbe ad eleggerlo da solo, magari proponendo un nome gradito ai grillini (che sono 160) sul modello Pietro Grasso. "Questi conti - spiegano gli sherpa democratici - Berlusconi li ha fatti prima di noi". Detto questo, il Cavaliere avrebbe la possibilità di trovare l'intesa su un nome, non di avanzarne uno suo. Ma è proprio questo che sta chiedendo con insistenza al Pd attraverso i mediatori in campo. Di essere lui a indicare il presidente, di pescare dal mazzo la persona giusta, anche in una rosa di centrosinistra. Sarebbe il suggello di un vero accordo politico con i democratici. "Con 480 voti contro, la proposta è irricevibile", risponde un leader del Pd.

Le difficoltà di Bersani con i voti al Senato e l'ipoteca di Berlusconi sul Quirinale rendono oggi la strada del premier incaricato complicatissima. Per questo ieri appariva molto più vicino il ritorno alle urne. "Non accetto sotterfugi - ragionava il Cavaliere con i suoi collaboratori - Sono disponibile a un'intesa alla luce del sole, politica. Altrimenti, andiamo al voto e la facciamo finita". Il segretario del Pd si prepara al colloquio con il capo dello Stato puntando su impegni garantiti anche se non ci sono numeri certi. A partire dal profilo dei ministri, che rivelerà a Napolitano. Saranno uomini e donne scelti con la massima apertura e dal curriculum impeccabile. In grado di aprire un confronto dentro tutte le forze parlamentari, dai grillini alla Lega. "Ognuno troverà qualcosa di positivo nel nostro governo", ha detto qualche giorno fa Bersani e si riferiva alla squadra. Al presidente della Repubblica presenterà anche il calendario delle riforme istituzionali (riduzione dei parlamentari, Senato delle autonomie, legge elettorale) con le scadenze per ogni provvedimento presentato. Tra i 12 e i 18 mesi, il percorso dovrebbe essere completato. Sarebbe quello anche l'orizzonte temporale dell'esecutivo.

A Largo del Nazareno scommettono che su queste basi Napolitano possa convincersi e "mandare il governo alle Camere per cercare la fiducia sulla base del programma e delle competenze". Un governo del Presidente non potrebbe fare di più e di meglio, dicono gli uomini del segretario. "Sarebbe una via ancora più stretta della mia", ripete Bersani. Oggi e domani bisogna ancora giocarsi la carta delle alleanze possibili. Perché la risposta del Quirinale in caso di numeri certificati si conosce già. Quella davanti a un'avventura più rischiosa, no.

(26 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/26/news/bersani_sfida_in_aula-55362806/?ref=HREC1-1
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« Risposta #79 inserito:: Maggio 09, 2013, 03:35:44 pm »

Democratici senza guida, partito-caos "Ora rischiamo la liquefazione"

E scoppia la guerra tra D'Alema e il segretario dimissionario e ne fanno le spese Cuperlo ed Epifani.

Civati: "Siamo vicini al disastro totale"

di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Regge solo l'asse Bersani-Letta, più amicizia che intesa politica. Intorno ci sono solo macerie, incertezza sul futuro e lotte violente nell'area degli ex Ds. Sono stati sacrificati sull'altare dell'odio tra Massimo D'Alema e il segretario uscente due candidati per la segreteria del Pd che avevano un po' di peso e di consenso: Gianni Cuperlo e Guglielmo Epifani. Il secondo in particolare era considerato un elemento di garanzia per il governo sia dal premier sia da Franceschini. Niente di fatto. Cuperlo troppo dalemiano, Epifani troppo bersaniano. Bruciati, archiviati. Marco Minniti ha lanciato l'allarme durante il caminetto: "Ci siamo già rotti l'osso del collo, ora ci rompiamo il resto". Pippo Civati vede arrivare "il disastro totale. Berlusconi condannato, Nitto Palma alla commissione giustizia, Formigoni rinviato a giudizio e appena eletto alla presidenza della commissione Agricoltura. Portiamo la croce e non abbiamo ancora capito perché stiamo al governo".

Il Pd sembra finito, liquefatto e non si capisce come nei due giorni che mancano all'assemblea nazionale possa essere rianimato. Da chi? Come? "C'è solo il congresso - insiste Civati - . Facciamolo subito, a giugno. Con le primarie, certo. Abbiamo un albo degli elettori, usiamolo. Usciamo dalle logiche correntizie. Se ci chiudiamo adesso non ci vota più nessuno".

Ma non è ancora arrivato il momento delle responsabilità. Si consumano vendette tremende dopo la partita del Quirinale e i 101 franchi tiratori. Bersani ha messo nel mirino D'Alema. E viceversa. L'ex premier è fuori da tutto. Lo descrivono furibondo. Al segretario uscente rimprovera la condotta per l'elezione del capo dello Stato. E ancora prima l'esclusione dalle liste elettorali. Il suo nome non sarebbe mai stato proposto a Berlusconi per il Colle. Malgrado una consultazione riservatissima tra i grandi elettori condotta dai capigruppo lo avesse inserito di fatto nella rosa. Bersani invece vede la mano di D'Alema nella vicenda che ha portato alle sue dimissioni. "Presto risolveremo il problema", dicono velenosamente i bersaniani. Senza contare che in questa guerra diessina si è infilato anche Walter Veltroni stoppando Cuperlo.

Renzi ha sentito l'odore delle vecchie battaglie oligarchiche e, saggiamente, si è chiamato fuori. "Andrebbe bene Roberto Speranza. Diamo il segnale di una svolta generazionale. Ma su Finocchiaro non metto veti". In realtà, chiede di tenere almeno un piede dentro al Pd 2.0. Ossia, un posto al sole per Luca Lotti come responsabile organizzativo o per Yoram Gutgeld al dipartimento economico o per Angelo Rughetti agli Enti locali. Ruoli centrali della macchina, in pratica dei vice segretari. Però nell'area renziana si assiste con un certo distacco alla dissoluzione del Partito democratico. Loro hanno una via d'uscita: giocarsi tutto fuori dal recinto Pd, con un'altra forza politica da costruire ex novo e la bandiera Renzi a catalizzare i voti. Come continua a ripetere Matteo Righetti, il fedelissimo che immagina la salvezza solo attraverso una nuova Cosa. Con una novità: da qualche giorno i sondaggi sulla popolarità dei leader segnano un arretramento del sindaco di Firenze e una crescita di Enrico Letta.

Il premier ieri voleva partecipare alla riunione dei big facendo sentire fisicamente il bisogno di un appoggio sostanziale e formale del suo partito. Ma ha capito che la riunione non sarebbe approdata a nulla e la tragedia di Genova era molto più importante. È volato dai feriti della Torre dei piloti. Non prima di aver sentito Bersani. "Pierluigi, così il Pd mi lascia solo". Il segretario dimissionario gli ha garantito il sostegno. "Qui sta crollando tutto ma io non torno indietro, non farò il traghettatore fino al congresso. Però ti assicuro che l'assemblea comincerà con una relazione sul governo. Non ti mancherà la fiducia del partito".

Beppe Fioroni racconta come il disastro può scaricarsi sul governo. Doveva fare il presidente di commissione, ma si è tirato indietro. "Mi hanno detto o ci sei tu o c'è la Ferranti. Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. "Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia. Sa, con Nitto Palma al Senato...". E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd". Letta gli ha inviato un sms: "Contrariato?". Fioroni, con un altro messaggino: "No. Ma mi preparo a contrariare te". Non è solo una battuta. L'ex ppi organizza le truppe per sabato, chiede un congresso subito, prima dell'estate. Proprio ciò che il premier vuole evitare. Perché peggio di un Pd morente c'è solo un Pd che comincia subito a litigare sul leader.

Lo scontro c'è comunque. Il giovane turco Matteo Orfini rimprovera a Bersani l'assenza di regia: "Un comportamento scandaloso per un ex segretario. Ci sta lasciando senza rete". I giovani di #Occupypd si presenteranno davanti alla Fiera di Roma il giorno dell'assemblea. Con i loro striscioni, con la loro protesta: "Resettiamo la classe dirigente, spalanchiamo le porte. Parlate con i circoli, con i militanti". Il giovanissimo dalemiano di ferro Fausto Raciti ha proposto un incontro domani pomeriggio: "Discutiamone". Gli hanno replicato: "Noi veniamo a Roma con i nostri mezzi, non possiamo permetterci una notte in albergo". La sfida infatti non è più soltanto generazionale. È tra l'apparato e la base, oggi completamente scollati.

(09 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/09/news/caos_pd-58387421/?ref=HRER1-1
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« Risposta #80 inserito:: Maggio 10, 2013, 10:55:33 pm »

Pd, tra i veti incrociati di corrente riprende quota il reggente esperto

Tutto in alto mare alla vigilia della assemblea.

Su Speranza il no di D'Alema e Veltroni.

In corsa Fassino, Chiti, Epifani.

Black list coi 101 anti-Prodi

di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - "Parliamo di come sistemare il palco, della scaletta degli interventi, dell'organizzazione del voto". Ivan Scalfarotto fotografa l'impazzimento del Pd a 24 ore dall'assemblea nazionale chiamata ad eleggere il nuovo segretario e a costruire il proprio futuro nel governo con Silvio Berlusconi. È l'immagine di una forza politica allo sbando: confusa, ferita, disorientata, ma con Enrico Letta a Palazzo Chigi. Il comitato ristretto chiamato a trovare il nome di un nuovo leader unitario, di cui Scalfarotto fa parte, naviga al buio, si occupa di logistica con la piantina della Fiera di Roma, il luogo scelto per la riunione, e aspetta che si consumino gli scontri e le vendette delle correnti. Il giovane capogruppo Roberto Speranza appare la soluzione giusta per mandare un segnale di novità all'esterno, ai circoli in subbuglio, alla base di #Occupypd. Lo sostengono Bersani, Renzi e Franceschini. Ma sulla sua strada ci sono i veti di D'Alema e Veltroni, i dubbi di alcuni sulla scarsa esperienza. Per questo, alla fine di un'altra giornata buttata, riemerge l'usato sicuro incarnato da Piero Fassino. Segretario transitorio per eccellenza, impegnato com'è al Comune di Torino, tamponatore di falle e incassatore come pochi.

Ma a pochissime ore dal momento della verità, la soluzione è in alto mare. Sono di nuovo in pista Chiti, Finocchiaro, Epifani, il quarantenne lombardo Maurizio Martina. Un caos totale. L'assemblea, malgrado gli sforzi organizzativi del comitato, rischia di essere senza rete. Tutti contro tutti. Non è
escluso che possa venire fuori anche un concorrente alternativo alla soluzione unitaria. Anzi, al momento è più certo l'identikit dello sfidante che quello dello sfidato. Pippo Civati si scalda a bordo campo. Osserva le mosse degli altri, scuote la testa: "Non c'è più un filo, forse non c'è più il Pd", dice da giorni.

Civati è il grande accusatore dei 101 franchi tiratori che hanno impallinato Romano Prodi per il Quirinale e portato Bersani alle dimissioni uccidendo il partito di maggioranza relativa. "Peccato che non si possano fare quei nomi", dice. Ma gira la voce che presto potrebbe spuntare un Anonymous democratico. Un gruppo di misteriosi militanti sta lavorando sulla black list dei manovratori anti-Prodi. E sembra siano pronti a mettere l'elenco (molto presunto) dei 101 su Internet. Se dovesse succedere domani, sarebbe una bomba.

In mezzo a queste macerie, c'è il premier, il suo governo, la maggioranza. A Letta sarà dedicato uno spazio speciale all'interno dell'assemblea. Parlerà dal palco, verificherà la tenuta del suo lavoro, metterà alla prova il Pd. "Ecco, io mi preoccupo soprattutto di Enrico", ha spiegato Bersani che ieri ha riunito la sua corrente. Un esordio assoluto sulla scena del partito. L'ex segretario si era sempre mosso in solitaria o con il gruppo dei fedelissimi emiliani. Adesso questa adunata suona come una dichiarazione di guerra. Per domani e per il futuro.

Letta troverà applausi ma anche voci critiche, a cominciare da quella di Laura Puppato. Non sarà la sola. Fuori dalla sala i giovani dei circoli manifesteranno la loro insofferenza. Lo stesso giorno a Roma Sel chiama in piazza l'altra sinistra. Con Vendola e Rodotà. A questa parte del cielo continua a guardare Fabrizio Barca, iscritto Pd impegnato nel suo tour per l'Italia, tentato dall'idea di una nuova sinistra. Da fare "senza scissioni" dentro al Pd. Oppure fuori da quel recinto, in caso di resistenze insormontabili. È un altro problema, per fortuna non immediato. Il Partito democratico dovrebbe uscire dall'angolo in maniera brillante, con una soluzione fresca e innovativa. Allo stesso tempo, il governo ha bisogno di un riferimento solido, con le spalle larghe. In questo senso Fassino, Chiti o Finocchiaro sono i più adatti. Ma come reagirebbero i militanti, cosa si scatenerebbe sui social network? Sono le domande che si pone un partito molto malato, in balia dei tweet e dei post.

(10 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #81 inserito:: Giugno 12, 2013, 05:46:07 pm »

Torna l'asse tra Bersani e gli ex Ppi.

"Abbiamo vinto noi, Matteo non esageri"

Zingaretti corteggiato dal fronte anti-sindaco, ha però già rifiutato.

A Letta fa comodo una sfida con più candidati in vista del congresso: "Ma io sono neutrale"

di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Frenare Renzi. O meglio, stoppare la sua corsa verso la segreteria del Partito democratico. Dopo le elezioni amministrative, una parte del Pd fa la prima mossa. E per farla deve rompere l'asse Bersani-Letta-Franceschini che oggi regge il Pd. La corrente dell'ex segretario marcia (per il momento) da sola presentando un documento anti-Renzi. Lo firmano solo i fedelissimi di Bersani: Maurizio Martina in rappresentanza del Nord, Stefano Fassina (Centro) e Alfredo D'Attorre (Sud). I lettiani stanno a guardare mantenendo una totale neutralità. Gli ex Ppi, i franceschiniani, non si schierano ma non si sottraggono ad alcune manovre che puntano a rallentare il sindaco. Enrico Letta osserva. Da lontano.

...

Amico di tutti, schierato con nessuno. E se il congresso del Partito democratico avrà candidature contrapposte, cioè se Renzi avrà uno o più sfidanti, tanto meglio. Non perché il premier voglia parteggiare per qualcuno, ma perché lui avrà così la possibilità di ritagliarsi, da Palazzo Chigi, il ruolo di baricentro del Pd. "Non mi faccio coinvolgere nel congresso", ripete a tutti il Letta.

In nessun modo il presidente del Consiglio ha favorito l'iniziativa del suo amico "Pierluigi". Ma l'ipotesi di un candidato alternativo a Renzi (oltre a Gianni Cuperlo, già in campo da tempo) gli permette nuovi margini di manovra. L'obiettivo vero resta quello di un patto con il sindaco. Ma anche questo traguardo è più facile di fronte a una sfida interna al Pd combattuta sul serio. Soprattutto dopo le elezioni amministrative. Che secondo lui hanno rafforzato l'esecutivo delle larghe intese e il suo presidente del Consiglio. In un modo o nell'altro, il futuro segretario del Pd dovrà fare i conti con Enrico Letta. E viceversa.

Anche i bersaniani sfruttano l'onda del voto per i sindaci. La scelta di tempo per la presentazione del documento non è casuale. "Abbiamo vinto noi la sfida dei sindaci. Adesso Matteo non può esagerare". Non lo è nemmeno il sorriso di Bersani, il suo ritorno alla battaglia politica contro "il personalismo, contro i partiti proprietari". In parole povere, contro Renzi. E contro il nuovo alleato di Renzi: Massimo D'Alema, nemico giurato dell'ex leader del Pd. I bersaniani non possono rimanere a guardare, non vogliono rimanere stretti nella morsa del dalemiano Cuperlo e dell'avversario delle primarie Renzi. Perciò il documento non basta. Serve un candidato. Che sarebbe stato individuato in Nicola Zingaretti. Corteggiato a lungo in queste settimane, il governatore del Lazio ha detto no. Per ora.

A Zingaretti guardano in molti. Un gruppo di deputati giovani e trasversali, da Massimiliano Manfredi a Dario Ginefra, hanno apprezzato le parole del governatore contro le correnti, per un Pd che si ricostruisce sui parlamentati eletti con le primarie. I Giovani Turchi vogliono giocare fuori dai rigidi schemi delle componenti. "Siamo liberi di pensare con la nostra testa", dice Matteo Orfini. La militarizzazione dei bersaniani apre ai "turchi" nuovi orizzonti. Ma la corsa del presidente del Lazio è una chimera. E allora si ritorna al punto di partenza: c'è Renzi in pista, praticamente senza avversari. Ma i pericoli possono anche non essere in carne e ossa. Possono nascondersi nelle regole del congresso, come ha denunciato il sindaco. Ieri i renziani sembravano impazziti a Montecitorio. Vedono grandi manovre sui meccanismi di elezione del segretario. Sospettano che dietro ci sia Dario Franceschini perché una regola di cui si vocifera è mutuata dalla Margherita: pesare in maniera diversa il voto degli iscritti e il voto dei cittadini e degli amministratori locali. Insomma, non "una testa un voto", non primarie aperte.

La prima riunione della commissione per le regole è lunedì. Con una grana che rischia di spaccarla prima ancora di cominciare. Il vertice ha deciso di chiamare a presiederla Davide Zoggia, ex braccio destro di Bersani. Una soluzione che piace anche ai franceschiniani. Ma si ribellano in molti: renziani e giovani turchi, minacciando clamorose dimissioni. La richiesta è semplice: eleggere il presidente.

(12 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #82 inserito:: Luglio 28, 2013, 05:27:21 pm »

Franceschini a la Repubblica: Matteo è la nostra carta vincente ma partito e premier vanno distinti; bisogna fare due primarie separate

28 Luglio 2013

Ho proposto due primarie aperte.

Gli aderenti al Pd votano per la segreteria.

Tutti gli elettori italiani possono votare per scegliere il candidato premier del centrosinistra

la Repubblica

di GOFFREDO DE MARCHIS

Dario Franceschini interviene alla direzione del Pd e scoppia la rivolta tra i militanti sui social network. «Se la mia proposta fosse stata "eleggiamo il segretario di notte, soltanto tra gli iscritti nel chiuso delle sezioni", la contestazione avrebbe tutte le ragioni del mondo. Ma chi mi ha ascoltato sa che ho detto cose diverse. E a chi ha frettolosamente riferito all'esterno, dico che nei 140 caratteri di un tweet è difficile concentrare un ragionamento così articolato». Il ministro dei Rapporti col Parlamento chiarisce perciò il suo "lodo" per il congresso democratico: «Due primarie aperte. Gli aderenti al Pd votano per la segreteria. Tutti gli elettori italiani votano, o meglio possono votare, per scegliere il candidato premier del centrosinistra».

Allora, ministro, lei propone primarie riservate agli iscritti per scalare la segreteria del Pd. Questo è l'atto di accusa di molti dirigenti e del popolo democratico.

«Ed è un modo di ragionare che trasforma tutto in rissa o in folli accuse di tradimento. Sgombriamo subito il campo dalle interpretazioni delle mie parole, fatte più o meno in buonafede. Io penso a due meccanismi di primarie aperte. Aperte a tutti gli elettori - senza albi, senza vincoli, senza trucchi - per il candidato premier con l'approvazione di una norma statutaria che stabilisca che le primarie si tengono obbligatoriamente anche in caso di elezioni anticipate. Le primarie per eleggere il segretario del Pd invece si fanno tra gli aderenti al partito».

Torniamo a bomba: vale a dire tra gli iscritti.

«Figuriamoci, è impossibile pensare alla platea degli attuali tesserati. In gran parte del Paese non ci sono neanche più. Penso piuttosto a un sistema totalmente aperto per cui un cittadino si presenta ai gazebo, ai circoli e anche un minuto prima di votare, aderisce al partito. Un modo per aprire il Pd a nuove energie, non per rinchiudersi».

Traduzione terra terra: Matteo Renzi prepari la corsa per Palazzo Chigi e lasci stare il Pd.

«La mia traduzione è diversa. Eleggere un segretario e un candidato premier con la stessa fonte di legittimazione può essere causa di inevitabili contrapposizioni. Penso che Matteo sia una carta vincente per le elezioni. Anche per questo propongo di blindare nello statuto primarie aperte per il premier. Ma, fatte le regole, sarà lui a scegliere. Se vuole fare il lavoro di segretario del Pd o se viceversa punta a guidare il Pd e la coalizione al voto delle politiche. Oggettivamente, mi sembrano due mestieri diversi. Dire questo, significa anche proporre un ragionamento sul Pd».

Quale ragionamento?

«Ho letto tante stupidaggini sulla distinzione tra innovatori e conservatori. Alla direzione ho posto, consapevolmente in maniera un po' brutale, la questione cruciale del congresso sulla natura del Pd. I partiti del futuro devono essere luoghi di formazione, di studio, di militanza, di elaborazione di idee o devono rassegnarsi a diventare soltanto dei comitati elettorali a sostegno di volta in volta del candidato sindaco o presidente di regione o premier?».

Lei partecipò da candidato alle primarie aperte del 2009 per la segreteria. Perché ha cambiato idea?

«Nel 2007, quando il Pd è nato, il sistema puntava a diventare in fretta bipartitico, quindi era naturale far coincidere la figura del segretario e del candidato premier. Alle primarie alle quali partecipai, tutti quelli che andarono a votare sapevano che, nei fatti, stavano scegliendo il segretario che avrebbe corso alle elezioni successive ».

E adesso?

«Adesso non sono io che ho cambiato idea. È cambiato il sistema politico. Siamo in uno schema tripolare in cui nessuna forza raggiunge il 30 per cento. Io spero che si torni presto a una normalità europea ma quando sei intorno al 25 per cento dei voti puoi scrivere quello che vuoi nello statuto, anche che il tuo segretario diventa automaticamente re. Serve a poco. Per andare al governo, in questa situazione, servirà un'alleanza. Non è escluso ma non è nemmeno automatico che il leader del Pd sia il candidato di tutta la coalizione. Anzi, per il lavoro di cucitura che dovrà svolgere, potrebbe partire svantaggiato nella gara per Palazzo Chigi».

Per essere chiari: il tema vero di questa battaglia delle regole è come difendere Letta e il governo delle larghe intese?

«È abbastanza insopportabile immaginare che ogni proposta sul congresso sia legata all'esigenza di far sopravvivere il governo. Come se questo fosse un problema di chi ne fa parte e non di tutto il Pd. Il mio ragionamento non c'entra nulla con il governo».

Nelle settimane scorse, lei ha evocato il rischio-scissione. Ha ancora questa paura?

«Condivido ciò che ha detto Cuperlo in direzione: le regole congressuali non vanno modificate a maggioranza ma con un' intesa generale. Mi auguro che anche altri abbiano lo stesso approccio al problema. Partendo da un principio basilare: prima il Paese, poi il partito, poi i destini personali. Se siamo d'accordo su questo, diventa tutto più facile».

È possibile la convivenza tra Letta e Renzi?

«Non credo sia impossibile. Ma temo un qualche disagio nell'elettorato di sinistra, che è la parte prevalente del nostro mondo. Con Letta premier e Renzi segretario potrebbe non sentirsi rappresentato».


da - http://areadem.info/adon.pl?act=doc&doc=17389
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« Risposta #83 inserito:: Settembre 24, 2013, 11:23:28 am »


L'ira del premier su Matteo "Ormai è inaffidabile"

Enrico Letta pensa ad una sua possibile candidatura al vertice del Pd.

Ma al Colle ha promesso: io non corro. E la sua corrente, allora aspetta il via libera per presentare un suo candidato anti-Renzi

di GOFFREDO DE MARCHIS



PRESSATO dai fedelissimi, Enrico Letta ha spiegato perché non vuole candidarsi alla segreteria del Pd, pur avendo accarezzato l’idea.
È una promessa solenne che ha fatto a Giorgio Napolitano. La promessa è non immischiarsi nelle vicende del partito mentre guida la faticosa maggioranza delle larghe intese. Non si rimangerà la parola "come fece Monti" quando si candidò con una sua lista alle elezioni politiche.
Assieme ai dirigenti della sua area, aveva esaminato l'ipotesi di un candidato di riferimento, ma per mantenere una vera equidistanza si era opposto anche a questa soluzione. Adesso però, sulla seconda ipotesi almeno, i lettiani tornano alla carica con il premier aspettando un suo via libera. "L'atteggiamento di Renzi è insostenibile. Non ci possiamo fidare di lui, ormai è chiaro. Dal momento in cui sarà segretario non darà tregua al governo. L'accusa di ieri è gravissima e merita una risposta forte".

Ormai nel Pd si gioca una partita con due soli sfidanti. Sono saltati ambasciatori e mediatori. Guglielmo Epifani, dopo l'accordo clamorosamente saltato ieri all'assemblea nazionale, ha perso il ruolo di cuscinetto esercitato finora. Fuori i secondi, sono rimasti sul ring solo Letta e Renzi. Faccia a faccia, in una riedizione delle sfide democristiane della Prima repubblica. Con la cattiveria 2.0, imposta dalla mutazione genetica della comunicazione, dai tempi che viviamo: meno sottile e più diretta. D'Alema, Bersani, Cuperlo, Civati sono solo i comprimari dello scontro epocale che si annuncia senza tregua. Dario Franceschini ha provato a fare da pontiere schierandosi per il sindaco (e incassando con dolore l'accusa di tradimento), ma ieri ha capito che la strada della convivenza è piena di trappole. "Ho sempre detto: ci vuole un accordo tra i due. Ma adesso comincio a pensare che sia impossibile", ripeteva il ministro dei Rapporti con il Parlamento dietro le quinte dell'assemblea nazionale nelle fasi concitate del pasticcio.

Per Renzi non è un pasticcio. "È un'operazione orchestrata da Letta. Da lui in prima persona e portata avanti da Bersani in assemblea - raccontava una deputata vicinissima al sindaco - . Enrico sta giocando sporco". Il Rottamatore è sicuro che il premier punti ancora a un rinvio delle primarie. Con un doppio obiettivo: chiudere la finestra elettorale della prossima primavera a Renzi, prima di tutto. Ma non solo. "Letta vuole vedere come finisce con Berlusconi. Se il Cavaliere stacca la spina a breve, allora si candiderà alla segreteria del Pd". In quel caso la promessa a Napolitano sarebbe sciolta e i lettiani non hanno dubbi: il loro capo dovrebbe sfidare il sindaco e correre per la leadership.

Intorno al match Letta-Renzi, il Pd rischia più della scissione. Rischia la sopravvivenza, le macerie. Bersani fa capire che la data dell'8 dicembre non è poi così sicura. L'obiettivo dell'ex segretario e dei bersaniani è riportare Letta a Palazzo Chigi con le elezioni. "Vediamo di limitare i danni - dice Alfredo D'Attorre, vicinissimo a Bersani - . Si può trovare un'intesa e svolgere il congresso l'8. Ma Renzi la smetta di sparare sul pianista, di giocare allo scaricabarile. Noi abbiamo rispettato i patti. Basta. È incredibile che quello che viene considerato il segretario in pectore non si preoccupi di tenere unito il Pd". La richiesta che arriva dagli anti-Renzi è un impegno concreto per la corsa alla premiership. "Il sindaco dovrebbe compiere un atto politico: garantire che non farà valere la regola del segretario-candidato a Palazzo Chigi. Come è successo con lui", spiega D'Attorre. Impegnarsi cioè a trasferire la sfida a distanza di oggi, in una partita a viso aperto contro Letta nei gazebo. Quando giungerà l'ora delle elezioni. 


(22 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #84 inserito:: Dicembre 28, 2013, 11:53:35 pm »

Renzi: riforme e rimpasto dopo il milleproroghe

Sul patto di governo partita decisiva a gennaio. Il segretario del Pd all'attacco: "Inonderemo Palazzo Chigi di proposte"
di GOFFREDO DE MARCHIS
   
ROMA - Il segretario del Pd Matteo Renzi incalza Enrico Letta su un rimpasto di governo, una nuova squadra di ministri che dia il segno del cambiamento. In un messaggio all'esecutivo e alle Camere il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiede "massimo rigore" sui decreti. Per il premier nel 2014 "serve il riordino del processo legislativo ". Forza Italia e M5S premono per l'impeachment del Colle. Per il lavoro sono stati sbloccati 6 miliardi di fondi Ue.

Letta accusa il colpo d'immagine per l'esecutivo, vara il "mille proroghe" e corre ai ripari annunciando lo sblocco di 6 miliardi di fondi europei: "Dobbiamo cambiare passo, ci saranno altri blitz per dare fiato all'economia". Da Palazzo Vecchio, Matteo Renzi osserva l'ingorgo istituzionale tenendosi a distanza. Prepara il pressing di gennaio per segnare una svolta. "Siamo caricatissimi  -  dice ai suoi interlocutori  - , inonderemo Palazzo Chigi con le nostre proposte per il patto di coalizione". Ma per aumentare la pressione su Letta, il segretario del Pd lavora anche su una richiesta molto più onerosa: il rimpasto, una squadra di ministri rinnovata che dia l'impronta di un cambiamento. "Il governo è debole  -  spiega uno degli uomini più vicini al sindaco  -  e le idee nuove camminano sulle gambe delle persone".

LA LETTERA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Nella mattinata, Laura Boldrini legge in aula il testo di un messaggio del capo dello Stato inviato ai presidenti di Camera e Senato e per conoscenza a Letta. "Dovete verificare con il massimo rigore l'ammissibilità degli emendamenti ai disegni di legge di conversione", scrive il capo dello Stato. È una sferzata che coinvolge soprattutto Palazzo Madama. È lì che il decreto salva Roma, poi bocciato dal Colle, è stato riempito di quelle che i 5stelle chiamano marchette e chi li ha presentati "emendamenti microsettoriali", comunque estranei alla materia del provvedimento. Con la sua lettera, Napolitano apre anche un varco per le riforme. Suggerisce un intervento sui regolamenti parlamentari. Ma non è questo il punto. In realtà, accelera sulle modifiche alla Costituzione, a partire dalla richiesta di Renzi per la fine del bicameralismo, ossia l'abolizione del Senato. E naturalmente per una revisione della legge elettorale.

LETTA: CI SERVA DA SCOSSA
In consiglio dei ministri, il premier avverte i colleghi: "Gli interventi in Parlamento devono servire a togliere, non a mettere ". Gli aiuti a Roma e la norma contro gli affitti d'oro finiscono nel decreto "mille proproghe". I finanziamenti a pioggia, invece, nel cestino della carta straccia. "Ma questa lezione  -  ammette Letta  -  deve servirci da scossa. È uno stimolo in più per fare le riforme nel 2014". L'iter delle leggi non funziona, non si può continuare a "giocare" con un tira e molla delle due Camere. Il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello proporrà, nell'accordo di coalizione per il 2014, una norma "che impedisca il proliferare della spesa attraverso mille rivoli ed emendamenti".

IL RIMPASTO DI RENZI
Il segretario del Pd è pronto a far salire l'intensità del suo pressing su Letta e Napolitano, anche se è stato proprio il presidente della Repubblica a creare una situazione favorevole per gli interventi decisivi di gennaio. "I tre milioni di persone che hanno votato alle primarie mi hanno dato un mandato in nome del cambiamento e dell'efficienza della politica. Il pasticcio del salva Roma va in un'altra direzione", spiega il sindaco. Per questo, il patto di governo, che sarà siglato entro il 15, deve portare soprattutto la sua firma. Riforma elettorale, abolizione del Senato, job act, cultura. Ma non basta. "Il tema del rimpasto esiste eccome, solo che non voglio essere io a porlo ", dice Renzi. Oggi però ha una sponda: Mario Monti. Infatti, il sindaco appoggia la richiesta di Scelta civica di un riequilibrio dei ministri. "Ci sono due rappresentanti centristi nell'esecutivo, Mauro e D'Alia. Dopo la loro scissione, entrambi stanno con Casini. Non va bene", è il ragionamento dei renziani. Il partito del Professore può essere lo strumento per mettere Letta al corde.

LAVORO E GIUSTIZIA NEL MIRINO
Nel mirino del segretario, ci sono il Lavoro, guidato da Enrico Giovannini, e la Giustizia retta da Annamaria Cancellieri, molto stimata da Napolitano. Il rimpasto perciò è una materia delicata. Renzi rischia di entrare di nuovo in rotta di collisione con il Colle. Non vuole farlo, perché c'è un disgelo tra i due. Semmai, il Quirinale si aspetta una maggiore presenza del segretario sulla scena. Per sbloccare soprattutto il capitolo riforme. Poi, c'è la frenata di Letta. Il premier sa che i rimpasti indeboliscono i governi, non li rafforzano. A meno che non siano il frutto di un accordo generale, condiviso. Accordo che al momento non si vede all'orizzonte. Renzi ha fatto sapere a Palazzo Chigi che lui punta tutto sul patto di governo e sui documenti preparati dalla segreteria. "Ma è vero che il partito di Alfano è sovradimensionato con 5 ministri e il Pd è fuori da dicasteri di peso: Giustizia, Esteri, Interno, Difesa", dice una fonte vicinissima al sindaco. La partita per un vero patto Letta-Renzi è solo all'inizio. Manca la fiducia reciproca. Anche se il premier, dopo il 2014, giura che non si metterà di traverso. "Ho già il biglietto prepagato per l'Australia con data aprile 2015", scherza sempre con i suoi collaboratori.

LA TENSIONE BOLDRINI-GRASSO
Sullo sfondo si affaccia il primo vero momento di frizione tra i presidenti delle due Camere. Laura Boldrini considera la bacchettata di Napolitano rivolta esclusivamente a Grasso. E i suoi uffici ricordano che la presidente già a giugno aveva avvertito il collega di Palazzo Madama prendendo spunto da una lettera del presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia. "Al Senato vengono spesso introdotte numerose e sostanziali modifiche che non sono coerenti con i criteri di ammissibilità adottati dalla Camera", era la segnalazione di Boccia. Boldrini ne parlò con Grasso, lo invitò "a porre fine alla vistosa diversità di disciplina". Convocò una riunione dei capigruppo e dei presidenti di commissione per mettere a verbale di averne parlato con il presidente del Senato. Ma non è servito. Sei mesi dopo è scoppiato il caso del decreto salva Roma.

© Riproduzione riservata 28 dicembre 2013

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« Risposta #85 inserito:: Febbraio 22, 2014, 08:04:41 am »

Renzi: "Ho dovuto forzare, non ho più alibi".
Tensione su Giustizia e Esteri

Vertice di quasi tre ore al Colle.
Il premier ha difeso la sua intenzione di mettere Gratteri al dicastero di via Arenula, ma ha dovuto cedere. Segnale di discontinuità con il cambio alla Farnesina

di GOFFREDO DE MARCHIS
   
Renzi: "Ho dovuto forzare, non ho più alibi". Tensione su Giustizia e EsteriRenzi al Quirinale, in mano ha l'appunto con la lista dei ministri (reuters)

Due ore e quarantacinque minuti di tensione al Quirinale. L'incontro tra Matteo Renzi e Giorgio Napolitano comincia in salita. Il ritardo con il quale il premier incaricato raggiunge lo studio del presidente della Repubblica viene sottolineato, anche perché era stato l'ex sindaco ad annunciare l'orario. Ma per l'attenzione ai dettagli del capo dello Stato, è ancora più grave la lista dei ministri che gli viene consegnata. Non è la stessa giunta al Colle poche ore prima, presenta delle caselle vuote e alcuni ballottaggi, proprio come nei totoministri che si sono letti sui giornali.

Una falsa partenza, che è solo il preludio a una dura trattativa sui nomi. Ma è evidente che il lunghissimo colloquio di ieri rappresenta un cambiamento di fase nei rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Dopo l'epoca dei governi tecnici o semi-tecnici inevitabilmente legati a doppio filo al Colle, Renzi "fa il Renzi" anche in quest'occasione, rottamando le prassi degli ultimi anni. "Volevo un governo ancora più politico, ma non funzionava. Allora ho forzato, ho puntato tutto sul fatto che si passasse dal Letta-Alfano al governo Renzi - racconta ai fedelissimi il premier - Perché sia chiaro: questo governo risponde solo a me. Se sbagliamo è colpa mia, solo mia. Se c'è una responsabilità è mia, punto. Non ci sono più alibi".

Dopo i preliminari, inizia la partita sui ministeri. Un ping pong e si può quasi immaginare un pallottoliere che registra i punti nella sfida delle conferme, degli spostamenti, dei nomi cassati. Napolitano individua i punti critici: Giustizia, Esteri e Sviluppo economico. Il nodo dell'Economia invece appare risolto in anticipo: non c'è il politico sognato da Renzi, ma un tecnico come voleva il capo dello Stato. "Ma Padoan non è Saccomanni. Poletti è uno straordinario uomo di sinistra, uno che quando ci saranno le crisi aziendali andrà in mezzo alla gente anziché stare seduto burocraticamente al tavolo del negoziato", dice Renzi quando torna al Nazareno.

Al ministero di Via Arenula, Renzi punta tutto sul procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, simbolo della lotta alla criminalità. Nella sua lista il nome del magistrato è scritto a caratteri cubitali. Il premier difende la scelta. "Per me è il candidato migliore, non voglio cedere. È il segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo". Qui il braccio di ferro va in scena platealmente. "La regola non scritta per la Giustizia è mai un magistrato in quel dicastero. Mai", replica Napolitano.
Renzi insiste, affronta il presidente, che però lo stoppa: "Questa regola è insormontabile". Un punto a favore del Quirinale.

Scatta l'effetto domino che attraversa l'intera squadra. Andrea Orlando si sposta dall'Ambiente a Via Arenula. Va bene a Renzi perché "Andrea è un dirigente della sinistra e faceva il responsabile giustizia con Bersani". Va benissimo al presidente che lo conosce da tempo. Per gli aggiustamenti in corso d'opera, il premier è costretto a lasciare lo studio di Napolitano. Si rifugia nel "salottino napoleonico" a telefonare, giustificando la trombatura dei papabili, discutendo con i partiti i cambiamenti dell'ultimo minuto. Così se ne va un'ora. Ma sugli Esteri il punto lo segna il segretario del Pd.

Napolitano non ha veti personali sul nome di Federica Mogherini ma difende la continuità della politica diplomatica in un "momento internazionale difficile". Vuole la conferma di Emma Bonino. Renzi s'impunta e sa che può forzare. "Da oggi in Italia non vale più che una donna di 40 anni non possa andare alla Farnesina - spiega - non vale più che una donna non sia adatta al ministero della Difesa. È una risposta alle politiche di questi anni che non mi sembrano piene di successi". Mogherini viene descritta da Renzi come "una tosta, anche spigolosa". Gli piace. "Eppoi l'obiettivo era dare alle donne un ruolo non ornamentale". Vale anche per Federica Guidi, sulla quale Napolitano ha dei dubbi per il vecchio ruolo in Confindustria. "Però il pacchetto economico va visto nel suo complesso - risponde Renzi - Dovevo riequilibrare politicamente Padoan e Poletti. E la Guidi sa parlare sia con le imprese sia coi lavoratori".

Gli ultimi due sono quindi punti segnati da Renzi, che il capo dello Stato lascia passare perché la Mogherini la conosce da anni e perché lo Sviluppo economico non è certo il ministero della Giustizia. Renzi twitta dal salottino "Arrivo, arrivo", rivolto ai giornalisti e al pubblico collegato ai siti e alle tv. È soddisfatto, si vede: "C'è un elemento simbolico in questo passaggio. Oggi il figlio di un insegnante di ginnastica che un giorno si è messo in testa di fare l'imprenditore può diventare presidente del Consiglio e fa un governo di questo tipo. Capite cosa significa? Significa che le barriere saltano". A chi gli dice che il "governo di questo tipo" somiglia a un Letta bis risponde: "So che non è il governo Leopolda, con le facce nuove e il linguaggio di quella manifestazione. L'avrei fatto se avessi vinto le elezioni. Non è andata così". Ma sono parole che non sconfessano la squadra chiamata stamattina al giuramento solenne al Quirinale, anzi. "Non c'è un renziano nella lista, ad eccezione di Delrio e della Boschi. Ed è il governo più di sinistra degli ultimi 30 anni, con una nuova generazione che si prende una straordinaria responsabilità".

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/22/news/tensioni_su_giustizia_esteri-79315943/
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« Risposta #86 inserito:: Giugno 23, 2014, 10:35:15 pm »

Immunità Senato, Finocchiaro: "Sono disgustata dallo scaricabarile"
Parla il presidente della Commissione Affari Costituzionali: "L'esecutivo ha vistato due volte i nostri testi, sapeva tutto, e ora mi fanno passare per quella che protegge i corrotti e i delinquenti. Non c'è più gratitudine in politica".

Di GOFFREDO DE MARCHIS
23 giugno 2014

ROMA - "Cosa vogliono da me? Vogliono dire che la Finocchiaro protegge i corrotti e i delinquenti? Ma stiamo scherzando. È questo il loro giochino? Sono disgustata. Allora racconto com'è andata davvero la storia dell'immunità". Anna Finocchiaro ha la voce affilata di una persona furibonda, che vorrebbe spaccare tutto. Al telefono si sente che accende una sigaretta prima di cominciare la ricostruzione. La presidente della commissione Affari costituzionali del Senato è in Sicilia dov'è tornata dopo il lavoro sugli emendamenti che hanno in parte riscritto la riforma di Palazzo Madama. "Di tutto quello che abbiamo fatto è rimasta soltanto la storia dell'immunità. Questo mi dispiace". Ha capito che è in corso uno scaricabarile da parte del governo sui relatori e sulle loro proposte di modifica: Renzi e Boschi, nel disegno di legge originale, avevano tolto lo scudo, i relatori lo hanno rimesso. "La gratitudine non è di questo mondo e so che in politica è ancora più vero. Ma non riesco ad abituarmi a questo andazzo barbaro".

L'immunità per i senatori porta la firma sua e di Calderoli, è un dato di fatto.
"Mettiamo subito in chiaro. La riforma dell'immunità dopo Tangentopoli, nel '93, porta la mia firma. L'ho scritta di mio pugno, dall'inizio alla fine. C'è la mia firma anche nella battaglia contro i reati ministeriali che la destra voleva allargare. Questa sono io".

Adesso però gli emendamenti del Senato che reintroducono l'immunità portano il suo nome. Nel testo del governo quella norma non c'era.
"Noi il Senato lo abbiamo ridisegnato. Il Senato del governo era completamente diverso. Non aveva le stesse funzioni, le stesse competenze...".

Sta dicendo che il ddl Boschi era un guscio vuoto quindi era normale che non ci fosse lo scudo?
"Lasciamo perdere. Questo lo dice lei".

Perché i nuovi senatori devono avere delle garanzie?
"Se attribuisci a una Camera alcune funzioni sulle politiche pubbliche, così com'è nella riforma emendata, non ci può essere disparità con l'altro ramo del Parlamento. E non lo dico io, lo dicono tutti i costituzionalisti. Stamattina in televisione per esempio l'ho sentito affermare con precisione dal professor Ainis. Ciò detto, i relatori non scrivono gli emendamenti di testa loro. Raccolgono le indicazioni che emergono durante il dibattito e hanno il dovere di valutarle quando scrivono le loro proposte. Ma se mi chiede come la penso io, allora rispondo: la Finocchiaro pensa che l'immunità non va bene così neanche per i deputati. Si figuri".

Aveva elaborato un emendamento diverso?
"Avevo proposto che a decidere sulle autorizzazioni all'arresto e alle intercettazioni dovesse essere una sezione della Corte costituzionale e non il Parlamento. Valeva sia per il Senato sia per la Camera. È una proposta di legge che ho presentato in questa legislatura e anche nella precedente. È chiara la mia posizione? Stavolta l'avevo scritta in un emendamento".

Poi che è successo?
"È sparito dal testo perché il governo ritiene che non si debba appesantire il lavoro della Corte costituzionale".

Quindi il governo sapeva. Difficile che torni indietro.
"Non lo so. Ma so che l'esecutivo ha vistato due volte i nostri emendamenti, compreso quello sull'immunità. Conosceva il testo, sapeva tutto. Ha fatto una scelta".

Così si crea una disparità tra consiglieri regionali e sindaci. Ci saranno quelli con lo scudo e quelli senza.
"I senatori avranno funzioni di controllo che vanno difese dalla limitazione della libertà. I costituzionalisti sono d'accordo su questo punto. Come lo sono i partiti, da Forza Italia al Pd, alla Lega, all'Ncd e anche M5S. E noi abbiamo raccolto i loro pareri. Io però penso che l'articolo 68 non deve coprire gli atti svolti da sindaco o da consigliere regionale. Per quei fatti l'autorizzazione a procedere non dovrebbe essere necessaria. Fermo restando che la mia proposta è un'altra: rimettere il tema dell'immunità alla Consulta. Ma il governo mi ha risposto di no, motivandolo con la necessità di non pesare troppo sui giudici costituzionali. Ho preso atto. Perciò mi chiedo: cosa vogliono da me?".

Che farà adesso?
"Sto pensando di proporre addirittura un emendamento al mio emendamento per far passare l'idea del rinvio alla Corte. Sono favorevole anche a uno scudo valido solo per le espressioni e i voti dati in aula. Risponderò così a questo fastidioso scaricabarile su di me. Però è incredibile che tutto si riduca all'immunità".

Perché?
"Abbiamo fatto un lavoro pazzesco tutti insieme. Ne è venuto fuori un Senato vero ma innovativo. Non può rimanere solo la vicenda dell'immunità".

© Riproduzione riservata 23 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/23/news/immunita_senato_finocchiaro_disgustata-89755078/?ref=nrct-2
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« Risposta #87 inserito:: Luglio 26, 2014, 11:45:45 am »

La sfida di Matteo: non contano i tempi, ma se non passano le riforme si torna a votare
"Si va avanti, io non vado in ferie e ogni giorno di ostruzionismo è un punto in più nei sondaggi".
Il premier prima apre al rinvio su Galan poi, dopo le minacce di Brunetta, ci ripensa: "Niente ricatti"


Di GOFFREDO DE MARCHIS
23 luglio 2014
   
ROMA - Nessuna mediazione è possibile. Anche perché "a ogni giorno di ostruzionismo corrisponde, per me, un punto guadagnato nei sondaggi", spiega Matteo Renzi ai suoi fedelissimi. Per il momento va bene così. "Siamo alla prova di forza finale. Vogliono andare fino al 15 agosto? Ok, tanto io non vado in ferie". Il punto semmai è un altro: "Questo Parlamento è a un bivio: o dimostra di essere capace di cambiare facendo le riforme o si condanna da solo e si torna a votare". La trattativa non è un'ipotesi sul campo. Il premier la snobba senza mezzi termini: "Figuriamoci". Ieri ha sbattuto la porta in faccia persino all'alleato principale, Forza Italia.

La nuova giornata di totale impazzimento, conclusa con zero voti sulla legge costituzionale, Renzi la racconta ai suoi collaboratori offrendo una versione che disegna un triangolo tra Camera, Senato e Palazzo Chigi. È il voto sull'arresto di Giancarlo Galan a rallentare i lavori di Palazzo Madama. Di prima mattina il sottosegretario Luca Lotti, braccio destro del premier, riceve la telefonata di un dirigente di Forza Italia. La richiesta è molto semplice: rinviamo il voto sul carcere per l'ex governatore veneto di una settimana. Galan è in ospedale, diamogli la possibilità di difendersi in aula. Lotti riferisce a Renzi, il quale non si formalizza: "Si può fare". Ma alla conferenza dei capigruppo Renato Brunetta, che rema contro il patto del Nazareno, la mette giù dura: "O votiamo il rinvio o saltano le riforme". Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza informa Palazzo Chigi dell'ultimatum. "Se la mettono così, niente rinvio. Non accetto ricatti da nessuno, nemmeno da loro", risponde Renzi. E la trattativa, come dire, "umanitaria" fallisce. Infatti alla Camera l'arresto viene votato, Galan si trasferisce al carcere di Opera e al Senato Forza Italia si vendica votando contro le tappe forzate del nuovo calendario dei lavori. Calendario che passa con appena 5 voti di scarto. "Sapete che c'è - dice Renzi nei suoi colloqui -, gli abbiamo dato una lezione. Posso dimostrare che le riforme si fanno anche senza Berlusconi e senza la Lega".

Renzi è dunque nella versione "guerra contro tutti". Ad eccezione degli elettori: effettivamente i sondaggi continuano a dare il Pd in crescita. Quella del premier è una sfida a tutto campo: sui tempi, sulle mediazioni negate, sul dialogo con i partiti. Alla domanda di qualche suo collaboratore "perché non vai in Senato" la risposta è secca: "Io sto lavorando". Ma a Palazzo Chigi sono consapevoli che le trappole sono ovunque. La questione del calendario non è affatto secondaria. Chi conosce bene i meccanismi parlamentari esclude che i senatori saranno al loro posto nella settimana di Ferragosto. "Non succederà mai", dicono i tecnici. Ed è una previsione che si ritorce tutta contro la maggioranza delle riforme perché è Renzi a dover portare a casa il risultato. Agli altri basta uno scivolone, un rinvio. Il pericolo si annida anche nell'orario no stop deciso ieri da Piero Grasso e dalla conferenza dei capigruppo. Tenere i parlamentari inchiodati al loro banco dalla 9 alle 24, farli lavorare sabato e domenica, non sarà affatto un'impresa semplice. Significa che quando si comincerà finalmente a votare, il rischio se lo prende tutto Renzi. La maggioranza dovrà essere presente in massa a tutte le votazioni, non sbagliare una mossa, controllare uno per uno i senatori e i loro movimenti, persino quelli verso la toilette. Alle opposizioni, agli ostruzionisti o secondo la terminologia renziana "ai gufi e rosiconi", basterà invece un solo piccolo successo, con l'esecutivo che va sotto e un loro emendamento approvato, per cantare vittoria.

È uno scenario davvero da Vietnam, secondo alcuni sostenitori della riforma "ingestibile e incontrollabile". Tanto è vero che ieri al Senato persino qualche renziano si domandava: "Matteo vuole davvero approvare la riforma prima della pausa?". Renzi continua a ripetere che "non si impicca a una data". Attende i prossimi sviluppi per immaginare altre accelerazioni, come la ghigliottina ossia il contingentamento dei tempi. Decisione delicata, che farebbe la gioia di chi urla alla svolta autoritaria e che comunque è in capo al presidente del Senato. Anche il Quirinale, dopo l'intervento chiarissimo di ieri, guarda con attenzione alle scelte di Grasso: punta a tempi veloci, compatibilmente con il regolamento. Ma più che la minaccia di un conclave chiuso a chiave anche a Ferragosto, diventa ogni giorno più concreta, più vera, persino più plausibile proprio per lo scenario complicato del voto ad oltranza, l'altra minaccia: quella del voto anticipato. Usato finora come ballon d'essai, come strumento per ammansire parlamentari e frenatori fuori e dentro il Pd che con le elezioni andrebbero a casa, si sta trasformando in una prospettiva che ritorna nelle discussioni tra i fedelissimi renziani. Andare alle urne con la legge proporzionale uscita dalla Consulta e contare sul consenso del presidente del Consiglio. Roberto Giachetti è tornato ieri a indicare questa strada. E Giachetti conosce a menadito le insidie dei lavori parlamentari. Ma a sorpresa l'opzione è stata rilanciata dal presidente del Pd Matteo Orfini, esponente della minoranza lealista, dirigente che ormai si confronta ogni giorno con il premier. "Tutti devono sapere che comunque si vota - ha detto Orfini a In Onda su La7 - O le riforme o alle elezioni anticipate. Sappiamo che questa legislatura è legata alle materie istituzionali. Se non vanno in porto, la legislatura finisce". Se i sondaggi dicono la verità, il Pd può puntare alla maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento. Certo, senza premio e con le preferenze. Ma anche con le soglie di sbarramento lasciate intatte dalla Corte costituzionale che eliminerebbero i partitini, spesso citati come un male da Renzi.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/23/news/la_sfida_di_matteo_non_contano_i_tempi_ma_se_non_passano_le_riforme_si_torna_a_votare-92178316/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_23-07-2014
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« Risposta #88 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:43:19 pm »

Pd senza base, solo 100mila tessere. In un anno persi 400mila iscritti

I dati shock di settembre. In Sicilia, Basilicata, Molise, Sardegna e Puglia il reclutamento non è praticamente partito. Mentre aumentano gli elettori, nei 7.200 circoli la militanza langue. È la mutazione genetica del partito, sempre più simile al modello Usa. Anche le casse sono in sofferenza

Di GOFFREDO DE MARCHIS
03 ottobre 2014

ROMA - Nel Pd è sparita la base. Gli iscritti, i militanti, quelli che si facevano autografare la tessera plastificata dal segretario e dai dirigenti alle feste dell'Unità. Gli elettori ci sono, tantissimi, fino a raggiungere la cifra record del 40,8 per cento delle Europee. Le tessere non più. L'allarme è scattato dopo il flop di affluenza alle primarie dell'Emilia Romagna, la storica regione rossa: solo 58 mila elettori ai gazebo. Ma il dato non ha sorpreso chi conosce i numeri segreti del Nazareno: siamo sotto quota 100 mila iscritti in tutta Italia, 5 volte meno del 2013 quando i tesserati erano 539.354. Nei corridoi, forse per colpa del panico, si diffondono voci ancora più catastrofiche. Qualcuno parla infatti di 60 mila iscritti. Significherebbe che poco più di un militante su 10 ha rinnovato la sua fede nel Partito democratico. Come dire: la spina dorsale del Pd non esiste più.

Il quadro, regione per regione, presenta alcuni buchi neri assoluti. Il tesseramento non è praticamente partito in Sicilia, Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia. E mancano solo tre mesi alla fine dell'anno. In Campania idem. Nel 2013 Napoli e le altre province contavano 70 mila iscritti. Oggi le tessere, raccontano, si possono calcolare nell'ordine delle centinaia, nemmeno migliaia. Qualcuna nel capoluogo, qualcun'altra a Salerno dove l'attivismo dell'eterno sindaco Vincenzo De Luca mette una pezza. Fine. I circoli sono tristemente deserti anche nei quartieri delle percentuali bulgare per Valenzi e Bassolino: Ponticelli, Barra, San Giovanni. Era molto affollata invece la Fonderia delle idee, un'iniziativa organizzata lo scorso week end dall'eurodeputata Pina Picierno per lanciare la sua candidatura alla regione. Però in quella sede non compariva un solo simbolo del Pd. Neanche piccolo piccolo.

La mutazione genetica del partito nasce così. Ci si apre alla società, ma i circoli (7200 in Italia, 89 all'estero) languono e la militanza scompare. Un modello che a destra conoscono bene, dalla discesa in campo di Berlusconi. Ma che per l'altra parte rappresenta ancora uno choc. La "base" è stata la storia e la memoria della sinistra, come raccontò l'indimenticabile documentario di Nanni Moretti La Cosa (1990). Adesso non più. È l'altra faccia dell'effetto Renzi. Il leader carismatico, attivissimo, presente su tutti i media compresi i social, capace di traghettare i democratici al record del 41 per cento ha come contraltare la debolezza della struttura. La ditta ha molti clienti ma un solo poliforme trascinatore. E le tessere crollano.
A Torino e provincia gli iscritti erano 10 mila lo scorso anno, oggi sono appena 3000. A Venezia partecipavano all'attività delle sezioni 5500 persone nel 2013, scese a 2000 nel 2014. In Umbria si è passati da 14 mila tesserati a poco meno della metà, anche se le stime sono molto provvisorie. Se tutto va bene, dicono a Perugia, si toccherà il traguardo dei 10 mila prima di dicembre, il 40 per cento. Soffrono anche i luoghi dello zoccolo duro, dove la sinistra non perdeva mai iscritti.


Altri tempi, certo. E la crisi delle "vocazioni" a sinistra non è una novità dell'ultimo anno. In fondo, il partito liquido è un'idea di Walter Veltroni datata 2007, ormai 7 anni fa. Ma il dato di 100 mila fa lo stesso impressione. Matteo Renzi ha un modello di partito completamente diverso dal passato. La Fonderia delle idee non è altro che l'epigono meridionale della Leopolda, l'appuntamento dei renziani a Firenze, anche quello rigorosamente svuotato dalle simbologie del Pd. Anche quest'anno il premier risponderà alla manifestazione dei sindacati sull'articolo 18 dalla Leopolda anziché da una barbosa conferenza sul lavoro targata Partito democratico. L'identificazione presidente del Consiglio-segretario porta poi il primo a oscurare il secondo. Il capo temporaneo accentra su di sé attenzioni e responsabilità mentre la macchina partitica passa decisamente in secondo piano. Se il crollo degli iscritti non è voluto, è dunque messo nel conto, sviluppo naturale di un'idea diversa della rappresentanza politica, forse più al passo della storia. Semmai gli oppositori osservano: "Non c'è più il partito, ma c'è la disciplina di partito". Oppure: "Se chi vuole discutere è sempre un gufo o un rosicone, i circoli si svuotano". I renziani obiettano: "Ma le urne sono piene" e lo testimoniano gli 11 milioni e 200 mila voti delle Europee.

Le primarie in Emilia, il tonfo del tesseramento sono però i sintomi di un problema, che coinvolge identità e ruolo del Pd, dei partiti in generale. Tanto più quando la crisi della militanza si accompagna alla progressiva morte del finanziamento pubblico. Il Pd riceverà nel 2014 12,8 milioni. Nel 2011 erano 60. Le casse quindi sono in sofferenza. Ieri il tesoriere Francesco Bonifazi ha spedito una mail a tutti i parlamentari settentrionali. Oggetto: "Cena del Nord". Ognuno deve portare 5 imprenditori, che pagheranno 1000 euro a testa, a un evento in programma a novembre. Dove la star ovviamente sarà Renzi. Obiettivo: raccogliere 1 milione. Si chiama fundraising, il modello sono gli Usa, Obama. La rottamazione è anche di sistema, non solo delle persone.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/03/news/pd_crollo_iscrizioni-97212221/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-10-2014
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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:29:47 pm »

Il premier Renzi punta al 51%: le simulazioni del voto anticipato
Uno studio che gira tra i corridoi del Senato ha testato le proiezioni di un voto con la legge elettorale attualmente in vigore, ovvero il Consultellum. I risultati sono sorprendenti. Basterebbe ottenere un risultato intorno al 44-45 per cento (che gli sbarramenti favorirebbero) per avere la maggioranza sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama

Di GOFFREDO DE MARCHIS

ROMA - Puntare al 51 per cento. O avvicinarsi molto, che avrebbe lo stesso effetto. Uno studio che gira tra i corridoi del Senato ha testato le proiezioni di un voto con la legge elettorale attualmente in vigore, ovvero il Consultellum: proporzionale puro con le preferenze e sbarramenti piuttosto alti. I risultati sono sorprendenti. Basterebbe ottenere un risultato intorno al 44-45 per cento (che gli sbarramenti favorirebbero) per avere la maggioranza sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama. Il Pd, grazie al 40,8 delle Europee, è già abbastanza vicino. Un allargamento ai pezzi della sinistra di Sel e ai centristi di Scelta civica lo lancerebbe verso il traguardo. "Quei numeri sono alla nostra portata", ripete Renzi ai fedelissimi.

Da questo punto di vista e ascoltate le parole del premier-segretario, molti degli esponenti della direzione Pd si sono convinti che tutto sembra muoversi verso le elezioni anticipate la prossima primavera. Su questo il premier avrebbe sondato il terreno presso Forza Italia. Ma è un'aria che viene annusata in tutto il Parlamento. Dal Pd ai berlusconiani. E non solo. Da giorni Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello stanno riflettendo su una exit strategy per non trovarsi schiacciati tra Largo del Nazareno e Arcore. I sondaggi descrivono una situazione pericolosa per i transfughi dell'ex Pdl. "Dobbiamo cambiare nome al partito", dicono. Solo un inizio, anche se il traguardo è chiaro. Un'alleanza con il Partito democratico nel caso dovesse essere confermato il premio di maggioranza alla coalizione. Un ingresso sotto le ali renziane se invece prevalesse la linea di un bonus alla singola lista. Oppure, se alla fine il voto venisse consumato con il sistema uscito dalla Corte costituzionale, con il 2,5 per cento dei sondaggisti, l'adesione al Pd sarebbe inevitabile.

È un percorso, quello immaginato dai vertici dell'Ncd, che non si può certo fare all'insegna del "centrodestra". Da qui il lavorìo sulla modifica della ragione sociale. Premessa obbligata al dialogo con il premier.

Renzi definisce questo modello aperto a tutti, realizzatore di una vera vocazione maggioritaria nei numeri, il Partito della Nazione. Una forza politica capace di parlare a diversi strati della società, di farsi votare trasversalmente: dai giovani e dagli anziani, dai datori di lavoro e dai lavoratori, dagli uomini e dalle donne. Assomiglia in modo impressionante a come è stata costruito l'appuntamento della Leopolda, negli ultimi 4 anni. Una kermesse dove, da Nord a Sud, si possono sentire protagonisti persone molto diverse fra loro. Negli Stati uniti si chiama catch all party ossia il "partito pigliatutto".



Uno studio molto simile a quello che passa di mano in mano al Senato è contenuto in una cartellina che Denis Verdini si porta sempre dietro. In una riunione l'ha anche mostrato al presidente del consiglio. Ed è l'argomento forte che il plenipotenziario fiorentino usa per convincere Silvio Berlusconi ad aprire alle modifiche dell'Italicum suggerite da Renzi. "Senza di te che sei incandidabile e con le preferenze, Forza Italia rischia seriamente di sparire", sussurra Verdini nell'orecchio dell'ex Cavaliere. "E Matteo può avere la maggioranza comunque".

Dunque, da Arcore la proposta è accelerare sull'Italicum, anche con le modifiche. Compresa l'idea di cancellare dal testo l'articolo 2. Quell'articolo è la clausola di salvaguardia pretesa dalla minoranza del Pd e da Forza Italia (quattro mesi fa): prevede che la nuova legge elettorale sia valida solo per la Camera, in attesa della definitiva cancellazione del Senato. Un norma anti-elezioni anticipate. Ma se Verdini e Renzi cominciano a lavorare sull'annullamento della clausola, la prova di una voglia elettorale che coinvolge sia Largo del Nazareno sia Arcore diventerebbe certa. Come le impronte digitali o il Dna. Allora nel Pd la scissione non sarebbe più solo una chiacchiera.

Andrea Romano è solo l'apripista di Scelta civica. Lo hanno preceduto Gregorio Gitti e Lorenzo Dellai, transitando senza clamori nel gruppo Pd alla Camera. Ma so- no pronti a seguirlo i senatori Linda Lanzillotta, Pietro Ichino e Alessandro Maran. Tre ex Pd che finalmente si riconoscerebbero nella linea di Largo del Nazareno dopo aver sbattuto la porta ai tempi di Bersani. Quindi, un'intera storia verrebbe rinnegata. Una stagione passerebbe agli archivi e il partito cambierebbe davvero verso o meglio natura. Stefano Fassina si sfogava ieri alla fine della direzione: "Il punto è: su quale asse di cultura politica e di programma il Pd si allarga e diventa altro? Dietro l'abbraccio a tutti porta avanti gli interessi dei più forti?". Gianni Cuperlo ironizza, ma a modo suo, dicendo la sua verità: "Finché non arrivano Razzi e Scilipoti, io resisto". Però dall'ex sfidante è arrivato l'attacco più sottile ieri pomeriggio. Quando parla di "partito parallelo" Cuperlo parla di un partito diverso, non quello che hanno costruito i Ds, anche i Ds.

Ma Renzi vuole smontare il tabù identitario del Pd, stravolgerlo, consegnarlo alla storia e passare oltre. "Manca Verdini - sibila Pippo Civati citando Bennato -. Poi si parte. Prima stella a destra, questo è il cammino...". Anche se, almeno all'apparenza, sono gli altri a seguire il cammino di Renzi, a essere ipnotizzati dal leader del Pd, dalla sua forza e dai suoi consensi.

© Riproduzione riservata 21 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/21/news/il_premier_punta_al_51_le_simulazioni_del_voto_anticipato-98617525/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_21-10-2014
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