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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 57113 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:35:58 pm »

Editoriali
26/05/2013

Il grande sogno del leader ideale

Gian Enrico Rusconi


Le folle vanno a salutare don Gallo e padre Puglisi, mentre i comizi elettorali trovano le piazze semivuote. 

È sin troppo facile parlare di ennesima dimostrazione della disaffezione, della delusione verso la politica. E constatare dall’altro lato la grande voglia di continuare a sperare, a credere nelle personalità «diverse» sentite come autentiche, come vicine alla vita quotidiana, alla realtà di tutti i giorni. 

 

Ma le persone che hanno amato don Gallo «prete di strada» e quelle che hanno ammirato padre Puglisi «prete della gente» contro la mafia sono le stesse? O appartengono a due mondi diversi ? A Palermo si è celebrata una beatificazione di carattere spiccatamente religioso, con il tripudio dei fedeli, con la presenza di un’imponente rappresentanza della Chiesa ufficiale e della classe politica. Si sono sentiti discorsi edificanti sulla bocca di politici di lungo corso, ben radicati nel sistema partitico.

 

A Genova invece il clima è stato diverso. Tra il trasgressivo e il provocatorio. Pochi politici, e di opposizione al governo. C’era l’ebreo e agnostico Moni Ovadia che si dice sicuro che «don Gallo risorgerà», c’erano i NoTav e si è cantato polemicamente «Bella ciao». L’arcivescovo Angelo Bagnasco ha celebrato il rito funebre, scontando interruzioni e qualche fischio. Applausi invece per Valdimir Luxuria che ha parlato di una Chiesa che non caccia via nessuno. «Grazie don Gallo di averci fatto sentire, noi transgender, creature figlie di Dio e volute da Dio».

 

A questo punto, ciò che unisce Palermo e Genova è soltanto la presenza di un potenziale sociale e umano straordinario ed effervescente – nelle sue differenze - che la politica non sa più né riconoscere né gestire. 

Lo sa fare la Chiesa? Non è facile rispondere. Certamente riesce a offrire uno spazio pubblico che mantiene l’ultimo vestigio di sacralità. Il rapporto con la morte e quindi il rito del funerale sta diventando uno dei luoghi privilegiati dell’ espressione pubblico-mediatica della Chiesa. Lo è quando si tratta di eventi luttuosi, di disgrazie pubbliche, di gesti di violenza privata particolarmente efferata. Sono tutti eventi che toccano da vicino la fragilità della condizione umana. Qui la religione mantiene e riguadagna il suo ruolo pubblico quando riesce ancora a dire parole che sono percepite come motivo di speranza. A prescidere dal loro contenuto e consistenza dottrinale: spesso infatti sono parole generiche e scontate, ma sentite come autentiche. 

Ma che cosa può fare la Chiesa quando – come adesso - è la situazione generale ad essere percepita molto grave? O quando il circuito mediatico, sempre più maldestro nel mescolare allarmismi e promesse ministeriali, diffonde un senso di sconcerto e di impotenza della politica? Può la semplice presenza istituzionale della Chiesa, la sua scelta di non schierarsi tra le parti ma di insistere sui valori del bene comune avere un effetto compensativo? 

 

Non so fino a quando questo meccanismo può funzionare. A Genova ha toccato il suo limite. La Chiesa ufficiale infatti non può accogliere indiscriminatamente (come i don Gallo individualmente) tutte le voci di disagio della società e dar loro risonanza. Le seleziona e soprattutto non può prendere il posto della politica. 

Siamo così tornati alla politica che trova le piazze semivuote, mentre è sempre difficile valutare il peso delle piazze mediatiche. Un indicatore importante sarà il tasso di astensione dalle urne nelle elezioni amministrative di oggi. Se sarà come l’ultimo o addirittura più pesante, vuol dire che i cenni di rinnovamento da parte dei politici in queste settimane e le loro promesse non convincono. Vedremo se sarà il Movimento 5 Stelle a trarre beneficio dalla sua strategia sostanzialmente ostruzionista o se viceversa incomincia a pagarne lo scotto. Fra qualche giorno avremo elementi per rispondere e giudicare. 

 

Per ora la sfiducia generalizzata verso la politica ha come effetto una crescente insofferenza verso i singoli politici cui spesso non vengono risparmiate gratuite e ingiuste denigrazioni. Ma c’è anche l’altra faccia positiva: la forte aspettativa per le doti personali di chi si mette ora in politica o intende assumersi maggiori responsabilità. E’ un effetto tipico dei momenti di crisi. Più i meccanismi istituzionali sembrano incepparsi o frenare, più si fa affidamento sulle qualità personali. Queste sono facilmente individuate nella efficacia comunicatica, nella simpatia mediatica, nello stile espressivo possibilmente ricco di battute caustiche contro l’avversario. In fondo è questo è il leader ideale che si sogna. 

 

Per la verità si tratta di qualità ben note e presenti - molto prima della nostra età mediatica – sinteticamente nei concetti classici di «carisma» e «demagogia» (termine quest’ultimo nel frattempo diventato negativo) . Va da sé che nella dottrina classica della leadership democratica le qualità soggettive, ora elencate, dovessero coesistere con una solida competenza non dilettantesca sul da farsi. Si chiamava competenza politica professionale. Ho l’impressione che dobbiamo cominciare da capo, da qui. 

da - http://lastampa.it/2013/05/26/cultura/opinioni/editoriali/il-grande-sogno-del-leader-ideale-Ms36m3qk1zNWSpQbgC49WK/pagina.html
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« Risposta #106 inserito:: Giugno 04, 2013, 05:28:17 pm »

Editoriali
04/06/2013

Ma c’è già una via italiana

Gian Enrico Rusconi


Eleggiamo direttamente «il sindaco d’Italia». Questa espressione di Matteo Renzi non dovrebbe rimanere una bella frase. 

Anche se il contenuto del problema è troppo grosso per stare in una battuta. 

«Eleggere il sindaco» infatti è un modo di parlare del presidenzialismo «vicino alla gente» (per usare il gergo attuale) . Il sindaco come il presidente della Repubblica infatti deve essere una faccia nota, affidabile, non divisiva, capace di comunicazione, in grado di decidere rapidamente ed efficacemente. Se non funziona, lo si cambia per via diretta.

Questa è la sostanza del presidenzialismo, liberato dalla complessità della costruzione istituzionale che pure conta. Siamo infatti pur sempre in una democrazia, con meccanismi rappresentativi, cui il presidente deve rispondere e rendere conto, anche se nelle sue decisioni non ne dipende meccanicamente. Il punto cruciale del presidenzialismo e/ o del semipresidenzialismo è pur sempre il rapporto tra l’eletto direttamente dal popolo e le assemblee rappresentative, che pure sono elette dal popolo. Proprio qui sta la differenza tra il presidenzialismo (all’americana, per intenderci) e il semipresidenzialismo (alla francese). C’è una bella differenza. E la fanno proprio le assemblee legislative. 

Non si tratta dunque di un «uomo solo al comando» come si sente dire polemicamente a sinistra, insinuando che il presidenzialismo in democrazia darebbe di per sé troppo potere ad un «uomo solo» con rischi antidemocratici. Il presidenzialismo non è però neppure semplicisticamente l’elezione diretta di una persona che assicura di voler decidere senza lacci partitici e burocratici - come fa credere la destra. Soprattutto poi se questa persona è già designata prima ancora che si affronti la riforma costituzionale. Non prendiamoci in giro: sin tanto che si parla di Silvio Berlusconi come del «presidente» , il dibattito è già finito.No, non si tratta di una variante della sua ineleggibilità. Semplicemente la sua storia e personalità sono troppo ingombranti e divisive, paradossalmente troppo legate alla storia passata, per poter incarnare un passaggio cruciale innovativo della nostra repubblica. 

Il presidenzialismo è una cosa nuova e seria . Presuppone una risistemazione solidale di tutti gli equilibri democratici di rappresentanza. Il discorso diventa naturalmente più complicato, da fare in sede appropriata, ma dopo che si sono messi da parte tutti i pregiudizi oggi in circolazione pro e contro.

Tra l’altro, se l’esigenza che sottende la richiesta di presidenzialismo riguardasse semplicemente il rafforzamento delle competenze e delle prerogative di chi governa, ci sono altri sistemi e meccanismi che rafforzano il potere decisionale di chi sta al governo. Pensiamo al cancellierato tedesco che è semplicemente un forte esecutivo costruito dentro ad un sistema parlamentare e rappresentativo di tipo tradizionale. Se poi oggi la cancelliera Merkel sembra agire come se fosse un presidente, godendo di una popolarità transpartitica, lo si deve alla sua personalità e abilità.
 
Questa osservazione ci riporta ad un altro punto cruciale: il rapporto tra persona e istituzione, mai tanto stretto come nel presidenzialismo. Torna l’analogia con il sindaco: faccia nota, vicina, accessibile, direttamente controllabile nelle sue iniziative. Ma qui tocchiamo anche il limite di questa analogia. L’orizzonte della città, sia pure grande come Roma o Firenze, non è quella della nazione. Invece la vicinanza del presidente della repubblica, resa apparentemente accessibile dall’elezione diretta, rischia di essere una finzione. Una finzione mediatica. Conosciamo le macchine elettorali presidenziali americane. Sappiamo quali enormi possibilità di manipolazione hanno i circuiti mediatici - anche nel piccolo mondo di casa nostra. 

Il presidenzialismo potrebbe esasperare queste manipolazioni. È vero, ma la mediatizzazione e la personalizzazione della politica sono ormai fenomeni irreversibili, quotidiani. Tanto vale prenderli di petto, se è in gioco una migliore e più efficiente struttura istituzionale del sistema. C’è qualcuno che oserebbe dire che il sistema democratico francese è meno democratico del nostro? 

No, naturalmente. Spaventa invece l’idea che l’ipotesi presidenzialista possa da noi alimentare una nuova demagogia populista e un leaderismo pseudocarismatico. È un timore più che legittimo. Ma se il problema non è la struttura istituzionale bensì la pessima classe politica; se la nostra democrazia nonostante questo ha avuto ottimi presidenti di tipo «tradizionale», prendiamo atto dello stadio più recente cui siamo approdati. 

L’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con la formula del «governo del presidente» ha indirettamente indicato un percorso. Tramite tale esperienza – o meglio tramite una riflessione che non si è ancora fatto seriamente su di essa - si delinea la via italiana al semipresidenzialismo. O, detto in modo più prudente, verso un correttivo presidenziale del parlamentarismo. 


da - http://lastampa.it/2013/06/04/cultura/opinioni/editoriali/ma-c-gi-una-via-italiana-eT5KnRt3NjPkQTMZXDDyPJ/pagina.html
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« Risposta #107 inserito:: Settembre 11, 2013, 04:50:50 pm »

Editoriali
11/09/2013

Il merkelismo che cambia l’Ue

Gian Enrico Rusconi


La cancelliera Angela Merkel sembra andare verso un «plebiscito» - un termine che non è più sospetto nella cultura politica tedesca. 

 

Anche in Germania «l’opinione o sfera pubblica», di cui spesso i filosofi parlano enfaticamente, è infiltrata e pressata dalle indagini demoscopiche e dalle pressioni mediatico-politiche. Oggi si parla di rimonta socialdemocratica e di possibile risultato elettorale incerto. Si profila la soluzione familiare della Grosse Koalition. Si tratta di una ragionevole previsione o di una sottile operazione politico-mediatica? In ogni caso le elezioni daranno un carico di responsabilità ancora maggiore ad Angela Merkel. Parlare di merkelismo non è più un semplice vezzo giornalistico. 

 

Questa cancelliera, che non sembra suggerire alcuna immediata analogia con nessuno dei suoi predecessori, ha creato qualcosa di più di uno nuovo stile di governo. Ha alle spalle due mandati di governo: la Grande Coalizione con la Spd dal 2005 al 2009 e poi sino ad oggi la coalizione con i liberali. Da entrambe le esperienze, nonostante le difficoltà, ne è uscita bene - ma a spese degli alleati. Nel frattempo nel proprio partito ha fatto attorno a sé un vuoto di competitori, senza trovare nel campo dell’opposizione avversari in grado di metterla in difficoltà . 

 

A livello internazionale ed europeo ha creato per la Germania un profilo assertivo che sconcerta studiosi e storici che insistono nell’applicare il classico armamentario concettuale di «egemonia». «potere/potenza», «leadership», riparlando magari di «questione tedesca» (vecchia o nuova). Seguita la litania della «Germania europea o Europa germanica». «L’Economist» intitola il suo Special Report sulla Germania del giugno 2013 Europe’s reluctant hegemon. Egemone riluttante o non piuttosto egemone semplicemente spiazzante rispetto ai vecchi schemi? In effetti la Germania della Merkel pensa in termini globali di competizione con gli egemoni mondiali America, Russia, Cina e tenta di trascinare con sé gli europei che sono i veri «riluttanti» . 

 

Il merkelismo è ambizioso, proprio perché non sente il bisogno di giustificarsi in termini ideologici tradizionali. I suoi avversari di destra e di sinistra lo accusano di miseria intellettuale, e assai più severamente Jürgen Habermas parla di «mancanza di un nocciolo normativo». Ma contrapporvi l’utopia del demos/popolo europeo, o anche quella del mai concretizzato progetto federalista fa a pugni ogni giorno contro l’irreversibile affermarsi del primato degli interessi «egoisti» degli Stati nazionali. In questo la Germania offre semplicemente l’esempio di un «normale egoista».
 
 

Credo che il merkelismo vada criticamente affrontato dall’ottica più difficile: dal confronto con le ragioni e gli argomenti che hanno presa su una massa consistente di cittadini. E’ il nodo di quella «sfera pubblica» che è stata messa al centro di tante aspettative idealizzate. Qui si gioca la sfida comunicativo-democratica di un’analisi politica e non si accontenta di denunciare il populismo, il nazionalismo, l’egoismo di nazione o di classe.

 

Angela Merkel non ama i grandi discorsi politici, tanto meno le teorie politiche. Tempo fa è uscito un suo libro con un titolo sorprendente: «Machtworte/Parole del potere» (o della potenza?) che raccoglie una selezione di suoi interventi pubblici (l’editrice Claudiana di Torino ne ha curato una versione italiana). Nel libro non c’è nulla che assomigli ad una filosofia politica; non si parla né di potere né di governo, ma in termini colloquiali di libertà, di storia o di Occidente. Un passaggio chiave si trova in un capitolo dedicato alla crisi finanziaria, ma porta il titolo: «Chiediamo consiglio a una casalinga sveva». Se interpellata questa cittadina – dice la Merkel - «avrebbe citato una massima di vita tanto semplice quanto corretta: “alla lunga non si può vivere al di sopra delle proprie possibilità”. Questo è il nocciolo della crisi». 

 

Si tratta di pura demagogia? Di populismo? E’ facile affermarlo. Ma il segreto della cancelliera Merkel è che non parla soltanto alle casalinghe (ai lavoratori autonomi, agli operai), ma a imprenditori, manager, banchieri, economisti ecc. che la seguono. Al momento sembra avere dietro di sé l’intera classe dirigente del Paese, anche se questa qua e là la critica molto educatamente. La sua strenua difesa del «modello tedesco» cui gli altri europei devono adeguarsi, anzi imitare, va bene alla classe dirigente tedesca. Ma questa classe sa altrettanto bene che il successo tedesco non è dovuto soltanto alle sue riconosciute qualità professionali (o alle virtù delle casalinghe), ma a meccanismi di mercato reale e finanziario di cui l’economia e l’imprenditoria tedesche hanno goduto. Meritatamente, ma forse in misura squilibrata rispetto ad altri partner meno forti (e magari meno virtuosi). Il successo è dovuto anche alle riforme introdotte un decennio fa dall’allora criticatissimo cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder (riforme ora sintetizzate dalla «Agenda 2010») che la Grande Coalizione guidata dalla Merkel a suo tempo ha mantenuto a fatica. 

 

Oggi per far valere la sua linea «del rigore e delle riforme» sugli altri partner europei con argomenti da loro condivisi solo in parte, la cancelliera parte dalla certezza che in Europa non si può decidere nulla senza la Germania, tantomeno contro di essa. 

 

Questa affermazione suona antipatica, ma esprime anche un tratto caratteristico della stessa Unione europea in cui la cancelliera si riconosce: discutere, dibattere, convincere, ma anche minacciare, ricattare. La Merkel è maestra in questo - anche all’interno del suo Paese. Il suo modo di decidere è cauto, graduale, incrementale, ma talvolta anche repentino, magari sotto la pressione di eventi esterni (come fu il caso della sospensione della produzione dell’energia nucleare in Germania dopo l’incidente di Fukushima), ma ostinata e determinata una volta che la decisione è stata presa.

 

Con questo stile decisionale Angela Merkel guiderà la Germania nei prossimi anni, i più impegnativi dopo il 1989/90, dopo i Trattati di Maastricht e dopo l’introduzione dell’euro. Si tratta infatti di confermare e insieme rivisitare alcune regole e accordi sorti proprio da quel nesso di eventi che sino ad ieri si pensava fosse l’asse fisso attorno al quale si poteva costruire e rafforzare l’identità politica, economica, culturale dell’Europa e della Germania stessa. Oggi non è più così. Dopo Maastricht e Lisbona non c’è stato semplicemente un trend in discesa. Si sono verificate due fratture, di natura diversa, che hanno visto come protagonista di primo piano il governo della Merkel: la crisi greca e il dibattito sul destino dell’euro, duro ed esplicito come non mai prima.Sono due episodi che hanno scosso in profondità l’edificio dell’Unione europea. 

 

Ma la cancelliera affronta la campagna elettorale con drammatizzazione moderata, secondo il suo stile. Ripete le sue parole d’ordine: «Non ci sono alternative», «l’Europa si salva salvando l’euro», «ciò che è bene per la Germania, è bene anche per l’Europa». Sono messaggi semplici ma tutt’altro che innocui, a cominciare dall’ultimo che è l’inconscia inversione del classico motto da Adenauer a Kohl che «ciò che è bene per l’Europa, è bene anche per la Germania». Adesso lo si dice in senso inverso.

 

La strategia di fondo della Germania merkeliana in Europa non cambierà, anche se la futura cancelliera non esclude qualche innovazione o variazione - a seconda dell’esito delle elezioni e la connessa coalizione. Soprattutto nel caso si arrivasse ad una riedizione della Grande Coalizione con la socialdemocrazia. Quali potranno essere le innovazioni? Un atteggiamento più morbido verso gli eurobond o meglio verso le misure tese ad una qualche assunzione di responsabilità comune verso le difficoltà (debitorie e non solo) dei Paesi in difficoltà? Rafforzamento delle competenze di intervento della Banca centrale europea? Modifiche a livello istituzionale della Ue? Naturalmente non si può escludere neppure che una diversa coalizione (con i liberali) lasci invece le cose come stanno. Nessuno lo sa. 

 

La vera sorpresa delle elezioni potrebbe essere la AfD (Alternativa per la Germania) il partito che mira espressamente alla liquidazione dell’euro, così come è oggi, e quindi alla ripresa della piena autonomia monetaria della Germania. Quanto è rappresentativa l’AfD? Anche qui sta accadendo qualcosa di curioso. Mentre le indagini demoscopiche non le danno neppure la chance di superare lo sbarramento del 5% per entrare in Parlamento, se ne parla in continuazione. Questo partito sembra svolgere la funzione surrogatoria di un dibattito aggressivo, «fuori dai denti» sull’Europa e sull’euro, che altrimenti si alimenta del consueto frasario politicamente corretto, pur nella rituale insoddisfazione per le pietose condizioni dell’Europa e il risentimento verso i Paesi meridionali. 

 

Per concludere: la cancelliera tedesca non ama le grandi teorie politiche, anche quando parla del futuro federale dell’Europa e di possibili riforme istituzionali. Ma la sua linea operativa suggerisce una definizione di quello che ha in testa: un federalismo degli esecutivi, dei governi, che prenda il posto dell’attuale inefficiente combinazione di assemblea parlamentare, commissione e summit di capi di governo. Sarà questo il futuro istituzionale dell’Europa? Un «federalismo degli esecutivi», sostenuto ovviamente dai singoli parlamenti nazionali? È presto per parlarne. Ma dietro alla circospezione del dibattito elettorale sui temi istituzionali europei è latente anche questa soluzione. Vedremo. 

 
da - http://www.lastampa.it/2013/09/11/cultura/opinioni/editoriali/il-merkelismo-che-cambia-lue-t6oKoHNL4EuNq2TrCN4xaI/pagina.html
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« Risposta #108 inserito:: Settembre 24, 2013, 11:35:21 am »

Editoriali
23/09/2013

Plebiscito Merkel ma occhio ai “grillini”

Gian Enrico Rusconi


A prima vista il risultato elettorale in Germania è paradossale. La supervittoria di Angela Merkel e del suo partito rende difficile quello che sembrava l’esito scontato del futuro governo: una coalizione tra democristiani e socialdemocratici, la classica Grosse Koalition. I numeri, una collaudata tradizione e un certo umore diffuso, tra il rassegnato e il rilassato, la lasciavano aspettare. Invece potrebbe non essere così. 

 

L’irritata battuta del leader della Spd, Peer Steinbrueck («Ora la palla è nel campo di Angela Merkel, lei deve trovarsi una maggioranza») è tutto un programma. 

 

Ma qui forse la parola«programma» non è fuori luogo. Infatti se Cdu e Spd dovessero sedersi attorno ad un tavolo per stilare un programma di governo comune, la trattativa potrebbe essere lunga e laboriosa. 

 

Ma guardiamo intanto il risultato complessivo delle elezioni. I due partiti popolari sono nettamente i più forti rispetto agli altri partiti diventati davvero «minori». Chi ha detto che i partiti tradizionali hanno fatto il loro tempo? Clamoroso, anche se prevedibile, è il tracollo dei liberali che da anni sostenevano una posizione aggressiva senza essere convincenti. Serio è anche il declino dei Verdi che – pare - pagano lo scippo compiuto dalla Merkel ai loro danni, con l’annuncio della chiusura delle centrali nucleari. Come se il programma dei Verdi non sapesse essere e mostrarsi più ricco e ampio di questa iniziativa.

 

Ma tra i partiti minori ha fatto capolino con un sarcastico 4,9% ( al momento in cui scriviamo) «Alternativa per la Germania» (AfD) che non entra in Parlamento per un soffio. Ma il botto è clamoroso, visto che le veniva continuamente negata una tale rilevanza numerica. Ma «Alternativa per la Germania» non è una piccola formazione come le altre. Non è un generico gruppo di protesta antieuropeista, un partito «populista» – come scrivono i giornali. E’ un piccolo gruppo di persone qualificate che fa un discorso radicale ragionato (giusto o sbagliato che sia) contro il frasario politicamente corretto sull’Europa e la sua moneta. Ha di mira la liquidazione dell’euro ovvero l’espulsione dalla sua area dei Paesi membri del’Ue che non sono in grado di sostenere e mantenere le regole definite. Una riaffermazione piena della autonomia e sovranità della Germania. Sono parole che suonano gradite ad ambienti istituzionalmente qualificati in Germania, in ambienti vicini alla Bundesbank e alla Corte federale. Questo partito costringe a ragionare seriamente sull’euro, a confrontarsi, a non accontentarsi delle giaculatorie. Angela Merkel lo sa e ne terrà conto. Il suo slogan «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa» diventa ora assai più impegnativo di quanto non lo fosse sino ad ieri. 

 

Torniamo così al risultato centrale delle elezioni, previsto, eppure straordinario. Parlare di «plebiscito» per Angela Merkel non è un’espressione semplicemente enfatica. Non si tratta infatti soltanto di numeri. Gli elettori hanno risposto positivamente all’unico vero slogan elettorale della Cancelliera : «Datemi fiducia. Fidatevi di me. Avete visto come ho governato bene? Come ho salvaguardato il vostro benessere? Come sto mettendo in riga gli europei recalcitranti?». Ha chiesto un atto di fiducia e lo ha avuto. E’ con questo che si presenterà ad un eventuale tavolo di formazione di una coalizione. Non avrà bisogno di fare la voce grossa. 

 

Per il resto, se i socialdemocratici dovessero rendersi disponibili a coalizzarsi ha già pronte possibili varianti alla sua linea di «rigore». La socialdemocrazia esigerà soprattutto misure interne di maggiore equità sociale, di maggiore garanzia e sostegno per il lavoro precario. Sul piano europeo chiederà un atteggiamento più disponibile verso le iniziative della Banca centrale europea e altre misure minori che opportunamente pubblicizzate attenueranno l’immagine di eccessivo rigore della politica fatta sin qui. Ma non ci sarà nessuno scostamento dalla sostanza della strategia politica, economica e finanziaria condotta sinora dalla Germania della Merkel. La socialdemocrazia non ha né idee e né voglia alternativa – qualunque cosa dica Steinbrueck. 

 

Il risultato chiave delle elezioni di ieri è che in Germania non esistono linee politiche alternative a quella intraprese in questi anni dalla Merkel. Veri autorevoli interlocutori possono venire soltanto dall’Europa. 

 
da - http://www.lastampa.it/2013/09/23/cultura/opinioni/editoriali/plebiscito-merkel-ma-occhio-ai-grillini-tV6XwMrqk8Pca6mjk72fvL/pagina.html
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« Risposta #109 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:08:50 pm »

Editoriali
13/10/2013

Germania, il silenzio dei forti

Gian Enrico Rusconi

La Germania non ha ancora un nuovo governo, a tre settimane dalle elezioni. Ma i tedeschi non sembrano preoccuparsi. I partiti potenzialmente coalizzabili con la Cdu della Mer-kel – socialdemocratici e verdi – continuano a incontrarsi e a confrontarsi. «Roba da Prima Repubblica» – direbbe qualche commentatore credendosi spiritoso. Ma non è affatto così. E’ il ritmo di chi sa che a Berlino è comunque garantita la continuità politica interna e l’influenza, anzi l’assertività della Germania verso l’esterno. Anche e soprattutto verso l’Europa, guardata ormai con circospezione. Continuità all’interno e assertività nei confronti dell’Europa è ciò che sta a cuore ai tedeschi. Per questo hanno scelto Angela Merkel, qualunque governo formi. 

 

A fronte di questa Germania c’è un’Italia politica frenetica e infelice, con un governo volonteroso ma sostanzialmente impotente per poter fare scelte incisive. Solo una disinvolta incompetenza e una cattiva conoscenza della realtà politica può presentare le nostre «larghe intese» come una versione italica della grande coalizione tedesca. Manca l’ingrediente principale: una cultura politica solidale sulle grandi cose da fare in nome dell’interesse comune, al di là delle legittime differenze e competizioni di parte. Facile dirlo e predicarlo (lo fa tutti i giorni Enrico Letta), ma da noi ci vorrebbe nulla di meno che una rivoluzione morale. 

Il confronto tra Italia e Germania oggi è un gioco crudele, ma istruttivo. Dobbiamo partire dal presupposto che ci troviamo davanti a due esperienze di democrazia. 

 

Una funzionante, l’altra malfunzionante – ma sempre democrazie. Con crescenti tratti che si usa chiamare post-democratici, fatti di spinte populiste, partiti elettoralistici con seri problemi di leadership, invadenza del sistema mediatico. Ma anche su questo c’è differenza tra Italia e Germania: noi siamo paradossalmente più avanzati in «postdemocrazia». E’ stato il berlusconismo a inglobare in sé i caratteri postdemocratici, cucinati in salsa italiana, compresi i suoi cattivi odori. Quello tedesco invece è un sistema rimasto sostanzialmente tradizionale. 

 

Userò due immagini forti. Quella tedesca è una fortezza democratica tenuta insieme da un solido sistema istituzionale, complesso nelle sue articolazioni (cancellierato, rappresentanza parlamentare e regionale, sistema elettorale che consente la coesistenza di «partiti popolari» tradizionali con nuove forze politiche mobili). Su tutto vigila la Costituzione rigorosamente interpretata e monitorata dalla Corte federale, che è il bastione portante della fortezza democratica. Beninteso: questo non significa affatto che in Germania ci sia il migliore dei possibili sistemi politici o sia esente da critiche anche severe. Ma a suo confronto la democrazia italiana appare un condominio di rissose fazioni, di istituzioni farraginose prive di autorevolezza e di antagonismi tra gruppi sociali sempre più schiacciati lungo linee di quella che un tempo si chiamava società di classe. In compenso c’è un potenziale di mobilitazione raro da trovare in Germania

 

Ma una manifestazione come quella a Roma a favore della Costituzione sarebbe difficilmente concepibile in Germania. Non perché la Costituzione tedesca non sia il punto di riferimento centrale del sistema sociale e politico. Al contrario. Non perché non richieda aggiornamenti o «sapienti rinnovamenti» (Giorgio Napolitano). In Germania infatti sono frequenti e incisivi gli emendamenti. Ma il tutto avviene tramite normali procedimenti istituzionali. Questo naturalmente non esclude disapprovazioni più o meno diffuse di sentenze costituzionali.Ma, a mia conoscenza, non si sono mai verificate mobilitazioni di massa pro o contro articoli costituzionali o a proposito di minacce che investono la Carta come tale.

 

Oggi i due sistemi, tedesco e italiano, si trovano davanti agli stessi nemici, chiamati anti-europeismo (o anti-euro) e populismo. Ma anche qui, dietro le stesse etichette, ci sono contenuti diversi. Non ha senso mettere sullo stesso piano l’umore antieuropeista del M5S con il nuovo raggruppamento tedesco «Alternativa per la Germania». Il primo esprime la velleitaria umoralità di una protesta cavalcata da incompetenti, la seconda contiene in nuce un progetto operativo alternativo di de-costruzione europea, pericolosissimo proprio perché seriamente pensato. 

 

La cancelliera Merkel ha vinto le elezioni anche perché ha proposto una gradita «narrazione» del successo del suo governo e della Germania nel ventennio precedente. Sì, anche nel caso tedesco si può parlare di «ventennio», sviluppatosi in senso inverso al nostro (a proposito: è singolare che nelle commemorazioni di questi giorni , «il ventennio» italiano sia ipnotizzato dai fatti e misfatti berlusconiani, lasciando in ombra i fallimenti del centro-sinistra che sono parte importante e responsabile del ventennio cronologicamente inteso…) .

 

La «narrazione» merkeliana del ventennio tedesco parte dalle sfide di Maastricht e dall’impegno della Germania per la ricostruzione delle aree orientali ex comuniste. Anni duri e impegnativi, condivisi con il comune progetto europeo, resi progressivamente più difficili dall’accresciuta competizione internazionale che fa scoprire improvvisamente la pesantezza e la relativa arretratezza del sistema tedesco («il malato d’Europa» secondo una delle tipiche perentorie definizioni dell’Economist). Ma poi – prosegue la «narrazione» – ecco il coraggioso governo di Gerhard Schroeder che introduce le riforme (Agenda 2010) che consentono alla Germania di riprendersi efficacemente, mentre il resto d’Europa rimane impantanato nelle sue debolezze strutturali. Poi esplode la terribile crisi del 2008 cui reagisce la Grande Coalizione guidata da Angela Merkel e dal suo valente ministro socialdemocratico Peer Steinbrueck. Questa linea prosegue poi con la politica del rigore nel successivo governo Merkel, con i liberali, tenendo testa agli inefficienti partner europei. E’ la stagione della Germania «egemone riluttante» (altra definizione dell’Economist) che prosegue tutt’oggi.

Questa narrazione, gradita ai tedeschi, è fatta di mezze verità. Cancella totalmente il fatto che la Germania ha tratto legittimamente e meritatamente vantaggi dalla costruzione delle regole post-Maastricht, soprattutto di quelle attinenti gli aspetti finanziari ed economici, ma in maniera sproporzionata rispetto agli altri membri dell’Unione. Quelle regole infatti con il passare degli anni e l’esplosione della crisi si sono rivelate insufficienti e inadeguate di fronte alla intensità e alla qualità dei problemi che hanno incontrato altri paesi meno solidi. Ma la politica delle riforme e del rigore imposta dalla Germania ha spesso usato, nella narrazione popolare, la tesi che i paesi (meridionali) sono renitenti (se non peggio) a fare quelle che vengono chiamate «le riforme» tout court, anche se incidono pesantemente e contraddittoriamente sul livello di vita dei cittadini. 

Nessuno vuol togliere ai tedeschi quanto hanno meritatamente ottenuto. Ci si aspetta però in nome dell’Europa che si rendano conto che la mutata la congiuntura storica richiede da loro – in forza del loro peso oggettivo – una nuova forma di corresponsabilità comunitaria. 

 

La partita è aperta. E’ sbagliato pensare che debba essere giocata come se fosse una partita Germania contro Europa. Anche se c’è qualcosa di vero in questa formula. Ed è un peccato che l’Italia non abbia la forza di fare la sua parte (come sembrò possibile per un momento nella breve avventura di Mario Monti). Il discorso ritorna alla estraneazione tra le classi politiche tedesca e italiana così lontane ormai per cultura politica, per stile comunicativo, per competenza. Ma se guardiamo alla cronaca quotidiana, le speranze che questa tendenza possa invertirsi, sono poche. 

da - http://lastampa.it/2013/10/13/cultura/opinioni/editoriali/germania-il-silenzio-dei-forti-7XxpoI86kqnKsFVzZ3PazJ/pagina.html
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« Risposta #110 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:36:24 pm »

Editoriali
19/11/2013

L’Spd ha ceduto Merkel senza limiti

Gian Enrico Rusconi

La Grande Coalizione che si sta preparando in Germania è costruita su un pesante scambio politico. 

La socialdemocrazia infatti intende occuparsi esclusivamente della politica sociale interna, mentre la democrazia cristiana di Angela Merkel continuerà a gestire la politica finanziaria, economica e i rapporti con l’Europa - come prima. Il collegamento dei due aspetti - politica interna e politica europea - funziona però a senso unico. Infatti soltanto grazie alla «politica del rigore» verso l’Europa sarà possibile la generosa politica sociale interna. 

L’adesione incondizionata della socialdemocrazia alla linea Merkel e lo scambio politico che la sottende preannunciano che non ci sarà spazio per una incisiva politica europea che sia sotto il segno della solidarietà. Ma oggi in Germania chi parla di «solidarietà per l’Europa» viene zittito e rimproverato di difendere «l’Europa dei debiti». L’Europa degli altri. Gli elettori tedeschi - socialdemocratici compresi - sono convinti di dover stare in guardia da popoli europei spendaccioni, inefficienti, inaffidabili. 

Non so se la classe dirigente socialdemocratica la pensa davvero così. Qualche tenue voce discorde si sente. Ma certamente il gruppo dirigente non ha fatto molto per spiegare al suo elettorato che le cose in Europa non stanno esattamente così. I tedeschi non sono semplicemente i più bravi. Ma alla fine l’unica preoccupazione della Spd ora è quella di riguadagnare il consenso interno perduto - evitando di pensare ad una politica europea più impegnativa e lungimirante. Una politica dello struzzo.

Non c’è dubbio che il programma sociale proposto dalla Spd sia di grande rilievo (salario minimo, sostegni familiari, pensione di solidarietà, aiuti ai ceti economicamente più deboli, nuova politica energetica, doppia cittadinanza per i migranti ecc.) ma la sua attuazione è strettamente vincolata al mantenimento dell’attuale linea del governo Merkel, intransigente verso gli altri partner europei, a cominciare da quelli in difficoltà. In particolare viene respinta qualunque misura che alteri l’attuale equilibrio economico-finanziario tra i partner di cui oggettivamente gode la Germania. In altre parole: no agli eurobond, no a qualunque forma più o meno mascherata di mutualità dei debiti sovrani dei Stati dell’eurozona, riforma del sistema bancario soltanto secondo i criteri tedeschi e critica ormai aperta alla Bce di Mario Draghi, che per l’occasione è tornato ad essere chiamato «l’italiano». Ma non pare che i dirigenti Spd (con buona pace di Martin Schulz, presidente dell’europarlamento) abbiano idee molto diverse. O si impegnino a farle valere.

Enrico Letta giorni fa al Congresso della Spd a Lipsia è stato abile a dire che «l’Italia non è e non vuole essere un Paese assistito»; «l’Italia ce la fa da sola, ed è per questo che ora può chiedere con forza una svolta dell’Europa sulla crescita». E’ quanto volevano sentire i socialdemocratici, tanto più che elegantemente il presidente del consiglio aveva taciuto su quello che i tedeschi oggi non vogliono sentire: le critiche loro rivolte per gli squilibri prodotti dal surplus delle loro esportazioni. Peccato che Letta, appena tornato in Italia, abbia dovuto subire la doccia fredda delle critiche di Bruxelles, il suo governo sia incappato in una serie di crisi di varia natura che agli occhi tedeschi confermano la permanente «inaffidabilità» dell’Italia politica. L’effetto Lipsia è già scomparso.

Con il precipitare di una crisi tanto inattesa quanto ingovernabile, molti tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano alla Germania di fare qualcosa che contraddice la lettera e lo spirito dei Trattati dell’Unione consensualmente sottoscritti. Sono convinti di avere saputo reagire meglio di altri alla crisi, esclusivamente per meriti propri, proponendosi quindi come modello da imitare e invitando i partner europei a fare i loro «compiti a casa». Sentono minacciata la loro ritrovata sovranità nazionale, che ritenevano d’avere messo in sicurezza dentro a un’Europa orientata secondo l’immagine ideale che essi se ne erano fatta. Adesso si sentono ingiustamente circondati da ostilità. La tentazione di «fare da soli» sta diventando forte, ma sinora è rimossa. 

Con quali argomenti si può criticare questo atteggiamento, senza disconoscerne gli aspetti di verità? Con un solo argomento: ricordando che l’Europa è stata costruita e funziona sulla interdipendenza tra i membri che non può essere automaticamente determinata dai mercati o affidata a norme consensualmente stabilite in congiunture molto diverse, norme che ora si rivelano inadeguate allo scopo. Non mi risulta che gli uffici studi della Spd abbiano prodotto o quanto meno dato rilevanza pubblica e pubblicistica ad analisi che sviluppano questa tesi. (Salvo qualche generica evocazione di un nuovo piano Marshall non meglio precisato). 

 

In breve non mi pare che i socialdemocratici tedeschi posseggano una solida visione politica ed economica europea, che sia non dico alternativa ma significativamente autonoma rispetto a quella merkeliana. Una visione che tenga conto anche delle considerazioni fatte da analisti e commentatori internazionali, senza alcun pregiudizio anti- tedesco, che spiegano come e perché la situazione di interdipendenza oggettiva tra le economie europee ha subito in questi ultimi anni distorsioni che hanno favorito l’economia tedesca a svantaggio di altre. No, non è questione di «arroganza» o «egemonia» teutonica. Si tratta di prendere sul serio il fatto che l’interdipendenza delle economie e dei loro meccanismi, su cui è stata costruita l’Europa, esige oggi di essere governata in modo diverso. Non senza o addirittura contro i tedeschi, ma insieme a loro. 

Ma al momento attuale l’intransigenza della Germania sulle proprie posizioni acquisite, l’impressionante immobilismo della Francia, l’impotenza e l’inefficienza dell’Italia e l’atteggiamento solo fiscal-burocratico di Bruxelles stanno creando le premesse perché il prossimo Parlamento europeo si riempia di nemici dell’euro e dell’Europa e venga di fatto paralizzato. Se neppure questa fosca prospettiva è in grado di dare uno scossone ai responsabili politici europei, l’Europa che abbiamo sognato si approssima alla sua fine.

Da - http://lastampa.it/2013/11/19/cultura/opinioni/editoriali/lspd-ha-ceduto-merkel-senza-limiti-7S9m8e8eDueCgBLLw0tgFN/pagina.html
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« Risposta #111 inserito:: Gennaio 05, 2014, 06:03:27 pm »

Editoriali
05/01/2014

Matteo, di’ qualcosa di europeo
Gian Enrico Rusconi

Dopo anni di retorica europeista è arrivato un generalizzato risentimento anti-europeo, perché la dura realtà sociale ed economica viene da molti imputata univocamente «all’Europa» o a «Bruxelles». Le elezioni europee ci piomberanno addosso interamente strumentalizzate in questo senso e si sovrapporranno fatalmente alle elezioni italiane. 

Sintomatica è la mossa di Forza Italia, disposta a trattare le proposte elettorali di Renzi solo a patto che si arrivi ad un election day che faccia coincidere le consultazioni nazionali con quelle europee. E’ una mossa insidiosa. La possibilità di sfruttare tempestivamente il crescente malumore anti-europeo porterà Berlusconi a non insistere troppo sui dettagli del nuovo sistema elettorale - pur di sfruttare l’occasione a proprio vantaggio. In questa direzione si muoverà lo stesso Grillo dietro la cortina fumogena delle sue aggressive esternazioni.

Il Pd è molto debole sulle questioni europee. Renzi ribadisce genericamente la possibilità di «sforare il vincolo del 3% del rapporto tra deficit e Pil» come se fosse una bazzecola. Sulla politica dell’euro, sul ruolo delle istituzioni europee si sentono solo affermazioni benevolmente generiche. Come pure sulla Germania, la nazione che di fatto è in grado di determinare l’orientamento europeo. In proposito Renzi non ha mai detto nulla di significativo e soprattutto di comunicativamente efficace - come ci si attenderebbe dal suo stile mediatico. In realtà sull’Europa e sulla Germania non si possono fare battute. Occorre un discorso articolato e convincente per l’elettorato del Pd che è molto perplesso. Non mi è chiaro se Renzi è in grado di farlo.

Nell’area di maggioranza, tutte le proposte avanzate per rimettere in moto la politica e l’economia nazionale danno per acquisito e immutabile il quadro contestuale europeo così come è oggi, con i suoi vincoli. In questa ottica si muove il governo di Enrico Letta preoccupato innanzitutto di dimostrare la sua lealtà europea. Dopo le contraddittorie e velleitarie mosse dell’ultimo Mario Monti, travolto poi dai suoi stessi errori, l’Italia non ha una linea profilata e attiva sulle questioni europee. Per la stampa tedesca l’unico «italiano» che conta è Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Ma lo scrive con ambivalenza. 

Sin tanto che le cose staranno così, l’Italia non uscirà mai dalla sua posizione marginale sulle questioni europee. Manca un discorso pubblico adeguato. Su questo punto l’offensiva comunicativa di Renzi è assente. Ma non può non sapere che l’anti-europeismo (comunque declinato) sarà uno dei motivi dominanti della prossima campagna elettorale. 

Essere anti-europei oggi è sin troppo facile, mentre ribadire le ragioni dell’Unione europea è diventato molto impegnativo, perché non può coincidere con la semplice accettazione dello status quo. Anche i critici più benevoli non possono negare che sono emersi «errori di costruzione», in parte risalenti agli stessi Trattati di Maastricht che esigono di essere corretti - senza sfasciare tutto come temono i tedeschi. 

Occorre reinterpretare criticamente la fortunata affermazione di Angela Merkel, con la quale la cancelliera ha vinto le ultime elezioni tedesche e continua a condizionare i partner europei - «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». E’ una tesi efficace che ha tuttavia il sottinteso non detto che l’euro di cui parla la Merkel, l’euro che non deve fallire, è quello che segue puntigliosamente le regole, le norme e i vincoli che hanno funzionato sinora. Esasperano le differenze, anziché promuovere convergenze solidali - come era stata la promessa della moneta unica. Ostacolano ogni proposta correttiva e soprattutto ogni forma di allentamento del cosiddetto «rigore» (eurobonds, iniziative sospette della Bce ecc.) con il ricatto che altrimenti tutto si sfascia.

Su tutto questo vigila la Germania della cancelliera Merkel che, preservando legittimamente il suo efficiente sistema produttivo, gode di uno straordinario consenso popolare e del sostegno delle sue autorevoli istituzioni (dalla Corte costituzionale alla Bundesbank). La Germania oggi è un’autentica fortezza democraticamente fondata. Contro questo paradosso non sta in piedi nessuna facile demagogia anti-tedesca.

E’ in grado Renzi di affrontare questa problematica e di spiegarla agli elettori del Pd? A questo proposito il partito democratico potrebbe fruttuosamente stabilire rapporti di lavoro con la socialdemocrazia tedesca, che con la formazione della Grande Coalizione ha conquistato una posizione molto importante. Certo: la coalizione guidata dalla cancelliera Merkel è fondata sullo «scambio politico» per cui la Spd può dedicarsi alla realizzazione di una coraggiosa politica sociale interna purché non interferisca con la linea politica del rigore per quanto riguarda l’Europa e «la difesa dell’euro», nel senso appunto inteso dalla Merkel. Ma molti socialdemocratici nutrono forti critiche verso questa linea. Condividono molte idee e proposte che possono essere sostenute anche dal Pd: dal «fondo salva-stati» dotato di maggiori poteri e ancorato al Parlamento europeo, a modifiche dello statuto Bce perché si avvicini al modello della Federal Reseve americana, e altre proposte in tema di fiscalità, riforma bancaria ecc. 

Ma al di là delle singole proposte, occorre ricreare convergenze tra le grandi forze progressiste europee per uscire dallo stallo politico in cui si è cacciata l’Unione europea. Scongiurare che il prossimo Parlamento europeo venga paralizzato dalla presenza chiassosa e irresponsabile di forze ostili alla rifondazione di un’Europa che ha il coraggio di apprendere dagli errori che hanno portato alla sua crisi attuale. 

Da - http://lastampa.it/2014/01/05/cultura/opinioni/editoriali/matteo-di-qualcosa-di-europeo-78jWzOQrrJebAuPJaMHAjL/pagina.html
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 25, 2014, 06:35:11 pm »

Editoriali
24/04/2014

Quel paragone errato
Gian Enrico Rusconi

Matteo Renzi è un dilettante, ma non uno sprovveduto. Ed è sbagliato associarlo sempre a Berlusconi. Nel nostro linguaggio il termine «dilettante» ha un sapore vagamente sprezzante, o quanto meno ironico, contrapposto a «professionista». 

Ma non è un caso che proprio nel nostro paese (non altrove) il termine di professionismo politico abbia acquistato un significato sempre più negativo. Facciamo un passo indietro. Il primo Berlusconi è entrato in politica e ha raccolto consensi proprio contrapponendosi ai professionisti della politica. In realtà il suo non era un «dilettantismo politico» ma un professionismo di stile aziendale, tentativamente trasposto in politica. Poco alla volta Berlusconi si è circondato di politicanti servizievoli e di mediocri uomini e donne la cui principale competenza consisteva nell’eseguire le sue direttive. Abbiamo visto come è finita. La lettera di Sandro Bondi ieri alla Stampa («FI ha fallito, sosteniamo Renzi») è una schietta, drammatica testimonianza anche se il riferimento a Renzi è problematico. 

E’ un difetto d’analisi, quasi una psicosi dei commentatori critici di sinistra, collocare Renzi accanto a Berlusconi. Oltretutto costoro dimenticano la lezione che avrebbero dovuto trarre dal successo del berlusconismo, cioè le speranze o le illusioni che ha sollevato nel paese, al di là delle sue evidenti connotazioni di classe (il berlusconismo infatti è sempre di destra), di modernizzare il paese, di liberalizzare risorse, di sburocratizzare. Attraente sembrò persino l’attesa di una maggiore efficienza decisionale e di una qualche riforma istituzionale. Ma soprattutto uno stile politico e comunicativo nuovo che dagli avversari veniva criticato come «populista». Ma non si poteva negare che c’era un potenziale politico che il berlusconismo ha interpretato, sfruttato e poi deluso. 

Nel frattempo il populismo nelle sue più diverse varianti si sta manifestando in maniera così estesa da rischiare di perdere ogni connotazione specifica di contenuto, persino la differenza tra destra e sinistra. Basta un leader capace, la sua abilità comunicativa, rigorosamente mediatizzata e diretta verso un «popolo» più virtuale che reale. 

Detto questo, la semplice sequenza nominalistica «berlusconismo-populismo-renzismo» va respinta. Anche se i più benevoli e scrupolosi commentatori segnalano che quello di Renzi è un populismo di sinistra e fanno l’elenco delle iniziative decise e quelle programmate. 

Ma in questo contesto dove sta il «dilettantismo»? In che cosa consiste?

Ripetiamo: il dilettante, di cui parliamo, non è uno sprovveduto, né in termini caratteriali tanto meno professionali. L’esperienza di Matteo Renzi come amministratore locale a vari livelli vale molto di più di quella di un politico di mestiere che ha fatto la sua carriera tra segreteria di partito e stanze ministeriali. Il dilettantismo di cui parlo è il gusto di rischiare là dove i professionisti sono bloccati da vincoli interni e ambientali; è la volontà di privilegiare la novità non solo di sostanza ma anche di immagine, se questa ha un effetto di mobilitazione o di motivazione rispetto a quanto è già stato scontato in esperienze precedenti; è sfidare avversari e alleati con scadenze strette di decisione e di realizzazione ben sapendo che i professionisti contano sugli indugi per guadagnare risorse di resistenza (si veda quanto accade nel Senato). 

Questo tipo di comportamento sfiora l’azzardo e funziona a condizione che il leader possa contare su un gruppo d’urto di collaboratori, a lui affini o comunque leali, che a loro volta interpretano diffuse attese latenti nella popolazione e quindi nell’elettorato potenziale. 

Il pericolo cui va incontro questo «dilettantismo» è la tentazione di sentirsi autosufficiente, quando va oltre l’orizzonte dell’emergenza in cui è costretto a muoversi attualmente. E’ il pericolo di un respiro culturale corto.

Da - http://lastampa.it/2014/04/24/cultura/opinioni/editoriali/quel-paragone-errato-ivI4aaDuYcL4K9RQttya9I/pagina.html
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« Risposta #113 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:12:23 am »

Editoriali
05/07/2014

Roma-Berlino, la trappola antropologica
Gian Enrico Rusconi

Prepariamoci ad una possibile turbolenza tra Germania e Italia. Ci sono tutte le premesse. Ma la peggiore sarebbe quella di attingere al collaudato armamentario dei reciproci giudizi e pregiudizi. Magari con la retorica della «memoria storica» – quella lunga, più che centenaria (per rimanere soltanto alla storia dei nostri Stati nazionali) o a quella più recente della costruzione europea. 

La cosa peggiore è ricorrere all’antropologia da strapazzo, camuffata da «psicologia dei popoli», che parla genericamente «degli italiani» e «dei tedeschi». E’ tempo di cambiare stile e modo di argomentare. Scambio di ragioni, senza malcelati sospetti, senza risentite accuse di reciproci inadempimenti.

Domenica scorsa, su questo giornale, abbiamo criticato un noto giornalista tedesco per l’infelice titolo di un suo commento «Il tradimento dell’Italia» (Faz). Era basato sull’assunto che «l’Italia riceve aiuti immediati contro vaghe promesse, e la Germania ha motivo di sentirsi raggirata». E’ forse questo ciò che teme il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, con il suo commento ironico al discorso di Matteo Renzi? 

Ma tre giorni fa, su un altro grande quotidiano tedesco (SZ), è uscito un articolo significativamente di segno opposto: «Renaissance dell’Italia». Ecco l’altra faccia del tedesco – in benevola attesa per le straordinarie risorse latenti dell’Italia. 

Adesso però tutti aspettiamo i fatti. Fatalmente tutto sembra legato al fenomeno Renzi. Non tanto e non solo alla sua persona ma al mutamento politico che sta promuovendo.

Per contrasto – quasi per provocazione – voglio ricordare qui l’esperienza di Mario Monti, oggi rimossa e disapprovata. Contiene quasi tutti gli ingredienti di altre esperienze storiche tra governo italiano e governo tedesco: iniziale simpatetica convergenza di intenti con la Germania, adesione alle sue posizioni virtualmente egemoniche, poi graduale affermazione di prospettive e propositi diversi se non alternativi, che portano i tedeschi a sospettare una fraudolenta rottura italiana degli accordi presi.

Monti, il premier inizialmente salutato con entusiasmo e gratificato in Germania dall’epiteto di «tedesco» (in sottile antagonismo con «l’italiano» Mario Draghi) portava in sé l’anomalia istituzionale del governo «tecnico», sotto la forma del «governo del Presidente». Ma essa era stata accolta con assoluta benevolenza in Germania perché il programma enunciato e in parte realizzato era in sintonia con la linea tedesca. Quando Monti però ha tentato di modificare la rotta, chiedendo alla Germania «maggiore elasticità» in tema di patto fiscale, di stabilità finanziaria e riforma bancaria, ha subito incontrato l’ostilità tedesca. 

 

Trascuro qui la catastrofica scelta politica interna di Monti – di cui per altro i tedeschi non avevano percezione. Mi limito a constatare che contro di lui è scattata la sindrome tedesca della slealtà, l’accusa della incapacità congenita degli italiani di mantenere i patti. Una presunta lettura antropologica ha preso il posto dell’analisi politica. Non c’è stata nessuna seria analisi se la politica di Monti, al di là del suo stile tecnocratico e della sua «strana maggioranza», fosse quella più adatta per un’Italia economicamente stremata. La crescente alienazione della popolazione dalla politica (che alle elezioni si tradurrà in cifre elevatissime di astensione), il fenomeno in crescita esponenziale del grillismo, la persistenza del berlusconismo e quindi il flop elettorale di Monti, vengono letti in Germania come conferma della cronica instabilità italiana. Quindi come antropologica inaffidabilità degli italiani. Non come segni di colossali problemi oggettivi da affrontare con un nuovo approccio razionale ed economico. 

Poi inatteso arriva il fenomeno Renzi – l’altra faccia della «sorprendente Italia». Ma non è un miracolo all’italiana, bensì una scelta arrischiata a suo modo razionale. 

Ricomincia il gioco. Angela Merkel sfoggia la sua benevola simpatia per il giovane premier italiano che dichiara la Germania non un nemico da battere ma un modello da imitare. Ma la cautela politica è d’obbligo e la cancelliera è maestra in questo. Nessuno sa ancora come andrà a finire. 

Per noi rimane un punto importante: smettiamola con gli stereotipi su italiani e tedeschi. E’ ora che le classi politiche invece di baloccarsi con i luoghi comuni reciproci, imparino a conoscersi e a parlarsi più seriamente. 

Da - http://lastampa.it/2014/07/05/cultura/opinioni/editoriali/romaberlino-la-trappola-antropologica-clIYnpUp0A5i2b0P4IYfWM/pagina.html
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« Risposta #114 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:24:21 pm »

Uno scossone all’impotenza dell’Europa

21/08/2014
Gian Enrico Rusconi

Ancora una volta Matteo Renzi gioca sulle dichiarazioni di risolutezza e sul tempismo. Questa volta non sul terreno interno, minato dalle opposizioni e da una strisciante disillusione, ma presentandosi con una immagine risoluta nell’arena della politica estera, dove non ha esperienza. Sta mettendo in gioco il nome dell’Europa interpretando attivamente il ruolo di Presidente di turno del Consiglio europeo. Ce la farà? Come? E’ un buon inizio? 

Davanti a tutto ciò trovo deprimente la facile accusa che gli viene fatta di ricercare soluzioni di facciata mediatica. In questo caso per dirottare l’attenzione pubblica dalla nostra drammatica situazione economica e sociale. Queste critiche avanzate da chi si crede astuto analista, rischiano in realtà di rappresentare e di promuovere la solita irresponsabile autoemarginazione italiana in politica estera. Perché dicono – naturalmente – che la «vera soluzione» dei problemi è sempre «un’altra». 

La congiuntura improvvisamente aggravatasi lungo l’asse Ucraina, Iraq, Palestina-Israele – il grande fronte orientale esteso d’Europa - è grave perché accumula crisi di natura assai diversa, tutte di difficile immediata soluzione, e con una qualità di violenza e ferocia inaudita. A loro modo sono tutte «guerre civili» o «interne», combattute con armi micidiali che nel loro uso e nelle loro conseguenze non fanno più distinzioni tra civili e militari.

La vicenda irachena è al centro di questo asse, non solo in senso geografico. Dovesse saltare l’attuale precarissimo equilibrio di Baghdad a vantaggio dell’estremismo islamista, ne sarebbe sconvolto l’intero confine orientale d’Europa. Questa non è una mera constatazione di geografia politica, perché la brutalità dei conflitti, elencati sopra, segna un salto di qualità che, non a caso, ha turbato Papa Francesco. Ha usato parole semplici e, come sempre, anche innovative per il mondo religioso. 

In questo contesto la visita-lampo di Renzi in Iraq, nella sua doppia veste italiana ed europea, sembra aver evitato la routine burocratica e la mera cortesia diplomatica. Garantendo non solo aiuti umanitari ma anche la consegna di un significativo contigente di armi per i curdi iracheni, impegnati in prima linea contro gli jihadisti dell’Isis, l’iniziativa italiana si qualifica in modo fattivo. Anche agli occhi dei governi europei e alle istituzioni dell’Unione che si sono dichiarate disposte a sostenere Baghdad.

 Arriviamo così al punto cruciale e dolente dell’intera questione. Non facciamoci illusioni: Renzi nel suo periodo di presidenza europea non riuscirà a smuovere l’impotenza dell’Unione che ha radici profonde nelle gelose autonomie nazionali. Sarà già molto se contribuirà a coordinare efficacemente le decisioni prese dai singoli Stati per difendersi da un potenziale nemico comune. 

Per far questo Renzi ha bisogno di essere «preso sul serio», al di là delle cortesie diplomatiche. 

Può darsi che la prima mossa di ieri vada in questa direzione. 

Staremo a vedere le reazioni dei prossimi giorni, a cominciare da quelle tedesche. Con un’avvertenza: è ridicolo che, quando sono in gioco interessi nazionali oggettivi, si sondino i livelli di simpatia reciproca tra la cancelliera Merkel e Matteo Renzi. 

Al momento, davanti all’asse della crisi descritta sopra, la Germania è preoccupatissima innanzitutto della parte settentrionale – quella che è ormai la guerra interna ucraina. Come questa si colleghi o si risolva insieme con le altre due (l’irachena e la palestinese, rimanendo congelata o semplicemente dimenticata quella siriana) è un problema che la classe politica europea, divisa al suo interno, al momento non sembra in grado di affrontate. Questa è la situazione con cui dovrà fare i conti Matteo Renzi.

Da - http://lastampa.it/2014/08/21/cultura/opinioni/editoriali/uno-scossone-allimpotenza-delleuropa-WgF5VtkDMaiRN81Cl2JirJ/pagina.html
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« Risposta #115 inserito:: Settembre 14, 2015, 10:46:20 am »

Merkel spieghi come uscire dall’impasse
Le autorità tedesche dichiarano di non reggere più la situazione, dopo gli slanci umanitari della Cancelliera Angela Merkel nei giorni scorsi

14/09/2015
Gian Enrico Rusconi

Dall’euforia allo sconcerto. Non solo per la decisione tedesca di reintrodurre i controlli alla frontiera, il che significa praticamente lasciare per strada i migranti fuggiaschi. Ma sconcertanti sono i motivi della decisione. Le autorità tedesche infatti dichiarano di non reggere più la situazione. La mitica organizzazione tedesca che giorni fa ci aveva sorpreso per la sicurezza con cui affermava che avrebbe sistemato centinaia di migliaia di profughi in cerca di asilo, ha alzato bandiera bianca. Sinistra suona la notizia che non ci sarà più traffico ferroviario con l’Austria. Le ferrovie, il loro funzionamento a singhiozzo tra ordini e contrordini, i binari diventati strade di migranti sono l’ultima immagine del fallimento dell’Europa ad accogliere i disperati. E adesso? 

Ci saranno tre ordini di conseguenze. Innanzitutto dove e come saranno lasciati i profughi fermati alle frontiere? Il ministro degli Interni tedesco de Maiziere parla di «zone di attesa», anche in Italia. Sulla base della nostra esperienza si apre una triste prospettiva.

Speriamo che i profughi non siano lasciati alle cure dei Paesi «ospitanti», ma che intervenga un’autorità, un controllo e un sostegno europeo mirato. 

La seconda conseguenza sarà politica. E’ prevedibile che oggi nel corso della riunione dei ministri europei, i Paesi dell’Est ostili ad ogni accoglienza, anziché essere censurati e invitati a modificare linea, passeranno all’attacco contro Germania e contro l’Unione europea. Dopo aver incautamente aperto le porte a tutti - accuseranno - adesso la Germania ha peggiorato la situazione con la sua imperizia nel non aver previsto quello che sarebbe successo. 

Vedremo come reagiranno i tedeschi che improvvisamente e inopinatamente nel giro di pochi giorni da modelli di solidarietà rischiano di diventare i capi espiatori di una situazione finale oggettivamente diventata insostenibile. A Bruxelles il tutto si ridurrà ad un botta e risposta o ad un coro generalizzato di lamenti verso «l’Europa» come se i membri presenti non la rappresentassero? Quale autorità e autorevolezza rimane a Juncker in questo disgraziato frangente? 



A questo punto però nascono altri interrogativi alla Germania: non per accusare ma per capire. Le autorità tedesche hanno sbagliato i loro calcoli? Sono state troppo prese dalla loro stessa buona volontà di risolvere il problema? La decisione originaria della cancelliera Merkel (non sappiamo quanto presa da lei personalmente o tramite una risoluzione collegiale) ha prodotto un consenso e un prestigio inatteso. Disturbato soltanto dai soliti maligni che vi hanno visto un puro calcolo di opportunità economica. Adesso attendiamo una dichiarazione chiarificatrice della cancelliera. 

In terzo luogo, credo che in Germania ci sarà turbolenza politica. La si sentiva montare già nei giorni scorsi non solo nella Csu. Sulla stampa conservatrice, accanto a critiche premonitrici, non mancava il sarcasmo contro la cancelliera che, felice della nuova simpatia internazionale guadagnata dalla Germania, si atteggiava a mater patriae. 

In ogni caso il governo tedesco deve trovare buone argomentazioni per superare questo momento critico. Una Germania paradossalmente messa sotto accusa o in difficoltà davanti ai membri dell’Unione non farebbe bene a nessuno. 

Ricordando la notte dell’ultima crisi greca, si era detto che davanti al baratro i responsabili europei hanno trovato una via d’uscita, anche se tutt’altro che entusiasmante. Domani e nei prossimi giorni si presenterà una situazione analoga. Questa volta avremo davanti agli occhi la disperazione di donne, bambini e vecchi che in Europa cercano una via d’uscita.

Da - http://www.lastampa.it/2015/09/14/cultura/merkel-spieghi-per-uscire-dallimpasse-jUwlSCSWYvR88aGPAurlwK/pagina.html
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« Risposta #116 inserito:: Marzo 10, 2016, 06:15:01 pm »

La pericolosa scommessa della Merkel

09/03/2016
Gian Enrico Rusconi

In una Europa divisa, confusa e inconcludente di fronte alla questione dei migranti, la Germania di Angela Merkel è determinata a imporre la sua linea di intesa con la Turchia - anche a prezzo maggiorato. A costo di sfidare ostilità esterne e interne e anche di innescare situazioni drammatiche come la chiusura dei confini decisa ieri da Slovenia e Serbia. È una nuova prova per l’egemonia tedesca, di cui si è tanto parlato negli anni scorsi con accenti controversi. Ma ora si gioca su un terreno inatteso dove la Germania si è mostrata estremamente vulnerabile. 

La situazione è difficile. La strategia della cancelliera non è dettata semplicemente dall’essersi cacciata in un vicolo cieco, come dicono i suoi avversari. Risponde ad un calcolo che segue un preciso ordine di priorità, all’interno e all’esterno. Con l’interruzione o quantomeno il contenimento del flusso dei migranti, garantito dagli accordi con la Turchia, fermo restando il principio dell’accoglienza per gli aventi diritto d’asilo, Angela Merkel mira a riguadagnare i livelli di popolarità pericolosamente persi nei mesi scorsi. Non sarebbe la prima volta nei lunghi anni del suo cancellierato che interagisce attivamente con il sentire della gente comune. 

Così era sembrato del resto anche nell’agosto scorso quando ha spalancato le porte ai migranti/ profughi/ richiedenti asilo raccogliendo a prima vista un grande consenso. In seguito sono arrivati i ripensamenti, i pentimenti, i disinganni sino al grave episodio della notte di San Silvestro a Colonia percepito da molti tedeschi e dalla cancelliera stessa come una sorta di «tradimento morale» da parte dei rifugiati (o quantomeno da una parte di essi). Ma anche davanti al successivo drammatico deterioramento della situazione lungo le linee di fuga di massa dei migranti nei Balcani e nel centro d’Europa, Angela Merkel ha tenuto fermo alle sue convinzioni. Da qui è nata l’idea dell’intesa con la Turchia, accettata con riluttanza da Bruxelles. Subito si è rivelata una prospettiva carica di incognite. All’interno, la cancelliera deve ora trovare le parole giuste per convincere e tranquillizzare i semplici cittadini, che le stanno a cuore più e prima ancora degli equilibri di partito.

Per difendere la sua politica non manca di usare argomenti che puntano sull’ orgoglio di «essere tedeschi che sanno fare cose grandi anche quando sembrano impossibili». E’ il suo modo di essere «populista», per contrastare gli slogan nazionalisti dell’estrema destra euroscettica di Alternative für Deutschland (Afd) che nelle elezioni comunali in Assia ha raggiunto il 13,2 per cento, diventando la terza forza politica. Ma decisivi saranno soprattutto i risultati dell’importante appuntamento di domenica prossima, quando si voterà in tre Länder: Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt. Saranno certamente un verdetto su Angela Merkel. Ma è difficile dire in che misura quei risultati saranno interpretabili come un giudizio specifico sugli accordi con la Turchia. 

Il costo finanziario dell’operazione turca appare sopportabile soltanto se ad esso si accompagna la ricostituzione di un affidabile confine esterno dell’Unione. E quindi si cancellino i vergognosi muri di reticolato interni, specialmente in quella che era la mitica Mitteleuropea. 

Ancora una volta - sia pure in dimensioni minori - la vicenda tedesca si incrocia e diventa storia europea. Ancora una volta la Germania merkeliana si presenta come «nazione di riferimento».

A questo proposito è interessante osservare il comportamento della cancelliera in questi giorni. Assai meno visibile, meno centrale e meno sorridente che nei tradizionali meeting europei, Angela Merkel è intensamente impegnata a contattare direttamente i singoli esponenti politici, quasi a convincerli uno per uno. 

Vedremo nei prossimi giorni sino a che punto l’aggravio dell’impegno finanziario con la Turchia sarà un ostacolo insormontabile o ancora trattabile. Vedremo se sarà il vincolo principale o se verranno alla luce gli altri seri problemi di ordine etico e giuridico, connessi ai comportamenti del governo di Ankara a cominciare dalla scandalosa e inaccettabile restrizione, se non addirittura abolizione della libertà di stampa. Di fronte a queste e altre questioni però non sembra che l’Unione europea sia in grado di presentare una linea chiara, univoca e condivisa. Sarebbe deplorevole se ogni Stato tirasse fuori le sue richieste, le sue obiezioni, se non addirittura i suoi veti - in ordine sparso. Ma soprattutto, come si comporterà la Germania che in questa partita mette in gioco molto di più della tenuta del suo governo? Sarebbe estremamente pericoloso per la tenuta stessa dell’Unione se la Germania dovesse trovarsi isolata o quasi, circondata dal malumore degli altri Stati. Ma lo sarebbe anche se riuscisse a far passare la sua linea a costo di cattivi patteggiamenti e compromessi che lascerebbero tutti insoddisfatti. Spero che i politici europei siano consapevoli della gravità delle decisioni che dovranno prendere nelle prossime settimane. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/03/09/cultura/opinioni/editoriali/la-pericolosa-scommessa-della-merkel-z1kX9foVIPGmVkjfhHlsnN/pagina.html
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« Risposta #117 inserito:: Settembre 25, 2017, 11:11:36 am »

I tre allarmi che arrivano da Berlino

Pubblicato il 25/09/2017
GIAN ENRICO RUSCONI

Inatteso ma inconsciamente temuto, l’esito delle elezioni tedesche ha mutato drammaticamente il quadro della politica tedesca e indirettamente quello europeo. Tre sono i punti critici.
 
Berlino ha perso la sua stabilità politica, a dispetto della conferma di Angela Merkel. La catastrofica sconfitta della Spd (la peggiore della sua storia) è un segnale d’allarme per l’intera sinistra europea, sotto qualunque denominazione essa si presenti. Segna forse la fine del socialismo democratico nella sua secolare versione classica? Infine il successo di Alternative für Deutschland invita a considerare più da vicino le motivazioni dei cosiddetti populisti, al di là delle loro pulsioni razziste.

Angela Merkel è davanti alla sua prova più difficile. Il suo governo dovrà fare i conti con una doppia opposizione, decisa a farsi sentire. Una anti-europea, anti-immigrazione, latentemente razzista; l’altra pro-europea, tendenzialmente aperta all’integrazione, determinata a correggere energicamente gli squilibri sociali interni (socialdemocrazia e Linke). 
 
Ma non meno eterogenei sono i due possibili alleati della Cdu nella nuova coalizione (liberali e verdi). Tutti con la voglia di non farsi fagocitare dalla notoria abilità della cancelliera a stremare i propri alleati. 
 
Stavolta Angela Merkel sarà sola più che mai. Nel suo sobrio commento dopo l’esito elettorale ha fatto due affermazioni molto significative. Ha detto che occorre un controllo più severo degli immigrati privi di requisiti per restare e ha parlato della necessità che «ritornino nella Cdu» gli elettori che se ne sono andati. E’ una autocritica implicita, che risponde quasi letteralmente alla dichiarazione, fatta poco prima da uno dei leader dell’AfD: «Ci riprenderemo il nostro popolo». La posta in gioco dei prossimi mesi e anni sarà la rincorsa a difendere una forte identità nazionale tedesca, attraverso il semplice, ma estremamente evocativo, concetto di Volk/popolo. Un tema che ha potenti capacità suggestive per l’anima tedesca. 
 
Ma le elezioni hanno seriamente pregiudicato lo status di «egemone» della Germania accettato come ovvio sino all’altro ieri. Si fa non solo più realistica, ma necessaria la convergenza con la Francia per una informale guida comune della Unione europea. I vaghi progetti sinora presentati hanno acquistato una urgenza improrogabile. Si apre un nuovo capitolo della storia europea.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/25/cultura/opinioni/editoriali/i-tre-allarmi-che-arrivano-da-berlino-iIA1a4gDwF9VVg0eUzn6LM/pagina.html
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