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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 63211 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:15:14 am »

5/11/2009

Crocifisso braccio di ferro inutile
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Il crocifisso è un pezzo d’arredamento obbligatorio dell’aula scolastica, come la carta geografica d’Italia, la fotografia del Presidente o il busto di Cavour? Oppure è uno specifico segno religioso, diventato troppo potente e problematico per essere ridotto alla «tradizione nazionale degli italiani»? Di questi italiani che non hanno più idea di che cosa significhi redenzione, salvezza, peccato ma in compenso strapazzano «le radici cristiane»? I clericali si illudono se ritengono che lo spazio pubblico, che continuano ad evocare come legittimo luogo di espressione della religione, si mantiene con una dubbia difesa giuridica della presenza del crocifisso in aula. Per questo la sentenza della Corte europea di Strasburgo suscita le solite furibonde discussioni, anziché mettere in moto un confronto ragionato di posizioni. E comportamenti coerenti. In termini giuridici la sentenza di Strasburgo è ineccepibile quando parla del «diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e con il diritto dei bambini alla libertà di religione». E’ un principio base di tutte le Costituzioni democratiche. Ma - si obietta - è esattamente quello che affermano anche i genitori cattolici che sostengono la necessità di esporre il crocifisso. In più per essi «la libertà di religione» comprende la manifestazione pubblica della loro fede, dei suoi segni e simboli. Scuola compresa. Il guaio è che ad essi non importa se questa esigenza entra in collisione con il principio su cui si fonda. E negano ad altri lo stesso diritto. Qui scatta un altro riflesso: il principio maggioritario, per cui l’esigenza dei dissenzienti o dei pochi rompiscatole (spesso considerati stravaganti o eccentrici) non viene riconosciuta o viene banalizzata.

Questo conflitto investe in profondità convinzioni ed emozioni. Ma non è una contrapposizione di valori a disvalori o assenza di valori - come pensano i clericali e gli agnostici devoti in politica. E’ importante insistere su questo punto se vogliamo andare alla sostanza del problema prima di vederlo tradotto in termini giuridici. Va respinta con energia l’accusa che chi (non credente o diversamente credente) vorrebbe rimuovere dallo spazio pubblico scolastico il segno della fede cristiana è una persona intollerante, insofferente, addirittura carica di astio contro la religione cristiana. Cristianofobica, si dice ora. Questa affermazione dovrebbe essere respinta per primi dai credenti seri. Qualcuno lo fa, ma troppo sommessamente e viene subito zittito come amico dei laicisti.

Lo stesso vale per l’accusa - su cui si insiste volentieri oggi - di rinnegare la tradizione popolare nazionale. Qualcuno non esita a parlare del crocifisso come di una componente simbolica dell’italianità. Il fondo della contraddizione è toccato dai leghisti che da una parte contestano e sbeffeggiano l’identità nazionale, e dall’altro difendono il crocifisso nelle scuole come simbolo intoccabile di tale identità.

Gli interrogativi di fondo sono due: il crocifisso è un segno religioso forte, specifico, storicamente e teologicamente inconfondibile (addirittura incompatibile) con altri? Oppure è un’immagine culturale, universale - di umanità sofferente, di amore universale? O addirittura è semplicemente uno straordinario motivo di creatività artistica e culturale di cui il nostro Paese è testimonianza eccezionale?

Se è vero il primo caso, vale il principio della libertà di coscienza. Ed è pertanto ridicola la protesta che la sentenza di Strasburgo miri a colpire una sensibilità preziosamente italiana. In realtà anni fa la stessa questione è stata affrontata e giuridicamente risolta nello stesso senso nella moderata e cristiana Germania, con un esemplare confronto tra la Corte costituzionale federale e la Corte regionale della Baviera. Se è vero il secondo caso, non si capisce perché - magari in nome del sempre declamato pluralismo dei valori - non si riconosca ad altre tradizioni culturali di essere portatrici - a pieno titolo - di umanità, tolleranza, solidarietà ecc.

A quanto dicono alcune rilevazioni, pare che alla maggioranza degli italiani ripugni l’idea di mettersi materialmente a staccare i crocifissi dalle aule cui ci si è abituati «tradizionalmente» appunto. Ma non credo che il punto sia iniziare un braccio di ferro tra autorità scolastiche, associazioni di genitori, gruppi di pressione vari per togliere o lasciare i crocifissi. La vera novità è non eludere il problema, parlarne in modo responsabile e pacato tra corpo docente, genitori e alunni stessi, soprattutto quelli delle classe superiori. Forse si farà la scoperta che i ragazzi sono più maturi di quanto non si sospetti. E soprattutto si smetta di «demonizzare» (è il caso di dirlo, in tempi di dubbi anche sul diavolo?) chi solleva problemi di civiltà giuridica - e non solo.

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 07, 2009, 07:50:36 pm »

4/12/2009

La finzione della società civile
   
GIAN ENRICO RUSCONI


In Italia esiste ancora una classe dirigente? E’ l’interrogativo che viene spontaneo osservando la paralizzante litigiosità della politica, il lamento continuo da parte di tutti i gruppi più o meno organizzati, in una società che tira avanti con alti e bassi, aspettandosi dalla politica soltanto aiuti particolari, facilitazioni, deroghe anziché un disegno complessivo di carattere generale.

Naturalmente questa constatazione provoca l’irritata accusa di disfattismo da parte dei politici della maggioranza che sono convinti di dirigere il Paese. Anzi, additano gli avversari e gli osservatori critici come i veri colpevoli della mancata trasmissione della loro sicura guida generale. Denunciano il sistematico ostruzionismo al loro ruolo dirigente del Paese.

Ma proprio questo è il punto di partenza della nostra riflessione. Come può esistere e funzionare una classe dirigente in un clima di reciproca delegittimazione e disconoscimento di autorevolezza?

Si crea un circolo vizioso che impedisce il consolidarsi di una classe la cui capacità di orientamento generale interessa e deve interessare la società nel suo complesso, prima ancora che la politica in senso tecnico.

Alla classe dirigente infatti appartengono i responsabili dell’economia e della finanza, delle organizzazioni del lavoro, i responsabili del sistema educativo, i gerenti del complesso mediatico e i soggetti culturali in tutte le loro espressioni (quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali); nel nostro Paese dovremmo aggiungere anche gli esponenti della Chiesa, cui di fatto è demandata l’etica pubblica e in questi ultimi tempi (di crocifissi e minareti) il ruolo surrogatorio di religione civile nazionale.

Che fine ha fatto, in questo contesto, il ceto politico in senso stretto cui compete il ruolo di «classe dirigente» in modo specifico in quanto dispone della competenza legislativa e di governo che dovrebbe guidare l’intera comunità nazionale?

Il ceto politico italiano offre una impressione singolare: da un lato fa quadrato attorno a quello che rimane il suo leader insostituibile (nonostante le sempre più insidiose messe in discussione); sembra impegnato a tempo pieno a risolvere i problemi del Cavaliere che sono dichiarati prioritari per l’intera comunità nazionale. Dall’altro lato è esposto a tutte le strattonate che provengono dalla società più o meno organizzata. A questo riguardo il ceto politico dà l’impressione di essere soltanto reattivo alle pressioni esterne.

Ma in questa situazione che cosa fanno gli altri soggetti che sopra abbiamo ricordato come componenti legittime della classe dirigente nazionale (agenzie della comunicazione e della cultura, sindacati, confindustria, sistema educativo inteso non già come una dépendance del ministero ma come luogo autonomo di formazione delle generazioni future)? Non parlo della loro azione di promozione degli interessi da loro legittimamente rappresentati, che sono parte integrante dell’interesse generale. Non parlo dei generosi e frustranti sforzi di tenere testa ad una situazione sempre più precaria - come è il caso della scuola. Mi riferisco ad una grande idea orientativa di carattere generale che dovrebbe caratterizzare «una classe dirigente» degna di questo nome. Nessuno degli attori sopra ricordati ha idee di grande respiro, tanto meno ha la determinazione di attuarle. Ognuno sembra perseguire obiettivi limitati, adattati e adattabili allo stato presente. E’ questa una classe dirigente?

Il discorso torna alla politica. Non si tratta certo di aspettarsi dalla politica un esercizio autoritativo del suo ruolo che sarebbe incompatibile con una democrazia. Ma un governo e le forze politiche da esso espresse possono esercitare un ruolo dirigente anche in presenza di un’opposizione politica forte e capace. Anzi un Paese ha una classe dirigente autentica quando chi è al governo realizza i suoi programmi in dialettica con l’opposizione. Anche nel nostro Paese, senza bisogno di idealizzare il passato, ci furono momenti in cui l’antagonismo tra le forze politiche (Democrazia cristiana in tutte le sue combinazioni e sinistra comunista) ha creato dinamismo politico-sociale e culturale anziché paralisi. Ha espresso una classe dirigente nel suo insieme.

Perché oggi - ovviamente in una situazione inconfrontabile con il passato - questa prospettiva appare impraticabile? E’ davvero Berlusconi il grande ostacolo insuperabile? Perché questo fenomeno ha un effetto tanto paralizzante anche al di fuori della ristretta logica politico-partitica?

Il berlusconismo ha inciso in modo irreversibile sulla mutazione della democrazia italiana. Ha creato un nuovo ceto politico che tuttavia non pare in grado di far funzionare in modo democraticamente virtuoso i contrasti di visione e di comportamento che pure sono caratteristici della democrazia. Abbiamo insomma un ceto politico che non sa essere «dirigente» nel senso atteso.

Ma rimane da chiederci perché mai gli altri soggetti sociali che di fatto hanno ruoli di responsabilità nella comunità nazionale stentano ad assumersi essi stessi questo ruolo con iniziative pubbliche e mobilitazioni culturali - senza naturalmente supplire con questo il mestiere della politica.

O è il segno che la tanto idealizzata vitalità e autonomia della società civile è diventata una finzione?

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 11, 2010, 10:04:00 am »

11/1/2010

Merkel cancelliera indecisa
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Che cosa fa la Cancelliera? A Berlino le voci di critica contro Angela Merkel si fanno sempre più alte e insistenti. Provengono dall’interno della litigiosa coalizione di governo cristiano-democratico e liberale e dall’esterno da parte delle Chiese. È messa in discussione la sua capacità di decidere nel ruolo di cancelliere, cui la Costituzione assegna espressamente «la competenza di dettare le linee-guida della politica e di portarne la responsabilità».

Siamo davanti a una inedita polemica anche di carattere istituzionale. Questo tipo di critica riveste grande interesse per osservatori come noi, che in Italia ci apprestiamo a una ennesima stagione di confronto sulle grandi regole di governo. Guardiamo con attenzione quanto accade al modello tedesco, che spesso è preso come buon esempio di governo che sa decidere in un sistema parlamentare senza prender la strada del presidenzialismo.

Cominciamo dalle critiche di merito fatte alla Merkel per la sua indecisione politica in tema di riduzione delle tasse, di politiche per la famiglia e in generale di cauta correzione dello Stato sociale. In realtà questa indecisione riflette i contrasti e le contraddizioni interne alla sua stessa coalizione, che la cancelliera sembra non saper governare.

Liberali e cristiano-democratici hanno vinto le elezioni dell’autunno scorso a seguito di una campagna elettorale aggressiva ma equivoca. Soprattutto i liberali si sono affermati elettoralmente con una promessa semplice e popolare/populista: abbassare le tasse subito per stimolare la crescita, anche a costo di una ulteriore riduzione della spesa sociale. La ripresa economica avrebbe rimesso tutto a posto.

I cristiano-democratici (e la Merkel stessa) non erano affatto convinti di questa semplicistica ricetta, davanti al peggioramento del mercato del lavoro e al progressivo deterioramento delle condizioni dello Stato sociale, che rimane uno dei successi storici che qualificano la Germania postbellica. Oltretutto la grave crisi finanziaria mondiale è tutt’altro che risolta.

Ma pur di vincere e liberarsi della socialdemocrazia, i democristiani hanno fatto finta di nulla e si sono affidati al carisma personale della Merkel, accumulato nella gestione della Grande Coalizione con i socialdemocratici.

Questo è il paradosso: la Merkel governava meglio con «gli avversari» socialisti di ieri che con «gli amici» liberali di oggi. Sino a ieri molti democristiani si lamentavano che la Cancelliera fosse troppo di sinistra. Oggi dichiarano che la vittoria elettorale è stato «un colpo di fortuna» dovuto allo stile «presidiale» (sic) della Cancelliera a tutto svantaggio del partito democristiano che è rimasto privo di un chiaro e forte profilo politico. In altre parole la Merkel non avrebbe promosso il partito (Cdu) di cui è presidente. Contemporaneamente però i liberali accusano i cristiano-democratici di non mantenere il patto di coalizione da loro sottoscritto, che prevedeva appunto la riduzione delle tasse. E ne chiedono conto alla Cancelliera a gran voce.

A parte altri punti controversi (impegno militare in Afghanistan, ingresso della Turchia nella Unione europea) anche il tema della famiglia è oggetto di un inatteso e pesante intervento della Chiesa cattolica. «La politica perde la bussola se fa credere alla gente che si può avere tutto allo stesso tempo: la carriera, buoni stipendi e i figli» - ha dichiarato l’autorevole arcivescovo di Monaco di Baviera. Tiriamo un bilancio. Parlavo sopra della singolare accusa rivolta retrospettivamente alla Merkel dai suoi amici di partito di avere condotto la campagna elettorale vincente con stile presidenziale. È vero. Molti osservatori esterni lo avevano subito notato. Si era creata l’impressione che si stesse per scegliere un presidente alla francese piuttosto che un partito guidato da una personalità che - a norma della Costituzione - era pronta ad assumere il ruolo di cancelliere (con le sue prerogative di competenza direttiva) dopo la piena approvazione del Parlamento. Ma i cristiano-democratici, consapevoli della debolezza del proprio partito come tale, per vincere si sono adattati a questo gioco pseudo-presidenziale, potendo disporre di una Merkel che pure notoriamente non era e non è amata dalla grande nomenclatura democristiana.

Adesso il nodo è venuto al pettine. La Merkel è stata un’ottima Cancelliera nella Grande Coalizione perché, anche grazie al suo carattere paziente ma fermo, poteva contare su una sostanziale cooperazione dei due grandi partiti popolari «condannati a stare insieme». Le sue decisioni dovevano essere accettate. Adesso i «partiti della libertà» che formano la nuova coalizione sono ipercompetitivi e chiedono alla cancelliera che decida a favore dell’uno contro l’altro. La Merkel non ha ancora trovato la forza o gli argomenti per dire che le sue decisioni possono o devono per forza scontentare l’uno o l’altro. O entrambi. Ma solo così può governare. La formula del cancellierato non funziona presidenzialisticamente con l’appello alla legittimazione popolare al di là dei partiti, ma sulla convinta e ragionevole delega dell’autorità decisionale dai partiti parlamentari al premier. Che a sua volta deve possedere e conquistare autorevolezza nella gestione della coalizione. È un circolo virtuoso difficile ma l’unico che garantisce autentica governabilità. Torniamo a Berlino. Adesso tutti chiedono una «nuova partenza» della politica. La Cancelliera pur vedendo i propri indici di popolarità in discesa, sinora è rimasta silenziosa. Ma non potrà esimersi dal prendere posizione in alcuni importanti appuntamenti istituzionali e partitici della settimana entrante. Sarà la sua prova decisiva.

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:40:05 am »

22/1/2010

Lo spettacolo mal riuscito della politica
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Sulla scena politica si profila uno scontro istituzionale e costituzionale di portata decisiva. Ma la società civile è assai meno coinvolta di quanto non appaia dall’enfasi, dal fragore, dalla cacofonia della stampa e del circuito mediatico che è tutt’uno con la politica. La società civile precipita lentamente nella depressione e nell’attendismo.

In quale grande nazione democratica il premier può permettersi di dire che la giustizia del Paese, che governa, è un plotone d’esecuzione puntato su di lui - senza che si verifichi un soprassalto di indignazione? Invece da noi si reagisce con sarcasmo, con un’alzata di spalle, con cinismo. E molti danno ragione al premier.

Vista dall’esterno, la vita politica italiana si muove in tre spazi che hanno un rapporto problematico tra di loro. Per usare la metafora dell’opera teatrale, c’è la scena su cui si rappresenta o si svolge la trama della politica in senso stretto - governo del premier, partiti politici, istituzioni di garanzia costituzionale (Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale). Poi c’è la sala del pubblico che talvolta fischia, talvolta applaude identificandosi con gli attori in scena. Ma da qualche tempo ormai sta a guardare perplesso, diffidente, distratto.

Nell’opera musicale tra la scena e il pubblico c’è lo spazio intermedio dell’orchestra («la fossa dell’orchestra») che nel nostro caso è occupato dal sistema mediatico di stampa e televisione che accompagna e amplifica la voce dei protagonisti ma anche e soprattutto dà o dovrebbe dar voce al pubblico.

Naturalmente qui la metafora funziona poco, perché soltanto qualche audace opera d’avanguardia richiede un’attiva interazione tra scena e pubblico - che quasi sempre finisce in una bagarre. Ma la politica italiana oggi è proprio questo: uno straordinario spettacolo interattivo mal riuscito. Sulla scena c’è zuffa continua, nella fossa dell’orchestra trionfa la cacofonia, in sala crescono l’indifferenza e la depressione.

Ma lasciamo le metafore per concentrarci sulla scena politica. È evidente che il governo del premier - chiamiamolo con il suo nome - ha accantonato ogni ipotesi di intesa non solo con l’opposizione ma nei confronti delle istituzioni della Repubblica che non esita a definire pubblicamente ostili - prima fra tutte la magistratura. Questo dichiarato stato di guerra fredda è possibile per due ragioni. Da un lato, la stabilizzazione di un ceto politico devoto e dipendente da Berlusconi al di là di ogni aspettativa. Dall’altro, l’impotenza, anch’essa al di là di ogni aspettativa, dell’opposizione politica. Solo a partire da questi due dati di fatto si può capire l’attuale situazione.

Oggi Berlusconi è in grado di compattare attorno a sé, nella sua strategia di autodifesa personale e nei suoi progetti politici, un ceto politico (maggioritario in termini aritmetici) che identifica il proprio destino politico con quello del Cavaliere. È un fatto oggettivamente straordinario che non ha trovato ancora una spiegazione convincente. Questo ceto politico (che è un mix di vecchio e di nuovo) è convinto che la sua fortuna politica dipenda letteralmente e totalmente dalla sopravvivenza politica di Berlusconi. Sin tanto è convinto di questo, seguirà il Cavaliere nella sua guerra contro la magistratura e contro l’intera struttura istituzionale della Repubblica se e quando ostacola i suoi progetti.

Ma quello che appare un punto di forza della maggioranza deve diventare il punto di attacco dell’opposizione. Il fuoco del confronto, del dibattito, della dialettica politica va spostato dall’ossessiva concentrazione sulle parole, sulle mosse, sui tic del Cavaliere e va riorientato verso il gran numero dei politici che lo seguono. Sono loro che vanno cercati e sfidati nel confronto sui temi della giustizia e del presidenzialismo. Sanno articolare ragioni e argomenti o sono soltanto ripetitori del Cavaliere?

Al momento nessuno sa quale esito avrà lo scontro sulla giustizia che arriverà a toccare i due organi di garanzia per eccellenza del nostro sistema democratico: la Corte Costituzionale e la Presidenza della Repubblica. Il pessimismo sulla condizione spirituale della nazione (mi si perdoni questa espressione obsoleta nella nostra età volgare) non si spinge al punto da temere o ipotizzare qualcosa di irreparabile a questi livelli. Teniamo fermo l’ottimismo della volontà. Credo che la sfida più insidiosa si presenterà quando sul tavolo della politica compariranno i progetti sul rafforzamento delle competenze dell’esecutivo e le varie ipotesi di presidenzialismo. Occorre arrivare preparati, informati e competenti a quell’appuntamento. È bene che l’opposizione antiberlusconiana si prepari sin da ora. Sarebbe sbagliato e tragico coltivare un atteggiamento negativo e diffidente verso le riforme dell’esecutivo. Sarebbe intelligente giocare d’anticipo.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Febbraio 23, 2010, 10:46:31 am »

23/2/2010

Germania in salsa italiana
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Come sta la Germania? Lo sciopero dei piloti Lufthansa, che stava penalizzando fortemente il traffico aereo europeo e internazionale, ha fatto temere che «ormai anche i tedeschi» si comportino nei conflitti di lavoro come gli altri europei. Senza preoccuparsi cioè dei costi e dei disagi scaricati sulla collettività, in un momento economicamente difficile. Ma la sospensione dello sciopero stesso, annunciata ieri sera, ha confermato che le tradizionali procedure sindacali funzionano ancora.

In realtà la moderazione nel conflitto sociale, che da decenni era una caratteristica della Germania, sta tramontando. Nel caso specifico della Lufthansa il problema è complicato dal fatto che l’imponente compagnia aerea tedesca gestisce parecchie altre compagnie subalterne, sparse sull’intero continente. Nascono complesse questioni di trattamento di un personale molto diversificato e di operatività delle rotte. E’ un quasi-monopolio che governa strumentalmente differenze regionali e nazionali.

In questa situazione il corpo professionale dei piloti si sente colpito in modo particolare e reagisce duramente, incurante della proteste che si alzano da ogni parte. Il tutto accade in una Germania già in difficoltà per altre ragioni.

In realtà ci sono parecchi segni di un cambiamento del «modello tedesco» - in senso negativo. Da fenomeni di corruzione a sorprendenti défaillances nel funzionamento dei servizi pubblici. Nel frattempo la politica si trova in uno stallo. Da qui l’interrogativo su «come sta» davvero la Germania.

Davanti alla scoperta di episodi di corruzione negli appalti di opere pubbliche e di una massiccia evasione fiscale tramite esportazione illegale di capitali (in Svizzera innanzitutto) è difficile dire se si tratti per la Germania di una patologia normale, per così dire, tipica per una qualunque società avanzata. Oppure segnala un salto di qualità pericoloso, «all’italiana» - appunto - come si dice con brutale franchezza. Ma non è proprio il caso di parlare semplicisticamente di omologazione al sistema italiano perché nel frattempo il nostro sistema sta prendendo strade avventurose difficilmente imitabili.

Di fronte a questi fenomeni la reazione dell’opinione pubblica tedesca è fermissima. A nessuno viene in mente di indagare sull’operato dei giudici, per vedere se sono politicizzati o se rispondono alla fantomatica «giustizia ad orologeria» di cui si parla con disinvoltura a casa nostra. Eppure nel caso della scoperta della massiccia esportazione illegale di capitale lo Stato tedesco ha usato metodi eticamente o legalmente dubbi, utilizzando informatori prezzolati, forse addirittura ricattatori.

Si tratta di un problema serio e controverso. Si sono sentite valutazioni differenti tra i partiti e all’interno dei partiti. Ma non si è mai percepita quella sorta di complice comprensione per la fuga dei capitali che talvolta traspare nelle parole e negli atteggiamenti di politici e funzionari nostrani.

Discorso diverso vale per le disfunzioni e le inefficienze che si sono improvvisamente manifestate nei servizi pubblici. Vengono ritirati urgentemente treni ad alta velocità per interventi tecnici strutturali, con sensibili conseguenze negative sulla normalità dei servizi. La metropolitana di superficie berlinese (S-Bahn) da mesi incappa in disfunzioni che incidono pesantemente sulla normale circolazione dei mezzi pubblici della metropoli.

Da ultimo va menzionato l’incredibile stato di abbandono in cui è rimasta per alcuni giorni la città di Berlino dopo un’abbondante nevicata e la seguente formazione di ghiaccio. Ne sono derivati non tanto il prevedibile rallentamento del traffico automobilistico ma gravi difficoltà per i normali cittadini che per alcuni giorni hanno dovuto avventurarsi su marciapiedi impraticabili o ghiacciati a proprio rischio e pericolo.

«Tutto qui?», si dirà. Certo. In effetti la popolazione berlinese ha reagito con pazienza e un normale mugugno, ma molti si sono chiesti se questo episodio più che eroica rassegnazione non abbia segnalato una sorprendente caduta di efficienza dell’amministrazione. Un caso isolato?

Veniamo alla politica. Rimane l’impressione di una continua impasse della coalizione nero-gialla (democristiani e liberali). A dispetto delle enfatiche promesse di rinnovamento con le quali si è affermata nelle elezioni del settembre scorso, non riesce a produrre nulla di incisivo. Nel governo rimangono tensioni e litigiosità. La promessa di una sensibile riduzione delle tasse rimane una promessa. In compenso una sentenza della Corte Costituzionale costringe ad intervenire a sostegno dei minori nelle famiglie disagiate. In altre parole, un aumento della spesa sociale, che si sarebbe voluto gradualmente alleggerire.

La cancelliera Angela Merkel non ha ancora trovato lo slancio necessario per correggere l’immagine di indecisione e irresolutezza, di cui abbiamo parlato settimane fa su questo giornale. A meno che proprio la sua cautela e prudenza nel muoversi interpreti il sentimento dominante della società tedesca ripiegata immobilisticamente su se stessa e sui suoi problemi. Insomma la Germania, nonostante il buon funzionamento delle sue istituzioni correnti, è diventato un Paese difficile da guidare energicamente in avanti.

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« Risposta #35 inserito:: Marzo 05, 2010, 10:13:18 am »

5/3/2010

La soluzione non dipende dal Quirinale

GIAN ENRICO RUSCONI


È l’ora della politica, quella vera. Quella che decide nei casi d'emergenza. O è l'ora dell'ennesimo aggiustamento che non va alla radice del problema?

L'ipotesi di elezioni regionali profondamente alterate, per l'impossibilità di milioni di cittadini di esprimersi nelle loro scelte, non è il risultato di banali contrattempi ma di dilettantismo e di indecenza politica inaccettabili.

Che la colpa sia di rappresentanti di partiti che sono al governo, pone il governo stesso in una posizione estremamente imbarazzante. Se è suo dovere intervenire a sanare una situazione che oggettivamente danneggia l'intera comunità politica, non può far finta che il danno non sia stato procurato dai suoi sostenitori. Per non parlare del discredito in cui è precipitato, per le scomposte reazioni di qualche suo rappresentante che invocava una protesta «antiburocratica» di piazza.

La Magistratura ordinaria ha fatto il suo dovere, con scrupolo. Ma sotto la pressione del tempo, difficilmente la procedura dei ricorsi - sino al Consiglio di Stato - avrebbe consentito tempestivamente l'eventuale disinnesco della eccezionale situazione politica venutasi a creare. Forse neppure una Corte Costituzionale funzionante come quella tedesca, sarebbe stata in grado di intervenire - come è suo costume - in modo rapido, autorevole, decisivo.

Da noi, invece, impropriamente ci si rivolge alla Presidenza della Repubblica come se fosse un sostituto politico della Corte Costituzionale. Il discorso sull'aumento smisurato delle aspettative verso il Quirinale ci porterebbe troppo lontano. Ma prima o poi dovremo farlo.

Rimaniamo all'emergenza di oggi. Alla fine essa approda sul tavolo del governo, ma - non dimentichiamolo - nel nostro Paese secondo la nostra Costituzione l'istanza politica sovrana è il Parlamento. E' lì che ci aspettiamo la risposta politica vera a quanto è accaduto, non l'ennesima baruffa sull'ennesimo decreto.

In realtà in questa drammatica congiuntura paghiamo lo scotto dello scadimento di qualità della nostra classe politica (risparmiamoci il doveroso elenco delle eccezioni). Quando da tempo scriviamo che non abbiamo una classe politica dirigente degna di questo nome, non facciamo una esercitazione accademica. Domani o dopodomani ne avremo la prova.

Facciamo un sogno: che il governo chieda scusa pubblicamente ai cittadini; che l'opposizione risponda con un significativo silenzio; che la Camera tutta riconosca autocriticamente che la vita politica italiana da troppo tempo non è all'altezza delle aspettative dei cittadini; che tutte le parti politiche promettano di comportarsi lealmente e consensualmente. Purtroppo è solo un sogno.

In queste ore se a sinistra si nota una grande discrezione - non è chiaro se per senso di responsabilità o per incertezza su come comportarsi - nel centrodestra regna confusione completa. A parte il tirarsi fuori polemico e sarcastico degli uomini della Lega, il berlusconismo affronta il suo momento peggiore perché inatteso nella forma e nella sostanza. Ma indirettamente paga il suo vizio di fondo. Infatti il leader factotum che deve pensare a tutto ha bisogno di esecutori, tecnici, collaboratori, sostenitori - non di soggetti politici che interagiscono democraticamente con lui. Le istituzioni e le procedure poi appaiono fastidiose, fanno perdere tempo. Quando non sono considerate per principio strumenti ostili in mano agli avversari. Come tentano ancora di dire alcuni rappresentanti del centrodestra.

E' probabile che il leader factotum in questo momento, dopo aver incrociato le dita affinché passi indenne la bufera, stia pensando di ricorrere alla tecnica politica più diretta che gli è cara: trasformare la prossima consultazione regionale in un plebiscito personale. Ma per fare questo ha bisogno non già di una classe politica ma di una compagnia di sostegno, fatta da uomini e da donne che gli fanno da coro. E di un apparato mediatico che per un malinteso scrupolo professionale ha rinunciato al suo ruolo e ha paura della sua ombra. Siamo daccapo.

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 12, 2010, 08:31:11 am »

12/3/2010

Il silenzio è il rimedio peggiore
   
GIAN ENRICO RUSCONI

Quello che sta accadendo nella Chiesa cattolica tedesca, dopo l'inattesa esplosione e l'apparente incontrollabilità dello scandalo della pedofilia e della violenza sui minori in alcuni istituti religiosi, è molto serio.

Con risonanze profonde e riflessi diretti in Vaticano, perché Papa Ratzinger reagirà tenendo conto di come si svilupperà il caso in Germania. Ci si aspetta una risposta non soltanto disciplinare ma anche e soprattutto di natura religiosa e teologica.

Mi spiego. Cardinali, ecclesiastici e difensori d'ufficio rispondono o reagiscono alla vergogna pubblica appellandosi a patologie psicologiche, a pedagogie sbagliate, ad esistenze umane infelici. Nessuna argomentazione religiosa.

Apparentemente è un sollievo per tutti poter dire che «la religione non c'entra», che il problema non è religioso ma pedagogico. Certo. Ma non è proprio la Chiesa a presentare se stessa come la vera ed unica educatrice affidabile? Specificatamente nella gestione della «sana sessualità»? Accompagnandola con le polemiche continue contro il modernismo laicista licenzioso e permissivo - soprattutto in tema di omosessualità?

Chiariamo subito un possibile equivoco: nessuno intende mettere sotto accusa o sotto sospetto le istituzioni educative dirette da religiosi come tali. Assolutamente no. Abbiamo troppo rispetto della Chiesa per non essere sinceramente dispiaciuti per quanto sta accadendo. Ma proprio per questo ci aspettiamo una reazione rigorosa e forte.

Invece in Germania accanto ad impressionanti confessioni pubbliche spontanee di alcuni educatori implicati, accanto a coraggiose autodenunce da parte di responsabili di istituti coinvolti, al massimo livello gerarchico si è sentita la voce irritata dell'arcivesovo di Ratisbona contro la ministra della Giustizia, che aveva lamentato la mancata collaborazione della Chiesa nel fare sistematicamente piena luce sugli episodi.

In Germania sembra profilarsi una certa tensione tra la Chiesa cattolica e lo Stato che si sente in dovere di rispondere ad un'opinione pubblica sconcertata, che ogni sera viene informata dai telegiornali (spesso come prima notizia) dell'ultima rivelazione di abusi su minori. Giustamente il governo non può rimanere indifferente quasi si trattasse di una questione che possa risolversi privatamente tra psicologi, avvocati e magistrati. Si è davanti ad una emergenza pubblica che esige la piena e leale collaborazione dell'istituzione ecclesiale. Si fanno così varie proposte di «tavole rotonde pubbliche», sulle quali tornerò più avanti.

Riprendendo la problematica generale, l'unico nesso evocato per ora - ad alto livello - per spiegare i comportamenti patologici di alcuni uomini di Chiesa è la questione del celibato. Nel mondo cattolico questo tema solleva notoriamente sempre molto rumore. Ma esso diventa davvero significativo e discriminante soltanto se si riconosce che le sue radici scendono in profondità nella visione religiosa e teologica cattolica tradizionale. Ciò che manca è una sorta di rivoluzione teologica in tema di sessualità, di cui non si vedono ancora i segni. Lo stesso vale per la richiesta che le donne abbiano finalmente un ruolo più significativo e riconosciuto nella Chiesa. Anche questo è vero. Ma sin tanto che non si rompe il tabù del sacerdozio femminile, la questione rimane irrisolta. Insomma gli scandali di oggi non sollevano semplicemente un problema di disciplina ecclesiastica ma la necessità di una revisione teologica radicale.

Ma qui urtiamo contro l'insuperata incapacità degli uomini di Chiesa di coniugare il dato religioso-teologico tradizionale con la (post) modernità. Avendo ossessivamente interpretato quest'ultima come quintessenza della licenza, del libertinismo, del laicismo, non hanno capito l'originale moralità che sta al fondo del moderno. E si ritrovano con le peggiori patologie in casa propria, nelle proprie istituzioni pedagogiche.

Nel mondo pluriconfessionale tedesco ci sono fortunatamente anche episodi di segno opposto. Alcune settimane fa la Presidentessa delle Chiese evangeliche, il vescovo-donna Margot Kaessmann, è incappata in un increscioso incidente. Con cattivo gusto da sagrestia la nostra stampa (anche quella che si ritiene laica) si è limitata a scrivere che la «papessa ubriaca» era stata beccata dalla polizia e costretta alle dimissioni. Da noi tutto è finito lì. In Germania invece per alcuni giorni il pubblico ha assistito sui giornali e nei grandi mezzi televisivi ad una straordinaria manifestazione di dignità, di senso di responsabilità e di altissima religiosità della donna-vescovo che ha considerato il suo errore incompatibile con il suo ruolo istituzionale. Molti hanno avuto la conferma paradossale che la Chiesa evangelica tedesca - matura anche per quanto riguarda la teologia della sessualità - meritava proprio quella donna al suo vertice.

Tornando alla questione degli scandali sui minori può darsi che nelle prossime settimane si arrivi a due tavole rotonde pubbliche. Una, proposta dalla ministra della Giustizia, dovrebbe essere riservata ai rappresentanti delle istituzioni coinvolte e alle vittime. Bisognerà parlare anche di risarcimenti. L'altra iniziativa promossa dalla ministra della Famiglia e da quella dell'Istruzione (e caldeggiata dalla stessa cancelliera Merkel) dovrebbe essere aperta anche alle associazioni dei genitori e avere come obiettivo la prevenzione degli abusi e l'aiuto psico-pedagogico alle vittime.

La strada della discussione pubblica aperta è la più giusta e coraggiosa. Ne aspettiamo gli esiti. Mentre da noi in Italia si tace.

da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Marzo 27, 2010, 04:53:53 pm »

27/3/2010

Ue, Germania ingrata

GIAN ENRICO RUSCONI


L’egemonia tedesca in Europa si conferma nel momento in cui non si dichiara apertamente come tale, ma minaccia oscuramente di ritirarsi dal gioco.

Gli europei devono decidersi. O criticano la Germania perché alla fine riesce sempre a imporre, con qualche compromesso, il suo punto di vista su questioni di interesse comunitario generale - esercitando un’egemonia di fatto. O chiedono alla Germania di assumersi essa stessa, con un sovraccarico di responsabilità, un ruolo di guida perché «in ogni sistema monetario di Stati, con cambi fissi come con moneta unica, ve ne deve essere uno che esercita funzione di leadership» (così scrive Luigi Spaventa su la Repubblica). Ma non si possono dire o chiedere contemporaneamente entrambe le cose.

La complessa costruzione dell’Unione Europea non doveva surrogare, con la sua autorevolezza collegiale, proprio una qualunque guida o egemonia nazionale? Ieri invece si è visto che la decisione compromissoria presa a Bruxelles, a proposito della Grecia, è stata presentata - senza pudore - come un accordo tra Germania e Francia. Anche se il ruolo di Sarkozy in questa circostanza è sembrato più quello di principe consorte della cancelliera Merkel.

Quanto sta accadendo in questi giorni porta alla luce un difetto di costruzione dell’Unione. O meglio, un difetto che si è creato gradualmente con l’ingresso di sempre nuovi membri, accolto con un misto di generosità e di calcolo opportunistico da parte dei vecchi membri fondatori.

La Germania è stata la protagonista principale di questo processo e dell’intera costruzione istituzionale europea. Adesso sembra pentita. Addirittura si mette in contrasto con la Bce (come ha bene analizzato su La Stampa di ieri Stefano Lepri).

Dopo anni, i tedeschi ricominciano a dire - senza pudore, anche in questo caso - che alla fine degli Anni Novanta hanno sacrificato il loro marco alla moneta comune europea. Come se il loro fosse stato un sacrificio puro e semplice. Hanno evidentemente dimenticato che cosa ha significato il 1989-90 per l’Europa intera. Adesso ripetono che di sacrifici non ne vogliono fare più. Questa è l’opinione corrente della gente comune quando si ipotizzano aiuti straordinari a membri dell’Unione indisciplinati e scorretti (come i greci e altri possibili Stati).

La cancelliera Merkel interpreta perfettamente, con il suo stile di severa padrona di casa, questa sentimento diffuso. Anche se non è chiaro se la grinta decisionista che mostra verso l’esterno non compensi la sua indecisione nella gestione quotidiana dei problemi interni. Certamente fa bene alla sua immagine pubblica. Qualche giornalista ha tirato fuori lo stagionato concetto di sapore bismarckiano di «Cancelliera di ferro».

A livello di Unione Europea non siamo davanti a una semplice controversia di natura tecnico-finanziaria, ma a un conflitto politico, tra i più seri degli ultimi anni. Tocca infatti i rapporti di forza e le competenze decisionali dell’istituzione comunitaria di fronte a quelle dei singoli Stati membri.

Se vogliamo usare la solita parola «crisi», mai come in questo caso il concetto di «crisi» ha ripreso il suo significato etimologico, originario, di urgenza di una «decisione» per uscire da una impasse paralizzante. Ma si tratta di una paralisi latente da tempo nelle istituzioni europee. La loro collegialità infatti è diventata una finzione. O, se vogliamo, ha coperto un equilibrio sempre più precario tra gli Stati «padroni» dei trattati costitutivi dell’Unione e la rivendicazione d’autonomia decisionale delle istituzioni di Bruxelles. Il tracollo finanziario greco ha fatto precipitare la situazione.

La Germania è sempre stata una convinta promotrice e sostenitrice dell’equilibrio appena descritto. In esso ha goduto di un peso specifico adeguato alla sua consistenza economica, finanziaria e politica. E non è mancato chi - come dicevamo all’inizio - dietro tale equilibrio vedeva in realtà una sottile egemonia tedesca.

Adesso sull’onda della crisi a Bruxelles si riparla di rilancio della politica economica comune. Dobbiamo crederci? Si devono reinventare regole nuove per affrontare situazioni impreviste o vanno semplicemente applicate seriamente e severamente le regole esistenti?

Le regole con cui si è costruita faticosamente e gradualmente l’Unione attraverso i suoi trattati non prevedevano i crolli finanziari di dimensioni planetarie, le bancarotte catastrofiche, i fraudolenti trucchi fiscali e finanziari dei mesi scorsi. Ma queste patologie potevano/dovevano essere evitate secondo le regole esistenti?

In realtà tutte le autorità competenti, comunitarie e nazionali, sono state prese in contropiede e hanno reagito affannosamente, in ordine sparso. La Germania in particolare si è accollata un pesantissimo onere finanziario per contenere la crisi delle proprie banche. Adesso, appesantita da un debito pubblico enorme, non sente affatto il dovere di intervenire - in nome della solidarietà europea - a salvare Stati che sono stati imprevidenti, incapaci, incompetenti. Se i governi nazionali hanno sbagliato, devono pagare. Addirittura con la minaccia di uscire dalla zona dell’euro.

Il ragionamento non fa una grinza e soprattutto è popolare in Germania. Ma è la campana a morto della solidarietà dell’Ue.

Dove si è sbagliato? Si rifanno vivi gli analisti e i politici che anni fa avevano invano sconsigliato l'ampliamento dell’Unione verso Stati poco affidabili. Addirittura si rimpiange l’idea del «nucleo duro» europeo (Kerneuropa), composto dai vecchi Stati firmatari del Trattato di Roma.

Ma l’ipotesi di un ritorno indietro è impraticabile. La messa in atto di rigorose misure disciplinari contro gli Stati inadempienti sarà inevitabile, ma non sarà la soluzione del problema. Rimane la strada più difficile: una politica monetaria comune ha senso soltanto se è basata su politiche economiche, produttive e del lavoro comuni. Insomma si ha una grande politica comune. Ma questo ci riporta al precario equilibrio tra gli interessi degli Stati nazionali di cui stiamo parlando.

L’Europa è dunque prigioniera di un circolo vizioso? La Germania - per ora - ha mandato un forte segnale d’allarme.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 13, 2010, 06:16:13 pm »

13/4/2010

L'accettazione di un primato

GIAN ENRICO RUSCONI

Il comunicato diramato dalla Santa Sede, nella versione ufficiale diffusa in lingua italiana, contiene un passaggio centrale che non dovrebbe prestarsi ad equivoci.

Si deve sempre seguire la legge civile nella denuncia dei crimini di pedofilia alle autorità competenti». Il testo ufficiale in lingua inglese per altro dice: «Civil law should always be followed». In ogni caso si presuppone una cultura del primato della legge civile, di cui dovrebbero essere convinti innanzitutto gli uomini di Chiesa. Soprattutto quelli che si assumono la responsabilità di giudicare in sede interna, in via preliminare - ma discriminante - il comportamento dei sacerdoti sospettati di pedofilia.

Naturalmente ancora diverso è il caso di una denuncia fatta non dall’autorità ecclesiastica ma da chi parla a nome delle vittime. Ma anche in questo caso si suppone che la Chiesa debba collaborare senza riserve con la legge.

Spero che ora non si cominci a disputare se il testo reso noto dal Vaticano riveli il senso vero delle normative precedenti; che in fondo si sarebbe dovuto procedere sempre così; che non c’era bisogno degli attacchi diffamatori al Papa per arrivare a questa conclusione ecc. Così come mi auguro che non si voglia ridurre il gesto del Vaticano all’estremo tentativo di autodifesa per chiudere rapidamente una vicenda dagli effetti disastrosi. Per dimostrare soprattutto che la persona di Papa Ratzinger è al di sopra di ogni sospetto.

Se misurato alle infelici e inadeguate reazioni di alcuni uomini di Chiesa, il testo del comunicato della Santa Sede segna una svolta importante nel riconoscere le prerogative delle autorità civili, cui ci si deve rivolgere, sia pure dopo un’opportuna valutazione interna all’istituzione.

Ma - come dicevo - questo presuppone una cultura della legge civile e un’adeguata attenzione alla nuova sensibilità collettiva su questi problemi. La dimensione giuridica infatti è solo un aspetto della questione. Il punto cruciale è che la valutazione della gravità degli abusi sui minori (compresi i «semplici» maltrattamenti fisici e psicologici) non può e non deve essere lasciata alla discrezione degli uomini dell’istituzione ecclesiastica in forza di una loro presunta più profonda conoscenza della natura umana.

Uso intenzionalmente questa espressione perché non è passato molto tempo da quando, nel clima delle polemiche sui temi della bioetica, alcuni uomini di Chiesa hanno rivendicato pubblicamente la loro speciale «competenza» in fatto di natura umana. La tristissima vicenda, di cui stiamo parlando ora, ha dimostrato che la competenza degli uomini di Chiesa e soprattutto la loro capacità di reagire a questa problematica è fragile e discutibile come quella di tutti gli umani.

Se la patologia della pedofilia è relativamente circoscrivibile - appunto in quanto patologia -, dietro ad essa si è messo in moto un discorso pubblico infinitamente più complesso sulla sessualità come tale.

È inutile irritarsi o protestare per i cortocircuiti che si creano a questo proposito tra una questione e l’altra. C’è da augurarsi che, chiarita una volta per tutte la problematica della pedofilia negli ambienti ecclesiastici e in generale negli istituti educativi, venga ripreso in modo maturo un discorso più ampio sulla sessualità nella dottrina e nella realtà della Chiesa.

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Aprile 28, 2010, 09:00:37 am »

28/4/2010

La sfida di Angela a Bruxelles

GIAN ENRICO RUSCONI

E’ una prova di leadership per la Germania, all’interno e verso l’esterno. Anche una prova per la cancelliera Angela Merkel che, di fronte al precipitare della crisi finanziaria dello Stato greco, deve dimostrare come la Germania sa mantenere con fermezza il suo ruolo insostituibile per la stabilità non solo monetaria in Europa. Ma senza distruttive rigidità. E sa tenere a freno i crescenti umori anti-europei, che dilagano non solo sulla stampa cosiddetta «popolare» ma dentro alla classe di governo. Non sarà facile per la Merkel, ma deve farcela.

Che cosa succederebbe infatti se la Germania negasse il suo apporto all’operazione di sostegno alla Grecia, coordinato internazionalmente, mettendo a repentaglio la solidità della moneta comune? E’ un’ipotesi semplicemente inconcepibile.

La Merkel del resto non pensa affatto a ritirare il suo contributo per la Grecia. Le sue cautele nascono dalla volontà di verificare sul serio la consistenza dei propositi greci circa le misure di risparmio e risanamento statale, che sin dall’inizio erano tra le precondizioni dell’operazione di aiuto. Deve poter mostrare che non si è trattato soltanto di una finzione; di un’altra «presa in giro da parte dei greci» come pensa la stampa tedesca ostile.

Deve poter convincere i tedeschi che la Grecia farà sul serio. Talvolta si ha l’impressione che il vero avversario della Merkel sia la campagna elettorale in pieno svolgimento per le importanti elezioni regionali del Nord Reno-Vestfalia. Che cosa succederebbe se il governo si lasciasse condizionare dal ricatto degli elettori che sono contrari ad ogni aiuto agli immeritevoli e un po’ imbroglioni greci, mentre i buoni tedeschi devono tirare la cinghia? Siamo a questo livello di comunicazione. Siamo a questo punto dopo tanta retorica europeista e tanta euforia per l’euro.

Detto questo, è fuori luogo che da noi si elevino vibrate critiche al comportamento tedesco, ricordando passate stagioni in cui sono stati gli italiani ad essere oggetto - da parte tedesca - di ingiusti sospetti di indegnità a far parte della moneta europea. Diciamo pure che quella sgradevole (e non dimenticata) stagione è stata una lezione per tutti - per gli italiani e per i tedeschi. Ma la crisi greca di oggi si pone su un altro livello.

Quando la crisi si presenta con i tratti anonimi del grande incontrollabile tracollo finanziario, con l’apparizione altrettanto inquietante della «grande speculazione internazionale», anche la politica perde l’orientamento. E’ naturale che scattino riflessi di pura e semplice autodifesa, di chiusura verso l’esterno. Di colpo l’Europa (nel caso della Grecia) ridiventa «esterno».

Non serve neanche fare critica retrospettiva. E’ probabile che negli anni scorsi si sia stati troppo imprudenti nell’allargamento facile e incontrollato dell’Unione. Quella che sembrava lungimiranza e generosità, si è rivelata faciloneria e irresponsabilità. Ma è stata anche incompetenza da parte di chi doveva controllare e prendere decisioni. E’ una dimostrazione in più che la costruzione politica dell’Europa è deficitaria.

Adesso si deve intervenire con urgenza. In queste circostanze ci si trova davanti alla rilevanza di fatto della Germania. E' inutile rimproverarle riluttanza o egoismo. Se la Germania conta, è giusto considerare le sue ragioni. Se essa deve assumersi le sue responsabilità - come qualcuno dice con una sfumatura di rimprovero - si deve accettare che ponga qualche ragionevole condizione. La si deve considerare quale è: una nazione leader in un’Europa senza leader.

da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Giugno 03, 2010, 04:35:20 pm »

3/6/2010

Una Merkel non basta a Berlino
   
GIAN ENRICO RUSCONI

Dopo due giorni di sconcerto e di disappunto, la classe politica tedesca - grazie alla forza delle procedure istituzionali per la nomina del nuovo Presidente della Repubblica - riprende il controllo di quella che poteva configurarsi come una crisi istituzionale.

Come definire diversamente infatti il gesto, grave proprio perché meditato e motivato, di un Presidente della Repubblica che sente su di sé il sospetto di essere giudicato non all'altezza delle sue competenze istituzionali? Se ne va perché si sente disapprovato, isolato, non preso in considerazione dal governo?

In realtà non è facile trovare l'aggettivo che dia contenuto «costituzionale», per così dire, alla somma di sentimenti soggettivi che ha portato Hoerst Koehler al gesto assolutamente inatteso e irrituale di andarsene. Impressionando i tedeschi per la sua sincerità e insieme intrattabilità.

Ma la sostanza della crisi virtualmente istituzionale sta proprio qui. Sta nel non-detto-sino-in-fondo da parte degli interessati. C'è qualcosa che non va nei rapporti tra i vertici delle massime istituzioni tedesche?

Tutto aveva sempre funzionato senza grosse difficoltà tra i palazzi della politica, in particolare tra la Cancelleria e il «Castello di Bellevue» (l'equivalente del Quirinale). Era andata così anche nel primo mandato Koehler. Poi improvvisamente nel suo secondo mandato, dopo aver alternato lunghi pesanti silenzi ad interventi altrettanto significativi, il Presidente sembra dire quello che non ha mai osato dire: che ci sta a fare un Presidente della Repubblica se la sua comunicazione su temi di interesse collettivo cruciale e urgente (le responsabilità della crisi internazionale, la politica del governo, l'intervento militare in Afghanistan) viene trattata come una delle tante opinioni politiche? Anzi criticata con particolare durezza, senza che il governo reagisca in modo significativo, lasciando intendere che la sua politica non si lascia influenzare dalle opinioni del Capo dello Stato? La Cancelleria e la coalizione di governo sono autosufficienti. Punto e basta.

La Repubblica federale di Germania funziona così. Non a caso da tempo pubblicisti e giornalisti amano parlare di stile «presidenziale» della Merkel, alcuni deplorandolo altri augurandoselo. Come se quello della Merkel fosse un surrogato o una variante tedesca di un presidenzialismo di fatto. Lo si vede in particolare negli incontri della cancelliera con il Presidente francese all'Eliseo. E' da lì che si misura quanto sia lontana la Bellevue berlinese.

Eppure, immediatamente dopo le dimissioni di Koehler si è detto e si è scritto che esse mettevano in gravissima difficoltà il governo Merkel. Si è ricordato che il secondo suo mandato era stato salutato come un'affermazione della cancelliera in previsione anche della nuova stagione democristiana-liberale. Poi le cose non sono andate nel verso giusto. Si è creata una crescente estraneità; Koehler si è sentito isolato, nel senso detto sopra, frustrato forse, nel non essere consultato in decisioni che riteneva di rilevanza nazionale.

Ma adesso è inutile continuare a speculare sulle motivazioni personali. Il punto è che la cancelliera Merkel e l'intera classe politica - ripresasi dallo choc - sono compatte nella ricerca di un successore che non sollevi nemmeno il sospetto che tra il Presidente della Repubblica e il governo possano nascere tensioni di carattere costituzionale.

Sin dai primi commenti al caso Koehler, ha guadagnato posto centrale l'osservazione che lui non è mai stato un «vero politico» ma un uomo cresciuto tra banche e organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale. E quindi non aveva sempre la sensibilità adeguata per capire e trattare con la politica quotidiana. In realtà questo modo di giudicare ha disinvoltamente rovesciato le argomentazioni che a suo tempo avevano portato alla elezione di Koehler e quindi alla sua ri-elezione.

Questo repentino mutamento di opinione (confermato negli ambienti democristiani come necessità che il nuovo Presidente della repubblica provenga «dalla politica attiva») non rispecchia soltanto la legittima aspettativa che si esca rapidamente dalla vacanza istituzionale.

Conferma soprattutto la convinzione della classe politica che il «sistema Germania» nella sua complessa articolazione istituzionale, di cui all'estero viene colta soprattutto la centralità del cancellierato - sottovalutando ad esempio la dimensione federale, che è il vero ammortizzatore politico dei conflitti - funziona e deve continuare a funzionare.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7433&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #41 inserito:: Giugno 08, 2010, 10:24:13 am »

8/6/2010

La lezione di Cavour sulle alleanze
   
GIAN ENRICO RUSCONI

L’unità d’Italia non è stata semplicemente il risultato di una straordinaria mobilitazione interna, vitale pur nelle sue contraddizioni e velleità. L’unità è stata anche il prodotto di una dinamica internazionale, genialmente colta e gestita da un uomo che sapeva di dover muovere temerariamente il piccolo Piemonte nel «sistema delle potenze».

Negli interstizi delle loro tensioni.

Ma se non fosse entrato in quel gioco duro e pericoloso, il Piemonte non ce l’avrebbe fatta. Questo l’aveva capito Cavour sin dall’avventura di Crimea e si è comportato in coerenza. Era l'unico statista che sapeva farlo nel pur ricco panorama di intelligenze e di passioni del Risorgimento.

Nella sua appassionata e convincente lezione di storia dell’altro giorno a Torino, il presidente Giorgio Napolitano ha individuato con precisione nel luglio 1859 (dopo l’accordo di Villafranca che interrompeva la guerra contro l’Austria) lo snodo cruciale della vicenda risorgimentale. Anzi «il punto di rottura» che fa mutare a Cavour la prospettiva stessa sul Regno d’Italia che rischiava di nascere come sottoprodotto «destinato ad essere chiuso in una morsa di sfavorevoli condizioni internazionali». Detto in altre parole, dopo Villafranca c’era il pericolo della creazione di un modesto regno del Nord, incardinato in una ipotetica Confederazione italica, sotto protezione francese, comprensiva del regno di Napoli e tollerata dall’Austria. No. Non era questo il sogno dei patrioti, che avevano guardato a Torino nei mesi precedenti.

Di colpo anche per Cavour acquista attualità l’idea «rivoluzionaria» dell’Italia unita da Nord a Sud. Inizia così la fase più audace e controversa dell’azione cavouriana: l’annessione al Piemonte delle regioni centrali, ma anche la cessione compensativa di Nizza e Savoia alla Francia; il cauto, arrischiato eppure determinante sostegno all’impresa garibaldina, l’invasione del territorio pontificio delle Marche e Umbria ma insieme la garanzia per il restante Stato della Chiesa.

Il tutto avviene - si badi - con il disappunto e la disapprovazione di tutte le potenze europee. Ai loro occhi Cavour si è messo a fare di testa sua. È il momento più pericoloso per il regno sardo. Ma Cavour conta abilmente sullo sparigliamento delle potenze europee: placa le ambizioni francesi con la cessione dolorosa e controversa della Savoia e di Nizza; si incunea nella tensione tra le due potenze tedesche, la Prussia e l’Austria tra le quali c’è latente competizione per il controllo della Germania divisa in Stati e staterelli blandamente uniti in Confederazione.

È un dettaglio tutt’altro che trascurabile: non dimentichiamo che Napoleone III interrompe la guerra nel 1859 che (secondo gli accordi segreti di Plombières) avrebbe dovuto concludersi soltanto a Trieste, perché la Confederazione tedesca e la Prussia si erano messe in agitazione e avevano mobilitato, temendo le ambizioni francesi sul Reno. Tra i tedeschi era diventato popolare lo slogan che «il Reno si difende sul Po». Che sarebbe successo se sull’Adige o sul Mincio fossero comparsi bavaresi e prussiani?

Evidentemente Cavour aveva sottovalutato questo aspetto. Ma appena ritornato al governo inizia una massiccia, spregiudicata azione diplomatica nei confronti di Berlino. I tedeschi, pur simpatizzando con il movimento nazionale degli italiani, li rimproverano di essere succubi della Francia di Napoleone III. Cavour allora gioca pesante: non solo insiste nel sostenere la tesi delle analogie tra le due disunioni nazionali di Italia e di Germania; non solo assicura che l’alleanza con la Francia è meramente strumentale e di opportunità, ma arriva a proporre addirittura un’alleanza militare tra Piemonte e Prussia sulla base di una loro presunta affinità politica.

Il 10 febbraio 1860 Cavour manda a Berlino una lettera in cui dice letteralmente di non capire come «il governo prussiano possa disconoscere il vantaggio di avere per ogni eventualità un alleato naturale oltre le Alpi, abbastanza forte da mettere sulla bilancia duecentomila uomini, sia contro la Francia che contro l’Austria. Che ci si lasci sviluppare e accrescere la nostre risorse e con duecentomila uomini fermeremo il passaggio sulle Alpi a tutta l’armata francese». Questo è Cavour! Ma è altrettanto sorprendente che in quegli stessi giorni, Otto von Bismarck, inviato prussiano a Pietroburgo, scriva le stesse cose: «Non abbiamo bisogno di essere complici o compari della Francia con piani temerari. Come nostro alleato naturale - detto a quattr’occhi fra di noi - considero molto di più il Piemonte contro la Francia, nel caso, così come contro l’Austria. Per il Piemonte se potesse appoggiarsi sulla Prussia, l’alleanza francese potrebbe cessare di essere pericolosa e ingombrante».

Ma questa idea, nel febbraio 1860, è ancora fuori dalla realtà. La morte prematura di Cavour gli impedirà ogni rapporto diretto con Bismarck diventato primo ministro prussiano. Negli anni immediatamente seguenti Italia e Prussia seguiranno altre strade. Ma l’idea della «alleanza naturale» tra Piemonte e Prussia rimarrà sullo sfondo. Bisognerà attendere il 1866 perché si realizzi provvisoriamente un accordo militare per la conquista del Veneto - accordo che sarà sfortunato per l’Italia (sconfitta a Custoza e a Lissa) mentre segnerà il trionfo di Bismarck (a Sadowa) e porterà nel giro di quattro anni alla vittoria della Prussia contro la Francia nel 1870/71.

Si aprirà allora un’altra costellazione europea rispetto alla quale quella risorgimentale italiana apparirà una vicenda conclusa. Rimane la lezione cavouriana che l’Italia per essere una grande nazione ha bisogno vitale di alleanze internazionali coraggiose e ponderate ad un tempo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7452&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #42 inserito:: Luglio 01, 2010, 12:15:24 pm »

1/7/2010

Per Angela uno schiaffo che fa male

GIAN ENRICO RUSCONI

La sofferta elezione (al terzo turno) a Presidente della Repubblica tedesca di Christian Wulff, «il candidato della coalizione», è stato un brutto colpo per il governo, e quindi per la cancelliera Angela Merkel. Soprattutto perché un esito così era inatteso. Anzi la coalizione di governo contava su una netta e pronta affermazione del proprio candidato per cancellare l'imbarazzata uscita di scena del precedente Presidente della Repubblica (che pure era stato un suo candidato). E più in generale sperava in un rilancio della propria immagine politica. E' successo l'opposto. Oltre che litigiosissima, la coalizione si è rivelata pure infida.

Ma questa è solo una lettura partitocentrica della vicenda. E' possibile un'altra lettura che segnala un’inquietudine crescente della politica tedesca.

Dietro alla scelta del decimo Presidente della Germania infatti c'è stata una strana anomalia, che in fondo era latente già nelle inattese dimissioni del precedente presidente, Koehler. Riguarda il vero ruolo del Presidente della Repubblica. Le dimissioni di Koehler invece sono state interpretate tutte in chiave personale, di idiosincrasie e permalosità soggettive. O come una sua «estraneità» alla pratica politica di governo. Tant'è vero che la classe di governo si è subito premurata di scegliere come successore un proprio candidato «sicuro», tutto interno al professionismo partitico.

Anche la scelta apparentemente controcorrente della Spd e dei Verdi di presentare un candidato «diverso» è stata più apparente che reale. Era stata infatti concepita sostanzialmente come una candidatura di disturbo.

E' stato nel corso di quella che impropriamente è apparsa una «campagna elettorale presidenziale» che il candidato della Spd e dei Verdi Joachim Gauck si è profilato come un politico «alternativo», al di là della forte accentuazione dei temi sociali ed etici («libertà e responsabilità»). Gauck del resto è tutt'altro che un uomo nuovo per la politica. E' un navigato uomo pubblico con complesse e intense esperienze passate (pastore protestante e oppositore nella Germania comunista e primo gestore dell'enorme e delicato materiale dello spionaggio Stasi). Eppure è significativo che - al momento cruciale del terzo turno - non sia riuscito ad ottenere il consenso della sinistra (Linke).

Buon parlatore, con doti demagogiche efficaci ha fatto emergere l'anomalia di cui parlavo sopra.

Nelle scorse settimane infatti si è discusso dei candidati e tra i candidati nei media, nei talk show, nei confronti televisivi all'americana come se si trattasse di una elezione diretta, popolare - di stile presidenziale. Naturalmente tutti sapevano che non era così. Ma nelle manifestazioni pubbliche non si sono confrontate semplicemente due personalità, due stili di discordo pubblico. Ma due idee diverse del ruolo del Presidente.

Sarebbe sbagliato parlare di una latente voglia di presidenzialismo anche in Germania. Ma certamente davanti all'evidente impasse di leadership della cancelliera c'è una voglia di autorevolezza, di grandi visioni per la società nel suo insieme, al di sopra delle beghe paralizzanti dei partiti, che la politica tedesca di oggi non è più in grado di offrire.

E' difficile dire che cosa succederà ora con un Presidente della Repubblica designato, sì, dalla coalizione governativa, ma che arriva al suo posto attraverso una prova politica tutt'altro che brillante. E’ un segnale di allarme per la cancelliera Merkel.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7543&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #43 inserito:: Luglio 18, 2010, 11:11:33 am »

18/7/2010

L'eterno ritorno del cesarismo
   
GIAN ENRICO RUSCONI

Chi è il «Cesare» che compare nei discorsi dei faccendieri, degli affaristi e degli altri personaggi dell’ultimo scandalo politico? Secondo una prima dichiarazione dei carabinieri, si tratterebbe di Berlusconi. Quest’attribuzione è sembrata subito verosimile perché il nome di Cesare, con la sua reminiscenza di scuola, può esprimere anche una ingenua adulazione o una deferente ironia. Ora invece si dice che si riferisce a Previti. Ma trovo maldestro, anche da parte di dilettanti, mettere in circolazione un nome di persona reale. Poco importa. Quello che gli interessati non sospettano è che il riferimento a Cesare e il sostantivo che gli viene associato - cesarismo - hanno una lunga storia nell’interpretare un fenomeno politico che è antico ma che ritorna sempre. La domanda importante oggi quindi non è chi è il «Cesare» di cui si parla, ma se è in atto una forma di cesarismo politico e quali sono i suoi tratti caratterizzanti.

Il Giulio Cesare storico in questa storia conta, ma relativamente. Ciò che è davvero importante è il modello di comportamento che gli viene attribuito e che attraversa i secoli.

Sinteticamente è il modello del «dittatore democratico». Cesare era amato dal popolo e affossatore di fatto, in suo nome, della antica repubblica che diceva di volere salvare.
Ma i due termini «dittatore democratico» sono chiari soltanto in apparenza. Cambiano infatti profondamente di senso quando sono applicati al tempo della repubblica romana in via di transizione verso l’impero. O quando vengono ripresi sistematicamente nell’Ottocento in riferimento a Napoleone III, a Bismarck e persino, di riflesso, al nostro Cavour.

Nessuno di questi politici è stato propriamente un dittatore. Neppure l’imperatore dei francesi, che a metà dell’Ottocento è stato oggetto di una letteratura politica sterminata che ha rilanciato alla grande il tema del cesarismo (nel suo caso interscambiabile con bonapartismo). I tre nomi citati sono di uomini politici di grande statura. Hanno subito naturalmente stroncature feroci - come quella di «Cesare il piccolo» affibbiata al Bonaparte da Victor Hugo. Ma di Cesari grandi e piccoli ce ne sono stati tanti. Anche al tempo delle dittature novecentesche: basti ricordare i busti di Mussolini fisiognomicamente confusi con il profilo idealizzato di Cesare. In realtà però ha poco senso parlare di cesarismo fascista, perché in esso si perde l’elemento essenziale: il riferimento alla democrazia, che Mussolini certamente non voleva.

Questo è il punto: il cesarismo è uno stile di governo (non un regime) che, insediato in un sistema democratico preesistente, tende a forzare o a rifunzionalizzare le istituzioni esistenti in senso autoritario ma senza negarle, anzi volendo creare la «vera democrazia». Lo strumento centrale è un rapporto nuovo e diretto con il «popolo». Non a caso il concetto associato al fenomeno cesaristico è anche populismo.

Nei primi due decenni del Novecento Max Weber, facendo un bilancio della fine della democrazia liberale e spingendo lo sguardo in avanti, parlava di «tendenza cesaristica della democrazia di massa». Cesarismo e democrazia di massa sono dunque strettamente legati. Poi Weber ha insistito (forse troppo) sugli aspetti personali carismatici eccezionali della leadership cesaristica. Noi oggi più realisticamente riteniamo che il cesarismo del nostro tempo conti di più sulla potenza della comunicazione di massa e dei mezzi mass-mediatici che non sulle (presunte) doti carismatiche personali del leader. Si tratta di un mutamento di prospettiva decisivo.

Rimane essenziale il rapporto con il popolo. Ma chi è il popolo del Cesare storico? È la plebs acclamante ma anche un gruppo consistente di amici, collaboratori, mediatori, clientes e senatores del regime precedente. Il popolo del Cesare contemporaneo è il popolo-degli-elettori che lo votano, è il popolo mediatico monitorato con strumenti demoscopici. Ma anche una solida rete di «amici di Cesare», insediati non solo nella politica ma soprattutto nella «società civile». In questo senso il cesarismo è davvero popolare.

«Gli amici di Cesare» (compresi i leader di altri partiti che gli sono «amici» prima ancora che «alleati») surrogano di fatto il partito tradizionale. Il «partito del popolo» infatti ha la funzione esclusiva di mettergli a disposizione consenso e risorse. Offre personale esecutore, realizzatore, implementatore delle idee del leader. Non deve sollevare problemi, tanto meno competizioni o alternative interne. Il partito del leader cesaristico è, o meglio deve essere, assolutamente unitario. Deve attendere e sostenere le soluzioni dei problemi ipotizzate dal leader. Se queste non si realizzano la colpa è delle opposizioni che le ostacolano o degli ambiziosi disturbatori interni al partito che non sono più «amici». Ma soprattutto la colpa è del sistema istituzionale - in particolare giudiziario - che frena e boicotta. Da qui l’inderogabile necessità della riforma delle istituzioni che non si presenta come sovversiva (anche se retoricamente si sente «rivoluzionaria») ma come loro sistematica forzatura sempre al limite della legalità costituzionale.

Mentre scriviamo questo sistema sta entrando in una fase di turbolenza inedita. C’è chi da mesi ne prevede la fine. Personalmente - come analista - sarei cauto

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« Risposta #44 inserito:: Agosto 01, 2010, 09:43:12 am »

1/8/2010

Un test per il popolo del leader
   
GIAN ENRICO RUSCONI

Dinanzi a un enigmatico disinteresse dei cittadini, si sta consumando uno scontro decisivo nel partito di maggioranza che dice di rappresentare il liberalismo italiano. Dentro a quel Pdl che in modo enfatico ha monopolizzato il concetto e la (presunta) pratica liberale. Non a caso i due protagonisti dello scontro, Berlusconi e Fini, si rimproverano reciprocamente di non essere liberali. Ma nessuno dei due viene dal liberalismo politico storico. Quella che stanno rappresentando è una mutazione della politica, anzi della democrazia, italiana per la quale non si è ancora trovato il nome appropriato.

In questa circostanza i cittadini sono spettatori non partecipi. Tutto infatti si sta sviluppando freneticamente nel circuito politico-mediatico dominato dalla personalizzazione della vicenda. Il pubblico sta a guardare. Capisce la posta in gioco?
Il messaggio trasmesso dai media dice semplicemente che Berlusconi «ha buttato fuori Fini dal Pdl» perché contestava la sua leadership.

Non importa sapere se e come si sia discusso nel merito delle posizioni finiane. Non si sono infatti sentite obiezioni o argomentazioni in merito alle controproposte finiane in tema di intercettazioni o sulla spinosa questione morale. Ciò che conta è che le tesi di Fini non coincidono con quelle di Berlusconi. Peggio: si tratta di tesi non sgradite all’opposizione. Questo spiega tutto.

O meglio questo spiega la reazione di Berlusconi. Il Cavaliere da anni è il dominatore della scena politica italiana dove con il suo intuito e con il suo potere mediatico ha inventato uno stile politico di governo che gode di un innegabile consenso popolare. Ha raccolto attorno a sé una nuova classe politica. Ha creato un sistema di valori e di comportamenti incarnato dalla sua persona e contrapposto al sistema delle istituzioni esistenti considerate «frenanti» se non «nemiche». In una parola, ha creato «il berlusconismo».

Contro di esso si è gradualmente profilato Gianfranco Fini. Si tratta di un politico che nel giro di un ventennio ha avuto una sorprendente evoluzione (o, se vogliamo, maturazione) che lo ha portato da nostrane posizioni nazional-fasciste a una prospettiva di destra europea liberale. Adesso coerentemente, in antagonismo al berlusconismo, sostiene il primato delle regole istituzionali. Non la loro strumentalità a favore degli obiettivi più o meno legittimi della maggioranza politica.

D’istinto Berlusconi ha capito - meglio e prima di tanti suoi sostenitori - che con questo atteggiamento Fini è diventato il suo vero «nemico». Gli è intollerabile, anzi incomprensibile la pretesa di Fini di continuare a essere suo «alleato» politico senza essergli «amico». Sembra una sottigliezza trascurabile (squisitamente liberale), invece è la chiave per capire il berlusconismo in questa fase cruciale. D’istinto Berlusconi divide il mondo tra «amici» e «nemici» senza bisogno di conoscere le teorie di Carl Schmitt che (guarda caso) è stato il più brillante e coerente anti-liberale del secolo passato.

Insisto a parlare di «berlusconismo» perché il Cavaliere conta, deve contare sull’adesione di una classe politica e giornalistica, di un intero complesso mediatico che nel conflitto in corso investe interamente il suo destino. Senza i suoi «amici» Berlusconi è perduto: ma vale anche il reciproco. La classe politica che costituisce la maggioranza parlamentare è perduta senza Berlusconi. Ma entrambi sono perduti senza il loro «popolo-degli-elettori».

Siamo tornati al punto di partenza: il pubblico dei cittadini cosa pensa in questo momento? Per avere informazioni ragionate, ponderate e ragionevolmente complete il cittadino dovrebbe dedicarsi alla lettura attenta di più giornali. Ovviamente è impossibile. Nel migliore dei casi ciascuno si tiene ben stretto il «suo» giornale contando che sia corretto e completo nelle informazioni e nelle valutazioni che offre. Ma la maggioranza degli italiani - purtroppo lo sappiamo - non fa neppure questo. Gli italiani non sono grandi lettori (salvo che per lo sport) e specialmente per la politica sembra che si affidino sostanzialmente alle comunicazioni televisive.

Questa «democrazia mediatica» non risponde affatto ai criteri della «democrazia informata» quale è richiesta da politologi e filosofi. Neppure quando prende la forma del dialogo apparente dei talk show e simili manifestazioni, dove non si cerca il dialogo o il confronto di idee ma l’occasione per ribadire pubblicamente le proprie posizioni. Non si è mai visto un politico o anche solo un giornalista farsi convincere e mutare opinione nel corso di un talk show.

Probabilmente molti berlusconiani avrebbero preferito che non si arrivasse al punto di rottura di queste ore. Ma la scelta del leader è ineccepibile: deve mettere alla prova il «suo popolo», il suo partito che non è uguale agli altri partiti. Il «partito del popolo» berlusconiano infatti ha sostanzialmente la funzione di mettergli a disposizione consenso e risorse. Deve offrire personale esecutivo, realizzatore, implementatore delle idee del leader. E’ per definizione unanime e compatto. In caso estremo deve essere scosso dall’apatia e ri-chiamato alle urne. Pensa già a questo Berlusconi? Sarebbe in sintonia con l’emergenza del momento.

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