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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 63098 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 04, 2009, 05:14:45 pm »

4/5/2009
 
Torinesi in Germania
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Un intenso fuoco di sbarramento accoglie a Berlino Sergio Marchionne, dopo l’inaspettato successo americano.

L’uomo della Fiat.

L’italiano che (come dicono i giornali) vuol dare la scalata alla Opel. Ma l’opposizione è forte. Gli sono contro sia le maestranze delle fabbriche sia il ministro dell’Economia, il cristiano-sociale zu Guttenberg. In realtà in queste ore è evidente una contrarietà generalizzata (anche se camuffata) alla Fiat piuttosto che il delinearsi di alternative realistiche. Naturalmente il «politicamente corretto» costringe a dire che non c’è «nulla contro gli italiani» come tali.
Ma la situazione è ambigua. E la sfida per Marchionne è alta.

Chi, come lo scrivente, non ha illusioni circa la «razionalità» del mercato, si chiede quanta influenza hanno nella vicenda Fiat-Opel i giudizi precostruiti, le idiosincrasie storicamente depositate - in una parola le «irrazionalità». Soprattutto quando è in gioco la politica con le sue ragioni molto particolari.

Dichiaro subito la mia incompetenza tecnica nel merito economico della questione. Ma altrettanto schiettamente non nascondo la mia diffidenza verso chi giura di ragionare in termini strettamente tecnico-economici o seguendo un esclusivo interesse aziendale. A ciò si aggiunga il fatto che l’intera vicenda si sta sviluppando dentro un sistema di comunicazione giornalistico e mediatico in cui è impossibile distinguere le competenze tecniche dalle preferenze personali di tipo culturale o politico.
È un sistema esposto a informazioni mirate o semplicemente al gusto del gossip esteso al mondo manageriale, in un momento in cui questo ha perduto la sua intoccabilità.

Marchionne è tra quanti ritengono che il mondo degli affari e del management si debba muovere in una dimensione di rigorosa razionalità economica («eticamente responsabile», ovviamente - ma questo è un altro discorso). Nel contempo però deve tenere positivamente conto di fattori di natura diversa - politica innanzitutto. Così è stato per il caso Chrysler, così si configura per il caso Opel.

In effetti l’uomo della Fiat incontra a Berlino due ministri politicamente importanti, non solo quello dell’Economia ma anche il ministro degli Esteri e candidato socialdemocratico alla cancelleria Frank-Walter Steinmeier (che è in diretta competizione con Angela Merkel) oltre ad altri politici e rappresentanti del sindacato.
Non so quanto Marchionne conosca il mondo politico tedesco e la particolarissima congiuntura politica attuale in cui hanno luogo i suoi incontri odierni. La Germania è entrata in un clima pre-elettorale con prospettive molto incerte, mentre la posta in gioco - il destino della Opel e sullo sfondo quello dell’intero settore automobilistico - ha acquistato un peso reale e simbolico notevolissimo.

Immagino che Marchionne e i suoi collaboratori colgano la profonda differenza di sostanza e di stile tra la politica americana, in cui il team Fiat si è mosso con grande perizia, e la politica tedesca, che è costruita in modo diverso e non è priva di diffidenze specifiche verso l’Italia.
Con questa affermazione entriamo in un terreno minato, che suscita le proteste dei difensori d’ufficio dei buoni rapporti tra Italia e Germania.

Chiariamo il punto critico. I ceti dirigenti tedeschi sono presi tra l’imbarazzo verso la politica italiana in generale e i comportamenti del presidente del Consiglio Berlusconi che non approvano, e la sorpresa per il dinamismo di alcuni settori economici, segnatamente della Fiat. Fanno fatica a trovare il giusto confine e rapporto tra le due Italie. Quando durante il telegiornale viene presentato il marchio Fiat che si sovrappone a quello della Opel, non si capisce a quale Italia si faccia riferimento. Soprattutto quando nel corso di sommari servizi si presenta un aggressivo pretendente italiano di fronte a una tranquilla combinazione austro-canadese affiancata da due partner russi, pronti a dare una mano alla soluzione.

L’ambivalenza verso il pretendente italiano si fa ancora più evidente nel modo in cui vengono mescolati giudizi contrastanti: dubbi sulla solidità della tenuta dell’impresa Fiat e insieme timore che la sua capacità produttiva concorrenziale prevarichi sulla produzione Opel; paura di un vantaggio nazionale (italiano) e insieme sospetto di avventurismo finanziario; addirittura accusa di mirare semplicemente ai soldi statali ecc. Sullo sfondo c’è l’inatteso successo americano, con l’esplicita approvazione nientemeno che da parte del presidente Obama. Insomma, che cosa ci riservano ancora questi italiani?, si chiedono molti tedeschi, forse è meglio non fidarsi troppo di loro. L’«inaffidabilità» degli italiani agli occhi di molti tedeschi ha una lunga radicata tradizione. Ma è stata compensata e corretta anche da smentite grazie a una reciproca, sebbene spesso asimmetrica attenzione, che può riservare sorprese.

Questa è la sfida per Marchionne a Berlino. Deve sgombrare il campo da tutti i sospetti precostituiti. Aprire un capitolo nuovo di una storia lunga, proprio nel campo della produzione e della identità automobilistica già carico di ambivalenze nel passato. Dalla competizione popolare tra Fiat e Volkswagen sino alla leggenda Ferrari-Schumacher, sullo sfondo della grande emigrazione che dal Meridione ha portato centinaia di migliaia di lavoratori nelle fabbriche automobilistiche del Nord (a Torino e a Wolfsburg, indifferentemente). Nel caso Fiat-Opel non si tratta di una semplice operazione economica, ma di qualcosa di più profondo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 27, 2009, 10:14:26 am »

27/5/2009
 
Le due facce dell'Italia
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Ci sono due Italie. C’è l’Italia che tratta al massimo livello con la politica tedesca e internazionale. Rappresenta il lavoro e l’iniziativa imprenditoriale in un momento difficile.

Rischia grosso. E poi c’è l’Italia provinciale, impantanata nelle ambizioni, nelle idiosincrasie e nelle miserie personali del leader del suo «popolo». Queste due Italie si vedono con nettezza da un osservatorio diventato inaspettatamente privilegiato: Berlino. Ma l’immagine più sconcertante è offerta dalla classe politica nel suo insieme, che dovrebbe rappresentare la realtà complessa del vero popolo italiano, quello che lavora (o cerca lavoro) ed è in seria difficoltà. Invece si presenta impotente, incattivita, immiserita culturalmente, ossessionata dal leaderismo, prigioniera di un sistema mediatico autoreferenziale. Se ne è accorta anche la Chiesa, nei suoi massimi rappresentanti della gerarchia che pure hanno ampiamente sfruttato tutte le debolezze di questa stessa classe politica. Naturalmente so di fare affermazioni ingiuste nei confronti di singoli uomini/donne in politica o gruppi che cercano di fare bene il loro mestiere. Ma loro stessi ammetteranno che la loro fatica è sterile. Lo straordinario, inarrestabile successo dell’espressione «casta» per indicare sprezzantemente tutti i professionisti della politica ne è un sintomo evidente.

Torniamo all’osservatorio berlinese. Non intendo qui entrare nel merito specifico, tecnico delle trattative Fiat-Opel. Rappresentano un caso esemplare della nuova tensione tra economia, imprenditoria, mondo del lavoro da un lato e una politica attenta alle grandi prospettive del futuro, dall’altro. Ma è una politica che non perde di vista gli equilibri politici interni e gli appuntamenti elettorali a breve termine. La democrazia funziona così. In questo quadro va collocata la vicenda Fiat-Opel. Non va isolato un singolo fattore - sia esso quello strettamente imprenditoriale-finanziario o della salvaguardia dei posti di lavoro -. Sullo sfondo ci sono le grandi prospettive geo-energetiche. Dietro l’America direttamente interessata al problema, si profila indirettamente la Russia, potenza energetica con la quale la Germania ha ormai stretti vincoli di dipendenza. Mi chiedo quanto peso nella vicenda abbia davvero l’ex cancelliere (socialdemocratico) Gerhard Schroeder che notoriamente ha stretti rapporti professionali e personali con la Russia putiniana. Nei commenti che si leggono a questo proposito non sono sempre chiari i confini tra fantapolitica e audace anticipazione di una politica futura.

Da ultimo - perché no? - verso il nostro Paese è riaffiorata l’antica ambivalenza e mescolanza di sentimenti di simpatie e diffidenze («questi imprevedibili italiani...»). Naturalmente è politicamente scorretto insistervi, almeno in pubblico. Ma intanto in poche settimane è diventato evidente al grande pubblico tedesco che ci sono appunto due Italie. Non c’è soltanto l’Italia berlusconiana, numericamente maggioritaria, provincialissima nei suoi vizi e nelle sue virtù, oggetto di continua ironia. Ma c’è anche l’Italia che rilancia internazionalmente alcuni suoi simboli che incarnano alte prestazioni tecniche e iniziativa manageriale. È importante che questo rimanga nella percezione e nella memoria dei tedeschi e degli europei, comunque vada a finire la vicenda Fiat-Opel.
 
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 16, 2009, 04:15:48 pm »

16/6/2009
 
Berlusconi spiegato agli stranieri
 

 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Sui giornali europei si è assistito nelle settimane scorse a una campagna accusatoria senza precedenti sui comportamenti privati (e non solo) di Silvio Berlusconi. Ma il Cavaliere è uscito indenne dalle elezioni. Gli osservatori europei sono sconcertati. Ai loro occhi l’anomalia italiana prosegue. Incomprensibile.

Perché un numero così alto di italiani - si chiedono - accetta con indifferenza il conflitto di interesse di Berlusconi, i suoi scontri continui con la giustizia che finiscono in contumelie, i discutibili comportamenti privati, le intemperanze verbali contro gli avversari e le istituzioni? Perché accettano le spiegazioni che ne dà lo stesso interessato, che si presenta come vittima della giustizia italiana, della sinistra e dei giornali stranieri? Perché gli oppositori di Berlusconi sono sostanzialmente impotenti politicamente?

Evidentemente le descrizioni sarcastiche, offerte quotidianamente dai giornali e dai settimanali europei, non colgono la sostanza della questione. C’è un dato oggettivo che si può sintetizzare in tre elementi. 1) Il berlusconismo dà voce a una società civile profondamente scontenta, al limite della sopportazione, carica di conflitti, moralmente sfacciata, che non si fida più della sinistra. 2) Alle spalle del Cavaliere c’è un ceto politico emergente (una nuova classe politica) che sta giocando interamente la sua partita. Fa quadrato attorno a lui, razionalizzando le sue esternazioni emotive e cercando di orientarlo secondo i propri interessi. La Lega di Bossi in particolare sta stringendo un’alleanza politica strategica che porterà lontano. 3) È il trionfo del «populismo democratico» che rappresenta una vera mutazione della democrazia italiana che va studiata nella sua originalità.

Il «popolo» berlusconiano-bossiano è il «popolo-degli-elettori», nel senso che la maggioranza elettorale ritiene di poter incarnare automaticamente «il demos sovrano» che può plasmare a suo piacimento la Costituzione. Un successo elettorale maggioritario legittima quindi uno spoils system applicato in modo radicale, nel senso che chi vince stabilisce le regole del gioco a suo piacimento. Il popolo-degli-elettori è destrutturato rispetto al popolo diviso secondo le linee classiste tradizionali e le loro convenzionali proiezioni partitico-politiche. Trova la sua omogeneità soltanto nell’immediatezza (apparente) del rapporto leader-elettori.

La stratificazione sociale non ha perso oggettivamente i suoi connotati fondamentali di classe, ma soggettivamente è diventata estremamente complessa per la diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro, per la molteplicità degli stili di vita e di consumo e soprattutto per l’autopercezione degli interessati. Non a caso Berlusconi non parla mai di «classi sociali» ma di «cittadini fortunati/sfortunati», «prilegiati/deprivilegiati», e le classi inferiori sono composte di chi è «rimasto indietro». A tutti promette un indistinto miglioramento generale purché lo si lasci agire contro l’ordine istituzionale esistente che frena ogni innovazione e contro la sinistra che «lo odia». Il berlusconismo ha reinventato tutta la potenza politica della contrapposizione amico/nemico. E in questo modo trova consenso.

A questo punto occorre fare una precisazione importante. Spesso per spiegare l’anomalia italiana, compreso il fenomeno Berlusconi, molti analisti parlano di una estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato) e «la società civile» (vitale e ricca di risorse ed energie). In questa ottica, molti a sinistra fanno appello a una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi. È un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso la prima espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, del suo profondo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la mafia e la camorra, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non ha senso quindi contrapporre «la società civile» al «sistema politico» come se fossero due poli ed entità autonome.

Il berlusconismo infine prima che il sintomo di una crisi di rappresentanza politica-partitica, è una domanda di decisione di governo. A questo proposito, non è qui la sede per discutere l’opportunità di una riforma in senso presidenziale (sul modello francese o americano) o comunque di forme di rafforzamento dell’esecutivo in Italia. Se ne discute da anni senza successo per la ferma opposizione non solo della sinistra ma anche dei partiti di centro (ex-democristiano). Ma non c’è dubbio che l’idea di competenze decisionali più forti per il governo è sempre più popolare in Italia. E su di essa Berlusconi giocherà la sua carta più impegnativa. Sullo sfondo di una società profondamente divisa, socialmente disgregata, frammentata, incattivita può succedere che moltissimi cittadini guardino con scettico (persino divertito) distacco ai comportamenti personali disdicevoli del premier, che all’estero appaiono intollerabili. Ecco perché più che un «fenomeno Berlusconi» esiste un «caso Italia».

Questo articolo è stato pubblicato sulla «Süddeutsche Zeitung», che aveva chiesto all’autore di spiegare ai tedeschi il fenomeno Berlusconi
 
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 02, 2009, 06:13:33 pm »

2/7/2009
 
Bolzano è già fuori dall'Italia?

 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Il Sud Tirolo/Alto Adige da molto tempo non è più psicologicamente, idealmente, emozionalmente terra d’Italia. E’ un’area economicamente ricca come poche ma culturalmente inquieta.

Gli italiani - in particolare «quelli di Roma» - non se ne preoccupano. Hanno altro a cui pensare. Forse qualcuno può pensare che questo atteggiamento di indifferenza possa essere la «soluzione all’italiana» di un annoso problema che fortunatamente non solleva più spinose questioni politiche. Ma è davvero così? In realtà sta accadendo qualcosa che merita attenzione. Era dal tempo dell’ultima visita dell’imperatore Francesco Giuseppe nel lontano 1910 che a Bolzano non si era mai raccolta tanta gente.

Festeggiava l’eroe Andreas Hofer, simbolo della tenace identità sudtirolese. Con bandiere, bande, costumi e sfilate degli Schuetzen i «difensori armati» del Tirolo. Il fatto che Hofer avesse guidato (inizialmente con successo, proprio nel 1809) la rivolta non solo contro l’odiato occupante francese napoleonico, ma anche contro i tedeschi di Baviera; il fatto che le sue valorose schiere comprendessero anche i trentini (che parlavano italiano senza essere politicamente «italiani») è uno di quei fastidiosi dettagli storici che la leggenda nazionalistica e germanizzante ignora. Contro i miti a nulla valgono le ricostruzioni storiche. I miti servono non per la verità, che eventualmente contengono, ma per la loro capacità di reinventare le identità. E’ il caso del mito Hofer e delle attuali inquietudini sudtirolesi.

Le indagini demoscopiche parlano chiaro. Il 45,3% dei sudtirolesi tedeschi e ladini vogliono mantenere l’attuale status quo di provincia autonoma. Evidentemente si rendono conto degli enormi vantaggi legati all’autonomia che è loro garantita dallo Stato italiano. Questo però non è sentito in contrasto con una forte riaffermazione identitaria e culturale. A costo di raffreddare i rapporti e i contatti con la popolazione di lingua italiana. E con il Trentino.

Ma il 33% dei sudtirolesi di lingua tedesca aspira ad una completa indipendenza, mentre il 21% vuole addirittura l’annessione, anzi il ritorno all’Austria. In pratica queste cifre mostrano che il 55% romperebbe volentieri i rapporti istituzionali con l’Italia.

Naturalmente la questione è giuridicamente complessa per le intese che esistono tra Italia e Austria garantite da norme e trattati internazionali. E non è un mistero che a Vienna le forze politiche più importanti e più responsabili vedono con fastidio e preoccupazione quanto accade nel Sud Tirolo.

Tra i molti argomenti usati contro il nuovo irredentismo e indipendentismo il più forte sembra essere: che senso ha sollevare queste questioni in una Unione Europa che sta facendo cadere tutti i vecchi confini? In un’Europa che ha cura di conciliare le memorie, pur riconoscendo i molti errori del passato dell’una e dell’altra parte?

Ma non paiono argomenti convincenti. In realtà si fa molta retorica sulle «memorie» come se fossero automaticamente garanzia di intesa e riconciliazione. Spesso è esattamente il contrario. Le memorie riaccendono le ostilità o quanto meno le estraneità. E’ quanto accade nel Sud Tirolo.

Lasciamo pure da parte l’origine storica relativamente lontana e gli eventi più traumatici con i loro errori incorreggibili: la Grande Guerra, l’annessione al Regno d’Italia del Tirolo di lingua tedesca sino al Brennero, la fascistizzazione dell’Alto Adige, l’appropriazione tedesca da parte nazista e la guerra di liberazione. Menzioniamo soltanto l’accordo De Gasperi-Gruber del 1946 che viene letto e interpretato - a tutt’oggi - in maniera opposta dagli italiani e dai sudtirolesi. Per i primi è la base di un modello esemplare di coesistenza di una doppia autonomia (trentina e sudtirolese), per i secondi invece è una specie di truffa a vantaggio dei trentini. Truffa che i sudtirolesi avrebbero corretto gradualmente arrivando soltanto oggi ad una situazione accettabile. In questa ottica, non è stravagante il fatto che autorevoli esponenti politici sudtirolesi (assolutamente «moderati») disapprovino esplicitamente la beatificazione di De Gasperi, considerato un abile politico italiano, nient’affatto «un santo».

In questo contesto l’Europa si sta rivelando uno scenario dietro al quale è possibile giocare qualunque commedia, in nome della «identità delle minoranze». Ossessione identitaria, reinvenzione dei miti, localismo sono la deriva che può essere corretta - a livello culturale - soltanto con una energica ripresa della grande storia comune, criticamente consapevole dei suoi infiniti errori, delle sue incoercibili diversità, ma anche delle ragioni storiche dello stare insieme. La politica italiana deve uscire dal suo stallo tra imbarazzo e indifferenza. Deve smentire l’assurda idea che la questione sudtirolese faccia parte del «problema del Nord», da affidare tacitamente alla Lega, che è la meno attrezzata culturalmente e politicamente. Un ruolo strategico dovrebbe essere svolto dal Trentino che, al di là della ragionevole cautela, appare intimidito e incapace di usare le risorse culturali e storiche di cui pure dispone. Una volta si parlava di un grande progetto per l’intera vasta regione plurilingue e pluriculturale del Tirolo storico (l’euroregio). Che fine ha fatto?
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 04, 2009, 04:50:11 pm »

4/7/2009

Euroregione la risposta ai rancori di Bolzano


LORENZO DELLAI

Per Gian Enrico Rusconi «il Sud Tirolo/Alto Adige da molto tempo non è più psicologicamente, idealmente, emozionalmente terra di Italia». Lo sostiene in un interessante articolo, apparso giovedì sulla Stampa, che si conclude con un riferimento al Trentino, al suo ruolo e al progetto della Euroregione del «Tirolo storico».

Il Sud Tirolo/AltoAdige non è mai stato, in realtà, «psicologicamente, idealmente, emozionalmente» terra di Italia. Sono note le circostanze storiche che hanno determinato il confine nazionale al Brennero. Meno nota, ma ugualmente importante, è la complessa vicenda storica, culturale e istituzionale che per secoli ha visto intrecciati i territori corrispondenti alle attuali Province autonome di Trento e Bolzano e al Land Tirolo. Si tratta di una vicenda particolare, contrassegnata dal principio della «appartenenza multipla». Appartenenza, cioè, a una Heimat e nel contempo a un contesto «statuale» dovuto alle varie configurazioni nazionali prodotte dalla storia europea.

Dopo la tragica esperienza del fascismo, Alcide De Gasperi e Karl Gruber, da statisti illuminati e lungimiranti, diedero una risposta di grande profilo a questa dialettica tra Heimat e Stato-nazione. Questa risposta (l’Accordo di Parigi del 5 settembre 1946) si basò su due pilastri inscindibilmente correlati.

Autonomia e respiro «transfrontaliero»
Il primo fu l’idea della specialissima autonomia, nell’ambito della Repubblica italiana, della Regione Trentino-Alto Adige e, dunque, delle due Province autonome di Trento e di Bolzano. Questa autonomia fu «riconosciuta» dallo Stato italiano, nell’ambito di un trattato internazionale, quale «vestito istituzionale» di una costituzione materiale del tutto particolare e fin dalle origini fu percepita e voluta come veicolo per la pacifica convivenza di istanze linguistiche e culturali diverse. Fu un modo intelligente per conciliare l’istanza «nazionale» con il rispetto e la valorizzazione delle peculiarità tipiche di un territorio di confine.

Secondo pilastro fu il respiro «transfrontaliero» della speciale autonomia prevista dall’Accordo di Parigi. De Gasperi, che aveva maturato una straordinaria esperienza come deputato trentino al Parlamento di Vienna, e che aveva condiviso con Cesare Battisti la battaglia per l’apertura di una università in lingua italiana a Innsbruck nel 1904, sapeva benissimo che, ponendo il confine nazionale al Brennero per ragioni interne e internazionali, occorreva non solo garantire forme speciali di autogoverno per le popolazioni di lingua tedesca che sarebbero state ricomprese nel territorio nazionale italiano, ma anche definire un quadro (frame nel testo inglese originario dell’Accordo) entro il quale questa speciale tutela potesse valorizzarsi e rafforzarsi, sulla base di un rapporto speciale fra Trento, Bolzano e Innsbruck.

Ricordo che, sulla base di questa filosofia, fin dal 1949, con decenni di anticipo su Schengen, Italia e Austria stabilirono, con il cosiddetto Accordino, forme privilegiate di libero scambio tra alcune tipologie di merci. Era ciò che si poteva fare in quell’epoca, molto prima che nascesse il primo barlume di Comunità europea. Questi due pilastri rimangono, a tutt’oggi, presidio fondamentale per la pace attorno a una delle linee di confine, quella del Brennero, che la storia ci ha consegnato come simbolo di scontro e conflitto.

Contro le pulsioni iper-nazionalistiche
Oggi tutto questo può assumere, come sembra sostenere Rusconi, un valore ulteriore. Le pulsioni iper-nazionalistiche trovano oggi compensazione in uno spirito europeo certamente ancora gracile ma altrettanto certamente consolidato nelle sue premesse fondamentali. E tutto questo non è messo in discussione neppure dalle pur preoccupanti affermazioni elettorali dei partiti neo-nazionalisti sia di lingua tedesca, sia di lingua italiana. Anzi: mai come in questo momento il Trentino ragiona e lavora insieme con la Südtirol Volkspartei, con il presidente Durnwalder e con i loro alleati di lingua italiana e ladina.
Non solo: sono stato qualche giorno fa a Innsbruck, per incontrare il Capitano del Tirolo Günther Platter. Abbiamo riscontrato assoluta identità di vedute sulla necessità di costruire rapidamente una Euroregione del Tirolo storico, dotata di forte personalità istituzionale e di rilevanti prospettive di cooperazione nei vari campi di attività. Una Euroregione che valorizzi i molti secoli di storia comune in una prospettiva non nostalgica ma autenticamente europeista. A fine ottobre si riuniranno per questo, in seduta congiunta, le Assemblee legislative. Il Trentino, dunque, non è affatto intimorito da questo scenario, ma lavora con grande convinzione, in forza della sua «appartenenza multipla», per esercitare con piena responsabilità il suo ruolo nell’ambito di quella straordinaria realtà territoriale costituita dalle Alpi centrali.

Aggiungo un ultimo punto: la prospettiva di una Euroregione pluri-linguistica e bi-nazionale richiede che anche i partiti si organizzino in questi territori superando radicalmente l’impronta centralista e nazionalista. Per questo, personalmente, lavoro alla costruzione di una federazione tra le forze politiche di matrice popolare e autonomista, di lingua italiana, tedesca e ladina, espressione dei territori di Trento, Bolzano e Innsbruck. Molto si è discusso, qualche settimana fa, sul palese disinteresse dell’opinione pubblica italiana nei confronti dell’Europa. Questa prospettiva è, forse, una delle strade per portare anche nelle nostre contrade un «respiro europeo».

* Presidente della Provincia autonoma di Trento

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:49:49 am »

16/7/2009
 
Ma la società civile ha scommesso su Berlusconi

 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Lo spettacolo poco edificante della preparazione delle Primarie del Pd è l’altra faccia della profonda depressione in cui è precipitata la società civile italiana. E’ ad essa infatti che vorrebbero rivolgersi gli esponenti del partito democratico per rappresentarla, ritrovarla, reinventarla. Si è fatto vivo anche Beppe Grillo, grottesca espressione di una società civile urlante.

Ma è un’impresa disperata: la società civile italiana è afona, disillusa, disorientata, incattivita. Soprattutto è divisa in pezzi e settori che tengono d’occhio esclusivamente i loro propri immediati (legittimi) interessi materiali o ideali.

Su di essa governa il berlusconismo, che mira a tenere assieme tanti singoli interessi. Non si vede nessun grande disegno. Anzi la crisi sta impietosamente mostrando i limiti intrinseci della politica. Si ingigantiscono così i problemi particolari e i loro protagonisti: i leghisti con le campagne anti-immigrati e i clericali preoccupati di blindare una cattiva legge sul testamento biologico. La politica, diventata sommatoria degli interessi più disparati, è facilitata dall’impotenza dell’opposizione politica. In compenso Berlusconi è riuscito ad indirizzare contro la sinistra l’ostilità, l’incattivimento diffuso nella società.

In questo contesto è vano continuare a evocare una idealizzata «società civile», come faceva un anno fa l’allora leader del Pd Walter Veltroni, al Circo Massimo di Roma, con l’intento di mobilitarla contro il berlusconismo. E’ successo l’opposto. Il berlusconismo ha vinto le elezioni amministrative grazie ai pezzi di società civile i cui interessi di volta in volta particolari riesce a soddisfare o promette di soddisfare.

Quanto alle sue vicende personali, Berlusconi è sopravvissuto ad una situazione, che in qualunque paese occidentale avrebbe messo alle corde qualunque politico, grazie alla tolleranza di buona parte della «società civile», perfettamente interpretata dalla cautela dei clericali.

E’ dunque vero che «gli italiani sono fatti così» - come si sente ripetere all’estero che riduce la nostra identità storico-culturale ad una inconsistente (im)moralità pubblica?

Di fatto nel caso Berlusconi si è assistito ad un calcolo politico preciso. Chi ha scommesso sui benefici che può ottenere dal berlusconismo - benefici che non ha ancora raccolto sino in fondo - non è disposto a metterli a rischio politicamente ora, a causa di veri o presunti indecenti comportamenti del leader.

Naturalmente nel frattempo si sono mostrate le contraddizioni di un tratto tipico del berlusconismo originario: la disinvolta e permissiva commistione di pubblico e privato, l’allegra trasgressione delle regole che aveva esercitato un suo fascino su settori rampanti della società civile.

Ma ad un certo punto Berlusconi ha sbagliato misura. Ha commesso una serie di errori che - fortunatamente per lui - i suoi alleati si sono affrettati a minimizzare. Ma lo hanno fatto e continuano a farlo esclusivamente nel loro interesse. In questo modo ritengono di poter controllare in qualche misura il Cavaliere. O addirittura di farsene grande debitore. Infatti come potrebbe governare senza il sostegno dei leghisti o dei cattolici clericali?

Ma è evidente che Berlusconi recalcitra davanti a questa prospettiva. «Adesso tutti sanno chi comanda» - avrebbe detto all’indomani del successo (di immagine e di ospitalità) del G8, contando sulla risonanza mediatica delle sue parole. Staremo a vedere. Qui torna in gioco la «società civile» depressa, disillusa, frammentata di cui stiamo parlando. Il berlusconismo con i suoi tratti di populismo democratico ha riempito il vuoto che si era prodotto con la crisi dei vecchi sistemi di rappresentanza partitica. Il leader populista, mediatico, crea l’immediatezza della rappresentanza, del rapporto diretto con la gente.

Ma questa situazione regge quando è onorata con l’effettiva capacità decisionale. Ed è evidente che la «politica del fare» ordinario di cui parla sempre il Cavaliere ha toccato i suoi limiti. La prossima mossa sarà la riforma o la forzatura istituzionale in direzione del rafforzamento dell’esecutivo.

A questo proposito non è un mistero che l’idea di competenze decisionali più forti per il governo è sempre più popolare in Italia. Su questo sentimento Berlusconi giocherà la sua carta più impegnativa, scontrandosi con la netta opposizione della sinistra e dei moderati di centro.

Ma il gioco sarà a tre: Berlusconi, l’opposizione e ciò che resta della società civile.

E’ importante che il Partito democratico si prepari a discutere apertamente e in modo competente questa problematica - evitando sia di affidarsi ai soli professionisti dei sistemi costituzionali sia ai comprensibili allarmi di possibili scivolamenti autoritari, che da noi sono immediatamente associati all’esperienza storica del fascismo. Discutere, argomentare seriamente e serenamente su riforme costituzionali tenendo presenti i modelli e le esperienze degli ultimi decenni in Europa. E’ una sfida importante in grado di risvegliare e rianimare su temi politici forti anche la società civile.

 
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 03, 2009, 03:25:01 pm »

3/8/2009
 
Quante insidie per la Spd
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 

E’ davvero finita l’età della socialdemocrazia? Proprio in Germania, la nazione che ne ha registrato i successi storici più grandi, accanto alle sue sconfitte più dolorose? Il segnale sembra modesto ma l’effetto è imprevedibile. Nei giorni scorsi le principali organizzazioni sindacali, seguendo l’esempio dell’Ig Metall, il potente sindacato dei metalmeccanici (2,3 milioni di iscritti), hanno rinunciato ufficialmente a dare indicazioni di voto ai propri membri, in previsione delle prossime elezioni di settembre. È un brutto colpo per la Spd, per la sua identità di grande partito dei lavoratori. È un atto di sfiducia nel suo programma sociale. È un pessimo segnale per il possibile esito elettorale.

A questo punto parlare di crisi della sinistra tedesca è un eufemismo. Ma in che senso la Spd si considera ancora prima di tutto un «partito di sinistra», un partito di rappresentanza operaia con vocazione di «partito popolare»? Non si è già presentato forse come una formazione politica rappresentativa di «un nuovo centro»? Questa era stata la definizione coniata dal cancelliere Gerhard Schroeder che ha vinto le elezioni del 1988, affiancato da Oskar Lafontaine (adesso leader della sinistra antagonista Linke). E allora il sindacato si era apertamente schierato con la socialdemocrazia. Che cosa è accaduto nel frattempo? La prospettiva schroederiana del nuovo centro progressista è fallita. Ha innescato movimenti centrifughi. Si è consumata la più profonda crisi di rappresentanza politica della storia della sinistra tedesca. Il grande mondo del precariato giovanile, della disoccupazione, dell’impoverimento dei ceti medi non trova più rappresentanza nella socialdemocrazia. Ma dove altrimenti? Da qui l’enorme incertezza dell’elettorato tedesco. Ne sono un sintomo le parole stesse del leader sindacale dei metalmeccanici. Limitandosi a dire che non avrebbe fatto più alcuna raccomandazione di voto, prima che un atto di accusa contro la Spd, la sua è stata un’ammissione di impotenza. «Sono finiti i tempi in cui i sindacati potevano raccomandare “vota questo o quello”». E molti lavoratori - ha aggiunto - voteranno il partito della cancelliera Angela Merkel. Perché? Non c’è contraddizione tra questa constatazione e la critica che il leader sindacale continua a rivolgere ai partiti dell’Unione democristiana (Cdu e Csu), prevedendo che una loro coalizione con i liberali (Fdp), dopo le elezioni di settembre, «privilegerà i benestanti e porterà tagli nella spesa sociale».

Ma perché allora il sindacato non sostiene la socialdemocrazia? La Spd ha agito così male nella esperienza della Grande Coalizione? In realtà la Grande Coalizione è stata una buona operazione di contenimento, non la soluzione dei problemi. I sindacati puntano il dito contro l’aumento dell’età pensionabile e contro il taglio delle indennità di occupazione. Ma non dicono nessuna parola di apprezzamento circa lo sforzo fatto dalla socialdemocrazia al governo per tenere testa con successo alla crisi degli ultimi mesi, per guidare con fermezza la politica di intervento dello Stato nel sistema bancario, per tentare di risolvere, in modo talvolta controverso, singole difficili situazioni. (Compresa la vicenda, tuttora aperta, della Opel dove proprio il sindacato è stato decisivo nel bloccare la proposta Fiat).

In questa congiuntura il partito socialdemocratico - stretto attorno al suo candidato alla cancelleria Frank-Walter Steinmeier - gioca tutta la sua partita nel presentarsi agli elettori come partito-di-governo di responsabilità nazionale, con un «team di competenti», ricco di una visione complessiva valida per quell’aggregato di ceti e interessi, spesso tra loro incompatibili, che costituisce la struttura sociale di oggi. Ma non riesce a farsi capire. Di contro i sindacati tradizionali sembrano fatalmente costretti a tenere presenti soprattutto gli interessi diretti e concreti dei loro iscritti, che pure sono relativamente privilegiati rispetto a milioni di altri lavoratori. Già altre volte nella storia tedesca si è presentata - a sinistra - questa situazione di tensione tra istanze di competenza nazionale generale e legittima rappresentanza degli interessi dando luogo ad acute crisi di lealtà. O semplicemente frustrazioni che portano alla disaffezione e all’assenteismo. Ma a ben vedere questo è il dilemma dell’intera sinistra europea, che si declina in modo diverso da Paese a Paese.

In Germania tuttavia ci sono ancora due elementi da considerare. Da un lato c’è la presenza insidiosa della Linke, della «sinistra antagonista», verso la quale le alte dirigenze socialdemocratiche e sindacali mostrano netta chiusura. Anche se nessuno lo dice ad alta voce, qui si è aperta la più grande scommessa del futuro della sinistra. Dall’altro lato c’è la capacità di gestione governativa della cancelliera Angela Merkel. Qualcuno dice che si tratta di abilità di comunicazione piuttosto che di effettiva capacità di decisione, che è frutto di collegialità o di bilanciamento tra le parti al governo. Ma se anche fosse così, non sarebbe poca cosa. Soprattutto se il risultato è che i ceti meno abbienti anziché rivolgersi alla socialdemocrazia si fidano della loro cancelliera. Siamo davanti a un classico caso di efficacia della leadership al di là delle appartenenze di partito. È una situazione che la sinistra non apprezza a motivo della sua tradizionale diffidenza verso il principio della leadership, a dispetto del fatto che l’ha praticato abbondantemente in tutte le sue varianti, socialiste e comuniste. La Spd ha accettato questa sfida costruendo la sua nuova leadership (Steinmeier) e il suo team di competenti. Ma la partita sarà dura.

da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 13, 2009, 03:56:24 pm »

13/8/2009
 
La debolezza della cultura laica
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
La religione conta o non conta nel processo formativo scolastico? Su questo tema nelle scorse ore sono state fatte affermazioni incompatibili.

«Sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può essere oggetto di valutazione sul piano del profitto scolastico». In parole povere, l’ora di religione non deve entrare nella valutazione scolastica complessiva. Questa è la sentenza del Tar del Lazio, in sintonia con il principio della laicità dello Stato.

Diametralmente opposta è la tesi del vescovo Pennisi, Commissario della Cei per la scuola: «La religione è una materia come le altre. La sentenza del Tar è vergognosa e gravissima perché nega crediti scolastici all’ora di religione, malgrado il suo processo formativo entri nella didattica».

Come è possibile che si sia arrivati a questo contrasto? Questo dilemma mette a nudo una questione di fondo sempre elusa.

Gli italiani non sanno a chi affidare l’etica pubblica, di cui l’educazione e formazione scolastica è parte essenziale e fondante. La religione cattolica (intesa nella sua versione ecclesiastica stretta) diventa così in Italia la grande supplente dell’etica pubblica, di cui l’ora di religione cattolica è una componente decisiva.

Naturalmente la Chiesa con questo suo ruolo supplente non può sovrapporsi apertamente alla natura laica dello Stato, che anzi si premura sempre di riaffermare. Ma di fatto aggira questa difficoltà, quando pretende di definire essa stessa che cosa sia la «vera e sana laicità» - dentro e fuori la scuola. Per questo conta su una classe politica insicura e ricattabile. Dichiara di gestire quella che ritiene una tradizione italiana («la religione degli italiani»). Non a caso in queste ore una voce di protesta cattolica ha definito quella del Tar una «sentenza ideologica che cerca di distruggere le tradizioni italiane e il sentire della gente».

Siamo di nuovo alla vigilia di un’ennesima battaglia che finirà in politica. In effetti, con maliziosa correttezza il Presidente della Commissione Episcopale per l'Educazione Cattolica ha commentato: «La Chiesa non farà ricorso contro la sentenza. Il problema è del ministero della Pubblica istruzione».

Appunto.

Ma quello su cui vorrei attirare l’attenzione ora non è la strategia della Chiesa e dei cattolici militanti, che con il loro apparato mediatico condurranno in porto la loro battaglia con la consueta spregiudicatezza. Mi pongo invece due altre domande: 1) perché tantissime famiglie italiane invitano o consentono ai loro figli di frequentare l’ora di religione, senza essere particolarmente credenti, praticanti o devote? 2) Perché la cultura laica non è riuscita a porre seriamente in discussione la tradizionale ora di religione, nei suoi contenuti e nelle sue competenze (non dimentichiamo che l’unica autorità che decide della competenza professionale dell’insegnante è il Vescovo…)? I due problemi - passività delle famiglie e debolezza della cultura laica - sono strettamente connessi.

Perché non si è mai riusciti a proporre in alternativa all’ora di religione confessionale non dico un’ora di educazione civica o di etica - come avviene in alcuni paesi europei - ma semplicemente lo studio del fenomeno religioso o delle religioni in grande prospettiva storica comparata? Dove, se non a scuola, si impara la lunga dialettica storica del contrasto tra le religioni storiche e il loro attuale «dialogo»? Perché mai dovrebbe essere competente soltanto chi è autorizzato dal vescovo, che ne è paradossalmente parte in causa?

La laicità non è nemica della religione, tanto meno di quella cattolica, ma deve rinunciare ad una ampia visione storico-critica, anche se rispettosa delle singole credenze. Faccio un esempio. Un paio d’anni fa Ratzinger nella sua lezione di Ratisbona parlò della «ellenizzazione del cristianesimo» come fondamento della «razionalità della fede» che consente di combattere tutt’oggi efficacemente lo scientismo e il relativismo tipici dell’Occidente secolare. Detta così, quella della «ellenizzazione del cristianesimo» sembra (e sembrò a molti cattolici) una questione storico-dogmatica remota, mentre non lo è affatto. Ed è una tesi altamente controversa e a suo modo attuale con questo Papa. Ma in quante ore di religione nei licei - dove si studiano Platone, Kant e Darwin - se ne è parlato? Quali competenze hanno gli insegnanti su questo tema ? Se è sempre il solo vescovo a decidere? Ha senso che ciò accada in uno Stato laico? Questo è il vero problema, non il voto negli scrutini!
 
da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 25, 2009, 07:49:01 pm »

25/8/2009


Quale unità d'Italia celebriamo
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Assisteremo alla monetizzazione della celebrazione dell’anniversario dell’unità d’Italia. «Quanto ci costerà?» - è la domanda-chiave del governo. Non si chiede «che cosa esattamente dovremo celebrare?». Questa domanda infatti rischierebbe di mettere in crisi il governo, ben più seriamente dei comportamenti del premier. Il leghismo, sicuro della propria impunità, continuerà la sua recita anti-italiana grazie anche ad un sistema mediatico senza spina dorsale.

Nell’attuale clima politico la Lega non ha più nulla da temere, neppure dai rappresentanti dell’ex Alleanza nazionale, che si limitano a fare battute imbarazzate, pur di non mettere in difficoltà il governo cui sono attaccatissimi.

Sono passati quindici anni da quando ci siamo interrogati se non fossimo sul punto di «cessare di essere una nazione». Da allora, apparentemente non è successo nulla. In realtà il processo è andato avanti sotterraneamente, ma la questione di fondo è stata congelata, elusa. Certo: il linguaggio pubblico «politicamente corretto» ha adottato un tenue vocabolario patriottico. E’ tornata in onore la bandiera nazionale. Ma niente di impegnativo.

In tutti questi anni la cultura politica ha mancato di affrontare alla radice il problema storico della nazione italiana - a dispetto del lavoro fatto dalla storiografia che è rimasto sostanzialmente chiuso nel circuito accademico. La classe politica e i suoi rappresentanti intellettuali non hanno saputo elaborare un punto di vista storico-politico attuale da cui rivisitare in modo innovativo la storia nazionale. L’importante concetto di «patriottismo costituzionale», messo a fuoco quindici anni fa, è stato annacquato in una retorica nominalistica oppure criticato con toni di sufficienza per la sua presunta astrattezza. Così oggi siamo al punto di prima, anzi peggio di prima. Culturalmente immiseriti e profondamente divisi sul piano politico.

Ma che cosa si deve «celebrare» nel 150ª dell’Unità d’Italia? La dinamica politico-diplomatica (anche internazionale) con cui si è arrivati nel 1861 all’unificazione, per altro incompleta per le significative assenze di Venezia, Roma e naturalmente Trento e Trieste? Dobbiamo festeggiare le decisioni immediatamente prese in tema di centralizzazione statale anziché di decentramento amministrativo? O chiederci perché si è scartata l’opzione federalista che pure era stata presa in considerazione? Non è il caso di rivedere seriamente il pensiero di Carlo Cattaneo per sbugiardare Bossi e i suoi che lo citano? Dobbiamo ripercorrere criticamente la politica sociale e culturale adottata per «fare gli italiani»? O riaprire ancora una volta la questione della piemontesizzazione o, viceversa, della meridionalizzazione dell’apparato statale? O la piaga del brigantaggio? Dobbiamo ignorare la sconsiderata, irragionevole opposizione della Chiesa che ancora oggi la storiografia clericale si ostina a presentare in termini di «persecuzione laicista» della Chiesa?

Come si vede, i motivi di riflessione sono innumerevoli. Non sono per niente nuovi, ma arricchiti di materiali documentari sempre più ampi. Ciò che manca è la capacità di sintesi che sappia offrire anche una proposta o un’ipotesi di «educazione civile» per una nuova identità collettiva oggi, in una società tentata come mai da rotture centrifughe. E’ solo incapacità della classe politica nel suo insieme? Oppure siamo davanti ad una disgregazione profonda della società civile stessa? In questa situazione chi deve tentare la sintesi di cui parliamo?

Ricordo anni fa il tono deciso con cui un noto storico, oggi attivamente coinvolto in prima persona in questa problematica, respingeva come inaccettabile l’idea che dovessero essere gli storici ad assumere il ruolo di interpreti della nuova coscienza nazionale democratica (nell’ottica ad esempio del «patriottismo costituzionale»). Il compito degli storici - mi è stato replicato - è quello di analizzare e criticare, non di proporre forme di educazione alla nazione democratica. Era una risposta apparentemente ineccepibile, in realtà dettata dal timore di nuove «egemonie culturali» (di sinistra). Di fatto non c’è stato alcun tentativo egemonico né da sinistra né da destra né dal centro. Il risultato è lo strazio attuale. Una storia-fai-da-te con un impressionante impoverimento culturale generale.

Tornando alle celebrazioni dell’Unità, non so quali siano i compiti specifici del Comitato istituito ad hoc. Non potrà certo limitarsi a fare un elenco di manifestazioni, di incontri, di conferenze di alto livello o di iniziative mediatiche e artistico-letterarie connesse. Nel clima politico odierno non potrà dare per scontato il senso dell’anniversario. Generiche e solenni dichiarazioni di circostanza sarebbero fuori luogo. D’altro lato non ci si può aspettare in quella sede una rivisitazione storica approfondita a tutto tondo dell’evento celebrato, sia pure accompagnato dalle necessarie considerazioni critiche e problematiche. Questo è un tipico lavoro che attendiamo venga fatto in sede scientifica adeguata. Ma ritengo che il Comitato debba esprimere comunque un chiaro orientamento che tenga conto dei quesiti ricordati sopra: che cosa celebriamo esattamente? Quale valore specifico ci trasmette oggi quell’evento storico, al di là della ricorrenza del calendario? Quali sono le buone ragioni per continuare ad essere oggi una nazione unitaria?

E’ facile prevedere che un testo che tentasse di rispondere a queste domande si presterà a critiche da tutte le parti. Ma non è questo il punto. Trovo importante che in sede responsabile non si faccia finta di nulla, ma si abbia il coraggio di offrire una interpretazione che risponda agli interrogativi che si pongono gli italiani più sensibili. Anche se non taciterà i cattivi italiani.

da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:08:35 pm »

2/9/2009

La Germania cambia tutto non la Merkel
   
GIAN ENRICO RUSCONI

Le prossime elezioni tedesche di fine settembre creeranno una situazione paradossale. Da un lato ci sarà un cambiamento significativo nella struttura e nella rappresentanza partitica della Germania; dall’altro questa svolta sarà affidata ad una donna cancelliere - Angela Merkel - che in qualche modo in questi anni ha accompagnato l’eutanasia del vecchio sistema tedesco. Con stupore ci si chiede chi sia esattamente questa professionista della politica che non ha nulla dell’arroganza e della supponenza del professionista, ma guida con sicurezza il governo. Cambia opinione, oscilla nei programmi, fa concessioni e compromissioni ma dà l’impressione d’avere sempre in mano la situazione. Non assume mai toni enfatici o carismatici ma appare convincente e soprattutto popolare. In breve è rimasto l’unico punto fermo in un universo politico in movimento.

Il segreto del grande leader è ottenere fiducia, qualunque cosa abbia in testa. Persino quando non sa nemmeno lui che cosa farà. Questa è Angela Merkel oggi. Soprattutto dopo l’esito negativo per il suo partito, la Cdu, nelle elezioni regionali dei giorni scorsi. La nomenclatura cristiano-democratica non la ama; anzi è irritata e stupita. Non riesce a capacitarsi di come la Cdu perda consensi mentre ne guadagna la persona della cancelliera.

Ma devono ammettere che soltanto la Merkel è in grado di garantire che l’imminente passaggio elettorale non sia traumatico.

I risultati delle ultime consultazioni regionali con la punizione della Cdu e della Spd, l’avanzata della «sinistra antagonista», la Linke, dei liberali, dei verdi non vanno letti come semplice riassetto numerico delle formazioni in campo. Non è un riassestamento per il quale è prevedibile, anzi è già iniziato il gioco delle varie possibili alternative di coalizione. È un intero equilibrio storico di sistema che sta cambiando.

Si va verso un sistema «pentapartitico» che solleva facili associazioni con la Prima repubblica italiana. Ma l’evocazione della «italianizzazione» del sistema politico tedesco è soltanto una battuta scaramantica. A parte la sgradevolezza del confronto, i politici tedeschi non sembrano attrezzati ad affrontare la nuova situazione. Sono stati presi in contropiede, nonostante da anni si delineasse il nuovo orientamento.

La Germania è l’unico grande Paese europeo la cui struttura politico-partitica di fondo è durata sostanzialmente sessant'anni, anche grazie alle condizioni eccezionali della guerra fredda che l’ha costituita intimamente sin dall’origine. Ebbene la nuova dinamica che si annuncia oggi è tanto più pressante in quanto paradossalmente tardiva. A ben vedere, infatti è l’effetto ritardato della caduta del Muro: la fine dei macroequilibri politici mondiali, con lo spostamento del confronto dalla sfida militare alla competizione per le risorse energetiche che intaccano direttamente la vita quotidiana dei cittadini. Poi ci sono le attese deluse della occidentalizzazione delle regioni orientali e la frustrazione generalizzata per la paralisi dell’Europa politica. Gli elettori sono sconcertati e abbandonano le vecchie fedeltà.

Sotto l’accelerazione di questi problemi, resi più acuti dall’ultima crisi economico-finanziaria, in Germania si registra una mutazione politica interna che altri sistemi politici hanno già attraversato, approdando magari al presidenzialismo di stile sarkozista o al berlusconismo. So benissimo che questi riferimenti non piacciono per nulla ai politici tedeschi. Ma aspettiamo la loro soluzione «alla tedesca».

Il discorso torna così alla cancelliera Merkel. È lei la scommessa che le novità imminenti non siano traumatiche. È lei la garanzia che ci sarà abbastanza «conservazione» nella «mutazione». Come tutto questo si traduca della politica pratica non è facile da prevedere. Come non è prevedibile quale combinazione di partiti o coalizione garantisca questa buona politica. Ma forse che le decisioni prese dalla Merkel nel corso del suo mandato, che l’ha resa tanto popolare, sono state di «destra» piuttosto che di «sinistra»? Nessuno è in grado di definirle in questi termini convenzionali.

Siamo così al punto istituzionale che per i tedeschi è ovvio mentre per gli italiani è motivo di infinita gelosia: l’istituto del cancellierato come garanzia di competenze decisionali in grado di orientare in modo autorevole una compagine di governo (anche quando è basata su una coalizione).

Autorevolezza del cancelliere non vuol dire la pretesa di essere esonerati dalle critiche o esibire un decisionismo per ripicca, contro l’opposizione. Anzi più di quanto non appaia dall’esterno, il grande cancellierato coincide con una straordinaria capacità di creare sinergie all’interno delle forze di governo. E di ottenere il combattivo rispetto dell’opposizione.

Naturalmente la storia del cancellierato tedesco non è tutta lineare o priva di momenti di grandi tensioni e contraddizioni. Ma i momenti più felici della storia politica, sociale ed economica tedesca hanno sempre coinciso con figure notevoli di cancellieri, interpreti con la loro stessa personalità del clima di un’epoca. Personalità di valore dentro ad un plusvalore istituzionale.

Questo è probabilmente il segreto del successo addirittura «anticipato» di Angela Merkel di questi giorni.

Naturalmente parlo di promessa o forse più realisticamente è meglio parlare di scommessa.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:46:56 am »

7/9/2009

Boffo, se il killer è un amico
   
GIAN ENRICO RUSCONI


E’ superficiale leggere lo sconcerto dei vertici della Chiesa italiana in chiave di regolamento di conti tra cardinali. Non c’è dubbio che assistiamo a una collisione tra strutture di governo ecclesiastico. Ma il contrasto nel giudizio su quanto è «accaduto davvero» nella vicenda Boffo, e le differenze nella diagnosi e nella strategia per uscirne, vengono dal profondo di una Chiesa in cui da troppo tempo le voci dissonanti sono mortificate. Voci spesso denunciate come conniventi con il nemico laicista.

Non è un caso che le contraddizioni siano esplose proprio al vertice dell’organo ufficiale della Chiesa italiana, quando sembrava che esprimesse giudizi articolati, differenziati, controversi, ma presenti nella Chiesa. Ma il killer, che lo ha colpito al cuore, veniva dal campo politico amico.

Il risultato è stato un danno d’immagine, che soltanto un paio di settimane fa sarebbe stato inconcepibile. Tuttavia, dietro al problema d’immagine, è venuto alla luce qualcosa di più essenziale. Si è improvvisamente constatato che gli organi della Chiesa non sono in grado di controllare quella sfera pubblica e mediatica nella quale ritenevano di potersi muovere con sovrana sicurezza. È un colpo al mito della Chiesa come l’istituzione più abile nel gestire la propria comunicazione pubblica.

Per il momento non le resta che sfruttare a fondo l’immagine di «vittima» di un sistema mediatico imbarbarito.

Questo accade proprio nel momento in cui autorevoli commentatori insistono nel dire che la vera discriminante della nuova laicità è l’apertura incondizionata della sfera pubblica al discorso religioso. Ma se c’è qualcosa di nuovo nella traumatica vicenda Boffo, è l’assoluta assenza del tema religioso o laico.

Nelle prossime ore ci sarà certamente la corsa da parte delle istituzioni ecclesiali e governative a sdrammatizzare la situazione. È chiaro che la Chiesa italiana non rinuncerà masochisticamente alle generose offerte che le farà il governo (il quale, nelle parole testuali del presidente del Consiglio, pronunciate tempo fa, si è dichiarato «compiacente verso la Chiesa»). Ma è altrettanto evidente che si è rotto irreversibilmente il vecchio equilibrio che consentiva di mettere sullo stesso piano i nemici politici dell’attuale maggioranza e i nemici della Chiesa. I tempi per creare un nuovo equilibrio non saranno più lunghi dell’attuale legislatura. Il ciclo elettorale diventerà una variabile del comportamento della Chiesa in Italia. Quello che ci si aspetta - anche da parte laica - dopo l’amara lezione di questi giorni, è un atteggiamento meno strumentale nei confronti della politica «compiacente», per coerenza con il suo quadro di valori.

Di fronte a questa problematica non esaltante ma realistica, non mi è chiara la tesi che Vittorio Messori ha espresso sul Corriere della Sera. Nella tensione di questi giorni nella Chiesa vede il segno di «una strategia di lungo respiro del Papa per contrastare un inaccettabile “federalismo clericale”». Messori è uomo addentro alle cose della Chiesa. Avrà quindi i suoi motivi per sostenere questa tesi o magari soltanto per esprimere un suo augurio. Ma non vorrei che si confondessero piani diversi. Per la Chiesa cattolica come tale mi sembra un dato positivo e acquisito che l’unicità dei principi del Credo trovi una pluralità di espressioni politico-istituzionali nelle diverse Chiese nazionali o addirittura continentali. Può darsi in Italia il pericolo di un «federalismo clericale» sia più accentuato che altrove. Ma non credo che possa essere corretto con il richiamo ai grandi fondamenti unitari di fede, quando è in gioco la politica. Alla politica del resto si rivolge direttamente lo stesso Pontefice quando le raccomanda di seguire le indicazioni morali della Chiesa. L’incidente Boffo non ha nulla a che vedere con la fede, ma con un cattivo uso strategico della politica.

da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Settembre 15, 2009, 10:23:44 am »

15/9/2009

Italia anche questa è democrazia
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia che c’è. O che ci meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli sprovveduti o dei turlupinati? Stento a crederlo. O se sono complici, di che cosa sono complici esattamente?

L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti i fenomeni attuali segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono per differenza da ciò che c’era prima - un prima spesso idealizzato.

Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia del catastrofismo - c’è mai stato un momento storico in cui funzionava una buona democrazia o quanto meno una democrazia accettabile? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo. Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», «la democrazia senza alternanza», «l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell’applauso» (Bobbio 1984)?

Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?

Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia natura). Ma perché soltanto nel nostro Paese questi fattori hanno prodotto l’ascesa irresistibile di un personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi) sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti? Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni bufera.

I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e intellettuali, si tengono ben stretto il successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun serio tentativo di dare una forma concettuale o ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a parlare e a dettare l’agenda politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri reagiscono, compresa l’opposizione. L’indifferenza intellettuale personale del Cavaliere verso la qualità culturale del consenso/dissenso di cui può godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi gli intellettuali di professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il giornalismo nasconda l’ostilità al ceto intellettuale come tale. Se è così, siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese tradizionalmente caratterizzato dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma a ben vedere l’impoverimento della riflessione politica e ideologica è l’altra faccia della logica del sistema comunicativo mediatico-televisivo rispetto alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della cultura. La politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso mediatico continuo.

Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un istante a riflettere. Per decenni a sinistra la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche al sistema italiano) e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.

Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due ragioni: per la rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la centralità assegnata nel gergo politico al concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della Lega. In entrambi i casi il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.

Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori». Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali seguendo il leader. Di più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia. Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti a una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.

Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare l’anomalia italiana molti analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.

E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di negare l’esistenza di gruppi, settori, pezzi di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma è inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico» come se fossero due poli ed entità autonome.

Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da decifrare. Le pulsioni autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non sono sufficienti per tracciare una diagnosi di una possibile, sia pure soffice, fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi democratici nel Paese, dentro e fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo tuttavia ad una mutazione profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta. Ma può e deve essere guidata. Chi ne ha la capacità?

da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:22:13 pm »

9/10/2009
 
Le urne usate come minaccia
 

GIAN ENRICO RUSCONI
 
Ci siamo fermati sull’orlo del precipizio, davanti allo scontro frontale delle istituzioni. Sussurri e grida ce ne saranno ancora; voleranno parole grosse, indegne di un sistema democratico normale o semplicemente decente. Ma ormai ci siamo abituati. L’incontinenza verbale nei media e sulle piazze accompagna la nostra mutazione democratica.

Sulle conseguenze immediate della sentenza della Consulta, il presidente del Consiglio e l’opposizione sembrano dire la stessa cosa: la politica deve andare avanti, perché la giustizia si muove su un altro piano. I due piani non interferiscono e non devono interferire. Un’affermazione del genere sarebbe stata inconcepibile anni or sono, quando è incominciato tutto. È una contraddizione? È una resipiscenza? No. È una finzione. Infatti il rapporto conflittuale tra politica e giustizia, per quanto riguarda il presidente del Consiglio, non si è affatto risolto ma ha contribuito a cambiare radicalmente il quadro politico.

Berlusconi e il Pd hanno in mente due «continuità» della politica molto diverse. All’offensiva quella del premier, in difensiva quella dell’opposizione. La prima mira a cambiare le regole del gioco democratico, l’opposizione ritiene invece di poter contare sulla tenuta di quel che resta della struttura istituzionale e della rappresentanza politica tradizionale. Dietro lo scontro tra maggioranza e minoranza c’è un paese profondamente diviso e incattivito come non mai. Si annunciano mobilitazioni sotto tutti i segni.

Al di là della cronaca di queste ore, cerchiamo di capire la dinamica di fondo che è in atto e che produce la mutazione della nostra democrazia. Berlusconi dispone di due risorse importanti: il sostegno della sua maggioranza parlamentare e lo spregiudicato attivismo di un potente sistema informativo. Eppure maggioranza e apparato mediatico nulla potrebbero senza il «popolo» berlusconiano. Questa è la vera risorsa vincente, usata come una minaccia contro gli avversari.

Una rivoluzione di mentalità
È straordinario come il Cavaliere sia riuscito a ri-attivare l’idea stessa di «popolo» versando il prestigio di questo antico concetto in forme nuove. Quello di Berlusconi infatti è il popolo di chi lo ha votato - è il popolo-degli-elettori che si considera senz’altro il demos, depositario dell’intera sovranità. È la sovranità che la Corte costituzionale ritiene di interpretare e che ora viene brandita minacciosamente contro di essa.
Non si insisterà mai abbastanza su questa rivoluzione di mentalità. Chi vota e vince con Berlusconi pretende di cambiare le regole, tutte le regole, anche quelle costituzionali. L’atteggiamento predatorio nei confronti della Costituzione si accompagna a una esasperata politicizzazione (o accusa di politicizzazione) di tutti gli ambiti istituzionali. Tutto è diventato politico in senso partitico. Si tratta di una politicizzazione basata sulla coppia amico/nemico.

Aggressione verbale pericolosa
Non sorridiamo più quando Berlusconi e i suoi sostenitori vedono ovunque «comunisti» o «sinistra» come nemici da neutralizzare. Ma non siamo per niente tranquillizzati se dal campo della sinistra o comunque degli oppositori di Berlusconi si replica con gli stessi toni. L’aggressione verbale diventa pericolosa quando investe il fondamento costituzionale della separazione dei poteri dello Stato democratico. In tutti i paesi democratici del mondo le Corti supreme rispecchiano gli orientamenti politici delle rispettive nazioni - dagli Stati Uniti alla Germania. Ed è tutt’altro che infrequente che si avanzino riserve su determinate sentenze imputandole proprio a maggioranze di parte. Ma, a prescindere dalla civiltà delle espressioni verbali normalmente usate, non si accetterebbero mai gli argomenti «politici» usati dal nostro premier quando commenta la sentenza della Corte.

Questo atteggiamento è strettamente connesso all’appello al popolo-elettore nel senso detto sopra. Il Presidente della Repubblica e i membri della Consulta sono stati scelti dalla parte politica avversa - insiste polemicamente Berlusconi - e quindi vanno trattati come avversari politici. L’idea del sapiente anche se faticoso equilibrio tra le istituzioni fondamentali, quale previsto dalla Costituzione, sembra estranea al nuovo populismo.

da lastampa.it
 
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 20, 2009, 10:06:15 am »

20/10/2009

L'Islam e l'identità nazionale
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Le incertezze tra gli uomini di Chiesa a proposito dell’ipotesi dell’insegnamento della religione islamica nelle scuole rivelano le incongruenze in cui si trova la gerarchia ecclesiastica in tema di insegnamento religioso. Ma l’intervento perentorio del cardinale Bagnasco che definisce l’ora di religione, quale oggi è praticata in Italia, «non una catechesi confessionale ma una disciplina di cultura» trasforma l’incongruenza in contraddizione.

Infatti se fosse vero quello che afferma il cardinale, allora l’ora di religione sarebbe un’espressione di cultura e di etica civile nazionale (addirittura con il richiamo al Concordato). I vescovi italiani, da cui dipendono gli insegnanti di religione, ne sarebbero i garanti. Di conseguenza gli islamici non potrebbero avanzare una rivendicazione analoga perché introdurrebbero nella scuola una cultura estranea alla scuola stessa. Con questo ragionamento si mostra in modo maldestro che la religione a scuola viene usata - impropriamente - come identikit o surrogato della cultura nazionale.

Ma lo zelo furbesco di promuovere la dottrina cattolica come esperienza culturale per radicarla nella scuola (equiparandola senz’altro alle altre discipline, voto compreso) si accompagna al suo impoverimento di contenuto teologico in senso proprio. La raccomandazione che talvolta fa Papa Ratzinger di non confondere fede religiosa e cultura viene smentita proprio a casa sua.

Chiariamo subito un equivoco. Qui non stiamo parlando di un tema che interessa i credenti o viceversa i soliti rompiscatole dei laici (pardon, laicisti). Non è neppure la chiamata alle armi dei difensori dell’identità italiana per contrastare l’islamizzazione del nostro Paese. E’ grottesco che in prima fila in questa eroica impresa ci sia la Lega che contemporaneamente mira a disfare la nazione italiana. Qui è in gioco il concetto di cittadinanza.

E’ in gioco la libertà di espressione e di fede di tutti i cittadini. E’ in gioco la libertà religiosa nella sue forme più qualificate, compreso il diritto all’educazione dei propri figli. Queste cose le sanno benissimo i cattolici quando sono in minoranza e devono combattere per i loro diritti. E’ incredibile che si debbano ricordare loro questi principi quando sono in comoda maggioranza. Ma siamo arrivati a questo punto in un Paese dove il ministro Maroni, dall’alto della sua competenza teologica, dice che l’Islam, privo di un’istituzionalizzazione dogmatica secondo i nostri criteri, non è una fede in sintonia con la nostra alta cultura religiosa. In questo si dichiara d’accordo con il cardinale Bagnasco.

Viene il sospetto (almeno per quanto riguarda il Presidente della Cei) che l’irrigidimento verso gli islamici sia una mossa cautelare per tenere testa all’altra richiesta, ben più impegnativa e per lui insidiosa, di introdurre l’ora di religione in Italia, basandola sul pluralismo delle confessioni e sull’analisi storica comparata delle religioni. In questo caso non c’è più l’alibi che la richiesta non sia solidamente fondata sulla pluralità delle tradizioni culturali dell’Europa e dell’Italia. Ma è un altro discorso.

Tornando all’ipotesi dell’ora di religione islamica, non siamo tanto ingenui da ignorarne i rischi e le difficoltà. Non soltanto a proposito della questione sempre sollevata circa il fondamentalismo religioso visto come la matrice del terrorismo. Non è un problema da prendere a cuor leggero. Tanto vale affrontarla a viso aperto. Ma qui vorrei ricordare un punto solitamente ignorato anche nel dibattito pubblico più disponibile al confronto interreligioso. Parlo delle incompatibilità teologiche e delle sue conseguenze.

Porterò un esempio concreto raccontando molto succintamente quanto è accaduto alcuni mesi fa in Germania, una società che per molti aspetti offre un panorama estremamente positivo dei rapporti tra le diverse culture e le diverse religioni. Si doveva assegnare un premio prestigioso ad alti esponenti delle Chiese e della cultura per i loro sforzi di dialogo interreligioso. Ma qualche settimana prima della premiazione, l’esponente islamico - un noto uomo di letteratura e di poesia - scriveva su un giornale un commento al famoso quadro della crocifissione di Guido Reni, presente in una chiesa romana. Un bellissimo pezzo estetico, letterario ma anche di contenuto teologico, che esprimeva la tesi islamica per cui l’idea di Cristo Dio crocifisso è una blasfemia per un musulmano. Una tesi che dovrebbe essere nota a tutti i conoscitori del Corano. Invece nella circostanza di quel premio scoppiò come una bomba e la tesi dello studioso islamico fu intesa come un’offesa al cristianesimo. I rappresentanti delle Chiese protestarono, si ritirarono dal premio innescando una vivacissima polemica giornalistica e mediatica. Improvvisamente il grande pubblico si rese conto che si era toccata l’incompatibilità dei punti di vista teologici.

A questo punto, come si può continuare a dialogare tra le religioni? Su che cosa si può dialogare? Ci si è presto resi conto che una minima competenza teologica reciproca (anche da parte dei laici) è una premessa indispensabile per non ridurre il colloquio interculturale e interreligioso a superficiali anche se benevole dichiarazioni di reciproca buona volontà.

Quella che è una sfida tra adulti responsabili può diventare un grosso disagio e sconcerto per le giovani generazioni che vivono fianco a fianco a scuola o in altri ambienti. Ma non è alzando barriere (pseudo) culturali o tracciando confini di separazione «identitaria» che si viene a capo di questi problemi. E’ il futuro che ci attende. Quella dei Bagnasco e dei Maroni è una risposta sbagliata.

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 30, 2009, 10:26:54 am »

30/10/2009

La lezione della Merkel pragmatismo senza illusioni
   
GIAN ENRICO RUSCONI

Non convince fino in fondo ma tranquillizza. Ci si fida di lei, della sua tattica cauta e attenta alle cose, priva di enfasi. Disinvolta nel mutare opinione e schietta nel descrivere la difficoltà della situazione economica e sociale.

Non cerca alibi, non punta il dito su presunti colpevoli. Ma questa volta, nominata cancelliera per la seconda volta, Angela Merkel ha davanti a sé una prova assai più dura della precedente.

E’ paradossale dire che era più facile governare con i socialdemocratici, considerati avversari politici, che non con partiti apparentemente più affini e amici (cristiano-sociali bavaresi e liberali). Ma è così. Lo dimostra il farraginoso e poco trasparente programma di governo messo a punto nelle scorse settimane. La promessa elettoralmente vincente (fatta soprattutto dai liberali) di allentare la pressione fiscale è stata mantenuta. Ma le decisioni operative enunciate lasciano un’infinità di dubbi circa la loro incidenza effettiva in vista dell’atteso effetto di rilancio della crescita e della creazione di posti di lavoro.

Per ora l’unica cosa certa è che per far fronte alla situazione aumenterà il debito pubblico. Si è permesso di dirlo pubblicamente lo stesso Presidente della Repubblica al momento della nomina formale della Cancelliera - e con toni preoccupati. La Merkel lo sa benissimo. E ha già anticipato che non c’è alcuna garanzia puntuale per la ripresa. «Cercheremo di realizzare le cose che ci siamo ripromessi». Una scommessa, insomma.

Tanta franchezza incoraggia e insieme disarma l’opposizione che avanza molte critiche e obiezioni, di segno più disparato. Ma di grandi visioni politiche coerenti e di grandi piani programmatici non c’è traccia nel panorama politico tedesco. Il pragmatismo merkeliano vince.

Ma si tratta pur sempre di un governo di coalizione dove i partner minori hanno un disperato bisogno di profilo politico, soprattutto i liberali. Il loro leader Guido Westerwelle incarna perfettamente questo bisogno. Lo si è visto nelle settimane scorse: sempre presente, puntiglioso, con una parlata tagliente, sprizzante sicurezza e attivismo. Come vicecancelliere e ministro degli Esteri avrà un rapporto particolarmente stretto con la Merkel. E’ prevedibile che dietro la facciata cordiale il rapporto crei tensione competitiva. Ma aspettiamo di vedere quali saranno gli inevitabili punti di contrasto. Nelle ultime ore nei rituali del passaggio delle consegne di governo è ricomparso anche il vicecancelliere uscente (e sfortunato concorrente per la cancelleria) il socialdemocratico Steinmeier. Non è un mistero che tra lui e la Merkel ci fosse un’intesa che andava al di là delle reciproche competenze. Loro due incarnavano meglio di altri lo spirito della Grande Coalizione, che la Merkel non esita oggi a lodare come esperienza molto positiva.

Da questo punto di vista, la sconfitta elettorale della socialdemocrazia deve essere stata doppiamente dolorosa per Steinmeier. In fondo la Spd si è elettoralmente svenata proprio per far funzionare la «sua» Grande Coalizione. Ma non si è trattato di un episodio. Non è esagerato infatti sostenere che nel 2009 si è chiuso per la Spd il ciclo iniziato nel 1959 con il famoso congresso e programma di Bad Godesberg.

E’ stupefacente ma insieme estremamente significativo che quel cinquantenario sia passato sotto silenzio. Rimosso. È come se la cesura storica della socialdemocrazia legata a Bad Godesberg sia stata assimilata così profondamente che cinquant’anni dopo, nell’anno 2009 che ha segnato il crollo elettorale più grave del dopoguerra della Spd, nessuno abbia più la capacità e il coraggio di misurare la distanza da quell’evento.

Da Bad Godesberg - espressione diventata per antonomasia simbolo della grande svolta del socialismo tedesco - è iniziata la storia dei successi politici della socialdemocrazia, caratterizzata dalle esperienze delle varie coalizioni guidate o sostenute dalla Spd, dalle sue strategie «di partito popolare» e di governo del «nuovo centro». Questo ciclo è esaurito, ma il valore storico retrospettivo del programma di Bad Godesberg rimane intatto.

Tante volte nei decenni scorsi si è detto e scritto che quel programma aveva esaurito il suo ruolo propulsivo. Aveva svolto la sua funzione storica di ridefinizione del socialismo democratico fuori dal dogmatismo marxista, in un momento storico strategicamente importante. Ma poi la Spd avrebbe dovuto trovare e sviluppare altri nuovi contenuti al di là di quel testo programmatico. Andare «oltre Bad Godesberg» è stato un ritornello ricorrente. In effetti si sono stesi altri programmi. Ma nessuno è stato l’equivalente di quel nome-simbolo, nessuno è riuscito mai a cancellarlo dalla memoria dei socialisti tedeschi. O a sostituirlo.

E’ tempo che i socialdemocratici tedeschi ritrovino oggi la forza, il coraggio intellettuale e la capacità di ripensare radicalmente che cosa vuol dire essere socialisti nel secolo XXI, che li sta mettendo a così dura prova. Altrimenti è davvero finita. E’ paradossale che la Merkel sia stata involontariamente la loro becchina.

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