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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 57117 volte)
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« inserito:: Luglio 03, 2008, 06:38:50 pm »

3/7/2008
 
Lontana Europa
 

 
GIAN ENRICO RUSCONI

 
L’Europa perde colpi, rischia la paralisi. Ma alla classe politica italiana sembra importare poco. Ha altre priorità. È tutta presa dalle tensioni politico-istituzionali interne. Come darle torto? Ma non è questo un segnale di quanto sia deteriorata la situazione nazionale rispetto al contesto europeo? Di quanto lontana sia la politica italiana dall’Europa?
L’ultimo contributo del governo italiano al progetto europeo è stata la parola «drizzone all’Europa», pronunciata con compiacimento da Berlusconi alcune settimane fa. Poi naturalmente non è successo nulla.

Ma intanto tra una decina di giorni ci sarà l’incontro fortemente voluto da Sarkozy (nel frattempo presidente di turno della Eu), per la creazione di un organismo che raccolga i Paesi mediterranei. L’Italia potrebbe esservi coinvolta in maniera significativa. Ma - al di fuori della ristretta cerchia di esperti - nessuno ne parla, nessuno ne discute. Qual è la linea del governo? Dobbiamo aspettarci un improvviso show Berlusconi-Sarkozy? È inaccettabile che il personalismo berlusconiano si proietti sull’intera politica estera ed europea - come se non esistesse un ministero degli Esteri. Per non parlare del Parlamento. Ma qualcuno conosce l’opinione dell’opposizione sul progetto mediterraneo?

Sarkozy ha assunto la presidenza semestrale dell’Unione con il consueto piglio decisionista, almeno a parole e a gesti. «Voglio un’Europa di identità, non di armonizzazione forzata». «Voglio praticare una pedagogia dell’opinione pubblica che è l’avanguardia dei mercati». Belle parole, ma il compito che l’attende è molto difficile.

Infatti al «no» irlandese si è aggiunto l’ultimo episodio del presidente polacco Kaczynski che si rifiuta di firmare il Trattato di Lisbona pur essendo già approvato dal Parlamento. Ma anche a Praga tutto è sospeso in attesa del pronunciamento della Corte. È vero che anche in Germania il Presidente della Repubblica attende il benestare della Corte costituzionale, ma in questo caso pare si tratti di un atto puramente formale.

Inutile dire però che nel nuovo clima europeo si sono prodotte delle ansie. In effetti la cancelliera Merkel è molto cauta, molto riservata. L’atteggiamento polacco e di Praga è motivo di forte preoccupazione. In più sono note le perplessità tedesche verso il progetto francese dell’Unione mediterranea, che non dovrebbe entrare in concorrenza con l’Unione Europea come tale. Ma non risulta che Berlino abbia consultato Roma in merito. Se c’era un argomento che avrebbe dovuto sollecitare considerazioni comuni tra Roma e Berlino era proprio questo. Ma da tempo i rapporti italo-tedeschi sono soltanto cordialmente «diplomatici».

Se confrontiamo la situazione attuale con quella di alcuni decenni fa, colpisce il progressivo allentamento dei contatti reciproci tra i ceti politici europei. Naturalmente si sono aperte molte sedi istituzionali per gli incontri: nel Parlamento europeo, nelle varie commissioni. Ma si ha l’impressione che si tratti di incontri formali, istituzionali anziché reali occasioni di scambio di conoscenze.

Ci fu un tempo in cui i partiti di sinistra e i vari gruppi di ispirazione democristiana si incontravano, discutevano, facevano piattaforme comuni. Adesso in Europa si è creata tra Paese e Paese una profonda dissimmetria tra i partiti che non consente più convergenze se non di carattere aritmetico. Ciò che conta è entrare nel raggruppamento A piuttosto che nel raggruppamento B magari per fare dispetto ai propri concorrenti nazionali. Siamo così al paradosso che, a mano a mano che avanza l’istituzionalizzazione europea, i contatti diretti tra i ceti politici si allentano. I problemi sociali ed economici dei Paesi europei sono molto simili, ma vengono affrontati sempre più in ottiche strettamente nazionali. Mai le politiche interne sono state così nazionalizzate.
In questo quadro che valore hanno le retoriche spesso ripetute tra i politici sull’Europa che deve stare vicina ai suoi cittadini?


da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:30:18 am »

20/8/2008
 
L'Europa spuntata
 
 
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
A che serve la Nato nel conflitto tra Russia e Georgia che l’Europa vorrebbe risolvere con la persuasione politica? È stata Washington a convocare la riunione di Bruxelles evidentemente per fare pressione o per mettere alla prova gli alleati europei. Il risultato - com’era da attendersi - è stato di fermezza verbale e di moderazione nella sostanza. Ciascun ministro degli Stati membri può dare la sua versione (compresa Condoleezza Rice) che è maggiormente gradita al proprio governo. Il rapporto tra Unione Europea e Nato rimane benevolo e ambiguo come sempre. D’altra parte senza la Nato non ci sarebbe l’Europa politica. È stato così storicamente sin dalla sua nascita. È così anche ora, a dispetto dei discorsi sulla capacità dell’Europa di gestire autorevolmente e autonomamente - a fronte dell’impotenza americana - la crisi più insidiosa del Continente dopo il 1989?

Il conflitto caucasico e la qualità delle difficoltà dell’Occidente a reagirvi in modo efficace presentano aspetti singolari. Non si tratta infatti di una delle «nuove guerre», su cui si discute da un paio di decenni, o di varianti del terrorismo. È una guerra che assomiglia molto a quelle «vecchie», «tradizionali», che rimettono in gioco grandezze e dinamiche che erano state dichiarate obsolete: sovranità statale, coercizione diplomatica, coercizione militare. E corrispondenti comportamenti militari sul campo. È accaduto grazie a una «vecchia» potenza, la Russia, che sembra oggi aver ritrovato se stessa. Ebbene, non è paradossale che l’Europa si trovi in difficoltà a gestire una situazione che assomiglia a molte che hanno caratterizzato la sua lunga storia?

Guardiamo più da vicino come ha reagito finora l’Europa di fronte alla crisi caucasica. Il suo protagonismo diplomatico si è dispiegato tempestivamente e virtuosamente, avendo però sempre sullo sfondo un ipotetico ricorso allo strumento militare da parte degli Usa, a sostegno della Georgia. Ma si trattava di una finzione. L’America di Bush infatti, che in teoria avrebbe potuto agire militarmente in difesa della Georgia, non era in grado di attuare alcun intervento né diretto né indiretto. Troppo pesanti sono stati gli errori dell’amministrazione repubblicana. L’America non poteva esercitare nessuna coercizione militare.

Ma - controintuitivamente - questa impotenza americana ha indebolito la stessa coercizione diplomatica messa in atto dall’Europa. Questo aspetto è sfuggito ai commentatori che hanno contrapposto e continuano a contrapporre la saggezza dell’iniziativa europea alla velleità americana. La Russia di Putin invece ha capito perfettamente d’avere davanti le due facce dello stesso Occidente. E si è comportata di conseguenza. La Russia di Putin, forte delle sue (vere o false, poco importa) ragioni nel Caucaso, non si lascia né intimidire né commuovere dalle raccomandazioni o dai rimproveri di chi comunque non è in grado di usare la forza. O meglio non sa legittimarla, in questo caso specifico, attivando le motivazioni (pacificatrici, «umanitarie» o di «lotta al terrorismo») che hanno portato la Nato e i soldati europei in Afghanistan, ad esempio, o in altre aree conflittuali. È passato il tempo in cui la Russia guardava con un misto di timidezza e di ammirazione al modello europeo. Ha ritrovato la sua forte identità competitiva, consapevole della sua nuova «potenza» che le deriva dal controllo delle fonti energetiche vitalmente indispensabili per l’Europa. Non sente neppure il bisogno di avere una «relazione speciale» con l’Unione Europea.

Torniamo al quesito di partenza. La Nato così come è oggi, strumento ereditato senza sostanziali mutamenti dal passato, dalla Guerra Fredda, e guidato sostanzialmente dagli Stati Uniti, è un fattore di forza o di debolezza all’attività politico-diplomatica dell’Europa? Non viene forse al pettine il peccato originale dell’Europa politica che risale alle sue origini, al 1954, quando la «piccola Europa», che oggi rappresenterebbe «il nucleo forte» della stessa Europa, ha rinunciato a creare tempestivamente un suo esercito comunitario (CED)? La vicenda di allora è complicata e non è il caso di ripercorrerla ora. Ma sin tanto che l’Unione Europea non disporrà di una credibile forza armata autonoma, non potrà esercitare neppure in modo credibile la sua forza di persuasione. Questo è il significato autentico dell’idea di un’Europa «potenza civile».
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:34:10 pm »

16/9/2008
 
La buona laicità
 
 
  
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Il lungo ciclo delle prese di posizione pubbliche di Papa Ratzinger, tra il discorso di Ratisbona (settembre 2006) e il solenne ricevimento all’Eliseo a Parigi (settembre 2008), si chiude con un successo di attenzione mediatica. Il Papa ha ribadito che il contrasto principale di oggi è tra «religione e laicismo». Nel contempo ha evocato benevolmente una «laicità positiva» lasciandone tuttavia indeterminati i contorni. A scanso di equivoci, però, lontano da Nicolas e Carla, ha invitato i Vescovi a non benedire «le unioni illegittime». Tutto deve tenere.

Sembra essersi affermata nell’opinione pubblica l’idea che ci sia il pericolo di una illegittima esclusione dalla sfera pubblica della religione, della Chiesa, del cristianesimo, di Dio (con una intenzionale o preterintenzionale confusione e sovrapposizione di questi concetti).

Naturalmente questo non risponde a verità. Quanto meno occorre distinguere tra la situazione francese e quella italiana. Da noi molti cattolici coltivano la sindrome della vittima: costante presenza mediatica accompagnata dal lamento dell’esclusione; denuncia della critica e del rifiuto delle loro opinioni come prova dell’ostilità verso il cristianesimo-cattolicesimo, verso la Chiesa, anzi verso Dio. Da qui l’equivoco di scambiare il dissenso ragionato verso aspetti - naturalmente importanti - della dottrina della Chiesa e della sua strategia come inimicizia preconcetta contro la religione o come ateismo militante. Magari si prende occasione dall’atteggiamento di alcuni laici, del tutto legittimamente atei, che con le loro posizioni polarizzano su di loro l’attenzione dei media e della Chiesa.

Ma dove passa la differenza tra laicità positiva e laicismo? In concreto: nella definizione della famiglia «naturale», nei temi connessi a quella che viene genericamente chiamata eutanasia, nei problemi cruciali della bioetica? Chi non è d’accordo sul lungo elenco dei «no» degli uomini di Chiesa - dalle coppie di fatto alla sospensione dell’alimentazione forzata nel caso di Eluana - è dichiarato laicista. Chi invece è d’accordo è laico positivo. Come si possono schiacciare in queste caselle le convincenti considerazioni di Barbara Spinelli su «quando muore il cervello» (La Stampa 14 settembre)?

Ma c’è un altro malinteso. In Italia si sta estinguendo il dialogo, se con esso miriamo allo scambio di ragioni e di argomenti. Se lo intendiamo come la ricerca della verità su questioni complesse, dove ognuno degli interlocutori dovrebbe essere disposto a mettere in gioco le proprie convinzioni. No: il dialogo è diventato sinonimo di rassegna e competizione di posizioni già predisposte in funzione identitaria (cattolici contro laici). In particolare per gli interlocutori religiosi la verità c’è ed è intrattabile. Ma questo avviene sulla base di un passaggio logico non esplicitato: l’incontrovertibilità della verità passa impercettibilmente dal piano della «rivelazione religiosa» ai temi della «natura umana» che dovrebbero essere invece affrontabili con strumenti razionali e scientifici presuntivamente comuni e accessibili a tutti.

La Chiesa in questi anni di esposizione pubblica è riuscita a riaffermare la credibilità della sua dottrina naturale. Il costo (non detto e persino non percepito da molti Pastori) è che non si parla più davvero di teologia ma di antropologia, come si sente ripetere in continuazione. Il problema che sta a cuore non è la questione di Dio, ma l’idea di natura umana e di razionalità (nel senso inteso da Ratzinger) che passa surrettiziamente dietro e dentro l’idea di Dio quale è codificata nei termini tradizionali della dottrina. Il laico che solleva questa problematica è etichettato senz’altro come laicista. Con lui si polemizza, non si dialoga.

A questo punto confesso d’aver perso il senso della distinzione benevola-polemica tra laicità positiva e laicismo. Secondo lo stereotipo corrente il laico-laicista è il non-credente, il razionalista («arido», naturalmente), lo scettico cultore del dubbio metodico, relativista rispetto ai valori, l’uomo senza speranza. Inutile dire che queste sono caricature clericali. In realtà oggi il laico (senza bisogno di sentirsi definire «positivo») non condivide più la «religione della ragione» settecentesca, la «religione dell’idealismo» di stampo ottocentesco, neppure quella della scienza novecentesca, anche se tiene ben fermi come criteri di certezza quelli offerti dal metodo scientifico. Di conseguenza si pone interrogativi su Dio che appaiono incompatibili con la dottrina corrente della Chiesa.

Il laico è l’uomo/la donna delle certezze che sanno di essere radicalmente contingenti, ma non per questo meno stringenti. È l’uomo/la donna della ragionevolezza, cioè della razionalità temperata da ciò che non appare riducibile alla semplice strumentazione scientifica. Ma non per questo accetta dottrine costruite su modelli mentali e antropologici storicamente elaborati con mentalità pre-scientifica (o addirittura anti-scientifica) che pretendono accesso privilegiato alla trascendenza.

Il confine tra razionale e irrazionale è precario, ma sempre definibile con gli strumenti della ragione. L’orizzonte della ragione e delle sue espressioni semantiche è intrascendibile. La fede non vi trova posto. Questa è la lezione irrinunciabile da Kant a Wittgenstein, due studiosi che non si dichiaravano affatto atei ma ponevano la fede nella «ragione pratica» o nell’ambito delle «forme di vita». Chi ragiona così è un laicista o un laico positivo? Francamente questa distinzione, che pretende diventare una graduatoria della razionalità, è insostenibile.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Settembre 26, 2011, 05:28:05 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:31:09 am »

24/10/2008
 
L'alibi società civile
 
GIAN ENRICO RUSCONI

 
Mi auguro che la manifestazione annunciata e attesa per domani a Roma non adotti lo slogan di esprimere le «forze antiberlusconiane della società civile», come suggeriscono gli amici di MicroMega. Capisco perfettamente la logica contestativa dello slogan. Ma sarebbe ingannevole nella sostanza. Il berlusconismo infatti è anche espressione della società civile italiana. Il problema del nostro Paese è la scissione e il disorientamento proprio della società civile nel suo insieme. Da questa situazione una parte di società è tentata di uscire forzando lo strumento politico.

Smettiamo dunque di usare il concetto di «società civile» per indicare tutto il positivo della società italiana che viene rimosso, conculcato o nascosto dal berlusconismo o da altri fenomeni (mafia, corruzione politica, xenofobia o tentazioni autoritarie). Mettiamo in soffitta una volta per tutte questo nobile concetto che ha svolto una grande funzione chiarificatrice ed emancipativa, ma che oggi rischia di essere retorico e illusorio.

Lo so che sarà dura abbandonare questa espressione passe-par-tout, che si tira dietro altre coppie concettuali consolidate e apparentemente chiare (Paese reale contro Paese legale, palazzo contro società ecc.). Rischia però di essere tutto ciò che resta della costruzione ideologica della sinistra. Ma quando a Palazzo Chigi c’erano Prodi e D’Alema, quando a Montecitorio c’era Bertinotti e al Quirinale Ciampi, la società civile gestiva forse la politica? O vi influiva davvero? Naturalmente no, e non solo perché gli intransigenti evocatori della «società civile» erano sempre sul piede di guerra.

Non vorrei essere frainteso. Non sto polemizzando contro chi combatte energicamente il berlusconismo. Non si tratta neppure di dichiararsi pro o contro la ricerca di un ragionevole dialogo con la maggioranza o viceversa di considerare intrattabili le reciproche posizioni ideali e politiche. L’obiezione è assai più radicale. Si tratta di ammettere che il male è dentro la società civile, non fuori di essa. E quindi non ha senso evocarla come una soluzione.

Si può suggerire la scappatoia di definire il berlusconismo una patologia della società civile. Paradossalmente è già un passo in avanti nell’analisi. Vuol dire infatti riconoscere che la voglia di autoritarismo e di decisionismo comunque sia, le ventate antisolidali e di razzismo latente che percorrono il Paese, la strafottenza verso i perdenti e i deboli, l’opportunistica e ipocrita deferenza verso la Chiesa non vengono dal di fuori o per colpa di pochi malintenzionati, ma dal ventre profondo della società civile. E il berlusconismo, lungi dal correggere questi fenomeni, li interpreta e li legittima, verosimilmente al di là delle sue buone intenzioni.

Ma qual è la forma politica di questa situazione? Qui accade un altro fenomeno sorprendente nel nostro Paese logorroico e con un sistema mediatico-comunicativo ipertrofico: ci mancano le parole adeguate per definire la situazione reale. Da quindici anni si parla di «berlusconismo» o di «populismo». La prima espressione è tautologica, la seconda è troppo vaga e utilizzabile per molte altre circostanze e personalità politiche.

Ma non abbiamo di meglio e quindi dobbiamo passare attraverso la strettoia di queste due espressioni, resistendo alla tentazione di contrapporvi in positivo, appunto, la bella e buona società civile. Il populismo berlusconiano interpreta la voglia del popolo-elettore maggioritario per decisioni rapide, drastiche e visibili. E viene accontentato: la scomparsa della spazzatura napoletana, la soluzione - a qualunque costo - della questione Alitalia, l’interventismo pronta cassa a sostegno delle banche e dell’industria ecc.

Berlusconi interpreta questo ruolo portando di fatto il sistema politico verso un presidenzialismo informale strisciante. Non ha bisogno di ricorrere a impegnative riforme istituzionali. Gli basta apparire in tv ad enunciare decisioni che la sua maggioranza sosterrà zelantemente in Parlamento. Ma l’idea del leader vicino alla gente, non prigioniero nei giochi di palazzi, non era una richiesta sociale? La domanda di una semplificazione del sistema politico e la fine delle risse intrapartitiche non era forse emersa dal profondo della società civile? Eccola servita.
 
da la stampa.it
« Ultima modifica: Luglio 04, 2009, 04:50:46 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:32:24 am »

24/10/2008 - - 2
 
Costretti in piazza

Trionfa il distinguo
 
 
 
 
 
JACOPO IACOBONI
 
Vengo, sì, ma...
Aderisco, con la postilla. Firmo, non del tutto convinto. Sostengo, non posso proprio non sostenere, ma vi-faccio-vedere-io quanto sono diverso dagli urlatori, lo strepito, chi sbraita contro «la dittatura di Berlusconi».

Che piazza sarà, domani, se tanti di quelli che ci scenderanno credono poco o non credono affatto nelle caratteristiche normali di una piazza, cioè gridare, intonare slogan, cantare e magari anche pacatamente sbracare? Nicola Latorre dice «bene le protesta, ma dobbiamo anche avanzare una grande proposta alternativa» (però esorta gli studenti sotto Palazzo Madama «sìii, continuate a manifestare!»). Francesco Rutelli dice «il 25 sarà una bellissima occasione per Veltroni e il Pd di avanzare le sue proposte al Paese, ma in modo positivo, costruttivo e non distruttivo». Marco Follini dice «non so se ci andrò, capisco le ragioni, ma avremmo dovuto riflettere meglio».

Nei giorni scorsi Enrico Morando aveva nientemeno spiegato «non è una manifestazione antigovernativa», spingendosi fino a lodare l’intervento del governo per rassicurare i risparmiatori e sostenere il sistema bancario, «è giusto, l’avevamo chiesto anche noi». E Linda Lanzillotta, nei pour parler di un incontro a Capri, l’aveva tosto rassicurato, «tranquillo Enrico, abbiamo mutato il segno di questa manifestazione, non sarà una manifestazione contro ma una manifestazione per».

S’avanza insomma accanto al popolo dei no chiari e tondi, anche quello dei «sì-ma»; i coscritti. Ma non sono ubbìe, è che un problema vero dilania i democratici alle prese col manifesto sì-manifesto no. In piazza si troveranno - almeno, ma è una stima molto per difetto - due idee diverse su come ci si oppone al centrodestra al governo. Furio Colombo vorrebbe aggiungere alla petizione salva l’Italia la frase «dalla dittatura di Berlusconi». Paolo Flores e Pancho Pardi saranno accanto a Tonino Di Pietro, poi Flores auspica anche che ci sia tantissima società civile, che di solito è alquanto più decisa del popolo dei «sì-ma»: è gente che ce l’ha, e molto, con Berlusconi. Col risultato di produrre ameni paradossi. Quello che segue ne è soltanto uno.

Domani arriveranno tantissimi pullman e treni, solo dalle regioni rosse si spera trecentomila persone. Cinquantadue pullman sono attesi dall’Abruzzo; e alcuni chi lo organizza? I dirigenti del Pd locale. Hanno partecipato, «alacri e appassionati», uomini come Giorgio D’Ambrosio, sindaco di Pianella, il collega di Pescara, Luciano D’Alfonso, o l’assessore Donato Di Matteo. Sono indagati nelle inchieste abruzzesi, e si stanno difendendo. Li si tenga lontano dai micromeghisti.

 
 
OPINIONI - 3. Manifesto oppure no. Tormenti democratici
SCRIVI Arcitaliana JACOPO IACOBONI 
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 04, 2008, 06:09:14 pm »

4/11/2008
 
Germania-Italia il ritorno dei pregiudizi
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 


E’ sconfortante prima ancora che irritante leggere quanto ha scritto la Frankfurter Allgemeine Zeitung, per la penna di un noto giornalista. «Dopo più di 60 anni dalla fine della guerra l’Italia vince sempre ancora contro i camerati tedeschi, con mezzi giuridici e politici». Così viene interpretata non solo la sentenza della Cassazione per il risarcimento a due vittime di una strage nazista del lontano 1944, ma anche il discorso del presidente della Repubblica Napolitano ad El Alamein qualche settimana fa.

Il Presidente aveva detto che quella battaglia perduta mostrava «l’insostenibilità delle motivazioni e degli obiettivi dell’impresa bellica nazi-fascista». È una costatazione storica. Invece il giornalista tedesco vi legge la tardiva apologia dei primi segni del proditorio abbandono dei «camerati tedeschi» da parte degli italiani. E prosegue con l’offensivo paragone del Presidente e dei membri della Cassazione al leggendario soldato giapponese che continua a combattere a guerra finita. Ma gli italiani - più sofisticati - portano avanti la loro guerra con mezzi politici e giuridici.

È incredibile che un uomo colto e influente come Heinz-Joachim Fischer possa scrivere queste cose. Mi chiedo quali ambienti frequenti a Roma. Dipinge la vicenda dell’8 settembre nella chiave esclusiva del tradimento italiano nella percezione dei tedeschi di allora e dell’irresponsabile attività della «Resistenza» (tra virgolette) che non tiene conto degli effetti nefasti delle sue azioni sulla popolazione civile. Come se su questi temi da anni le storiografie dei due Paesi non avessero lavorato con intensità. Tutti i punti superficialmente enunciati da Fischer (dalla questione complessa dei processi ai criminali di guerra alla riflessioni critiche sui comportamenti partigiani) sono stati oggetto di studi e dibattiti. Ma evidentemente nulla è passato a livello di opinione giornalistica. Questo è il primo bilancio negativo da trarre da un articolo come quello di cui parliamo.

La comunicazione storico-politica tra i due Paesi prosegue su binari separati. Da un lato c’è la ricerca storica qualificata che rimane sostanzialmente marginale. E dall’altro c’è un giornalismo convenzionale che tramanda acriticamente giudizi mai seriamente verificati che vanno a rafforzare i veri e propri pre-giudizi, che da qualche tempo hanno fatto la loro trionfale ricomparsa nei due Paesi (questo vale naturalmente anche per i pre-giudizi anti-tedeschi in Italia).

Le ragioni di questa situazione sono sostanzialmente due. Innanzitutto italiani e tedeschi non hanno mai sentito la necessità di ricostruire insieme le pagine di storia che li hanno visti così intensamente ostili. Un’orgogliosa autosufficienza nel proprio giudizio storico (anche quando è assolutamente autocritico, come nel caso dei tedeschi di fronte alla Shoah) e un’ingannevole benevolenza reciproca hanno impedito ciò che è successo tra tedeschi e francesi. Questi infatti da tempo si sono applicati allo sforzo di stendere insieme valutazioni e narrazioni storiografiche comuni, testi comuni. L’ultimo risultato straordinario è un libro per le scuole superiori scritto insieme da studiosi tedeschi e francesi. Non si tratta di un libro buonista e irenico, ma di un lavoro che non nasconde contraddizioni e incompatibilità di giudizio. Ma è un lavoro rispettoso dei reciproci punti di vista, non è sprezzante come le affermazioni di Fischer.

Questo ci porta alla seconda ragione, ancora più seria. Il difficile rapporto tra Germania e Italia non appena si esce fuori dall’ambito dei «rapporti umani», di un’idealizzata «società civile», fatta di urbanità e comprensione, e si entra nei labirinti della politica o - appunto - nei capitoli oscuri della storia passata. Ma perché proprio adesso Fischer può permettersi persino di essere irridente verso il Presidente della Repubblica o verso la sentenza (certo per molti aspetti assai problematica) della Cassazione? La risposta è perché mai come ora i rapporti tra i due Paesi sono stati così infelici. Non è un discorso facile; occorre infatti distinguere i vari livelli. Ma certamente i rapporti sono infelici a livello della politica e dell’informazione giornalistica.

L’implosione della politica italiana e il berlusconismo hanno un effetto d’immagine catastrofico. Lo scrivo con rammarico, perché con la scusa di Berlusconi si dicono un’infinità di sciocchezze sull’Italia di oggi. Ma il peggiore dei paradossi è che non è possibile fare in Germania un’analisi attenta del berlusconismo proprio perché è visto quasi sempre in chiave farsesca, «all’italiana».

Non è riuscito neppure a dare credibilità ad alcune operazioni di revisione storica che vanno nel senso, desiderato da Fischer, della demitizzazione della Resistenza. Ci sta provando ora la cultura e la pubblicistica di destra riprendendo, tra l’altro, l’idea del tradimento del 1943, ricuperata almeno per comprendere i comportamenti soggettivi dei fascisti che si sono schierati con «gli alleati» tedeschi. Ma l’operazione è avventurosa perché a partire da questi elementi non è facile approdare a un giudizio «positivo» dell’occupazione tedesca in Italia e al mito (già sostenuto da Kesselring) della «guerra corretta» in Italia. No. La storia è assai più complicata e brutale. Non è con l’ironia verso i «miti fondanti» della repubblica italiana che si ristabilisce la verità della fase più triste dei contatti tra tedeschi e italiani.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 02, 2008, 08:48:44 am »

2/12/2008
 
Il cattivo paradosso
 
GIAN ENRICO RUSCONI

 
E’ grottesca la motivazione con cui il Vaticano si oppone alla proposta di depenalizzazione dell’omosessualità che sarà presentata all’Onu dalla Francia a nome dei 25 Paesi della Unione europea. Il Vaticano infatti è preoccupato che «nuove categorie protette dalla discriminazione creeranno nuove e implacabili discriminazioni». Siamo al cattivo paradosso che per proteggere le persone omosessuali, queste dovrebbero essere mantenute sotto la minaccia di reato perseguibile per legge. Il Vaticano non si impegna affinché gli Stati che praticano contro gli omosessuali sanzioni, torture e persino pene capitali (in dieci Paesi islamici), modifichino il loro atteggiamento, muovendosi appunto nella linea recentemente enunciata dalla Chiesa stessa che invita ad evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione». No. La preoccupazione vaticana è che «gli Stati che non riconoscono l’unione tra persone dello stesso sesso come “matrimonio” vengano messi alla gogna e fatti oggetto di pressioni». Il problema che sta a cuore alla Chiesa non è l’abbattimento effettivo della discriminazione tramite la legge, ma l’imbarazzo («la gogna») in cui si troverebbero gli Stati che praticano leggi punitive contro l’omosessualità. O gli Stati che, pur tollerando benevolmente le persone omosessuali, non riconoscono loro la pienezza dei diritti. È evidente che qui il Vaticano pensa a possibili effetti a catena a favore delle unioni omosessuali, legalmente riconosciute, là dove non esiste ancora alcuna legislazione in proposito (come Italia). Non credo che abbia a cuore le difficoltà in cui si troverebbero gli Stati islamici, che ovviamente si opporranno frontalmente alla proposta europea.

L’alleanza tra Stati islamici e Vaticano su questo punto è garantita. Con buona pace degli alti discorsi della «razionalità della fede» cristiano-cattolica rispetto alla dottrina religiosa islamica. Quando si tratta di sesso e di famiglia le differenze teologiche tacciono. Rinunciamo in questa sede ad esporre ancora una volta le posizioni di principio di una visione laica in tema di responsabilità etica dell’individuo, di concezione non mitica, ma critica e riflessiva di «natura umana», di concezione delle unioni familiari, di separazione tra «reato» e «peccato» ecc. Sono anni che ci confrontiamo su questi temi. Invano. Non si dialoga più. Si contrappongono posizioni sempre più intransigenti. Ciò che conta è la loro potenzialità mediatica, che nel nostro Paese è saldamente in mano alla linea vaticana. Rimanendo a livello di strategia comunicativa, viene spontanea un’ultima riflessione. Contrapponendosi all’iniziativa dell’Unione Europea, il Vaticano ribadisce ancora una volta la sua contrarietà all’orientamento laico dell’Europa, ovviamente diffamato come laicista (relativista, immoralista e via via elencando tutte le nefandezze della ragione illuministica). Non è chiaro dove porterà questa strategia. Nel caso della depenalizzazione dell’omosessualità la linea vaticana smentisce esperienze drammatiche e ben meditate interne allo stesso mondo cattolico. Verosimilmente non interpreta neppure i convincimenti di milioni e milioni di sinceri credenti. Perché si adotti oggi questa strategia non è chiaro. Evidentemente il sesso e una certa idea di famiglia contano di più delle riflessioni della fede. Ma qui il laico tace.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 19, 2008, 06:47:26 pm »

19/12/2008
 
Questione immorale
 
 
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
La questione morale esplose nel momento in cui si pose una questione politica enorme, scriveva ieri Emanuele Macaluso sulla Stampa. Parlava della crisi del Psi di Craxi e dell’implosione che ne è seguita per l’intero sistema partitico della Prima repubblica. E proiettava la stessa sindrome e la stessa diagnosi sul Pd di Veltroni oggi. Un’analisi acuta.

Ma forse i conti non tornano del tutto. Macaluso segue puntualmente la paralisi partitica interna di un Pd che non sa decidere nulla sulle grandi questioni (Europa e Pse, giustizia, bioetica, alleanza con Di Pietro e - aggiungo - l’ambivalenza verso la Lega). Ma dimentica che il contesto in cui tutto ciò avviene non è paragonabile a quello in cui si consumò l’ultimo craxismo e il tracollo del sistema partitico della Prima Repubblica. Oggi ci sono il berlusconismo vincente e un disorientamento depressivo della società civile che creano un contesto inconfrontabile con quegli anni.

Cominciamo dalla giustizia. È di moda prendere le distanze con toni di sufficienza dalla stagione di Mani pulite, ma si dimentica che - con tutti i suoi errori - fu un soprassalto di emozione collettiva, cui nessuno si sottrasse. Oggi la sfiducia verso la magistratura è diventata endemica. L’accusa di una giustizia politicizzata da arma di parte è diventata un sospetto sistematico. Questo è il regalo avvelenato del berlusconismo agli italiani sia che lo votino o no. Il nuovo attivismo della giustizia non ha l’effetto liberatorio di anni fa. E non è questione di colore politico. Il risultato è che quando tutte le parti partitiche parlano a turno di «riforma della giustizia» nessuno ci crede. Anzi si cerca il trucco.

Questo non vuol dire che i cittadini non reagiscano più alle denunce di corruzione o di cattiva amministrazione. Ma la loro reazione non si trasforma in plusvalore politico come fu negli Anni Novanta. Dà luogo ad astensionismo di protesta o al fenomeno Di Pietro, che non pare abbia le caratteristiche di un’autentica forza politica innovatrice. Da questo punto di vista, Berlusconi ha vinto la sua battaglia contro la giustizia. Deve solo formalizzarla, con l’aiuto tecnico dei suoi zelanti sostenitori.

Passiamo alla grande politica estera. La crisi degli Anni Novanta fu determinata dall’incapacità di reagire al radicale mutamento geopolitico internazionale ed europeo del dopo 1989. L’implosione politica all’interno era insieme il segno e la causa di questa incapacità. Nel giro di pochi anni il peso dell’Italia è drammaticamente diminuito in Europa e nel mondo. Per un certo tempo una parte del ceto diplomatico italiano ha parlato e ha scritto con toni preoccupati di «declassamento» dell’Italia. Con il berlusconismo vincente è proibito parlarne. Il corpo diplomatico si è allineato, confondendo la politica estera con i buoni rapporti economici italiani con il resto del mondo, finché durano.

Ma si può negare che da qualche tempo l’Italia riesca a «fare bella figura»? In effetti si è prodotta una singolare situazione. A suo agio nelle grandi rappresentazioni mediatiche internazionali ed europee, cui si è ridotta la grande politica, Berlusconi ha sempre modo di farsi notare con posizioni magari stravaganti nella forma, tuttavia mai dirompenti nella sostanza. L’ha capito Nicolas Sarkozy che lo conosce bene (per qualche inconfessata affinità elettiva?) quando dice: «Berlusconi inizialmente dice sempre di no, ma poi si adegua». Naturalmente ci si può chiedere se e come le «figure» berlusconiane servano davvero alla politica estera italiana, altrimenti affidata all’onesto lavoro di routine di Franco Frattini. Sì, servono sinché l’economia tiene e reggono le reti di collegamento con l’economia mondiale. Ma proprio su di esse è scesa la mazzata della grande recessione.

Il governo italiano sta reagendo in modo cauto e modesto, sottodimensionato, nascondendosi dietro la grinta intimidente di Giulio Tremonti, l’altra faccia del berlusconismo. Ma la gente ormai è rassegnata. Non si aspetta nulla di più. Accetta tutto passivamente. Questa è la vera catastrofe politica per il Pd all’opposizione. Siamo così tornati al tema da cui siamo partiti. Mentre negli Anni Novanta, dopo la crisi del sistema partitico, il centrosinistra sembrava poter offrire (con Romano Prodi) un’alternativa al primo berlusconismo, oggi non è più così. Ma il problema cruciale è la mancanza di linea e di energia politica, in un contesto mutato, non la questione morale in sé. O se vogliamo, la questione morale è soltanto un sintomo dell’impotenza politica.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 11, 2009, 10:13:14 am »

10/1/2009
 
Preghiera politica
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 

Lo spettacolo dei sagrati del Duomo di Milano e di Bologna pieni di musulmani in preghiera, ma con chiaro intento politico di protesta contro gli avvenimenti di Gaza, non è un evento «normale». O meglio, la sua normalità presuppone un solido giudizio laico (di credenti e non credenti) che non è affatto ovvio nel nostro Paese. Poi l’evento è stato rapidamente archiviato sotto l’incalzare di altri avvenimenti «più normali»: dalla crisi del Comune di Napoli alle grandi nevicate al Nord. Ma è rimasto un evidente disagio, soprattutto nel mondo cattolico. Forse un piccolo trauma che attende ancora di essere elaborato.

Chi da tempo chiede che la voce della religione risuoni, senza restrizioni, nella sfera pubblica è rimasto spiazzato. Non si aspettava che lo facessero i musulmani alla loro maniera e con un’efficacia mediatica inattesa. Ora si obietta che la loro è stata una manifestazione più politica che religiosa, entrando così in un terreno minato. Sappiamo infatti tutti che il rapporto tra religione e politica è profondamente diverso nell’islam e nel cristianesimo. Ma è irragionevole pretendere che i musulmani in Italia si adeguino senz’altro alla nostra (peraltro controversa) concezione della laicità della politica.

Si obietta ancora che qui non è in gioco la politica in generale ma la violenza, il terrorismo, l’odio religioso. Ma è una pura diffamazione considerare la preghiera pubblica e islamica su sagrati delle chiese un’espressione di odio religioso. Con questo non vogliamo eludere il punto nevralgico: l’idea di inimicizia che mescola e confonde inimicizia politica, fatta di sangue e di bombe, con l’inimicizia religiosa e teologica. La protesta musulmana sui sagrati è stata pacifica anche se chiamava in causa il nemico politico. Il punto critico è che tale chiamata in causa è spesso trattata in un linguaggio e in un codice religioso che per corto circuito definisce senz’altro nemico di Dio il nemico politico. Da qui l’accorata richiesta avanzata dai cristiani a non fare la terribile identificazione tra nemico politico e nemico di Dio. Saggia e giusta raccomandazione. Ma quanti secoli di sofferenze, di orrori e di ingiustizie nella cristianità ci sono voluti per arrivare a questa saggia posizione!

Possiamo e dobbiamo limitarci ad affermare che il mondo islamico «non è ancora» approdato a questa conclusione, ma deve approdarvi? Dobbiamo quindi assumere una visione evoluzionista eurocentrica, nel senso che prima o poi tutte le religioni dovranno arrivare alla distinzione tra politica e religione quale si è istituzionalizzata in Occidente? Oppure la questione è assai più complicata e grave perché rimanda a visioni teologiche incompatibili? Non dimentichiamo il fraintendimento della frase del Papa a Ratisbona sulla violenza intrinseca dell’islam. In realtà su questa tematica la strada della comprensione tra cristianesimo e islam è ancora molto lunga. Salvo eccezioni di ristretti incontri tra specialisti, a livello di comunicazione pubblica non esiste alcun serio dialogo teologico tra cristianesimo e islam. Il fatto, enormemente positivo, che spesso in pubblico si arrivi a condannare unanimemente la violenza terroristica, o a pregare insieme, non elimina due realtà di fatto. Da un lato c’è la crescente indistinzione tra attività terroristica e radicalizzazione della violenza bellica, come dimostra quotidianamente il conflitto israelo-palestinese. D’altro lato recitare le preghiere comuni avviene in un contesto ecumenico che spesso rasenta un nuovo politeismo. Fra Allah di Maometto e il Dio di Cristo (e della Chiesa) c’è incomunicabilità quando si arriva alle tesi teologiche fondamentali. La coesistenza pacifica e la benevolenza reciproca è cosa radicalmente diversa dall’intesa teologica.

Questo è rilevante anche per la sentenza evangelica del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Questa sentenza viene ripetuta come un’evidenza, ma il significato che oggi le attribuiamo è stata una faticosa acquisizione storica abbastanza recente. La presa della posizione del Vaticano nella tragedia di Gaza con l’invito a scegliere - in entrambi i campi - politici desiderosi di pace e di concordia, è dettata da grande saggezza politica. Ma non è la risposta esauriente alle questioni implicitamente sollevate nella preghiera pubblica dei musulmani del nostro Paese.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 05, 2009, 10:23:25 am »

5/2/2009
 
La Chiesa tentata dal passato
 

GIAN ENRICO RUSCONI
 

Finalmente il Vaticano ha richiesto in modo netto ed esplicito al vescovo Williamson di ritrattare le sue tesi negazioniste. Era ora - e condividiamo la soddisfazione generale.

Ci chiediamo se questo ripensamento vaticano dopo tante incertezze sia - non da ultimo - il risultato della prese di posizione della cancelliera Angela Merkel. Questa aveva chiesto in forma ferma, pubblica ed esplicita al Papa un «chiarimento convincente», raccogliendo il consenso unanime dei suoi concittadini. «È una questione di principio», ha detto. Non è una faccenda interna alla Chiesa. L’operazione vaticana di riabilitazione di Williamson rischiava infatti di offendere profondamente la società civile e religiosa tedesca che del ricordo dell’Olocausto ha fatto un momento fondante della religione civile della nuova Germania. Era incomprensibile che «il Papa tedesco» non avesse interiorizzato questa realtà. Ma è anche apprezzabile che in un’Europa politica imbarazzata o indifferente sia stata la cancelliera tedesca a sollevare senza timidezze il problema.

Le prime impacciate repliche d’ufficio da parte vaticana misuravano tutta la distanza tra la presunzione di un’istituzione che si crede inattaccabile e la reazione compatta di una società politica matura, religiosamente e civilmente.

L’iniziativa della Merkel, infatti, seguiva di ventiquattr’ore un’impressionante manifestazione pubblica di critica - sugli schermi televisivi dei telegiornali - da parte dei più alti uomini della Chiesa cattolica tedesca. Critica ponderata, sofferta, rispettosa, ma ferma. Ha raggiunto il suo obiettivo.

Rimane l’interrogativo di perché il Papa abbia esitato tanto. Davvero non era al corrente delle convinzioni di Williamson? O non ne aveva valutato a pieno la portata dirompente? È stato mal consigliato? Da chi?

Questa volta la questione non è riconducibile a una trappola mediatica. C’è il precedente della prolusione a Ratisbona di qualche anno fa, dove una maldestra citazione sulla malvagità del maomettanesimo scatenò una bufera di proteste del mondo islamico. Allora il Pontefice rettificò il suo discorso, dichiarando di essere stato frainteso e ricucendo i buoni rapporti con l’Islam. Riaffermò la sua stima e affetto nei suoi confronti, senza ovviamente mutare di una virgola la tesi ineccepibile dell’incompatibilità delle due teologie cristiana e islamica.

Questa volta la questione è più complessa. Le tesi negazioniste di Williamson, ripetute pubblicamente senza batter ciglio, nascondono un impressionante antigiudaismo (teologico?) esplicito o latente nella comunità dei lefebvriani. Non solo. Ma alcuni membri della comunità sembrano dar voce a un aperto disprezzo - in nome della Verità - verso tutte le altre religioni e verso le altre confessioni cristiane. Non c’è bisogno di essere esperti della dottrina della Chiesa per capire che siamo alla negazione delle tesi del Concilio Vaticano II. Anzi all’esibizione di quel rifiuto. Che senso ha allora la «fraterna apertura» nei confronti della Comunità di san Pio X? I suoi membri hanno forse mostrato segni di resipiscenza o fatto gesti di umiltà verso la Chiesa? Non sembrerebbe.

A questo punto viene il dubbio che in Vaticano ci sia qualcuno che apprezza proprio l’intransigenza dogmatica e il gusto della pura e semplice restaurazione liturgica e cultuale tradizionale. Rispetto ad essa, tutto il resto diventa opinione personale, compresa la negazione dell’Olocausto. Questo atteggiamento tradisce una logica del primato assoluto dell’istituzione ecclesiale che rischia di essere fatale per la Chiesa.

Forse lo sgradevole episodio del vescovo Williamson è un avvertimento agli uomini di Chiesa che si guardino dai pericoli della autoreferenzialità. È bene che ascoltino le voci e gli argomenti anche di chi sta fuori della Chiesa.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 17, 2009, 05:35:38 pm »

17/2/2009
 
La crisi uccide l'Europa
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 

L’Europa politica è morta, vittima della depressione internazionale. Ma nessuno lo dice apertamente. Troppo grande è la complicità delle classi politiche. Troppo umiliante è l’ammissione da parte della nomenclatura dell’Ue e delle sue clientele nazionali, capaci soltanto di fare bei discorsi. Troppo profondo è lo sgomento dei cittadini che hanno creduto nel ruolo politico attivo dell’Unione europea. Eppure è sorprendente quanta pazienza mostrino i cittadini, messi davanti all’inadeguatezza della classe dirigente europea e all’impotenza delle classi politiche. Lo fanno perché sono troppo depressi per reagire? Oppure perché, nonostante tutto, rimangono leali verso il più grande sogno che l’Europa abbia coltivato da mezzo secolo a questa parte? La differenza più significativa della crisi odierna, rispetto alla sempre evocata grande depressione del 1929, non è soltanto l’assenza di progetti alternativi stimolati a suo tempo dalla presenza politicamente minacciosa di forze socialiste (e comuniste) radicali. La differenza di oggi sta anche nella rassegnazione della popolazione. Non crede a soluzioni alternative radicali.

Forse molti, in cuor loro, non credono neppure al catastrofismo interessato di chi - ai vertici dell’economia, della finanza e della politica - sino all’altro ieri rispondeva con arroganza a chi segnalava con preoccupazione il crescente peggioramento delle condizioni di vita.

O a chi segnalava addirittura l’impoverimento assoluto di molti strati della popolazione. Da qualche anno lo si diceva, molto prima che scoppiassero le bolle del capitalismo finanziario e speculativo fuori controllo. Quanto è accaduto è stato un grande inganno. La gente lo percepisce, anche se mancano strumenti precisi d’identificazione delle responsabilità. Ma è evidente che c’è stata una complicità oggettiva di tutti i ceti dirigenti economici, finanziari, politici. Per incompetenza, imprudenza, mancanza di lungimiranza, mancanza di professionalità. Questo è il vero peccato capitale della ex orgogliosa classe dirigente. Non c’è bisogno di ricorrere a cattive intenzioni o a malvagità. È davanti alle sfide più difficili e impreviste che si vede il valore delle classi dirigenti.

Torniamo alla defunta Europa politica. Non è un caso che nel documento licenziato dai ministri del G7 non si parli neppure di passaggio dell’Europa. Ci si rivolge agli Stati nazionali. Si fa loro la patetica predica di non cadere nel protezionismo, di non chiudersi in ristrette misure di difesa nazionale. Queste raccomandazioni sono enunciate dopo settimane che gli Stati europei, Francia e Germania in testa, hanno deciso «sovranamente» (è proprio il caso di dirlo!) misure di difesa delle economie nazionali, senza interessarsi minimamente alle conseguenze per gli altri paesi dell’Unione. Da Bruxelles si sono sentiti soltanto flebili lamenti d’impotenza. In realtà la crisi ha soltanto strappato il velo della retorica europeista, zelantemente tessuto in questi ultimi anni (anche negli ambienti accademici), mentre la realtà andava in direzione opposta.

In questi giorni si sta verificando un episodio che merita di essere conosciuto. Riguarda la Germania, il Paese che più d’ogni altro prende sul serio la costruzione europea e affronta i problemi a viso aperto, non eludendoli, come avviene da noi. Si tratta dell’acquisizione o meno delle decisioni prese anni fa dall’Unione europea a Lisbona. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale federale tedesca dovrà pronunciarsi in merito a obiezioni d’incostituzionalità del Trattato di Lisbona, nel caso venisse accettato nel corpo legislativo tedesco. Non sarà un pronunciamento di routine. Si riproporrà in termini più drammatici la situazione che la Corte dovette affrontare nel 1993 quando vennero sollevate analoghe obiezioni per il trattato di Maastricht. Da quella situazione la Corte uscì con un’elegante dichiarazione di riserva costituzionale a favore delle prerogative del Parlamento tedesco che tuttavia non avrebbe rallentato il successivo processo di europeizzazione.

Questa volta le accuse contro l’Europa di Lisbona sono ancora più ferme e avanzate, a cerchio concentrico, dalla destra e dalla sinistra, da uomini politici e da manager dell’economia. La destra politica, rappresentata da un politico della Csu bavarese, denuncia una secca inaccettabile perdita di sovranità nazionale della Germania. Il rappresentante della Linke (la nuova formazione della sinistra d’opposizione) teme invece il venir meno del controllo del Parlamento tedesco sui temi della politica sociale e degli impegni militari internazionali della Germania. Non sono questioni di poco conto. Tanto più che questa volta la Corte tedesca deve prendere atto anche di un importante trasferimento alla Corte europea di Lussemburgo di competenze che sinora erano state sue.

Le previsioni degli osservatori sono caute. Nessuno ritiene che la Corte Costituzionale federale dichiarerà esplicitamente la incostituzionalità del Trattato di Lisbona. Ma certamente solleverà molte riserve, dagli effetti imprevedibili. Non mancheranno conseguenze sull’atteggiamento del governo tedesco che già nelle misure di contrasto della crisi si è mosso sinora in modo autonomo, con la disinvoltura di tutti gli altri governi europei. A questo punto è rituale augurarsi che il proseguimento della crisi economico-finanziaria produca un’inversione di tendenza e l’Europa politica abbia un soprassalto di orgoglio, che la porti a darsi una linea comune vincolante. Personalmente non lo ritengo probabile. Ma è rituale anche ricordare ottimisticamente che più di una volta l’Europa si è trovata in quella che sembrava una paralisi totale.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 16, 2009, 10:06:53 am »

16/3/2009
 
Che mito la società civile
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
L’ultimo mito cui si aggrappa la sinistra è quello della «società civile», da cui trarre forza e impulso per resistere all’involuzione del sistema politico e quindi per la difesa della Costituzione. Come se il berlusconismo non nascesse dalle viscere della società civile italiana. Come se la nostra Costituzione storica non fosse il prodotto di una congiuntura ideale, politica, sociale, culturale già tramontata.

Il colmo è che chi denuncia questa situazione viene accusato o sospettato di disfattismo democratico.

Invece l’interrogativo cruciale oggi è proprio come ricostituire una democrazia funzionante in una società civile in decomposizione. Come riscrivere, eventualmente, una Costituzione che, sulla base dei valori irrinunciabili di libertà e di solidarietà che sono stati a fondamento della democrazia storica, sia all’altezza delle nuove sfide. Sfide che vengono, appunto, da una società civile disorientata sulle regole della politica, sull’autonomia dell’etica pubblica, sui comportamenti selvaggi di un sistema economico globale che si è smascherato come il regno dell’irrazionale. Con buona pace della schiera di economisti, banchieri e politici che - privi di senso del pudore - ora ci fanno le prediche sulla necessità dell’etica nel capitalismo.

Ma torniamo alla nostra Italietta. È finito il tempo del facile sarcasmo sul berlusconismo. Se ne stanno accorgendo (salvo alcune tardive eccezioni) anche i nostri vicini europei. Verso il nostro Paese adottano una diplomazia benevola accompagnata da attenta osservazione. Gli italiani - dicono - facciano pur quello che vogliono a casa loro (ormai hanno fatto di tutto), purché non turbino le regole esterne generali.

In effetti, da quando è esplosa la Grande Recessione l’Italietta se ne sta da parte, quasi inattiva. Partecipa volonterosamente alle coreografie internazionali, senza grandi pretese. Il Cavaliere lombardo sembra aver adottato l’antica ricetta napoletana del «lasciar passare la nottata». Ma lo fa con una variante decisiva: approfittare della nottata per cambiare alcune regole del sistema politico in senso presidenzialista. Con la complicità della cosiddetta società civile.

Nel nostro paese il rapporto tra sistema politico e società civile è mutato profondamente, in coincidenza con quello che disinvoltamente (cioè senza trarne le debite conclusioni) politologi e pubblicisti chiamano il «populismo democratico» inaugurato dal berlusconismo. In questo contesto chi è il «popolo»? È il popolo-degli-elettori, che è a un tempo destrutturato e politicamente polarizzato rispetto alle divisioni di classe tradizionali della società e alle loro tradizionali proiezioni partitico-politiche. La stratificazione sociale, senza perdere i suoi connotati fondamentali di classe, è diventata estremamente complessa per la diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, per la molteplicità degli stili di vita e di consumo, per l’autopercezione personale e sociale.

Non a caso Berlusconi non parla mai di «classi sociali» ma di «cittadini fortunati/sfortunati», «privilegiati/deprivilegiati», e le classi inferiori non sono più «proletarie», bensì sono composte di chi è «rimasto indietro». L’omogeneità sociale si crea soltanto nell’immediatezza (apparente) del rapporto tra leader ed elettori. Non importa se tale rapporto rischia di essere una finzione, mediatica innanzitutto.

Naturalmente anche in strutture presidenziali costituzionalmente fondate (di tipo americano o francese) esiste un rapporto diretto tra elettori e leader, che può eventualmente assumere tratti populistici. Ma nel caso berlusconiano manca una struttura istituzionale presidenziale di sostegno. È la persona stessa di Berlusconi che mira a surrogare il ruolo istituzionale presidenziale. In questo senso si può parlare di presidenzialismo informale o strisciante che insidia l’ordine costituzionale esistente - in nome del popolo-degli-elettori.

In questo contesto dove è finita la «società civile», cui si appella la sinistra? La sinistra stessa non ha ripetuto per anni che la società italiana aveva bisogno di una politica «vicino alla gente», di leader che non fossero «prigionieri dei giochi di palazzo», che fossero capaci di grandi decisioni, che semplificassero il sistema politico e ponessero fine alle risse intra-partitiche? Ebbene, Berlusconi annuncia oggi di rispondere lui a queste aspettative. Si affermi pure che le sue proposte sono sbagliate, ma non si combattono invocando una «società civile» idealizzata, che non esiste.

La società civile è l’insieme delle associazioni, gruppi e movimenti sociali che attivano risorse di fiducia, capacità di comunicazione e partecipazione, ma nel contempo rappresentano pluralità di interessi e di diritti spesso in conflitto tra loro, che esigono autonomia dallo Stato ma insieme ne richiedono la protezione. Come si vede, il quadro è complesso e difficile da gestire. Nessuno può rivendicare per sé il monopolio di interpretare i bisogni della «società civile» che esprime esigenze contrastanti.

La mutazione del regime democratico cui stiamo assistendo, associata al berlusconismo, è il risultato di molti fattori, non della semplice volontà o personalità di un uomo e dei suoi sostenitori. È il sintomo e la risposta a una crisi di rappresentanza politico-partitica in Italia e soprattutto a una crisi di capacità di governo.

Non parlerei di crisi della democrazia tout court. Il «populismo democratico», infatti, con le sue caratteristiche plebiscitario-mediatiche, è pur sempre un modo di rispondere e surrogare a deficit di rappresentanza e di decisione del sistema democratico esistente. Se è il caso, discutiamo apertamente, lealmente e in modo competente dell’opportunità o meno di una riforma in senso presidenziale (sul modello francese o altre varianti) o comunque di forme di rafforzamento dell’esecutivo in Italia (il cosiddetto premierato). Lo so che se ne parla da anni senza successo per la contrarietà non solo della sinistra ma anche dei partiti di centro (ex democristiano). Ma non c’è dubbio che l’idea di competenze decisionali più forti per il governo è sempre più popolare in Italia.

Una tale discussione, del resto, non solo non esclude ma esige che si metta a fuoco una «cultura della democrazia» anche in una prospettiva presidenziale. Forse è una lacuna nella nostra esperienza storica. Sullo sfondo c’è «la società civile» - divisa, socialmente disgregata e frammentata, politicamente rassegnata, nonostante la presenza di minoranze attive o mobilitazioni di piazza che riempiono per qualche ora gli schermi televisivi, senza conseguenze politiche di rilievo. Forse più che un «fenomeno Berlusconi» esiste un «caso Italia».

 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 25, 2009, 08:57:55 am »

25/3/2009
 
Segnali di scisma silenzioso
 

 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
C’è uno scisma latente nel cattolicesimo europeo? Certo non nel nostro Paese, zittito dalle gerarchie e dai suoi apparati giornalistici e mediatici. Con la complicità di chi, fedeli credenti o agnostici «compiacenti verso la Chiesa» (parole di Berlusconi), considera «una moda di giornalisti e intellettuali» il dissenso verso alcune affermazioni del Pontefice. Gli agnostici compiacenti, che si proclamano laici «positivi», sono numerosi soprattutto nell’area del centro-destra. Non sanno né vogliono sapere nulla del Concilio Vaticano II. Lo considerano una specie di Sessantotto della Chiesa. Questo basta per diffamarlo. Ma proprio il Concilio - o meglio la sua interpretazione e attuazione - sta diventando il motivo dello «scisma» silenzioso interno alla Chiesa. Con una differenza decisiva tra la condizione italiana e quella delle altre nazioni europee.

Le Chiese tedesca e austriaca sono state protagoniste - con le massime autorità ecclesiali - nel denunciare e nel far rettificare l’atteggiamento del Papa sulla questione del vescovo negazionista. Qualcosa di più di un incidente. Dietro l’incredibile errore di valutazione del Pontefice c’è l’interrogativo sul senso dell’apertura verso i lefebvriani. Presentata come un paterno segno di accoglienza di fratelli che avrebbero frainteso il Concilio, è interpretata invece da molti esponenti della Chiesa in lingua tedesca come implicito rinnegamento degli aspetti più innovativi del Concilio stesso. Lo dicono apertamente. Tutto l’opposto delle reticenze e dei distinguo verbali delle gerarchie ecclesiastiche italiane. Che forse non hanno neppure capito la posta in gioco. Preoccupate di difendere sempre e comunque il Papa e di attaccare sempre e comunque «i laicisti», lasciano i laici credenti in gravi difficoltà. Dopo il viaggio del Papa in Africa, la Cei accusa la stampa d’aver ridotto tutto il suo messaggio di fede e d’amore alla distorta questione dei preservativi. Per certi aspetti ha ragione, anche se il problema dell’Aids in quella terra disgraziata è di una gravità immensa. Ma il vero punto critico è: come mai, nonostante l’imponenza della macchina comunicativa della Chiesa, nell’opinione pubblica(ta) è «passato» solo il dibattito sui preservativi? Per malizia occidentale? O non è emerso invece ancora il difetto di comunicazione della Chiesa, incapace di collegare in modo convincente i contenuti religiosi e teologici del suo messaggio con le sue indicazioni morali?

Questo difetto è sistematico. Da anni si discute di biotecnologie, di testamento biologico, di «famiglia naturale» mescolando in modo confuso e arbitrario argomenti che si pretendono razionali e scientifici, «puramente umani», con assunti di fede. Il punto culminante è l’idea di vita (anzi di Vita) potente veicolo di una visione religiosa che diventa intransigente rifiuto di altre visioni della vita umana intesa nella sua concreta storicità. La teologia diventa sacra biologia, bioteologia. Con quel che segue per i rapporti procreativi, sessuali, familiari, giù giù sino alla contraccezione. L’ossessione del bios e del suo controllo ha sostituito i contenuti del discorso sul logos. I grandi temi della grazia, della salvezza, della redenzione sono diventati incomprensibili e incomunicabili alla maggioranza delle persone. Al loro posto c’è un’astratta proclamazione della dottrina morale, ignorando che questa si è costruita attraverso complesse operazioni di assestamento di durata secolare. La fedeltà ai principi diventa nemica della ragionevolezza, dal testamento biologico sino alla contraccezione.

Barbara Spinelli ha parlato su questo giornale con passione e forza argomentativa del «silenzio che manca al Vaticano». Vorrei aggiungere che alla Chiesa vaticana manca soprattutto la ragionevolezza, l’altra faccia della razionalità che sta tanto a cuore a papa Ratzinger. Riprendendo l’interrogativo iniziale sulla latenza di uno «scisma» nella Chiesa europea, ritengo che non si verificherà nella realtà. Tanto meno nel nostro Paese. Non è più il tempo delle grandi dispute teologiche, neppure delle grandi eresie, teologicamente robuste. È il tempo dei silenziosi abbandoni. Soltanto una laicità matura nelle persone e nelle istituzioni consentirà a tutti la piena e serena espressione della loro fede e dei loro stili morali di vita. A dispetto dei clericali vocianti e dei loro agnostici compiacenti fiancheggiatori.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:09:40 pm »

18/4/2009
 
Il mondo è diventato più cattivo
 

GIAN ENRICO RUSCONI
 
Siete cagne dell’Occidente». Non dimentichiamo questo insulto rivolto alle giovani donne afghane. Protestavano contro un articolo della legge sul diritto di famiglia, da esse giustamente considerato una forma di legalizzazione dello stupro. Non declassiamo questo episodio a un deplorevole caso isolato di intolleranza, tra i giochi di potere del governo di Kabul in difficoltà e l’ottuso fanatismo religioso. È un segnale molto serio su come vada ripensata la presenza occidentale nelle aree di cultura islamica.

Non basta più lo schermo ufficiale della lotta al terrorismo. Si tratta di ben altro. Non facciamo neppure gli ingenui, le anime belle convinte che basta rimanere imperterriti in Afghanistan - come rappresentati dell’Occidente - per promuovere, insieme con tutti i Grandi Valori Umanitari, anche e innanzitutto la dignità della donna. È una partita difficilissima. Siamo culturalmente disarmati, proprio nel momento in cui schieriamo migliaia di soldati in tenuta da combattimento che ogni sera vengono esibiti in televisione come guerrieri della civiltà contro il terrorismo. Soldati che erano stati mandati laggiù anche per togliere il burqa alle donne afghane, si diceva zelantemente da noi. Il risultato è sotto i nostri occhi.

Naturalmente in Afghanistan ci sono anche medici, insegnanti, organizzazioni non governative, volontari di ogni tipologia e nazionalità. Ma - tragico paradosso - è proprio questo Occidente che, agli occhi di alcuni influenti gruppi religiosi e delle loro donne, rappresenta un pericolo per la cultura e per l’identità islamica. Non a motivo della loro attività professionale e di tecnici, ma per la loro tacita testimonianza. Esprimono una «cultura occidentale» assai più insidiosa dei caschi militari della Nato. I soldati prima o poi se ne andranno. Ma ci sono raggruppamenti politici e culturali (che semplicisticamente continuiamo a chiamare «fondamentalisti») che stanno ponendo le premesse per cacciare idealmente - se non fisicamente - l’altro Occidente, quello culturale; per neutralizzarlo come autentico partner di dialogo.

È uno scenario di «scontro delle civiltà» che viene retoricamente scongiurato e negato da tutti, semplicemente perché è «raffreddato». Ma non si tratta di una replica della classica Guerra Fredda alla cui conclusione è nata l’attesa che il mondo fosse finalmente più libero, liberato, liberista e liberale. Il mondo invece è diventato più cattivo, le identità collettive (popoli, nazioni, gruppi sociali) si sono trasformate in ossessioni autoreferenziali, i propri valori sono dichiarati non negoziabili, cioè indifferenti alle conseguenze che ricadono su chi non li condivide.

In questo contesto un ruolo decisivo è giocato dalle religioni, che si presentano come visioni della vita vincolanti e totalizzanti. Lo è in modo particolare l’Islam, che pure è un universo religioso e culturale molto differenziato e complicato al suo interno. Ma, a ben vedere, non esiste neppure un «Occidente» come entità compatta e coerente così come viene presentata dai suoi nemici e detrattori.

A questo proposito vorrei mettere a fuoco un punto essenziale. L’ostilità verso l’Occidente non riguarda la sua tecnologia e le sue prestazioni materiali ed economiche, che al contrario vengono apprezzate, acquistate, imitate, metabolizzate. Basti pensare all’Iran di questi giorni, che identifica l’orgoglio islamico con il suo controllo della tecnologia nucleare. Come se questa tecnologia non fosse l’estremo prodotto di quella razionalità occidentale che viene sistematicamente denigrata dai religiosi al potere.

L’accettazione, anzi l’interiorizzazione del valore della tecnologia da parte del mondo islamico è totalmente slegata dalla storia della scienza occidentale che la precede, la spiega, la motiva. Non solo la tecnologia è scissa dalla ragione scientifica che l’ha prodotta, ma questa stessa razionalità scientifica è scissa dalla ragione occidentale nel suo insieme.

La ragione occidentale non si riduce affatto allo scientismo. È razionalità e ragione occidentale anche quella che enuncia i diritti, in particolare della donna - per rimanere in tema. L’insulto «cagne dell’Occidente» è una volgare ma significativa distorsione dell’idea dell’Occidente e della sua razionalità, distorsione che in modo più sofisticato è condivisa da molti intellettuali islamici. Discutere con loro, per farsi capire e per capire; instaurare un autentico scambio reciproco di argomenti e di ragioni è un lavoro ancora da fare in profondità. Mi chiedo se siamo davvero pronti.

Nell’area della cultura islamica c’è la Turchia, un Paese che è agli antipodi dell’Afghanistan e ha ben poco in comune con l’Iran. A parte gli stretti rapporti storici con l’Europa, la Turchia ha avuto un’esperienza del tutto particolare, grazie all’energica modernizzazione, occidentalizzazione e secolarizzazione imposta dal regime kemalista sino dagli Anni 20. Ma negli ultimi decenni anche in Turchia si è assistito a un inatteso revival dell’Islam tradizionale che ha modificato il quadro delle forze politiche e rimesso in discussione alcune acquisizioni cosiddette «laiche» (come l’abolizione del velo nell’ambito pubblico). In realtà quello che accade in Turchia oggi non è molto dissimile da quello che si verifica in Italia: le istanze religiose rivendicano il diritto di influire e regolamentare - quando si offre l’occasione - l’etica pubblica e i codici della vita privata dei cittadini. Naturalmente affidandosi al Corano.

Da anni nell’agenda europea c’è la questione dell’ingresso della Turchia nell’Ue. È riemersa settimane or sono in occasione del viaggio di Barack Obama in Europa. L’opinione pubblica ha preso atto della netta divergenza di prospettiva tra il presidente americano, favorevole alla sollecita accoglienza della Turchia nell’Ue, e l’opposizione di Francia e Germania. Il tema non è stato ulteriormente approfondito, anche perché sono in gioco aspetti di natura molto diversa. È evidente che la preoccupazione americana è per la stabilità strategica ai confini orientali dell’Europa. Gli europei invece (quelli che contano) sono sensibili ad altri aspetti: il troppo lento e incerto processo di democratizzazione delle strutture giuridiche, frenate ora anche dal revival islamico, e la difficile e irrisolta questione curda.

In questo contesto il presidente del Consiglio italiano si è inserito con una proposta che a suo avviso sarebbe di mediazione. Avendo sott’occhio la crisi nel mercato del lavoro, suggerisce che l’entrata della Turchia nell’Ue sia accompagnata da una provvisoria regolamentazione che rallenti la forza lavoro turca nel mercato europeo. Per quanto sensata, questa proposta (di natura sociale ed economica) elude i punti-chiave che sono di altra natura, come si è detto: l’energica prosecuzione dei processi di democratizzazione, con il contenimento di una possibile islamizzazione del Paese, e la soluzione del problema curdo.

Si tratta insomma di questioni di carattere politico e culturale in senso forte, che rilanciano i temi di fondo enunciati sopra. Non c’è dubbio che affrontarli insieme con un Paese e una cultura aperti all’Occidente, come la Turchia, sarebbe un decisivo contributo alla loro chiarificazione.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Aprile 21, 2009, 11:29:20 am da Admin » Registrato
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 21, 2009, 11:28:37 am »

21/4/2009
 
Il ring di Ginevra
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
E’ in gioco l’etica, è sbagliato disertare», aveva affermato il capo della delegazione vaticana alla Conferenza dell’Onu sul razzismo, disapprovando le nazioni assenti. È stato smentito dalle parole (per altro prevedibili) del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che della questione etica del razzismo ha fatto un uso eminentemente politico unilaterale. Lo stesso segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon è dovuto intervenire per censurarlo.

Il fatto è che il razzismo è diventato l’indicatore più potente e comodo per stigmatizzare ciò che si considera il male, il nemico. Anzi il proprio nemico. Ma in questo modo la definizione di che cosa sia il razzismo, la sua imputazione, la lotta efficace contro di esso sono diventati strumenti politici diretti. Un classico esempio di politicizzazione di principi che dovrebbero invece ispirare una politica di intesa e azione comune.

È in questa situazione che si è cacciata la Conferenza di Ginevra, dopo la cattiva prova della volta precedente a Durban nel 2001. Non è più il «luogo del dibattito etico», ma il posto dove si esibiscono i muscoli della nuova ideologia anti-occidentale, prendendo come pretesto il caso di Israele.

Al centro del contrasto infatti c’è l’idea del mondo islamico di considerare il «sionismo come ideologia razzista» e quindi di accusare lo Stato di Israele di essere razzista, di praticare una politica razzista. Corollario di questa accusa è il disconoscimento del suo diritto di esistere come Stato. Questa posizione è sostenuta con particolare aggressività dal rappresentante dello Stato teocratico iraniano, che considera l’Olocausto una «invenzione sionista». Per quanto sappiamo, i rappresentati di molte nazioni, non soltanto occidentali, hanno cercato in tutti i modi, nella fase preparatoria della Conferenza, di far correggere questo atteggiamento. Ma nonostante qualche aggiustamento non è stato raggiunto l’obiettivo.

È chiaro che non si tratta di difendere per principio la politica israeliana o di risparmiarle critiche, anche molto severe, soprattutto in merito a recenti decisioni nella questione palestinese. Israele sta commettendo molti errori. Ma soltanto chi è ossessivamente vittima di un’ottica etnicista (razzista) può imputarli ad una presupposto razzista. Il razzismo è la negazione della pari dignità umana, culturale, politica ad un gruppo sociale o etnico «altro», sino a prevederne o addirittura ad augurarne il virtuale annientamento. Ma non è esattamente questo l’atteggiamento di chi accusa oggi Israele di essere razzista?

Per uscire dall’imbarazzo e prendere una posizione che si vuole super partes, si va ripetendo che, se è deplorevole l’antisemitismo, non lo è da meno l’islamofobia. Anzi si insinua che è la montante islamofobia (legata al sospetto di terrorismo), non solo in Israele ma nell’Occidente intero, ad attizzare l’antisemitismo.

Segnali di una crescente insofferenza anti-islamica sono evidenti anche in Italia. Nel nostro Paese per superficialità e ricattabilità del ceto politico si tollerano atteggiamenti indecenti e irresponsabili persino presso rappresentanti delle forze partitiche. Parlando di islamofobia tuttavia occorre distinguere tra un generico atteggiamento xenofobo, che con il passare degli anni si è diffuso e rafforzato, cambiando obiettivo, investendo di volta in volta albanesi, romeni o zingari, e la specifica diffidenza verso il mondo musulmano. Se il primo tipo di immigrati produce un senso di insicurezza individuale, legato ad aspettative e timori di criminalità, l’immigrazione musulmana dà luogo ad un altro insieme di sentimenti. La vivacità dei piccoli mercati rionali, la presenza riservata delle donne velate con i loro bambini sempre più numerosi nelle scuole materne, e gli adulti maschi che fanno una cosa per noi inconsueta: pregano con gesti pubblici altamente espressivi eppure semplici. Tutto questo genera un oscuro senso di timore reverenziale. Si percepisce confusamente una sfida culturale, cui si reagisce maldestramente immaginando «radici cristiane», di cui in realtà non si sa più nulla. Ma l’effetto più devastante lo fa il sospetto - ingiustificato - di terrorismo.

Diventa così difficile stabilire una vera comunicazione con gli islamici a livello quotidiano. La gente normale è a corto di argomenti. L’invadente chiacchierona televisione nostrana non sa che cosa dire. Ripete banalità «politicamente corrette», ma non trasmette informazioni serie. Gli intellettuali sono ancora distratti, ma qualcuno - a corto di argomenti - parla di islamizzazione dell’Europa. Islamofobia? Da noi, non direi ancora. In ogni caso non vedo un doppio pericolo di due razzismi speculari vicendevolmente alimentati, contro gli ebrei e contro i musulmani. La situazione è più confusa. Proprio per questo è deplorevole che un’iniziativa di grande dimensione come la Conferenza di Ginevra sul razzismo, invece di essere l’occasione per una maturazione collettiva, offra il penoso spettacolo del contrasto irrisolto tra le grandi culture e dell’impotenza dell’Occidente.
 
da lastampa.it
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