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« Risposta #15 inserito:: Aprile 21, 2008, 10:34:08 am » |
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Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi
di Dino Pesole
Riparte il cantiere del federalismo fiscale, sulla spinta del successo ottenuto dalla Lega nord. Ed emerge subito una prima, rilevante questione da risolvere: la consistenza del fondo perequativo che dovrà garantire le Regioni del Sud, soprattutto nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Lo stesso premier in pectore, Silvio Berlusconi, ha parlato di «federalismo solidale» e di «fiscalità compensativa».
E si fa strada l'ipotesi di affiancare al modello di perequazione nazionale disciplinato dallo Stato, modelli di perequazione finanziati dalle Regioni, per assicurare agli enti locali le risorse per esercitare le funzioni loro conferite. L'ipotesi di base prevede l'istituzione di un fondo perequativo, per il solo fabbisogno sanitario, di 13 miliardi, cui andrebbe ad aggiungersi un costo di circa 1-2 miliardi per l'Irpef.
Si parte dal corposo dossier messo a punto alla fine del 2005 dall'Alta Commissione sul federalismo fiscale, presieduta da Giuseppe Vitaletti. Obiettivo principale è colmare il vuoto normativo determinato dalla mancata applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, nella parte in cui si stabilisce che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni «hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa», stabiliscono e applicano «tributi ed entrate proprie» e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali «riferibili al loro territorio». Il lavoro della commissione Vitaletti può costituire una base di partenza, soprattutto laddove prevede una stretta correlazione tra il prelievo fiscale e il beneficio connesso alle funzioni esercitate. I tributi propri non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale, «che dovrà essere costituita in gran parte da compartecipazioni». Il tutto in ossequio alla più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n.37 del 2004). La disciplina transitoria dovrà consentire «l'ordinato passaggio dall'attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in piccola parte derivata, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi».
I tributi propri regionali (l'Irap rientra nella competenza statale) dovranno essere istituiti con legge regionale, mentre il fondo perequativo, in ossequio all'articolo 119 della Costituzione (terzo comma), dovrà essere fissato con legge dello Stato «senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Nella scorsa legislatura, su questo fronte non si son fatti passi in avanti. Gli elettori hanno respinto la "devolution" varata dal centro destra, e il disegno di legge approvato dal governo Prodi il 1° agosto 2007 è rimasto impantanato alla Camera fino allo scioglimento anticipato del Parlamento.
Ora con il cambio di maggioranza e il nuovo governo Berlusconi pronto a insediarsi, si comincerà da capo. Al quartier generale della Lega il punto fermo è il progetto deliberato dal Consiglio della Lombardia il 19 giugno 2007, in cui si dispone che una parte cospicua della ricchezza prodotta resti sul territorio. Parola d'ordine, evocata del resto a più riprese nei giorni scorsi da Umberto Bossi. Il sistema delle compartecipazioni regionali vede l'Iva al primo posto, con una quota non inferiore all'80%, ma alle Regioni dovrebbe affluire anche il gettito delle accise, dell'imposta sui tabacchi e di quella sui giochi.
ATTUAZIONE TITOLO V
Il Senato delle Regioni
L'Alta Commissione sul federalismo fiscale Istituita nel 2003, la Commissione presieduta da Giuseppe Vitaletti lavorò per due anni e e produsse un dossier di 118 pagine con le indicazioni per adeguare il modello di federalismo fiscale all'articolo 119 della Costituzione.
Autonomia tributaria La Commissione riconobbe che gli enti territoriali e locali godono di un livello significativo di autonomia tributaria (pari al 47% nelle Regioni, al 44% nelle Province e al 46% nei Comuni). Per rendere funzionante il nuovo Titolo V della Costituzione veniva indicata la necessità di istituire un Senato federale
Patto di stabilità Secondo la Commissione il finanziamento degli enti territoriali mediante entrate tributarie proprie potrà favorire un uso più efficiente delle risorse, ma per rispettare il patto di stabilità interno «appare essenziale il riconoscimento agli amministratori locali di un effettivo potere fiscale». Dunque, oltre alle compartecipazioni, maggiori tributi propri che tuttavia non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale da ilsole24ore.com 18/04/2008
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 21, 2008, 05:33:22 pm » |
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L'intervista Il ministro dell'Interno in pectore
Maroni: sì alle ronde contro i criminali
«E sugli immigrati clandestini pulizia e polizia»
MILANO — «Ha visto? Anche a Bologna le fanno. Certo, viste dai Tg, quelle sembrano ronde buone. Ma sono uguali alle nostre». È il ministro dell'Interno in pectore, Roberto Maroni, a rilanciare la vecchia idea del Carroccio, la vigilanza dei volontari contro la criminalità.
È questa la strada seguire? «Sì. Ho visto con piacere e anche con un po' di compiacimento che Cofferati ha istituito di fatto e legalizzato le ronde».
Serve una legge che dia ai Comuni la legittimità a costituirle? «Ma no, non serve, le ronde sono già legali. Si fanno già da anni in diverse città. A Milano, per esempio, ci sono i City Angels».
I compiti di polizia non dovrebbero essere di competenza delle forze dell'ordine? «Infatti le ronde non hanno poteri di polizia giudiziaria, ma di prevenzione ».
Non sono incostituzionali, come sostiene l'ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna? «Questi sono cavilli, ai quali antepongo la vita delle persone. Quando uno viene ammazzato, il problema non si risolve più».
C'è un'emergenza criminalità? «Sì. Collegata all'immigrazione, spesso clandestina. Prodi ha perso le elezioni su questo e sulle tasse. Noi le abbiamo vinte sulla sicurezza e sul federalismo fiscale».
Amato dice che gli stupri sono diminuiti. E che i patti per la sicurezza nelle città funzionano. «Ma sono aumentati gli altri reati. I patti non hanno funzionato bene dappertutto e sono insufficienti, anche se bisogna proseguire su questa via».
Che provvedimenti prenderà il governo Berlusconi sulla sicurezza? «Più rigore contro l'immigrazione clandestina. Serve più pulizia e polizia ».
Non si rischia di esagerare? «Non vogliamo militarizzare il territorio, ma controllarlo. Coinvolgendo le autonomie locali».
Cioè i sindaci. «Ha visto il patto siglato dai primi cittadini a Parma? Ecco, quello è l'esempio migliore».
Ora c'è il fenomeno del sindaco- sceriffo di sinistra. «Non ci sorprende, abbiamo sempre anticipato i tempi».
Fassino chiede il dialogo. «E noi dialogheremo. Altri hanno interposto barriere ideologiche. Dandoci dei razzisti, degli xenofobi e dei baluba».
È pensabile che il testo sulla sicurezza venga condiviso anche dalla sinistra? «La mia preoccupazione non è avere un ampio consenso, ma trovare le misure adeguate. Se la sinistra ci sta, bene. Altrimenti abbiamo i numeri per fare da soli».
La Bossi-Fini, si dice, funziona male. Discrimina gli immigrati che lavorano e non fa andare via i criminali. «È un problema essenzialmente di applicazione. Bisogna attuarla con rigore, come la legge Biagi».
C'è chi invoca una Bossi-Bossi. «No, la legge ha tutti gli strumenti adeguati per contrastare l'immigrazione clandestina. Semmai si può aggiornare con le novità intervenute dopo il varo».
L'ingresso dei romeni. «Esatto. Bisogna trovare una soluzione per loro. Con un provvedimento ad hoc, visto che sono comunitari ».
Lusetti vi accusa: avete aperto voi le frontiere dal 1˚ gennaio 2007 ai comunitari e quindi ai romeni, a differenza di altre nazioni. «A Lusetti dico che la campagna elettorale è finita. Non ci venga a fare la morale».
Ma è vero o no che avete fatto entrare i romeni? «È vero che successivamente alla loro entrata, Prodi non ha messo gli argini necessari. E ha fatto decadere due decreti sicurezza. È un governo che ha pasticciato, balbettando su questo tema e dando risposte emotive ».
Veltroni dice che per voi quando certi episodi accadono a Milano è colpa del governo, quando accadono a Roma, è colpa del sindaco. «Non voglio infierire su uno sconfitto, ma Veltroni ha perso un'altra occasione per stare zitto. Diciamo che è sempre colpa del governo, ma sono situazioni diverse: in un'area degradata come quella dove è successo lo stupro a Roma, la responsabilità è dell'amministrazione».
Rutelli propone il braccialetto elettronico per le donne. «Non gli crede nessuno. Alle donne i braccialetti piacciono, ma Rutelli poteva svegliarsi prima. Per due anni ha fatto tutto il contrario, ha approvato anche l'indulto. C'è anche un problema di credibilità».
Castelli dice che i carcerati sono pochi e devono aumentare. «Ha ragione. Ma bisogna agire innanzitutto sul piano della prevenzione. E poi, certo, anche su quello della certezza della pena».
Alessandro Trocino 21 aprile 2008
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 21, 2008, 05:39:33 pm » |
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21/4/2008 Nord che vecchia canzone GIOVANNI CERRUTI
La Lega che si gonfia di voti, la Questione Settentrionale, il Pd del Nord... Da dove si vuol (ri)cominciare questa novità già vecchia? Si può partire dalla Stazione Centrale di Milano.
O meglio da un bar che stava da quelle parti, in via Bordoni, e dal pomeriggio del 14 giugno 1987. Alle sei del pomeriggio Umberto Bossi ordina un chinotto per celebrare la sua prima elezione, da questo momento sarà «il Senatùr». «Diventeremo il primo partito al Nord - dice -, avremo il sindaco di Milano e caleremo a Roma prendendo voti a destra e sinistra, categorie che spariranno. Noi rappresentiamo gli interessi di chi sta al Nord».
Un visionario? Più o meno l'hanno sempre trattato così ed è stata la sua fortuna. Fine Anni 80, la Dc si affida agli studi della Fondazione Bassetti: «È un fenomeno transitorio e avrà una durata fisiologica di 7 anni, come la "Lista del Melone" a Trieste». O all'idea di Giuseppe De Rita, allora consigliere del segretario Dc Ciriaco De Mita: «Bossi? Basta comprarlo». Formidabili quegli anni, per Bossi. L'unico che aveva capito qualcosa - diceva prima dell'ictus - era stato Bettino Craxi: «Era venuto perfino a Pontida, aveva riunito l'Assemblea nazionale del Psi a Brescia. Ma la verità è che i partiti di Roma ci hanno sempre inseguito».
A proposito di Brescia. Anno 1991, elezioni amministrative, la Dc è il primo partito, il Pds di Achille Occhetto cerca il consenso operaio. La sera dell'ultimo giorno di campagna elettorale, nella sala conferenze dell'hotel Vittoria, Occhetto confida tutto il suo ottimismo. Un cronista domanda, «e la Lega?». Risposta sicura: «Ho girato le fabbriche, arrivo adesso dall'OM. Non ne ho sentito parlare, e dunque credo che non ne risentiremo parlare neppure dopo il voto». Risultato: trionfo della capolista, tale Roberta Pizzicara, e Lega primo partito nella città operaia e bianca di Paolo VI, di Mino Martinazzoli, dei Bazoli, di Lucchini.
Dopo il voto, dopo ogni voto da quegli Anni 80, riparte la vecchia canzone: ah, la questione settentrionale... La memoria fa scoprire che nemmeno il Pd del Nord è una novità. Ne avevano parlato gli eletti nei Ds due anni fa, subito dopo la vittoria di Romano Prodi, l’«Ulivo del Nord». È del 29 gennaio 2007 un convegno alla Fiera di Verona, con il ministro Vannino Chiti. Non è per infierire, ma belle parole e basta. E già allora il bresciano Pierangelo Ferrari avvertiva: «Abbiamo come un handicap territoriale, siamo quelli di Craxi e poi di Bossi e poi di Berlusconi. Un'area da mettere politicamente sotto tutela».
Come negli anni di Massimo D'Alema presidente del Consiglio e Walter Veltroni segretario Ds. Ah, la questione settentrionale... Da Roma viene inviato il signor delegato della direzione, l'onorevole Pietro Folena, forse perché sulla carta d'identità c'è scritto nato a Padova. Un ufficio a Milano, qualche comparsata, e quando si avvicinano le elezioni del 2001 Folena si candida nel collegio di Manfredonia, Veltroni va a sedersi al Campidoglio e Questione Settentionale ti saluto, ci rivediamo dopo il voto. E infatti, altro crollo di voti al Nord e un paio di convegni per meditarci su. Qualche settimana e chi se la ricorda più.
Arriva Veltroni, oggi. E riunirà i suoi segretari regionali del Nord a duecento metri da quel barettino del chinotto di Bossi, vicino alla Stazione Centrale. Lasciato il loft ha scelto come location una room dell'hotel Michelangelo, l'albergone dei businessmen, una volta detti commessi viaggiatori, quelli che scendono dal treno concludono l'affare e ripartono. Segretari regionali, come si sa, eletti su indicazione di Veltroni. Ascolterà, ha anticipato. Ma niente Partito democratico del Nord, e tra gli ex Ds c'è chi ipotizza un maligno perché: il passaggio a seguire, magari, sarebbe la secessione dal Pd di Roma.
Eppure, almeno una volta, tra quel che erano i Ds e la Lega un avvicinamento serio c'era stato. Quando D'Alema era ancora premier incaricato e Bossi, al primo incontro, aveva offerto l'appoggio esterno al suo governo. «Calma». Avevano concordato le tappe, e nell'accordo siglato ai tavoli del ristorante «Gianni e Dorina», sempre dalle parti della Stazione Centrale, c'era l'appoggio della Lega al governo D'Alema e il patto elettorale che avrebbe portato Roberto Maroni alla presidenza della Regione Lombardia. «Ma poi - raccontò Bossi - quasi sul più bello mi chiama D'Alema per dirmi che i suoi l'avevano ingabbiato. Peccato. Per lui».
D’Alema era stato applaudito al congresso leghista di Milano, Bossi lo elogiava: «Massimo è un aquilotto, uno che in politica sa volare, Veltroni una gallinella». È lì, tra il '99 e il 2000, che si spezzano gli ultimi fili. E la Lega, tranne che per i dirigenti Ds del Nord, torna a essere una banda di mezzi baluba, mezzi razzisti, quasi fascisti, xenofobi. Tranne dopo il voto. Ah, la Questione Settentrionale... E il Nord che aveva votato Ulivo e Prodi nel 2006 non è che sia stato trattato granché meglio: tra lombardi e veneti, al governo era andata solo Barbara Pollastrini, al ministero delle Pari opportunità, proprio quel che serviva.
È da maneggiare con cura la Questione Settentrionale, anche quando viene declinata come Partito Democratico del Nord. Sul suo blog Pierangelo Ferrari, già segretario regionale Ds rieletto alla Camera, scrive: «Non abbiamo perso le elezioni a causa della composizione delle liste, ma i criteri con cui sono state composte e imposte sono il prodotto di una cultura centralistica che ci chiude nei loft e ci allontana dal Paese reale. Non si vince con le icone sbandierate sui media, l'imprenditore di successo, la ragazza naïve, l'uomo d'ordine del'esercito, l'operaio esibito come l'ultimo dei Mohicani...».
Benvenuto al Nord, segretario Veltroni. da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 22, 2008, 12:35:20 pm » |
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Il vicepremier in pectore «Veltroni sia l’unico interlocutore tra i suoi. Napolitano garanzia per il dialogo»
Calderoli: ora tre anni di armistizio
«C’è da rimettere in piedi l’Italia. Ma i pontieri saremo noi leghisti, non Letta»
ROMA — Si mostra cauto solo sul suo futuro ruolo di vice premier, «perché come dice Giovanni Trapattoni: "Mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco" ». Sul resto, il coordinatore della segreteria leghista Roberto Calderoli disegna le strategie del Carroccio, annuncia che il suo partito intende proporsi come «forza pontiere del dialogo » tra Pdl e Pd sulle riforme, chiede all’opposizione «un armistizio di tre anni per rimettere in piedi l’Italia», confida nell’appoggio di Giorgio Napolitano «che al Quirinale ha mostrato coraggio e coerenza», esorta Guglielmo Epifani a «fare l’interesse dei lavoratori accettando le gabbie salariali », e definisce l’avvento di Emma Marcegaglia alla guida di Confindustria una «coincidenza molto felice».
Siamo alla «rivoluzione copernicana» del Carroccio. «Noi siamo pronti a dialogare nell’interesse del Paese. Al contrario di quanto si dice, la Lega ha una visione nazionale dei problemi perché ritiene che la questione settentrionale non può essere risolta se non si affronta anche la questione meridionale. E se ci rivolgiamo all’opposizione c’è un motivo: o troviamo il modo di rilanciare l’Italia, o l’Italia porterà i propri libri in tribunale. Inizia una stagione costituente. E non parlo solo di riforme costituzionali, mi riferisco anche a temi come lavoro, pubblica amministrazione, infrastrutture, ordine pubblico, su cui va coinvolta l’opposizione. Serviranno tre anni di armistizio. Gli ultimi due di legislatura, inevitabilmente, saranno proiettati verso le nuove elezioni».
Accettate dunque lo schema Berlusconi-Veltroni? «L’unico partito che può fare da ponte tra Pdl e Pd è proprio la Lega. Il dialogo non può essere affidato a Gianni Letta. Un conto sono le intese sulle nomine, altra cosa è discutere politicamente sul cambiamento del Paese. Noi siamo pronti. Pensiamo ci sia una parte sana dell’opposizione con cui si deve dialogare. Ma i riformisti devono avere coraggio per rimuovere certe incrostazioni. Incrostazioni che ci sono anche nel centrodestra».
Siete pronti allora a confrontarvi con il leader del Pd? «Veltroni ha avuto idee brillanti, ed è riuscito a sintetizzarle con grande efficacia, sebbene poi siano rimaste solo slogan. Ma non sono convinto che le dimensioni della sconfitta abbiano scontentato tutti nel Pd. Magari c’è chi vorrebbe mettere in difficoltà Veltroni».
Ci risiamo con i sospetti su Massimo D’Alema? «Non credo sia il solo. Comunque, a noi serve chiarezza per sapere con chi discutere. Nei due anni di opposizione, la maggiore difficoltà è stata infatti capire chi fosse l’interlocutore. Parlavo con Romano Prodi e diceva cose diverse da quelle che diceva Massimo D’Alema. Andavo alla Camera e ascoltavo cose diverse da quelle che sentivo al Senato.... Ci diano certezze. C’è bisogno di una sola risposta. La cosa ovviamente dovrà essere reciproca. Serve senso di responsabilità».
Nel dialogo coinvolgerete anche Casini, magari in attesa di capire se allearvi di nuovo con l’Udc? «Lavorai a suo tempo per evitare la rottura. Vedremo se ci sarà spazio per una ricomposizione. Se son rose fioriranno. Per ora concentriamoci sulle riforme. In tal caso sono sicuro che il capo dello Stato aiuterà il processo».
La Lega che si affida a Giorgio Napolitano? «Quando Napolitano divenne senatore a vita, fu il primo e l’unico a iscriversi al gruppo cui aveva fatto riferimento nella sua storia politica. Per me quel gesto di chiarezza è stato esemplare, mentre gli altri hanno continuato a votare per la sinistra dicendosi super-partes. Viva la faccia. Certo, ricordo come criticammo il suo arrivo al Quirinale, ma nei giorni della crisi, quando temevamo inciuci e larghe intese, lui si affidò solo a Franco Marini. Eppure c’erano altre soluzioni, quella di Giuliano Amato per esempio, che potevano diventare pericolose. Invece no, ha sciolto il Parlamento che lo aveva eletto. Bisognava aver le palle per farlo. E l’ha fatto».
Difendete Napolitano, difendete i sindacati da Confindustria... «Il voto non ha determinato solo un cataclisma elettorale, ha anche sovvertito i canoni della politica. Non hanno più senso le vecchie categorie, siamo in presenza di un evento storico, rivoluzionario. Perciò speriamo che tutti se ne rendano conto. I sindacati tornino alla loro ragione sociale e smettano di fare i partiti. Il segretario della Cgil, se vuole fare davvero gli interessi dei suoi iscritti, accetti le gabbie salariali. Lui sa che la paga di mille euro a Milano vale meno che in un paesino del Sud. E comunque, le colpe non possono essere scaricate solo sui sindacati».
Che vuol dire? «Che anche la Confindustria di Montezemolo ha grandi responsabilità. Invece di attardarsi a far politica, avrei per esempio applaudito se il gruppo Thyssen fosse stato buttato fuori dall’associazione degli imprenditori, dato che ha avuto 11 morti in un anno nelle sue fabbriche».
Pensa che il rapporto cambierà con Emma Marcegaglia? «Il suo avvento alla guida di Confindustria è stato una felice coincidenza. Ha un atteggiamento positivo. Basti pensare al modo in cui ha difeso Malpensa. Ha detto la verità senza badare ai riflessi politici della mossa. Altri, invece, avrebbero usato il "ma anche". Ecco cosa significa avere senso di responsabilità ».
Famiglia cristiana si appella invece al vostro senso di responsabilità e vi invita a liberarvi di certe «venature anticristiane». «Ma se sui temi etici la Lega non si è mai rifugiata nella libertà di coscienza... Eppure non abbiamo mai strumentalizzato la questione cattolica per fini elettorali».
In queste ore siete anche accusati di aver fatto il «sacco» del governo? «Nel 2001 ci toccarono tre ministeri. Visto il risultato, è legittimo chiedere in aggiunta un posto da vice premier. Anzi, avremmo potuto aspirare anche alla presidenza di una Camera: nel 2006 il Prc la ottenne prendendo meno voti di noi».
In cambio pretendete però da Berlusconi un posto di governatore in Lombardia o in Veneto. «Se Formigoni e Galan restano al loro posto, il problema non si pone. Ma quando in Lombardia e Veneto si tornerà a votare, rilanceremo la richiesta».
È preferibile per la Lega occuparsi di politica piuttosto che di banche, visto com’è finita con Credieuronord. «Siamo stati vittime non causa di quella vicenda».
Francesco Verderami 22 aprile 2008
da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:07:03 am » |
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Amici miei, leghisti immaginari Roberto Cotroneo E adesso cosa accadrà? Che la Lega diventa l’oggetto di maggiore fascinazione per buona parte degli intellettuali di sinistra, soprattutto quella ex Arcobaleno. Quelli che troveranno un modo per salire sul carro del vincitore, anche solo per poco, quel tanto che basta per capire come è, e poi scendere. Adesso che la Lega ha preso un voto su tre in Veneto, ha raggiunto l’8 per cento nazionale, è l’ago della bilancia per il futuro Governo Berlusconi, si comincia a dire: se hanno tanto successo qualche motivo ci sarà. Perché la Lega Nord mica è un partito di élite, mica è un partito di gente che se ne sta a Roma a perdere tempo. E no che non è così, la Lega la votano a Sesto San Giovanni, e la votano a Porto Marghera, la votano al posto della Sinistra Arcobaleno, e la votano quelli del sindacato, e cominciano a votarla pure in Emilia e in Toscana, feudi rossi, di efficienza di sinistra. E perché anche lì? Perché sono connessi con la gente, sono davvero radicati nel territorio, dànno voce a un disagio, a un mondo sommerso, che la politica romana non sa interpretare. E cosa dobbiamo farci? Quelli sono così, saranno brutali, un po’ beceri ma alla fine efficaci. Perché poi, mica puoi negarlo, sul federalismo fiscale qualche ragione potrebbero averla, e se io produco qui, faccio fatturato, mi apro la partita Iva, e lavoro tutto il giorno, quelle tasse non posso darle ai calabresi o ai baresi, che poi chi li conosce. È una forma di egoismo moderno, che però rispecchia un modo di pensare mondiale che in fondo non è globale per niente, e già per questo piace. Ce li aspettiamo dei ragionamenti di questo genere. Perché è così che funziona. Già ieri l’ottimo Stefano Di Michele, sul Foglio, immaginava l’intellighenzia di sinistra tutta a Pontida a versare l’acqua del Po, a fare giuramenti, a discettare, con una lettura originale e colta su Alberto da Giussano. A maneggiare durlindane, a inneggiare contro Federico I detto il Barbarossa, e a rivalutare i comuni, i localismi, le piccole patrie, i dialetti del nord, perché poi in fondo Pasolini non diceva le stesse cose? E poi di dove era Pier Paolo Pasolini? Di Casarsa, friuliano. E in che lingua scriveva poesie Pasolini? In friulano. E chi lo dice, in fondo, che se oggi fosse vivo, nei suoi scritti corsari, non inneggerebbe all’Umberto Bossi, come fece nel 68, sorprendendo tutti, e prendendo le parti dei poliziotti, e non degli studenti. Perché va detto, in queste cose siamo un paese corsaro, contraddittorio e imprevedibile. Soprattutto a sinistra, dove finisce sempre che prevale il “pensamolo strano”. Ora non si sa il perché ma la Lega va forte. Come si comincia a dire, è il più antico partito italiano. E figuriamoci. Peccato che la parola antico non si addide molto. Sarebbe meglio dire che alla fine per dissoluzione di tutti gli altri partiti sono rimasti in piedi solo Bossi e gli amici suoi. I quali sapranno intercettare un elettorato trasversale, e sapranno parlare a quelli che hanno paura a uscire di casa per colpa degli immigrati, clandestini e no, ma rimangono quelli di sempre. Quelli che li vedi alla Camera o al Senato, con queste cravatte verdi, e fazzoletto da taschino dello stesso colore. Quelli che sembrano arrivati chissà da dove. Quelli di Roma ladrona, che lo dicono e ci credono davvero. Quelli dei fucili. Quelli che il nord, la padania e niente altro. Quelli della maglietta anti Islam e delle uscite di Roberto Calderoli. Quelli che non sai come facciano a fare i raduni, le ronde delle camicie verdi, e si nominano cavalieri della lega lombarda tra di loro, come fossero in un gioco di ruolo medievale. Quelli che poi, alla fine, dove hanno amministrato il nord, non lo hanno fatto con tutta quella efficienza e serietà che vogliono vantare. Ma che importa. Ci siamo dimenticati il razzismo della Lega. E si dimentica in fretta che si tratta di un partito privo di qualsiasi cultura, antieuropeista, piccolo piccolo, capace di guardare al particolare. Quello del tricolore da strappare, quello dell’Inno di Mameli, che non si conosce e non si canta. Gli intellettuali più duttili, i più corsari, i più attenti, i teorici del “pensamolo strano” troveranno motivo di fascino in questi signori, che si avviano a far girare le scatole a Berlusconi per i prossimi cinque anni. Perché vai a sapere come è successo, ma li trovano complessi e per niente banali, dietro quella scorza da macellai subalpini. Si tratterà di capire se anche la Lega cambierà nei prossimi cinque anni, e si renderà conto che quattro ministri su dodici sono tanti, e che alla fine, quei quattro dovranno giurare fedeltà alla Costituzione, e dunque alla bandiera e a tutto il resto nelle mani del Presidente della Repubblica. E lo faranno contenti, perché in realtà tutti loro a Roma ci stanno benissimo, e in campagna elettorale la Santanché faceva notare che è ormai il terzo compleanno che Roberto Maroni festeggia a Roma. E non a Varese, sua piccola patria. Forse perché a Roma si festeggia meglio. E quelli che guardano a Pontida come si guardava all’Havana ai tempi d’oro, sono intrigati (che altro termine sennò) da questa doppia verità della Lega, seccessionisti di giorno, goderecci la notte. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. La doppia verità di togliattiana memoria, ora è diventata la doppia verità leghista. Ai compagni si prometteva la rivoluzione proletaria, e poi si stava in parlamento. Al popolo del nord si promette la seccessione, e poi si gozzoviglia tra Pantheon e piazza Navona. Con in testa la celebre frase di Flaiano: «Roma è l’unica città orientale senza un quartiere europeo». E in questo i leghisti non hanno proprio aiutato. Il pericolo è che tra un po’ con i leghisti gozzoviglieranno tutti. E si leggeranno anche sui giornali articoli sorprendenti. Il comandante Bossi, de tu querida presencia, il fascino intellettuale di Maroni, con le sue montature degli occhiali vezzose, e la sua passione per gli organi Hammond, il compagno Calderoli, che sembra un po’ magilla gorilla, e in fondo è un vero intellettuale, e pure un ineccepibile vicepresidente del Senato. E Castelli? E Rosi Mauro, la pasionaria della Lega, perché poi la Lega è anche un po’ così, ruvida come certe canzoni di Paolo Conte, grigia come certe giornate tra Langhe e padania, concreta come un tondino cesellato in quel di Brescia, fluida come un Barbera giovane. Dentro la Lega c’è il popolo delle partite Iva ma anche il mai abbastanza compianto compagno Stachanov: gente che lavora, gente di pianura, gente che guarda lontano. Va’ dove ti porta la padania, ovvero fino alla foce del Po, dal Monviso a Codigoro. Perché compagni miei, leghisti immaginari ci sarà da scrivere su questi nuovi eroi del pensiero forte, ribaltare luoghi comuni, sposare una causa, lasciare Capalbio per Bibbione, perché lui, il comandante Umberto è l’ultimo rivoluzionario in un paese pusillanime, l’unico che può sostitituire nell'immaginario intellettuale di certa sinistra, il subcomandante Fausto, e con risultati assai più convincenti. E poi dicono che l’Italia non è un paese imprevedibile. roberto@robertocotroneo.itPubblicato il: 23.04.08 Modificato il: 23.04.08 alle ore 8.16 © l'Unità.
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« Risposta #20 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:55:09 am » |
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nel 1840 c'era uno che se ne intendeva... Ma... La... -------
«Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civilità e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti.
In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto.
Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere.
Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo».
De la démocratie en Amerique di Alexis De Tocqueville, anno 1840.
Letto sulla ML lom.volontari
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:03:38 am » |
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Il personaggio
E' ossessionato dalla sicurezza stradale: io a 183 all'ora?
A centinaia volevano farmi da autista
Zaia, il leghista che assume asini e cita Hobbes
Ex pr nelle discoteche, punta all'Agricoltura: ho mandato il radicchio sullo Shuttle
«Sì, i sei asini brucaerba sono ancora in servizio lungo le strade. Costano meno delle falciatrici e sono più efficienti. Embé?». Se è per questo, anche i semi del radicchio rosso di Treviso nello spazio si sono trovati benissimo: «Li abbiamo mandati in orbita sullo Shuttle. Un esperimento scientifico. E anche un modo per far parlare di noi. I giornali e le tv ci cascano sempre».
La storia di Luca Zaia, classe 1968, annunciato ministro dell'Agricoltura, è esemplare del successo lungo della Lega. Zaia fa politica con la stessa tecnica e la stessa tenacia con cui faceva il pierre della discoteca Manhattan: dare del tu a tutti, parlare con tutti, parlare di tutto. No all'Ecopass, a Mastella nel centrodestra, alle preghiere islamiche nei locali della parrocchia di Paderno di Ponzano («chi si crede di essere, il Papa?» replicò il parroco. «Quel prete è un anarchico » fu la risposta). Sì all'esame di italiano «prima di ammettere alunni stranieri nelle classi dei nostri bambini», ai controlli sanitari alle frontiere, al test del Dna per i ricongiungimenti familiari, ai cani antidroga davanti alle scuole con test obbligatori «per studenti, insegnanti e politici», al «test di conoscenza della storia e della cultura del nostro paese» prima di concedere «dopo almeno dieci anni» la cittadinanza.
Le colture del suo paese per lui non hanno segreti. «Non c'è solo il radicchio rosso di Treviso, come molti credono, ma anche quello di Castelfranco, di Chioggia, di Verona... così come l'asparago bianco di Cima d'Olmo, che cresce sulle rive del Piave, è diverso da quello di Badoer che cresce sulle rive del Sile, a sua volta diverso da quello di Bassano... ». Stesso discorso per i vini: «Tutti si fermano a prosecco e amarone. Ma il Veneto è il primo produttore italiano. Abbiamo 25 vini doc, 10 igt, 3 docg, sette milioni e mezzo di ettolitri, 77 mila ettari di vigne, 71 mila produttori.... ». L'agricoltura è sempre stata la sua vocazione. Assessore provinciale a 27 anni, eletto per due volte alla presidenza della Provincia di Treviso — sempre da solo, battendo sia la sinistra sia Forza Italia e An —, ha conservato per sé le deleghe all'agricoltura. Al momento cumula l'assessorato regionale con la vicepresidenza del Veneto. A Roma ci sarebbe parecchio da fare: «Diversi settori trainanti sono in ginocchio, a cominciare dalle barbabietole. E poi le quote latte: un cartone di latte su due è straniero. La sicurezza alimentare. I pericoli della globalizzazione.
La difesa dell'agricoltura è la difesa della nostra identità». E gli ogm? «E' una questione complessa, che non si può risolvere con un sì o un no. Chi dice: gli ogm nei nostri campi ci sono già, andiamo avanti. Chi risponde: no, serve un giro di vite, estirpiamo gli ogm. In mezzo ci sono una legge italiana, una europea, più le direttive internazionali. Bisogna far rispettare le regole, senza integralismi ». Figlio di un meccanico, appassionato di lavori manuali – nel paese dov'è nato e vive, Bibano di Godega di Sant'Urbano, non è raro vederlo sfaccendare in canottiera e carriola - , diplomato alla scuola enologica di Conegliano e laureato a Udine in «Scienza della produzione animale», appetito pantagruelico – è solito festeggiare le numerose vittorie elettorali con grigliate sul Montello, «due tori da quattro quintali e migliaia di bottiglie di prosecco» -, Zaia è bersagliato dalla stampa progressista (La Tribuna di Treviso lo chiama Er Pomata per via dei capelli tirati indietro con il gel) ma incoraggiato da altri giornali non ostili: «Varcherà pure in punta di piedi la soglia della capitale, ma poi calzerà le sgàlmare sporche di terra, e farà a modo suo».
Con il sindaco Gentilini, assicura, è in ottimi rapporti: «Abbiamo cominciato insieme. Sono leghista da sempre». Grande sostenitore delle ronde – «come insegna Hobbes, il cittadino delega lo Stato a difenderlo, ma quando lo Stato non è in grado il cittadino si riprende il diritto e lo esercita» -, a ogni delitto perpetrato nel Nord-Est segue una sua dichiarazione. Le ultime: «Spero che questa bestia omicida marcisca in carcere». «I veneti vogliono che i criminali siano rinchiusi e si butti via la chiave». «E ora nessuno invochi l'infermità mentale perché il Veneto ripudia cittadini come questi». «L'impressione è che per il senso comune non sia sufficiente, per questi crimini efferati, la pena dell'ergastolo». «Invocare la pena capitale non è certo fuori luogo».
Ha anche salvato un albanese prigioniero nell'auto in fiamme: «Non chiamatemi eroe, ho fatto solo il mio dovere. Piuttosto, sono disgustato da quelli che hanno tirato dritto ». Gli archivi custodiscono il solito florilegio di dichiarazioni: il benvenuto al vertice di Codevigo ai ministri dell'Agricoltura del-l'Est Europa – «colgo l'occasione per parlare dell'imbarazzante presenza nella Comunità europea di Romania e Bulgaria» -, i fischi all'inno – «parte Mameli e ti vengono in mente Napolitano, Prodi, Marini, Bertinotti e tutta quella roba lì» -, il saluto al presidente della Repubblica con avvertimento incorporato: «Stringendogli la mano gli dicevo "guardi che il Nord ha le palle piene"». Ma tra le gente che incontra è popolarissimo, e ne incontra molta: «Faccio centomila chilometri l'anno». La vorticosa mobilità, unita all'arretratezza della rete viaria pedemontana, gli ha ispirato l'ossessione per la sicurezza stradale. In mezzo alle rotatorie ha fatto mettere i rottami delle auto incidentate, ha sollecitato maggiori controlli «dal palloncino al prelievo dei capelli di chi è al volante», perché «in tempi di emergenza come questi devono cadere tutte le barriere a cominciare dalla privacy». Per i rei, nessuna pietà: «La patente non è un diritto, non la si può dare a una persona inaffidabile. Perché la patente sì e il porto d'armi no? Un'auto può diventare un'arma!». La sua, una Bmw, fu beccata in autostrada a 193 all'ora. «A parte il fatto che facevo i 183 e dovevo andare in Regione per un'emergenza, una tromba d'aria, ho pagato la multa da 407 euro e sono stato senza patente per un mese. E' partita una gara di solidarietà: un industriale mi ha messo a disposizione l'elicottero, centinaia di veneti si sono offerti di farmi da autista. Ma io non ho autisti né autoblù: la macchina era la mia!».
Aldo Cazzullo 24 aprile 2008
da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:07:38 am » |
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Retroscena
A colazione con il Cavaliere
ROMA — Vedrà Silvio Berlusconi oggi, e ufficialmente sarà la prima volta. In realtà Emma Marcegaglia si è già incontrata con il Cavaliere, proprio nei giorni in cui stava per essere designata alla guida di Confindustria. Fonti autorevoli di Forza Italia raccontano sia stato un colloquio «cordialissimo e soprattutto produttivo», come a prefigurare un rapporto di collaborazione proficuo tra il futuro premier e la neo presidente degli imprenditori. E non c'è dubbio che la Marcegaglia auspichi una forte sinergia con il prossimo governo, lo s'intuisce dal ragionamento con cui si è presentata a Berlusconi: «Voi liberate l'impresa, noi ci adopereremo per rilanciare l'Italia e costruire un nuovo rapporto con i lavoratori».
Nella maggioranza c'è — come dice Maurizio Sacconi — «un'attesa positiva verso la Marcegaglia, che è intenzionata a proporsi nel ruolo di sindacalista delle imprese, più attenta ai temi del fisco e dello sviluppo, e un po' meno interessata alla legge elettorale». In realtà ieri è parsa preparata anche sulle questioni istituzionali. Quegli accenni alla necessità di modificare il sistema, compresa l'aggiunta del «premio di maggioranza al Senato» nel modello di voto, sono sembrati molto simili ai «ritocchi» a cui punta Berlusconi. Per non parlare delle critiche sollevate sul rapporto di cambio attuale tra euro e dollaro, «decisamente penalizzante per le imprese», e che ha fatto ricordare quando in campagna elettorale il Cavaliere invitò la Bce a «risolvere al più presto il problema».
Insomma, non sembra esserci alcun intento antagonista verso il governo ma nemmeno desiderio di collateralismo, piuttosto — per usare le parole di Sacconi — «dopo la tesi e l'antitesi, lei sarà forse la sintesi nelle relazioni tra centrodestra e Confindustria ». L'espressione del dirigente azzurro rimanda ai rapporti di Berlusconi con i precedenti vertici di viale dell'Astronomia. «Perché la Marcegaglia — come spiega Roberto Maroni — non è Antonio D'Amato, che era stato etichettato politicamente, e non è neppure Luca di Montezemolo, che da politico si è mosso. Lei non ha posizioni pregiudiziali, e soprattutto si rende conto che questo è il momento per cambiare il Paese». Il dirigente leghista rivela che «durante un nostro recente colloquio mi ha detto: "Io starò dalla parte di chi farà le grandi riforme. E le riforme o si fanno ora o non si faranno più". Lei vuol vincere la sfida, soprattutto quella sul rinnovo del modello contrattuale. E sa che potrà contare sul nuovo governo, determinato ad attuare fino in fondo la legge Biagi».
Berlusconi è consapevole della «pesante eredità» che raccoglie la nuova rappresentante di Confindustria, «dato che — a suo avviso — le ragioni dell'impresa sono state spesso negate dal governo precedente». Il Cavaliere è pronto a intestarsi lo slogan della Marcegaglia, cioè a «liberare gli imprenditori», e nel suo staff c'è chi già progetta di smontare «l'intensiva regolazione fiscale e burocratica» varata dall'Unione. Attorno all'erede di Montezemolo si è costituita una rete estesa di sostenitori, che va da Fedele Confalonieri — schieratosi pubblicamente per la riforma del contratto — al prossimo ministro dell'Economia Giulio Tremonti, convinto che «con la nuova Confindustria lavoreremo bene ». A detta di Maroni, «la Marcegaglia avrà dalla sua anche Walter Veltroni, interessato ad assecondare il processo di innovazione, specie ora che la sinistra radicale è fuori dal Parlamento. Semmai, è il sindacato che vedo sotto pressione».
Quanto alla Lega, con la difesa di Malpensa aveva conquistato tutti. Ieri poi, dopo aver detto che il successo del Carroccio «non è solo frutto di una reazione protezionista», e dopo aver inneggiato al «federalismo fiscale », ha strappato applausi a scena aperta. «Dimostra quanto poco ideologico sia il suo approccio al nostro movimento», commenta Maroni: «Anche perché conosce gli amministratori leghisti sul territorio».
Oggi la Marcegaglia incontra Berlusconi, che quasi certamente le renderà visita all'assemblea di Confindustria di fine maggio, nelle vesti di presidente del Consiglio. Spetterà al governo tradurre le buone relazioni iniziali in un rapporto proficuo, perché le urne — come ha sottolineato ieri la nuova guida degli imprenditori — hanno consegnato al Cavaliere «una maggioranza chiara. E non ci sono più alibi per non fare le riforme».
Francesco Verderami 24 aprile 2008
da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 25, 2008, 09:21:06 am » |
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Marco Travaglio
Dal letame nascono i fior
"Un po' meno orgoglioso sono della legge elettorale che si dovrà riscrivere. Glielo dico francamente, l'ho scritta io ma è una porcata. Una porcata fatta volutamente per mettere in difficoltà una destra e una sinistra che devono fare i conti col popolo che vota" (Roberto Calderoli, Lega Nord, Matrix, 15 marzo 2006)
"La legge elettorale ha dato risultati storici, vedremo quale sarà il miglioramento possibile. Con il buon risultato di questa legge penso che il referendum possa essere bocciato dagli elettori" (Silvio Berlusconi, Agr, 15 aprile 2008)
"Anche in questo caso ho le idee abbastanza chiare, confermo che terremo a Napoli il primo consiglio dei ministri. Tra le varie soluzioni, il governo si doterà di apposito sottosegretariato destinato esclusivamente alla questione dei rifiuti" (Silvio Berlusconi in collegamento telefonico con Porta a Porta, 15 aprile 2008)
(25 aprile 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:14:00 pm » |
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25/4/2008 Un sindacato di nome Lega TITO BOERI
Roberto Calderoli non ha certo l’aria del genio. Né del bene, né del male. Eppure quella «porcata» di legge elettorale che porta il suo nome (e il suo famoso epiteto) è stata, per la Lega, un vero e proprio colpo di genio. Non solo perché la soglia dell’8 per cento su base regionale al Senato è costruita su misura per la Lega, ma anche perché il divieto di esprimere preferenze attribuisce alla Lega un grande vantaggio competitivo rispetto agli altri partiti. Il fulcro delle attività della Lega si svolge su di un’area limitata, un territorio poco più grande dell’Olanda, ma meno densamente popolato. Il suo nocciolo duro è nei piccoli centri, dove si può avere un rapporto diretto con l’elettorato, senza aver bisogno dell’intermediazione dei media. Nella Lega non ci sono grandi elettori e potentati locali, ma tanti «piccoli politici» di borgo che hanno il pregio di stare in mezzo alla gente, come dovrebbero fare tutti i bravi amministratori locali.
La Lega è il partito che negli ultimi 15 anni ha portato più giovani in Parlamento. Al contrario degli altri partiti, nell’ultima tornata elettorale non li ha confinati a piè di lista, dove si poteva stare sicuri che non venissero eletti. Si dice che i giovani trovino più spazio nella Lega perché «danno meno problemi», rispettano le gerarchie. In effetti, i giovani della Lega (compresi quelli che entrano in Parlamento) sono poco istruiti, difficilmente riescono ad imporre il loro punto di vista. Non serve perché gli elettori della Lega non guardano tanto alle qualità dei singoli, quanto al loro rapporto col territorio. È la comunità di appartenenza che li identifica, piuttosto che il loro curriculum e le loro competenze. Per entrare nella Lega come militanti, per aspirare a cariche amministrative o a candidature alle politiche, bisogna prima ricevere il «gradimento» di una comunità di iscritti. Anche se alla fine è il capo supremo, l’Umberto I, a decidere chi mettere in lista e chi no, questa scelta non viene percepita come un’imposizione dall’alto perché avviene nell’ambito di una rosa di persone che sono già state accettate, di cui ci si può fidare (per la verità non pochi «tradimenti», cambiamenti di campo, si sono consumati anche tra le file della Lega).
Questa forma di partito è funzionale alla strategia politica della Lega. È un partito rivendicativo, con finalità redistributive, che opera come un sindacato del territorio. Statalista quando si tratta di soldi per la Lombardia, liberista quando si tratta degli altri. Può candidamente chiedere di più per i propri territori e meno per gli altri. Nel programma della Lega si parla delle infrastrutture al Sud come qualcosa che potrà essere attuato solo dopo la Tav e le altre grandi infrastrutture del Nord e senza soldi pubblici. Come dire mai. Per questo il modulo organizzativo e gerarchico della Lega è difficilmente esportabile a partiti che ambiscono ad aumentare le dimensioni complessive della torta, piuttosto che a redistribuire le risorse esistenti. Anche un partito che sia federazione di partiti del Nord, del Sud, del Centro e magari anche dei «territori d’oltremare», dovrà trovare una sintesi, che rischia di essere vista come una scelta imposta dall’alto nei singoli territori.
Ma soprattutto facendo come la Lega non si possono risolvere i problemi di cui ci si è fatti interpreti. La globalizzazione e l’immigrazione, non li si governano nelle piccole comunità, la lotta alla criminalità organizzata richiede un coordinamento fra nazioni, prima ancora che fra paesini o quartieri. Sono tutti fenomeni che avvengono su di una scala più ampia di quella delle comunità della Lega. E anche il miglioramento delle condizioni materiali di vita nei piccoli centri richiede una sempre maggiore apertura verso il mondo circostante. Non solo non ci si può più difendere tra le mura del borgo, ma non si può neanche ambire a migliorare il proprio tenore di vita rimanendo chiusi lì dentro.
Il Porcellum finisce così per logorare i partiti diversi dalla Lega, crea tensioni crescenti fra il capopartito, che ha troppo potere, oneri oltre che onori, e la sua base. Ma ora che il voto è alle spalle, quella pessima legge elettorale non può diventare un alibi per ritardare quel rinnovamento della classe politica che non c'è stato con queste elezioni. I partiti possono farlo anche fuori dal Parlamento. Si deve rompere la tradizione che vede chi entra in politica restarci a vita. I politici che escono di scena non sono un problema sociale. Chi aveva una professione prima di entrare in politica, guadagnerà più di prima, spesso molto più di prima. Chi ha fatto il politico tutta la vita, potrà comunque contare su pensioni molto generose. Bene puntare fin d’ora su giovani che si allenino per le provinciali dell’anno prossimo e siano pronti fra cinque anni, quando si terranno le prossime elezioni politiche. Ci sono in giro tanti giovani che vogliono fare politica e non trovano spazio nella gerontocrazia. Bene sceglierli tra quelli che leggono prima la stampa locale dei grandi quotidiani nazionali, e che non si perdono nel circuito autoreferenziale della grande politica e delle grandi testate. Come abbiamo visto con queste elezioni, talvolta perdono il contatto con la maggioranza degli italiani. Chi fa politica deve saper stare in mezzo alla gente. Questa è la vera lezione che tutti i partiti devono oggi imparare dalla Lega. da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 26, 2008, 02:19:03 pm » |
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26/4/2008 Rischio secessione di rapina CARLO BASTASIN
C’è stato un attimo in cui il rituale delle dichiarazioni politiche si è squarciato e tutto ha preso ad accelerare vorticosamente. È stato quando i confronti riservati tra Bossi e Berlusconi e i vertici dei partiti che formeranno il governo hanno fatto trasparire l’ipotesi di una sostituzione dei due attuali presidenti delle Regioni Lombardia e Veneto con due esponenti della Lega. Nella spina dorsale dei secessionisti o dei meridionalisti, dei nostalgici asburgici o dei centralisti, deve essere corso un formidabile brivido di eccitazione o di timore. Immaginatevi lo scenario in cui le due Regioni economicamente più dinamiche d’Italia legiferano identicamente e di concerto in materia di scuola, cultura, infrastrutture, immigrazione, salute o aziende pubbliche locali. I loro leader cresciuti in una cultura secessionista, fanno pesare nelle trattative con le altre Regioni e con lo Stato il peso delle loro economie e capacità fiscali. Uno scenario fantascientifico che deve aver spaventato perfino gli interlocutori del governo se è vero che Fini ha subito tenuto a escludere che l’attuale governatore lombardo potesse muoversi da Milano, contro la stessa volontà di Formigoni.
In fondo lo scorso anno era stato proprio il Consiglio regionale lombardo ad approvare un progetto di federalismo fiscale in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione con implicazioni radicali per tutte le altre Regioni e assorbito dal programma elettorale del Pdl. Uno scenario in cui il Lombardo-Veneto prendesse un profilo politico de facto, non è per niente da escludere se anche in futuro la Lega confermerà la propria vitalità presso l’elettorato che nell’ultima elezione le ha consentito di strappare proprio a Berlusconi un milione di voti nel Nord. Ma le conseguenze di un tale evento, finora imprevisto, sono straordinariamente profonde e credo irreversibili.
Esse rendono l’idea di quanto sia delicato l’assetto istituzionale dell’Italia e di quanto poco sia sufficiente ad accelerarne l’instabilità. Per queste ragioni il tema del federalismo dovrebbe essere affrontato tempestivamente, ma quantomeno con un po’ di metodo. Le proposte attuali in materia fiscale sono per esempio azzardate, come dimostrano i calcoli sul trasferimento alle Regioni del 15% dell’Irpef e dell’80% dell’Iva oltre alle accise sugli oli combustibili. Un criterio di coerenza con il bilancio dello Stato e con la funzionalità di tutto il territorio non può essere trascurato. In sostanza un federalismo attraverso un atto di forza non potrebbe nemmeno funzionare. Anche se decentrate, le spese locali devono rispondere a qualche criterio di efficienza condiviso, dovrebbero essere chiare le regole di responsabilità finanziaria delle singole amministrazioni e tali regole dovrebbero essere fatte valere. Paradossalmente in una condizione tanto squilibrata come quella italiana, in cui molte Regioni vivono condizioni di irresponsabilità senza sanzioni, proprio per applicare il federalismo sarebbe necessario un potere centrale, regolatorio e sanzionatorio, molto efficace.
Sarebbe necessario fissare standard dei servizi pubblici, a cominciare da quelli della sanità e dell’istruzione, e far emergere le «pratiche migliori» per farle apprendere alle Regioni meno efficienti. Senza regole nuove, necessariamente centrali, sulla mobilità del personale della pubblica amministrazione, l’adeguamento delle strutture regionali sarebbe assurdamente costoso. I criteri fiscali di finanziamento dovrebbero essere basati su tasse al consumo a livello locale e imposte sugli immobili a livello regionale, ma la direzione del governo nazionale sembra tutt’altra e una tale contraddizione minerebbe le colonne del sistema. Inoltre senza un arbitrato di buon senso sulla distribuzione delle risorse, prelevate soprattutto al Nord e spese soprattutto al Sud, le correnti di immigrazione diverrebbero insostenibili anche per le Regioni più ricche. In tutti questi snodi della transizione al federalismo, il ruolo dello Stato è indispensabile. Per poter funzionare il federalismo non può avvenire dal basso con un’iniziativa di rottura, per quanto abile o astuta. Deve essere parte di un progetto coerente e solidale. da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 26, 2008, 05:16:23 pm » |
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Bossi convoca Berlusconi: ricatto leghista sul governo
«Noi, il coltello dalla parte del manico»
Silvio Berlusconi corre nel profondo nord, per un nuovo vertice con Umberto Bossi. Da quando il leader del Carroccio ha detto di voler trattare solo con lui, lontano da Roma, gli tocca fare la spola. Meglio far finta di niente, ma a due settimane dalla vittoria elettorale, il governo della destra è ancora in alto mare. Troppi nomi per le poltrone disponibili. E la Lega decisa a far pesare sul tavolo della trattativa tutto il suo potere di ricatto.
L’accordo è di restare calmi almeno fino alla chiusura delle urne per i ballottaggi, lunedì pomeriggio. Ma Bossi, in alcune dichiarazioni raccolte nel corso di una sua visita a Verbania e pubblicate dal quotidiano La Prealpina, lo dice chiaramente: «Berlusconi sa cosa vogliamo. Ai suoi ha detto di aver vinto lui, ma dopo le elezioni il coltello dalla parte del manico l'abbiamo noi».
Quello che i leghisti vogliono a tutti i costi è il padre del porcellum Roberto Calderoli come vicepremier (in nome del federalismo) e Roberto Maroni agli Interni. Più il veneto Luca Zaia all’agricoltura. Ma anche su un suo impegno personale Bossi non chiude le porte: «Io ministro? aspettiamo ancora un po’, i giochi non sono ancora chiusi». E allora, ecco le minacce: «La verità è che Berlusconi tergiversa un po', con Letta cerca di fare qualche vecchio giochetto democristiano. Ha paura che se ci tira un brutto scherzo, noi votiamo come presidente di Camera o Senato uno della sinistra. Del resto – fa notare - i numeri li abbiamo».
Lo stesso Calderoli, in un’intervista al quotidiano la Repubblica va giù pesante: fino a lunedì buoni, ma poi liberi tutti. E «il bello di quando fai un governo è che poi deve ottenere la fiducia del parlamento». Insomma, l’ipoteca leghista pesa tantissimo. Per Berlusconi far quadrare i conti non sarà facile. Anche nel Popolo delle Libertà con Alleanza nazionale che attende in silenzio il risultato del ballottaggio romano prima di far pesare le sue ragioni. E perfino in casa sua, con le vedettes forziste che scalpitano e puntano i piedi. Quasi risolta la grana Formigoni (resterà presidente della Regione Lombardia in cambio di un maggiore ruolo nazionale), gli altri ballano in un saliscendi continuo. Dopo l’ultima riunione sono in salita le quotazioni di Elio Vito (possibile ministro della Giustizia), Roberto Schifani (saldo alla presidenza del Senato) e della new entry Gianfranco Micciché, potente esponente azzurro in Sicilia: «Sarò sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Mezzogiorno e al Cipe». Fra le novità dell’ultima ora, l’ex soubrette Mara Carfagna, in predicato di diventare portavoce della presidenza del consiglio.
Pubblicato il: 26.04.08 Modificato il: 26.04.08 alle ore 12.30 © l'Unità.
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 28, 2008, 09:58:46 pm » |
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28/4/2008 Milano predona LUIGI LA SPINA
Il prossimo governo, programmato sull’asse che congiunge la villa di Arcore con la sede della Lega in via Bellerio, avrà come vera camera di decisione la cena del lunedì sera con i quattro convitati: Berlusconi e Bossi, i leader dei partiti che hanno vinto le elezioni, accompagnati dai ministri dell’Economia e dell’Interno, Tremonti e Maroni. E il vento del Nord che avrebbe dovuto spazzare il malcostume burocratico e clientelare di tutta la nazione si è trasformato in una tromba d’aria che ha attirato sulla sola Lombardia ben 9 ministri su 12, lasciando a Est, al Veneto, un solo rappresentante e a Ovest, al Piemonte, neanche uno. Siamo passati da «Roma ladrona» a «Milano predona»? Espressa nell’icastico e sbrigativo gergo alla moda, quello della coppia Bossi-Grillo, è questa l’impressione che si ricava dalla nuova fisionomia del potere in Italia.
A questo punto, bisogna mettersi d’accordo. O il localismo, con la sua ossessione di rappresentanza territoriale degli interessi, non è un valore significativo.
Allora, lo si può sacrificare tranquillamente non solo agli equilibri partitocratici della maggioranza, ma pure alle idiosincrasie e alle vanità personali dei singoli.
Oppure è il nuovo «mantra» della rinnovata politica italiana, scoperto e celebrato come la medicina vincente per la nostra anemica democrazia. Messaggio così rivelatore delle intenzioni governative, ad esempio, da giustificare lo spostamento a Napoli del primo Consiglio dei ministri per simboleggiare la vicinanza dell’esecutivo ai problemi della Campania sfigurata dalla spazzatura. Allora, appare ancor più contraddittoria e incomprensibile una scelta che trascura il criterio di una sia pure approssimativa proporzione territoriale nel nuovo ministero.
È certamente giusto sfuggire alle trappole del provincialismo piagnone e, magari, all’ascolto troppo partecipe dei lamenti per le ambizioni deluse. Più utile, lo si ripete sempre in questi casi di comparazioni geografiche svantaggiose, cercare di capire i motivi di certe scelte e quindi approntare, se possibile, le cure perché, in futuro, i criteri possano cambiare.
Per sgombrare il campo da superficiali ma errate giustificazioni elettoralistiche, occorre subito escludere l’ipotesi di una «punizione» per l’esito del voto: in Piemonte, eccetto il caso di Torino, il Pdl è andato benissimo e la Lega ha più che raddoppiato i consensi. Nel Veneto e in Friuli il successo dei due partiti è stato notevole ed è culminato persino con la sconfitta simbolica del governatore Illy, che pure ha fama di ottimo amministratore. Le ragioni di questa clamorosa sottorappresentanza sono, dunque, più profonde e più antiche.
I parlamentari piemontesi, da molto tempo, non sanno fare «lobby» per la loro Regione. Questo atteggiamento, che pure ha aspetti non tutti riprovevoli sul piano del costume politico e, forse, è anche sintomo di una maggiore coscienza nazionale, penalizza meno i rappresentanti del centrosinistra, perché costoro hanno più forti e tradizionali legami con i loro partiti. Indebolisce di più la classe dirigente dell’attuale maggioranza perché, con qualche eccezione, è più nuova, meno esperta e più lontana dai centri di potere che contano.
Nel Veneto e, in generale, nell’Est d’Italia si sta verificando un fenomeno che potrebbe ricordare l’assetto territoriale dell’antico Pci. Quando l’Emilia custodiva la cassaforte dei voti e della potenza economico-finanziaria di quel partito, esprimeva bravi e popolarissimi amministratori, ma i dirigenti nazionali comunisti erano scelti prevalentemente in Piemonte o in Sardegna. L’eredità dei nipotini di Rumor e di Bisaglia è passata in parte alla Lega e in parte al Pdl. Ma il doroteismo democristiano era molto debole nel pensiero e molto forte nell’occupazione del potere nazionale. Al contrario, ora quelle terre sembrano la culla dell’ideologismo leghista e liberista, dagli assalti in piazza San Marco agli scioperi fiscali del «popolo delle partite Iva», ma appaiono incapaci di trasferire al governo del Paese il peso della loro forza, in termini elettorali e in termini di interessi. Insomma, all’epoca della «Balena bianca» la questione del passante di Mestre sarebbe già stata risolta da tempo.
Ecco perché le decisioni di Berlusconi e di Bossi per la composizione del nuovo governo non si spiegano con l’arbitrio di generali che privilegiano colonnelli provenienti dalla loro regione, ma sono l’effetto, censurabile finché si vuole, di una debolezza strutturale della classe dirigente piemontese e veneta nelle schiere del centrodestra. Sarà un caso, ma qualche volta il destino è beffardo: le speranze per l’Alta velocità Torino-Lione e quelle per la marmellata di traffico a Mestre saranno affidate, a questo punto, solo al nuovo commissario europeo per i Trasporti Antonio Tajani, romano e pariolino doc. Vuoi vedere che, stavolta, «Roma ladrona» ci restituisce il maltolto? da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Aprile 28, 2008, 10:02:42 pm » |
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28/4/2008 (7:22) - REPORTAGE, I NUOVI ANGELI CUSTODI
Il Nord a scuola di ronde In pattuglia con pettorina e fischietti nei quartieri a rischio: "Andate e arrestateli"
MASSIMO NUMA INVIATO A PADOVA
I volontari dei Com.Res di Padova, acronimo di Commercianti e Residenti, sono andati a «scuola», prima di iniziare a pattugliare le downtown di Padova; i «professori» sono esperti, tecnici della sicurezza. Li hanno istruiti a dovere sui limiti dell’azione, per evitare guai con la legge.
E il presidente nazionale del coordinamento delle ronde dei volontari verdi, Mario Borghezio, spiega che saranno organizzati dei «corsi di formazione» per tutti i volontari, in tutte le Regioni del Centro Nord, Emilia-Romagna compresa. Lezioni di logistica, di diritto penale e anche gli aspetti più tecnici non saranno trascurati.
Come usare le radio, come muoversi nelle zone pericolose, come affrontare i soggetti criminali e le varie emergenze. Come gestire un ferito o sostenere uno scontro fisico, un’aggressione. Come si organizza un pattugliamento, in auto a o piedi. Cos’è un rastrellamento e come si realizza. Infine i rapporti con le forze dell’ordine, aspetto abbastanza delicato. Non sarà un addestramento para-militare ma «non si può andare nelle strade, senza avere, almeno, un minimo di preparazione, per esempio conoscere le procedure da seguire in caso di un attacco. Abbiamo già avuto nelle nostre file - spiega l’esponente della Lega Nord - poliziotti e carabinieri che, senza mai apparire, avevano addestrato i nostri volontari. Ricominceremo da lì. All’inizio, i ”poliziotti verdi” saranno presenti nelle squadre, durante le azioni. Quando ci saranno professionalità adeguate, allora, saranno nominati i responsabili delle varie unità e costituita una gerarchia, in modo da evitare fughe in avanti. E potremo agire da soli».
Gente decisa, a Padova. «Arresteremo noi chi ruba, rapina o spaccia droga». Parola dei rondisti dei Com.Res. Adesso si fa davvero sul serio. Fine del folclore, delle passeggiatine serali con la fiaccola e le bandierine colorate. Basta carrozzine e Fido al guinzaglio. Per i criminali - di ogni razza - che occupano da anni interi quartieri di Padova, è scattata l’ora X. Giovedì notte si parte con una maxi-ronda composta da 150 persone divise in squadre, affiancate da vigilantes armati di pistola. Sarà un rastrellamento studiato con cura, da mesi, e senza lasciare nulla al caso.
Ultima barriera: l’articolo 380 del Codice di procedura penale. Dispone che l’arresto obbligatorio in flagranza può essere eseguito nell’ipotesi di delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo di 5 anni e nel massimo a 20 anni. All’arresto, può procedere «ogni persona», dunque anche il privato cittadino, purché si tratti di delitti perseguibili d’ufficio. «In questo caso, la persona che ha eseguito l’arresto deve , senza ritardo, consegnare l’arrestato e le cose costituenti il corpo del reato alla Polizia Giudiziaria, la quale redige il verbale dell’avvenuta consegna e ne rilascia copia all’interessato (art. 383 c.p.p.)».
Premessa noiosa, forse, ma necessaria. Dunque, i rondisti possono bloccare un malvivente, «responsabile, per esempio, di furto aggravato, rapina o spaccio di quantità non modiche di droghe», elenca puntiglioso Massimo Pellizzari, il presidente del Com.Res., tra i promotori più convinti sulla necessità di istituire una «polizia civile». Finita, almeno qui nel Nord-Est, la mite stagione delle perlustrazioni-passeggiate, armati solo di fischietto (per dare l’allarme, se c’è qualcosa che non va) e il cellulare per avvertire il 113, come tuttora avviene, da anni, a Torino. A Porta Palazzo.
E’ iniziata una nuova era. Il Comune di Monselice, Padova, ha stanziato 20 mila euro per arruolare guardie armate private da destinare al controllo del centro. Il modello è lo stesso del Com.Res. Che fa da apripista. A livello nazionale.
Da Padova a Verona. Qui, nel ‘98-’99, le ronde leghiste (non solo) avevano fatto discutere. La città era segnata dalla presenza di pusher e tossicomani, il centro storico trasformato in un accampamento. La giunta della Lega Nord, guidata da Flavio Tosi, è passata all’azione. Oggi la stazione ferroviaria, una delle aree più critiche in passato, sembra ripulita. Non c’è traccia di sbandati e balordi. Merito della videosorveglianza e dei continui controlli dei vigili urbani, soprattutto. «Le ronde, qui - dice secco il segretario della Lega, Matteo Bragantini - non servono più. Il Comune ha deciso, in questi giorni, di assumere altri 40 vigili urbani. In modo diretto, con i tempi burocratici ridotti al minimo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: Verona è cambiata, radicalmente». In provincia, idem. Ad Oppeano, il sindaco Alessandro Montagnoli, neo-eletto, voleva pure distruggere la moschea, oltre che affidare - pure lui - la sicurezza del paese anche alle guardie private.
Non solo ronde. Nel Veronese, sindaci e assessori, compreso l’assessore provinciale alla Sicurezza, Giovanni Codognola, hanno le idee chiare: via i Rom, via i clandestini e gli stranieri delinquenti. A Milano, nel Lodigiano, c’è voglia di chiudere, una volta per tutte, con la criminalità.
E a Torino, Borghezio, freme dalla voglia di ricominciare: «Ripartiamo alla grande, abbiamo già molte richieste di organizzare di nuovo le ronde. Tra i primi target, Tossic Park. Poi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Anche se, con un ministro come Maroni, potremo dormire sonni più tranquilli. Affiancheremo le forze di polizia, senza sostituirci a loro. Le promesse della giunta Chiamparino di intervenire sulla sicurezza sono rimaste, appunto, promesse. Mai realizzate».
da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 30, 2008, 07:27:41 pm » |
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POLITICA
Alla riapertura del Parlamento il leader leghista esterna a tutto campo
"Se la sinistra vuole lo scontro i miei uomini sono pronti. E Berlusconi deve obbedire"
Riforme e governo, Bossi all'attacco "Fucili caldi, pronti 300 mila martiri"
E il Cavaliere chiama il Senatur: "Usa toni più moderati"
ROMA - Promesse, minacce e battute. Governo, riforme e Alitalia. Al suo ritorno a Roma per la riapertura del Parlamento, Umberto Bossi è incontenibile e ne ha per tutti, alleati e opposizione. In cima ai suoi pensieri c'è il federalismo fiscale. "Questa è l'ultima occasione: o si fanno le riforme o scoppia casino", dice conversando con i giornalisti nel cortile interno della Camera. "Abbiamo 300 mila uomini, 300 mila martiri, pronti a battersi - aggiunge - e non scherziamo... mica siamo quattro gatti. Credete che avremmo difficoltà a trovare gli uomini? No, perché verrebbero giù anche dalle montagne". Toni consueti quelli del leader leghista che avrebbero provocato la reazione del Cavaliere. Secondo alcune fonti parlamentari del Pdl, Berlusconi avrebbe chiamato il Senatur invitandolo a usare espressioni più moderate per evitare di essere strumentalizzato in polemiche inutili.
Fucili sempre caldi. Appena pochi giorni fa Silvio Berlusconi lo aveva invitato a moderare i toni e usare un linguaggio meno rozzo, ma il leader del Carroccio non pare sia rimasto impressionato dal richiamo. "I fucili sono sempre caldi", dice, aggiungendo poi parole minacciose verso il Pd. "Non so cosa vuole la sinistra, noi siamo pronti, se vogliono fare gli scontri io ho trecentomila uomini sempre a disposizione, se vogliono accomodarsi". "Mi auguro - prosegue - che la sinistra scelga la via delle riforme, non come l'altra volta che non vollero assolutamente la riforma federale".
"Berlusconi? Deve obbedire". Ma il fuoco verbale di Bossi non risparmia neppure il Cavaliere, alle prese in questi giorni con il difficile compito di creare il nuovo governo dando soddisfazione ai crescenti appetiti della Lega. Il leader del Carroccio mette innanzitutto in chiaro che "non farò il vicepremier, perché non faccio il vice di nessuno". "Alla fine - sottolinea - Berlusconi troverà la soluzione: sono fiducioso, sennò avrei preteso i ministri prima del voto dei presidenti delle Camere, quando avevo il coltello dalla parte del manico". Anche perché il leader del Pdl "stavolta manterrà la parola, si è sposato con la Lega e ora deve eseguire gli ordini".
Il ruolo di Maroni. Il Senatur conferma quindi di puntare ad ottenere quattro ministeri, a partire dal Viminale, dicastero mai come questa volta ritenuto strategico. "Noi sappiamo già cosa fare, Maroni sa bene cosa fare e con lui ho un patto preciso: si tratta di applicare la Bossi-Fini, che finora è stata inapplicata".
La vicenda Alitalia. Bossi tocca infine anche il tema Alitalia, mostrando di dare poco peso alle parole pronunciate oggi da Berlusconi, che ha minacciato l'Unione Europea di acquistare l'azienda attraverso le Ferrovie. "Non credo che si possa fare perché sarebbe una concentrazione di potere - spiega il leader della Lega - Non so cosa voglia fare Berlusconi". "La soluzione c'era ed era la legge Marzano", aggiunge Bossi citando la norma che ha permesso il salvataggio di Parmalat. "Bene ha fatto la Lega - conclude - a fare un accordo su Malpensa con Lufthansa. Ho dato io il via libera a Bonomi, gli ho detto 'vai, vai'".
(29 aprile 2008)
da repubblica.it
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