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Autore Discussione: BRUTTE e tristi STORIE...  (Letto 151157 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 25, 2008, 09:49:18 am »

Motivazione choc. Gasparri: sentenza che fa ribrezzo

«La Reggiani resisteva. Sconto di pena a Mailat»

I giudici: niente ergastolo anche perché il romeno era ubriaco
 
 
ROMA — Romulus Mailat, il romeno che la sera del 30 ottobre 2007 stuprò ed uccise la signora Giovanna Reggiani vicino alla stazione di Tor di Quinto, agì da solo. Ed ha avuto la condanna a 29 anni in primo grado e non l'ergastolo perché «la Corte, pur valutando la scelleratezza e l'odiosità del fatto, commesso in danno di una donna inerme e, da un certo momento in poi esanime, con violenza inaudita, non può non rilevare che omicidio e violenza sessuale sono scaturiti del tutto occasionalmente dalla combinazione di due fattori: la completa ubriachezza e l'ira dell'aggressore, e la fiera resistenza della vittima». Lo sostiene la motivazione della sentenza della Corte d'Assise presieduta da Angelo Gargani. E Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato del Pdl, esplode: «Provo ribrezzo per questa decisione». Paradossalmente, secondo la Corte, è anche l'incredibile forza d'animo della Reggiani ad aver attenuato le responsabilità dell'assassino: «In assenza degli stessi fattori — si legge — l'episodio criminoso, con tutta probabilità, avrebbe avuto conseguenze assai meno gravi ». Mailat, invece, a causa della reazione della vittima «non riesce ad averne ragione a mani nude» e deve usare il bastone. Però il romeno «all'epoca era ventiquattrenne, incensurato, e l'ambiente in cui viveva era degradato. Queste circostanze, assieme al dettato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione, inducono la Corte a risparmiargli l'ergastolo, concedendogli le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, pur irrogando la pena massima per l'omicidio».

 Lette le motivazioni, Gasparri, che aveva già criticato l'entità della pena, attacca: «Questi giudici — dice — si devono vergognare. Se non si dà l'ergastolo per una persona del genere, a chi lo si da?». Ma non è solo questo, ad indignare Gasparri: «Di fronte a queste motivazioni, più che di separazione di carriere, bisognerebbe parlare di "abolizione di carriere". Certi magistrati andrebbero cacciati... Spero che il Natale porti un po' di saggezza». Il parlamentare non si ferma qui: «Come legislatore farò tutto il possibile per evitare che si ripetano certe cose, ma come italiano mi vergogno ». I giudici hanno anche ricordato la necessità di non trascurare la Carta nella parte in cui richiama all'esigenza di un recupero del detenuto. Gasparri però non ci sta: «Io credevo nella magistratura. Ma ogni giorno ci sono prove che inducono chi può a rivederne sia il ruolo sia le responsabilità ». Secondo i giudici l'esclusiva responsabilità di Mailat «è pienamente provata. La selvaggia violenza dei colpi sarebbe stata inutile se l'azione fosse stata condotta da più persone». Presenterà appello l'avvocato del romeno, Piero Piccinini: «È una motivazione di una semplicità sconcertante, che lascia interdetti. Sono state fatte forzature logiche che dimostrano che le prove erano insufficienti ». Pronta all'appello anche la procura, contraria alla concessione delle attenuanti generiche. E secondo l'avvocato di parte civile Tommaso Pietrocarlo «è proprio la fiera resistenza della povera signora Reggiani che rende più grave l'episodio ».

Laura Martellini
Ernesto Menicucci
24 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #91 inserito:: Dicembre 29, 2008, 10:45:11 am »

La strage al ritorno dalla discoteca: quattro vittime tra i 16 e i 21 anni

Salvo solo il conducente. Ecstasy e cocaina, poi il volo di 25 metri dal cavalcavia

Civitavecchia, positivo al narcotest il giovane che guidava l'auto

di MARIA ELENA VINCENZI e FEDERICA ANGELI


ROMA - Un volo nel vuoto per colpa dell'asfalto bagnato e della cocaina. Cinque ragazzi, alle cinque del mattino, al ritorno da una discoteca di Ronciglione, a bordo di una Nissan Micra sono precipitati da un cavalcavia al km 2,2 della statale che collega Civitavecchia all'Aurelia, all'altezza di via delle Vigne. Quattro sono morti sul colpo: due cugini minorenni Daniele e Indro Mercuri, entrambi sedicenni, Giovanni Siena, 21 anni e Giancarlo Cocciolone, 19 anni. Tutti di Civitavecchia. L'unico sopravvissuto è Juri Capparella, 19 anni, il conducente che invece di seguire la strada in discesa e di fare la curva, è andato dritto, ha sfondato il guardrail della sopraelevata e da un'altezza di dieci metri, dopo un volo di 25, si è schiantato sul terrapieno sottostante.

A notare l'auto capovolta in via delle Vigne e a dare l'allarme, alle 7 e 30, sono stati alcuni operai dell'Etruria Servizi, la municipalizzata del comune di Civitavecchia, che stavano andando a lavorare alla vicina discarica.

Due squadre dei vigili del fuoco insieme agli agenti della polizia stradale sono arrivati poco dopo. Prima di tutto hanno salvato il sopravvissuto che rantolava dentro la carcassa. Per estrarre dalle lamiere i corpi degli altri quattro, pompieri e poliziotti hanno impiegato oltre due ore. Juri è stato trasportato all'ospedale San Paolo di Civitavecchia e, dopo un primo intervento, in eliambulanza è stato portato a Roma, al San Filippo Neri dove è stato operato alla milza, intubato e ricoverato in terapia intensiva. Il ragazzo ha riportato numerose fratture e le sue condizioni sono piuttosto gravi.

Sottoposto al narcotest, su disposizione della magistratura, il giovane è risultato positivo all'assunzione di stupefacenti. Durante la serata, a quanto risulta agli inquirenti, aveva preso cocaina ed ecstasy. L'autopsia sui corpi delle quattro vittime, che verrà eseguita oggi, accerterà se anche gli altri avessero assunto droghe.

"Mio figlio è un ragazzo d'oro - dice Andrea Capparella, 41 anni, fuori dalla rianimazione del San Filippo Neri - lavora insieme a me, nella mia ditta. Da qualche tempo si era anche fidanzato e purtroppo uno dei quattro amici morti nell'incidente era il fratello della sua ragazza".

La procura di Civitavecchia ha aperto un'inchiesta per chiarire le cause dell'incidente, anche se la dinamica, secondo i rilievi della polizia stradale appare piuttosto chiara. Sull'asfalto non ci sono segni di frenata e la velocità, trattandosi di un'utilitaria, spiegano gli investigatori, non doveva essere elevatissima. "Riteniamo sui 100 all'ora". Juri, positivo al narcotest e unico a indossare la cintura di sicurezza, sotto l'effetto del cocktail di droghe ha dunque perso il controllo.
"Davanti all'ennesima tragedia del sabato sera, questa volta complice la cocaina - dice Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla droga - rivolgiamo un nuovo appello ai responsabili locali perché non si perda altro tempo per un'efficace azione di controllo e di contrasto delle situazioni a rischio".

(29 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #92 inserito:: Dicembre 30, 2008, 05:33:57 pm »

GERMANIA: USA SAPEVANO ATTENTATO A HITLER MA RIFIUTARONO AIUTO


(AGI) - Berlino, 29 dicembre -


Gli Stati Uniti sapevano che il conte Claus Schenk von Stauffenberg intendeva attentare alla vita di Adolf Hitler, come poi avvenne con esito negativo il 20 luglio 1944, ma non gli fornirono alcun appoggio. A tre settimane dall'uscita in Germania del film "Operation Valkyrie", in cui Tom Cruise impersona Stauffenberg, il quotidiano 'Berliner Zeitung' rivela che uno dei motivi che indussero il presidente americano a rifiutare il sostegno degli Alleati al gruppo che pianifico' l'attentato al Fuehrer e' che tra di loro c'erano troppi nobili. Il quotidiano della capitale scrive che nelle settimane successive al fallito attentato "migliaia di oppositori e le loro famiglie vennero giustiziati e la stampa britannica e americana esulto'". Il 'New York Times' scrisse che il clima in cui era maturato l'attentato da parte dei massimi ufficiali della Wehrmacht, l'esercito tedesco, assomigliava "piu' al sottobosco di gangster che ad un corpo di ufficiali". Il 'Berliner Zeitung' aggiunge che "la Bbc diffuse addirittura i nomi degli attentatori che erano sfuggiti alla Gestapo", poiche' secondo gli Alleati, "se i tedeschi si ammazzano tra loro, ci risparmiamo dopo la guerra molti imbarazzi".

Era stato il futuro capo della Cia, Allen Welch Dulles, ad inviare il 27 gennaio 1944 dalla Svizzera un telegramma cifrato a Washington, in cui informava il suo governo che c'era un gruppo della Resistenza tedesca pronto ad eliminare Hitler. "Vorrei sapere", scriveva Dulles, responsabile a Berna del'Oss (Office of Strategic Services), il servizio antesignano della Cia, "che aiuto possiamo fornire alla resistenza". Tra gli aiuti richiesti c'era anche un "sostegno politico" da parte di Washington. Dulles aveva ricevuto le informazioni sul progettato attentato a Hitler dal vice console del Terzo Reich in Svizzera, Hans Bernd Gisevius, che lavorava per il controspionaggio nazista alle dipendenze dell'ammiraglio Wilhelm Canaris, anch'egli al corrente della congiura contro il Fuehrer. Canaris venne arrestato tre giorni dopo il fallito attentato e fatto impiccare su ordine di Hitler il 9 aprile 1945 nel lager di Flossenbuerg, lo stesso in cui mori' il fratello dell'ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. La richiesta di Dulles presso le autorita' americane non ebbe successo, poiche' da Washington i capi dell'Oss gli fecero sapere che nel Dipartimento di Stato esisteva un "estremo antagonismo" nei confronti della Resistenza tedesca.

Dulles non si dette tuttavia per vinto e chiese ad uno dei suoi agenti, il tedesco Otto John, di stanza in Spagna, di contattare le autorita' inglesi, per comunicare loro che il gruppo di Stauffenberg auspicava un'invasione della Germania da parte degli Alleati in concomitanza del caos che si sarebbe verificato nel caso in cui l'attentato fosse riuscito. Ma anche dal servizio segreto britannico MI6 arrivo' l'informazione che Londra aveva interdetto a tutti i suoi militari ogni contatto con l'opposizione tedesca al nazismo. Il 12 luglio 1944, una settimana prima del fallito attentato a Hitler, Dulles telegrafava al capo dell'Oss, William Donovan, che gli attentatori intendevano consegnarsi agli Alleati, ma Roosevelt rifiuto' ogni aiuto, per mantenere la promessa fatta a Stalin di non immischiarsi nella politica tedesca.

da agi.it
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« Risposta #93 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:27:49 am »

La drammatica testimonianza di un giornalista dell'Independent a Gaza

"Era non violento, detestava quello che faceva Hamas nella Striscia"

"Mio padre ucciso da una bomba"

Il racconto di un reporter palestinese

di FARES AKRAM


 GAZA - Per Fares Akram, reporter dell´Independent da Gaza, l´invasione israeliana si è trasformata in una tragedia personale quando ha scoperto che suo padre era tra le prime vittime dell´attacco da terra.
La telefonata è arrivata attorno alle 16.20 di sabato. Una bomba era stata sganciata sulla casa nella nostra piccola fattoria ubicata nella parte settentrionale di Gaza. Mio padre in quel momento preciso stava recandosi a piedi dal cancello alla porta di ingresso. Quello era il nostro luogo più amato: era una piccola casa di campagna, bianca, a due piani, con un tetto rosso, annidata in una piatta distesa agricola a nord-ovest di Beit Lahiya. C'erano alberi di limoni, di arance e di albicocche e da poco avevamo comperato una sessantina di mucche. La nostra era la fattoria più vicina al confine settentrionale con Israele.

Poco prima del tramonto, sabato scorso, mentre le truppe di terra israeliane e i tank invadevano Gaza, la pace di quel luogo è andata in pezzi e la vita di mio padre si è spenta a 48 anni. Caccia ed elicotteri vi hanno fatto incursione, bombardando per spianare la strada ai tank e alle truppe di terra che sarebbero seguite una volta calate le tenebre.

È stata una bomba scagliata da un F16 a togliere la vita a mio padre. La casa è stata ridotta a poco più di un ammasso di polvere e di mio padre non è rimasto granché da recuperare. Mia madre, mia sorella, mia moglie � incinta di nove mesi � e io abbiamo trascorso l'ultima settimana dell'attacco israeliano rinchiusi nel nostro appartamento di città. Mio padre, invece, aveva deciso di restare alla fattoria.

L'ultima volta che l'ho visto è stata giovedì, quando ci ha portato dei soldi e un sacco di farina: abbiamo parlato dell'imminente nascita del mio primo figlio e di come avremmo potuto portare mia moglie Alaa all'ospedale, in mezzo alle bombe. Naturalmente, sabato sera non c'è stata possibilità alcuna di mandare un'ambulanza alla fattoria. Così mio zio e mio fratello hanno percorso in automobile otto chilometri mentre noi siamo rimasti seduti immobili, in stato di shock, nell'appartamento buio.

Quando mio zio e mio fratello sono arrivati a destinazione hanno trovato un ammasso di macerie fumanti. Quasi tutte le mucche erano morte. Mahmoud, un adolescente nostro parente, si trovava con mio padre quando la bomba israeliana ha abbattuto la nostra casa. La potenza dell'esplosione lo ha scagliato a trecento metri di distanza. Ieri mattina abbiamo seppellito lui e mio padre con una cerimonia funebre molto veloce.

Mio padre, Akrem al-Ghoul non era un militante. Detestava quello che Hamas stava facendo al sistema legale di Gaza, introducendo la giustizia islamista, ed era assolutamente contrario alla violenza. Si sarebbe adoperato in ogni modo possibile per raggiungere una giusta intesa con Israele e per assicurare un futuro migliore ai palestinesi. Il mio dolore non è appesantito da un desiderio di vendetta, che so essere sempre e in ogni caso vana.

Ma in verità, essendo io un figlio in lutto che piange il proprio padre, mi risulta difficile distinguere tra quelli che gli israeliani chiamano terroristi e i piloti israeliani e gli equipaggi dei carri armati che hanno invaso Gaza. Che differenza c'è tra il pilota dell'aereo che ha disintegrato mio padre e il militante che spara un piccolo razzo? Non so rispondere a questa domanda, ma nel momento in cui sto per diventarlo io stesso, ho perduto mio padre.

(Copyright The Independent-la Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)

(6 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #94 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:54:16 pm »

In uscita a metà gennaio

Sofri: «Dissi "Calabresi sarai suicidato"

Sono innocente. Ma corresponsabile»

L'ex leader di Lotta Continua, condannato per l'omicidio del commissario, scrive un libro sulla morte di Pinelli.
 

 
MILANO - Un libro, in uscita a metà gennaio, destinato a riaprire discussioni e polemiche sugli anni Settanta in Italia e sulla lunga striscia di sangue che hanno lasciato. Un autore, Adriano Sofri, che ha vissuto da protagonista di quel periodo e che ora è tra i condannati per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. In «La notte che Pinelli», edito da Sellerio, offre ai lettori la sua ricostruzione sulla morte dell'anarchico coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana e anche le sue considerazioni sul proprio ruolo nell'omicidio di Calabresi. Continuando a proclamarsi innocente dal punto di vista materiale, Sofri ammette una responsabilità «morale»: «Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"».

«IL COMMISSARIO NON C'ERA» - Nell'anticipazione che viene pubblicata da l'Espresso questa settimana, c'è una parte della versione di Sofri sul caso Pinelli, basata sulle carte giudiziarie. La ricostruzione parte dal pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969, dalla strage di Piazza Fontana. Subito dopo gli attentati si procede agli arresti degli anarchici: tra loro ci sono Pinelli e Pietro Valpreda, che rimarrà a lungo in carcere. Secondo Sofri lo stesso Calabresi era convinto che la pista anarchica fosse quella giusta e in un passaggio del libro riporta l'episodio in cui a Pinelli e ad un altro anarchico interrogato Calabresi dice: «Non venirmi a raccontare (...) che sono stati i fascisti; la matrice è anarchica, fa parte della tradizione vostra». Nel libro dell'ex leader di Lotta Continua emergono altri due elementi: il primo è che Pinelli diffidava di Valpreda, considerandolo pericoloso; il secondo è relativo alla presunta amicizia tra Pinelli e Calabresi. Un'amicizia che, secondo l'autore, non ci sarebbe stata. Quanto alle circostanze della morte di Pinelli, Sofri si sofferma sull'orario della tragedia che viene cambiato nel corso degli anni e delle inchieste. All'inizio si parla di mezzanotte, ma, ricostruisce Sofri, la versione verrà cambiata fino ad arrivare alle 19,30 forse per dimostrare che Calabresi non era in quella stanza. Ma secondo Sofri è stato un esercizio inutile poiché il commissario realmente non era nella stanza della questura nel momento in cui Pinelli volò dalla finestra.


08 gennaio 2009

da corriere.it
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« Risposta #95 inserito:: Gennaio 14, 2009, 06:01:20 pm »

La squadra Wiesenthal

di Claudia Fusani


Uno è stato recuperato che alzava sbarre al porto di La Spezia, Luigi Di Mari, guardia di Finanza. Il brigadiere Franz Stuppner guidava tranquillo la sua stazione dei carabinieri in Val Senales. Sandro Romano, anche lui dell’Arma, napoletano cresciuto in Germania, era al radiomobile di Bolzano. E così il maresciallo Alessandro Isgrò, pure lui mezzo siciliano e mezzo tedesco. Tutti, per un motivo o per l’altro perfettamente bilingue, la mattina del 15 dicembre 2002 si ritrovano in uno stanzone al piano terra della procura militare di La Spezia. Hanno tra i trenta e i quaranta anni. Li ha chiamati Marco De Paolis, pm della procura militare di La Spezia.

Roma ha finalmente ordinato e distribuito tra le - allora - nove procure militari italiane i 695 fascicoli dell’armadio della vergogna, le indagini sulle stragi naziste compiute nel 1944 per lo più in Toscana e lungo la linea Gotica, il confine costruito con terrore e sangue e che andava dalla provincia di Massa sul Tirreno fino all’altezza di Rimini sull’Adriatico. A nord tedeschi e partigiani arroccati sulle montagne. A sud le truppe alleate.

Improvvisamente, quella mattina del 15 dicembre, dopo quasi cinquant’anni di silenzio in nome della ragion di stato, quei fascicoli tornano a gridare e a pretendere di fare i conti con la verità e con la giustizia.
Franz, Luigi, Sandro, Alessandro nulla sanno di cosa raccontano quelle carte. Li ha convocati il colonnello Roberto D’Elia, il cacciatore del boia di Bolzano («Seifert è in carcere, ancora adesso, e ci resta, la giustizia arriva, prima o poi»), ha bisogno di una squadra che lavori a tempo pieno sui fascicoli.
«Ricordo ancora – sorride Romano – che li guardai per dire ma voi siete pazzi. Era impossibile fare quelle indagini, ritrovare oggi il sottufficiale tedesco che nell’agosto del 1944 aveva scaricato a S.Anna un intero mitra su una bambina di due mesi…. Impossibile. Quella stanza era sommersa di polvere e immersa nella nebbia». La nebbia che si deposita quando si decide che un pezzo di storia va dimenticato.

Comincia così tra nebbie della storia e della memoria e polvere vera il primo giorno di lavoro del Pool multilingue di polizia giudiziaria militare addetto alle indagini sulle stragi naziste. Sono i nostri ‘piccoli’ Wiesenthal, cacciatori di ufficiali e sottufficiali nazisti. In sei anni ne hanno scovati una quarantina, qualcuno come Schiffmann, responsabile per la strage di S.Cesareo sul Panaro, è morto l’ultimo giorno del processo, per poche ore, a ottant’anni, ha mancato la sentenza che lo avrebbe condannato all’ergastolo.
Hanno tutti imparato la storia lavorando. «Non sapevamo nulla della Linea Gotica, delle stragi, di cosa è successo in quegli anni in quella parte d’Italia» raccontano oggi seduti intorno a un tavolo. La loro sede è a Bolzano, ma si dividono tra la procura militare di Verona e quella di Roma, nucleo ormai ridotto all’osso per uomini (quattro) e mezzi anziché essere valorizzato e protetto. «All’inizio eravamo scettici e anche distaccati, è roba vecchia, ci si diceva, saranno tutti morti, a chi interesserà mai. Poi però - aggiunge Stuppner – non siamo più riusciti a stare senza. È diventata come una droga, mesi e mesi di ricerche disperate, dalle otto del mattino fino a mezzanotte in ufficio a La Spezia e mesi e mesi in Germania, tra gli archivi di Berlino e quelli di Friburgo».

Tra settembre 1943 e il 1945 i tedeschi, indietreggiando lungo l’Italia che li aveva «traditi», uccisero migliaia e migliaia di persone, per lo più anziani, donne, bambini, parroci perché gli uomini era nei gruppi partigiani , almeno diecimila civili innocenti secondo i 695 fascicoli dell’armadio della vergogna. «Finchè ci sarà anche solo uno dei loro parenti che chiede di sapere chi ha ucciso» dice il colonnello D’Elia, «il nostro lavoro non deve finire». La verità storica pesa quanto quella giudiziaria. Scelte politiche e tagli alla Finanziaria permettendo.
«Indagini atipiche», Sandro Romano le chiama così. I nostri Cold case. Ogni indagine è cominciata con la lettura dei report dei Sib, le special investigation branch inglesi che risalivano l’Italia e ricostruivano appena possibile le stragi naziste. Luogo, data, numero dei morti, testimonianze sull’accaduto. Questo il materiale contenuto in ognuno dei fascicoli dell’armadio della vergogna che il pool ha cominciato a spulciare quella mattina del 15 dicembre 2002.

«Capiamo subito – racconta il colonnello D’Elia – che avevamo a che fare con dodicimila sadici pazzi, la famigerata Sedicesima divisione delle SS: case incendiate con all’interno persone vive; mitra scaricati su bambini di pochi mesi; gente sepolta viva e altri fatti saltare, da vivi, con cariche di esplosivo messe in tasca; altri impiccati con il filo spinato…». Le parole sono insufficienti per descrivere le foto d’epoca trovate nei fascicoli impolverati. Sono uomini grandi e grossi, ma molti di loro hanno perso il sonno in quelle carte.
Per procedere nell’indagine atipica occorre dare nome e cognome ai «dodicimila sadici» e dimostrare, sessant’anni dopo, che erano lì e in quel giorno. Costruire la prova. E qui bisogna dir grazie a quella arguzia e tenacia un po’ speciali che possono venir fuori mescolando un altoatesino con un napoletano. O un siciliano. «Diciamo che con molto impegno personale ci siamo aperti le porte del Paradiso, dal ministero della Giustizia tedesco alla procura generale, dalla Bka, la polizia federale, alla Lka, quella locale, altrimenti eravamo ancora ad aspettare di vedere una carta» sintetizza Romano. Il punto è che i tedeschi hanno archiviato ogni loro mossa. Bisogna solo trovare lo schedario giusto.

La prima tappa è Friburgo, Kranchen buchlager, l’archivio militare che conserva tutte le mappe e i diari di guerra. Da qui si risale al Reparto in azione in quel luogo e in quella data, nomi, cognomi e gradi, e ai Rapporti giornalieri con il diario della giornata.
La seconda tappa è Berlino, il Bundes archive, 180 milioni di atti conservati compreso l’elenco delle piastrine di ogni militare tedesco a partire dal 1939.
«A quel punto confrontando – spiega Stuppner - fascicoli, libretti matricolari, ricoveri ospedalieri con feriti e morti, siamo arrivati all’elenco dei militari tedeschi coinvolti nelle stragi e ancora in vita».
Romano ricorda soprattutto una cosa: «Uno degli archivi di Berlino era stata la sede delle SS, la storia tornava dove era cominciata. Abbiamo lavorato per quattro mesi in quelle celle gelide, i rapporti di Himmler, Goering, Hitler, abbiamo tenuto la realtà in mano, un puzzle da cinquantamila pezzi e alla fine abbiamo capito la vera storia capitata  all’Italia».

Arriva la fase della ricerca degli indagati, atti di rogatoria condotti insieme all’autorità giudiziaria tedesca, in genere ottantenni pensionati in anonimi paesini tedeschi. All’emozione della storia tenuta tra le mani, subentra lo choc di incontrare persone affatto preoccupate dalla giustizia che li viene a cercare sessant’anni dopo, sicure di sé, della loro impunità, certi che la Germania ha già prescritto tutto, «protetti da una rete molto ideologizzata di mutua assistenza legale». Anziani gerarchi che rivendicano tutto e ridono in faccia agli investigatori italiani.
«Uno interrogato in una stazione di polizia – ricorda Stuppner – mi disse urlando che lo stavo offendendo perché se non c’erano lui e le SS io adesso non sarei stato un poliziotto e il procuratore non sarebbe stato un magistrato. Lui ci aveva dato la libertà e noi lo accusavamo, sessant’anni dopo. Era fuori di sé».
Un imputato austriaco per la strage di S. Anna di Stazzema si alzò in tribunale urlando: «Se la Germania mi chiama io vado anche ora». A Baden-Baden un ufficiale indagato e interrogato s’arrabbiò: «Io non sono un ex delle SS e lei (il brigadiere Romano ndr) non mi faccia domande stupide su cosa abbiamo fatto in quei giorni: abbiamo eseguito ordini». Il giudice tedesco lo ha punito con mille euro di multa per oltraggio a pubblico ufficiale.
Facce e storie che si rincorrono nella memoria del pool con brividi diversi. «Un teste tedesco non voleva collaborare. Il figlio che era magistrato, volle essere presente all’interrogatorio e non sapeva nulla del passato militare del padre. Quando capì, supplicò il padre di parlare. Il vecchio tacque, comunque, evitando di diventare agli atti un traditore dei suoi commilitoni e un assassino per il figlio. Non scorderò mai quella faccia».

Per non parlare di un altro indagato per la strage di Civitella che negava di essere coinvolto anche perché non aveva mai avuto il grado come risultava dai rapporti. Aveva 86 anni, era arrivato senza bastone e non aveva chiesto soste in dieci ore di interrogatorio. Alla fine Stuppner lo incastra con la domanda della pensione trovata in archivio da dove risultava il grado.
Il pool capisce di aver fatto la cosa giusta accettando di andare a vedere in quella «nebbia» della storia, via via che incontra i parenti delle vittime. Lo scetticismo e la diffidenza iniziale di gente che per decenni era stata ignorata e che ora veniva sentita da giovani che nulla sapevano di loro, donne di 80 anni che mostrano ferite, ex bambini sopravvissuti perché nascosti da qualche parte che hanno visto le loro famiglie sterminate e che ricordano ogni dettaglio, persino le voci. «La memoria di certi ex bambini ha fatto venire i brividi a molti» racconta il colonnello D’Elia. «Abbiamo sofferto con loro» aggiunge Romano. Stuppner ricorda l’aula alla sentenza per la strage di S.Anna di Stazzema: «Silenzio, compostezza, nessun urlo, nessun odio. “Oggi siamo rinati” mi disse una persona. “Adesso posso morire in pace” disse un’altra». Una storia a parte andrebbe dedicata ai sacerdoti e ai parroci che si sono fatti uccidere anche solo per ritardare la morte di altri.

In nome di tutte queste persone e di tutti quelli che vogliono sapere e ricordare, il lavoro del pool non può finire. Decine di stragi sono state archiviate per pigrizia: anche se sono morti gli ufficiali nazisti c’è comunque la necessità di scrivere le cronache di quei giorni lungo la linea Gotica e di mettere a posto i pezzi del puzzle.

Quante di queste stragi potevano essere evitate?
«Abbiamo sentito come testimoni ex camicie nere, uomini ma anche donne che avevano relazioni con i tedeschi, persone che conducono una vita insospettabile e che ci hanno pregato di non rivelare niente a nessuno» racconta D’Elia.

Ieri a Roma è cominciato il processo a dieci gerarchi nazisti accusati di omicidio e violenze: in una settimana, tra il 19 e il 24 agosto 1944 hanno ucciso, sotto gli ordini del maggiore Reder e del tenente Fischer, più di 400 persone in una dozzina di paesini della Lunigiana. In aula ci sono solo i parenti delle vittime. Ma l’udienza è stata dichiarata aperta «in nome del popolo italiano».

Della sua memoria.



cfusani@unita.it


14 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #96 inserito:: Gennaio 15, 2009, 11:34:43 pm »

Storie di vita, storie di follia: l'esperienza di Psichiatria democratica

di Davide Madeddu


Alice che non riusciva a vivere più perché quelle voci le rendevano l’esistenza impossibile. Dormiva e sentiva le voci, camminava e sentiva le stesse voci. Un incubo da cui non riusciva a uscire. Poi Giuseppe che rinchiuso in carcere fissava la finestra per ore e stava senza parlare. Non una parola, non un sorriso. Un’esistenza persa per quel giovane che «in tanti consideravano pericoloso». Eppoi tutti gli altri. Quelli che sono finiti in un manicomio perché “matti” e gli altri ancora che hanno fatto la spola da un ospedale all’altro passando per case protette, carceri e comunità di recupero.

Esistenze disperate costrette a fare i conti con la malattia invisibile e, molto spesso, anche con la paura del giudizio degli altri e della vergogna. Perché «quando si dice che qualcuno è matto, si ha sempre vergogna». Storie di vita distrutta che gli psichiatri di Psichiatria democratica hanno deciso di raccontare, in occasione del trentacinquesimo anno di fondazione dell’associazione nazionale, nella pubblicazione “Storie di vita, storie di follia”. Che è poi un viaggio nel mondo dei cosiddetti “matti”. Quello che «forse è meglio far finta di non conoscere». Che in tanti fanno finta anche «che non esista».

«Con questo lavoro abbiamo scelto di narrare le storie dei protagonisti delle lotte di questi anni, utenti innanzitutto, ma anche operatori, familiari. Questo - spiega Paolo Tranchina, psichiatra e promotore di Psichiatria democratica in Italia - ci ha permesso di dare un volto concreto alla ricchezza delle pratiche, dei rapporti, della vita, e alla unicità di ogni essere umano. I pazienti, insieme a vissuti e esperienze profonde, hanno espresso con chiarezza ciò di cui hanno bisogno quando stanno male, permettendo così di fare affiorare in primo piano aspetti fondamentali della relazione terapeutica». Nelle numerose pagine che compongono l’edizione monografica “Storie di vita storie di follia” ci sono soprattutto le storie. Quelle delle persone che vivono e che ogni giorno devono fare i conti con i loro problemi, i drammi della vita. Storie che i volontari di Psichiatria democratica - come spiegano - hanno voluto raccontare per lasciare un segno. «Scrivere le storie - prosegue Tranchina - ha implicato per tutti momenti di profondo coinvolgimento emotivo, disvelamento della propria interiorità, esposizione al confronto, ma anche esplicitazione di aspetti riservati della propria soggettività, silenzi, intimità, segreti, e l'emergere della dimensione affettiva, indispensabile al nostro lavoro».

E dentro le pagine ci sono appunto le storie. Cinquantatré che, partendo dai manicomi, viaggiano seguendo il percorso che ha determinato la chiusura e il passaggio alle altre strutture. Il tutto senza dimenticare poi le esistenze. Le storie, come tengono a rimarcare i responsabili di Psichiatria democratica. Dalla signora bolognese che vede la distruzione della sua famiglia e la frammentazione lenta ma progressiva della sua esistenza, oppure del giovane che finisce all’ospedale psichiatrico giudiziario.
«Sia chiaro un aspetto che non deve essere mai dimenticato e sottovalutato - spiega Emilio Lupo, presidente nazionale di Psichiatria Democratica - prima di tutto ci sono le persone, le loro storie, la loro esistenza, non le cartelle cliniche, quelle vengono dopo».

Un punto di partenza indispensabile, a sentire lo psichiatra che opera in una struttura pubblica di Napoli, che tende a valorizzare sempre e comunque l’aspetto umano. «Non possiamo limitarci a considerare i casi, e le persone come semplici numeri. Qui si deve partire da un principio: quello delle storie legate alle persone, al contesto in cui vivono. Se non si parte da questo fatto non si può pensare di andare avanti e di trovare soluzioni ai problemi giacché i problemi vanno visti nel loro insieme». Premessa indispensabile per spiegare poi il lavoro che da 35 anni tutti i medici e i volontari di Psichiatria democratica portano avanti in tutta Italia. «Proprio per questo motivo - prosegue - siamo convinti che sia necessario, quando si interviene, studiare il contesto in cui nascono i problemi. Ed è per questo motivo che, noi di Psichiatria democratica, da tempo stiamo lanciando il progetto casa lavoro, perché per risolvere i problemi questi due elementi sono necessari e indispensabili». Motivo? « Non si può trovare una soluzione senza avere una casa di riferimento e un lavoro. Quando mai ci potrà essere la crescita e il recupero di una persona?».


15 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 15, 2009, 11:37:55 pm »

Pinelli me l'hanno ucciso mille volte

di Chiara Valentini


La tragedia. Le 'bugie dei processi'. Le difficoltà della sua famiglia. Parla la vedova dell'anarchico Colloquio con Licia Pinelli  Non è facile avvicinare Licia Rognini. Da quella notte di quasi quarant'anni fa, quando suo marito, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, era volato giù dal quarto piano della Questura di Milano, ha sempre scelto di parlare pochissimo. Ma il rumore che ancor prima di arrivare in libreria ha provocato il libro di Adriano Sofri anticipato da 'L'espresso' ('La notte che Pinelli', Sellerio) l'ha convinta. Di quelle vicende drammatiche che hanno cambiato per sempre la sua vita d'altra parte Licia Pinelli non ha mai smesso di occuparsi. Attiva e lucidissima a 81 anni compiuti (ma ne dimostra dieci di meno), nella sua casa dietro Porta Romana a Milano sta scannerizzando la montagna degli atti dei vari procedimenti giudiziari "perché la carta cominciava a disfarsi e invece la memoria deve restare". Ma va anche a scuola di yoga, si occupa dei quattro nipoti che ha avuto dalle figlie Claudia e Silvia, bambine di 8 e 9 anni al momento della tragedia. E con un'amica scrive inaspettatamente piccoli trattati di astrologia, quasi una parentesi nella severità della sua vita.

Signora Licia, Sofri ha ricostruito puntigliosamente la vicenda di suo marito sulle carte giudiziarie spiegando, queste sono le sue parole, "è il debito che pago alla memoria di Pinelli". Pensa che ce ne fosse bisogno?
"Molto probabilmente è un lavoro utile. Tanti, da Camilla Cederna a Marcello Del Bosco ad altri l'avevano fatto negli anni '70. Io stessa ne avevo parlato in un libro scritto nell'82 con Piero Scaramucci che è da tempo introvabile. Ma rivedere tutto quel che è successo con gli occhi di oggi, mostrando le contraddizioni dei vari processi, può servire. La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia che deve essere riparata".

Crede che sia possibile?
"Ancora oggi mi è difficile parlarne. Quel che ho vissuto mi ha fatto diventare dura, diffidente. Non sopporto i bugiardi, gli ipocriti, le versioni di comodo. Ma nonostante tutto spero che qualche margine ci sia ancora. Sono troppe le bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D'Ambrosio che conclude per il 'malore attivo'. Non posso credere che questa tragedia sia sepolta senza una verità".

Pensa che Sofri, che sta scontando una condanna come mandante dell'omicidio del commissario Calabresi, sia la persona più adatta?
"Non ho mai creduto alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche come ispiratori di quel delitto. Sofri non l'ho mai conosciuto di persona, ma anni fa ho risposto a una sua lettera arrivata dal carcere appunto dicendogli questo. Non so neanche se poi gliel'avevano recapitata".

Alla fine del suo libro è Sofri stesso, che pure si è sempre dichiarato innocente, ad assumersi nuovamente una corresponsabilità morale di quell'omicidio per la campagna di Lotta continua contro il commissario.
"È mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza Fontana".

Qualcuno ha osservato che dopo quarant'anni potrebbe trovare una pacificazione con la famiglia Calabresi, incontrare quell'altra vedova.
"Potrebbe anche darsi".

Che cosa ha provato quando ha saputo della morte del commissario?
"Per me era stato come se mettessero una pietra sopra la ricerca della verità. Ma a caldo avevo avuto anche una reazione emotiva, smarrimento e paura per me e le mie figlie. Non ci potevo credere, non volevo affrontare un'altra tragedia, essere bersagliata di nuovo dalle telefonate, dalle lettere anonime. Pensi che proprio quel giorno, il 17 maggio 1972, a Milano si doveva presentare a Palazzo Reale un quadro di Enzo Baj con la caduta di mio marito dalla finestra della Questura. Ovviamente non se ne fece più niente".

In quegli anni era riuscita a ritrovare un po' di normalità quotidiana?

"Non è stato facile. Per sfuggire all'assedio della stampa ho dovuto cambiare casa e mettere le bambine in una nuova scuola. Eravamo una famiglia di sole donne, noi tre più mia madre e una gatta, che cercavano di far barriera contro le ostilità esterne".

Che cosa l'aveva più colpita?
"C'era stato il tentativo di infangarmi per rendermi meno credibile. Il giudice Caizzi, invece di cercare la verità mi aveva chiesto se avevo degli amanti. Mia suocera poi era stata fermata per strada da uno sconosciuto che le aveva detto: 'Lo sa che sua nuora quella sera era con un altro uomo?'".

Ma aveva anche molte persone che la sostenevano. Pinelli era diventato un simbolo.
"Sì, mi stavano vicino i vecchi amici e poi erano arrivate persone nuove, di un ambiente diverso, come gli avvocati, come Camilla Cederna. Dopo la sua morte è stata volutamente dimenticata, non le hanno perdonato di aver scritto con tanta maestria di Pinelli e di piazza Fontana".

Dario Fo ha raccontato la storia di suo marito in un testo grottesco, 'Morte accidentale di un anarchico', che ha contribuito a fargli assegnare il Nobel e che è ancor oggi uno dei lavori più rappresentati al mondo. Si è mai chiesta perché?
"Perché non è una vicenda solo italiana. L'ingiustizia e gli abusi del potere ci sono dappertutto".

Nel libro Sofri ricostruisce i tre giorni di suo marito in questura. Lei che cosa ricorda?
"Fino alle ultime ore non ero molto preoccupata. Pino aveva telefonato più volte per rassicurarmi, aveva una voce calma. Erano anche venuti i poliziotti a frugare in casa e si erano accaniti su una delle tesi di laurea che battevo a macchina per gli studenti della Cattolica. Credo parlasse di una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, ma loro l'avevano presa per un documento sovversivo".

Da chi aveva saputo del volo dalla finestra?
"Da due giornalisti, arrivati all'una di notte. Mi ero precipitata a chiamare in Questura, chiedendo di Calabresi. Me l'avevano passato subito. Chiesi cos'era successo e perché non mi avevano avvertito. 'Sa signora, abbiamo molto da fare', era stata la risposta. La verità è che intanto il questore Guida stava preparando la famosa conferenza stampa dove disse che Pinelli si era ucciso perché schiacciato dalle prove. Il 28 dicembre l'avevo querelato per diffamazione. Ma anche se intanto avevano dovuto ammettere che Pinelli non era colpevole, Guida era stato assolto".

'Le ultime parole' è il titolo di uno dei capitoli del libro di Sofri. Pensa che suo marito abbia cercato di dire qualcosa prima di morire?
"Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".

Sofri conclude il suo lavoro rispondendo con tre semplici parole, "non lo so", alla domanda su come è morto Pinelli. E lei cosa risponde?
"L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo"

(15 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #98 inserito:: Gennaio 20, 2009, 11:22:16 pm »

L'avvocato Markelov e la reporter del quotidiano della Politkovskaia freddati a Mosca

Indagavano sui crimini delle forze russe.

Manifestazioni a Grozny, su Facebook un minuto di silenzio

Baburova, sdegno anche in Cecenia

Il Consiglio d'Europa: "Si faccia piena luce"

 
GROZNY - Sconcerto e rabbia nella capitale cecena Grozny dopo l'uccisione dell'avvocato Stanislav Markelov e di Anastasia Baburova, collaboratrice di 'Novaia Gazeta', lo stesso giornale per cui lavorava Anna Politkovskaia. Manifestazioni di protesta hanno attraversato il centro della città. A Mosca, sul luogo dove ieri i due sono stati assassinati, sono state depositate corone di fiori dai difensori dei diritti umani.

Markelov è il settimo avvocato ucciso in Russia negli ultimi dieci anni, la Baburova il quinto giornalista eliminato negli ultimi dodici mesi. I due sono stati ammazzati da un killer con il volto coperto: ha freddato con un colpo alla nuca il legale e poi la giornalista che tentava di inseguirlo in via Precistenka, nella zona del 'Miglio d'oro'.

Entrambi erano appena usciti da una conferenza stampa: Markelov aveva annunciato ricorso contro la liberazione anticipata del colonnello Iuri Budanov, condannato a dieci anni per il sequestro e lo strangolamento di una diciottenne in Cecenia, Elza Kungaieva, durante la seconda guerra contro la Russia. Secondo il padre di Elza, Markelov nell'ultima settimana aveva ricevuto minacce.

Gli investigatori non hanno ancora un identikit preciso (si parla genericamente di un uomo alto circa un metro e ottanta e di aspetto slavo) e ipotizzano che il movente sia da ricercare nell'attività professionale del legale, noto per il suo impegno civile e per aver difeso numerosi ceceni contro le violenze di militari russi, anche di fronte alla Corte di Strasburgo, davanti alla quale intendeva impugnare la liberazione di Budanov.

Tra gli ultimi casi di cui si era occupato anche la brutale aggressione contro Mikhail Beketov, direttore del quotidiano 'Khimkinskaia Pravda', che aveva ripetutamente denunciato la speculazione edilizia in un sobborgo di Mosca: il giornalista, al quale è già stata amputata una gamba, è in coma da metà novembre.

L'arma del delitto non è ancora stata trovata; la videocamera del palazzo accanto al luogo del delitto non era in funzione. "Uccisioni del genere sono una vergogna per il Paese", ha commentato Liudmila Alexeieva, responsabile del gruppo di Helsinki per i diritti umani. I dimostranti hanno chiesto l'apertura di un'inchiesta urgente sull'attentato.

La condanna del Consiglio d'Europa. Il Consiglio d'Europa chiede "piena luce sull'assassinio. Guai a consentire che simili delitti restino impuniti". E' l'appello lanciato in un comunicato dal liberale svizzero Dick Marty, responsabile della situazione dei diritti umani nel Caucaso settentrionale per l'Assemblea parlamentare dell'organismo di Strasburgo, che non ha niente a che fare con l'Unione Europea e che conta 47 stati membri tra cui anche la Russia.

"Sono profondamente scioccato - scrive Marty nella nota- di apprendere dell'assassinio di Stanislav Markelov, i cui instancabili sforzi per combattere l'impunità di quanti si sono resi responsabili di violazioni dei diritti umani in Cecenia e altrove nel nord del Caucaso gli sono costati la vita".

Un minuto di silenzio su Facebook. Solidarietà è stata espressa anche dal popolo di Facebook, che ha indetto per questa sera alle 19 un minuto di silenzio in nome della libertà di stampa e delle vittime morte per difenderla.

(20 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #99 inserito:: Gennaio 28, 2009, 03:13:16 pm »

Parla Maria Concetta la figlia del boss: "Non ho problemi a parlare di mafia ma temo di essere interpretata male. Ora vorrei una vita normale"

"La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina"

dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI

 
CORLEONE - Comincia a parlare anche di quando erano tutti fantasmi, latitanti in Sicilia. Lei con sua madre Ninetta, con i fratelli Gianni e Salvo, con la sorella Lucia. E con suo padre Totò Riina: "Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l'ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi". Ricorda ancora di quella vita in fuga: "Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia". Parla Maria Concetta Riina, la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra. Per la prima volta si fa intervistare da Repubblica e si concede alle nostre telecamere per raccontare suo padre, l'uomo più pericoloso d'Italia per un ventennio, il mafioso che è stato catturato - il 15 gennaio del 1993 - dopo un quarto di secolo di omicidi e trame.

Maria Concetta è nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto "per il futuro dei miei figli". Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e "di quel 41 bis che mi fa soffrire tanto per Gianni" e parla del nome terribile che porta. E si presenta: "Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre".

Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino?
"Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro".

Suo padre è stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto "assurdo" o "surreale"? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre?
"Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l'avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia".

Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia?
"Non ho problemi a parlarne. Però quella parola messa in bocca a me.... Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia di Totò Riina... A casa mia, io non l'ho vissuta quella mafia".

Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre?
"Sembrerà strano... mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato".

Si rende naturalmente conto che c'è un contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini?
"Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l'ho vissuto e così lo vivo ancora".

Dopo 19 anni che lei ha vissuto in latitanza con tutta la sua famiglia è arrivata a Corleone nel gennaio del 1993. Come è stato il passaggio dalla clandestinità alla visibilità?
"Come una seconda vita. Abbiamo potuto fare una cosa che non avevamo mai fatto prima: incontrarci di presenza con tutti i nostri parenti. Abbiamo trovato tutte le mie zie, mia nonna...".

Corleone è sempre stato il regno di suo padre, il paese che aveva in pugno, per alcuni il paese più mafioso e omertoso della Sicilia dove la paura poteva "proteggere" la sua famiglia. Come è stato il ritorno?
"Il paese ci ha accolti bene, non ci ha isolati. Anzi, molte persone hanno cercato di farci sentire a nostro agio. Come se avessimo vissuto lì da sempre".

Chiamarsi Riina molte volte vi ha fatto comodo, è un nome che in Sicilia faceva tremare. Lei sente di esercitare qualche potere?
"Perché non pensate alle difficoltà che ho avuto?".

Quali difficoltà?
"Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro... Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l'ultima volta".

Ma Totò Riina per lo Stato è sempre stato "il capo dei capi": se ne dimentica?
"Ma per me ormai è un calvario. Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: "Ma tu sei parente di?". Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L'ho detto con naturalezza... io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto "Sono la figlia di Riina", però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz'ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel'avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l'immagine della sua azienda".

Torniamo a suo padre. È in isolamento da 16 anni. Ma quando va a colloquio, lo vede dietro un vetro blindato e non gli ha mai chiesto conto delle accuse che gli vengono rivolte?
"È dalla mattina del 16 gennaio '93 che non lo accarezzo, certo se non ci fosse quel vetro... Prima ci andavo spesso a trovarlo ma adesso è complicato, ho tre figli. Mio padre ha condizioni peggiori del 41 bis normale, non ha contatti con altri detenuti, è messo in un'area a parte fatta apposta per lui".

In casa Riina non ci sono più figli maschi. Gianni è all'ergastolo per tre omicidi. Suo zio Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Suo fratello Salvo è tornato dentro qualche giorno fa per scontare una pena residua. Lei parlava delle "sofferenze" del carcere, ma ha mai letto gli atti che accusano suo padre e suo fratello Gianni, le carte che raccontano i loro delitti?
"Loro devono scontare quello che devono e io non voglio giudicare i processi o sentenze. Dico solo che ho sofferenza, soprattutto per Gianni che è un ragazzo, ha vissuto troppo poco la sua adolescenza. E dico anche che, secondo me, si potrebbe evitare con lui un certo accanimento. Potrebbero farlo studiare in carcere, insegnargli un mestiere".

Lei parla di vita normale, difende sempre suo padre ma non prende mai le distanze dai delitti di cui è accusato: quale futuro si aspetta?
"Come figlia mi aspetto che cambi tutto. Per me, per mio marito, per i miei figli. Vorrei una vita normale o quasi normale. Vorrei lavorare. Vorrei che mi si giudicasse per quello che sono e faccio. Vorrei soprattutto che i miei figli fossero considerati domani uomini e donne come tutti gli altri. Oggi sto parlando per loro".

Ha mai pensato di andare via da Corleone?
"Chi lo sa, forse un giorno... ".

(28 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #100 inserito:: Febbraio 01, 2009, 03:51:30 pm »

Cronache         

Lory Del Santo confessa si su oksalute

Le molestie dell’uomo della mamma e i miei sogni infranti di bambina

«La prima violenza, brutale, che mi ha segnata per tutta la vita. Avevo 14 anni»



Una femme fatale.

Questo è il mio posto nell’immaginario erotico dei maschi. Fin da ragazzina sono stata bersaglio di attenzioni maniacali: gli uomini mi desiderano e vorrebbero possedermi, comprarmi. Io sto al gioco della seduzione. Ho capito troppo presto qual era l’obiettivo dell’altro sesso e quindi il mio ruolo. Quando guardo indietro, riaffiorano i fantasmi del passato. Mi sono resa conto in modo brutale che gli uomini possono essere malvagi, spietati. Possono infrangere i sogni innocenti di una bambina. Anche in famiglia si può essere massacrati.

SVALUTAZIONE - Mia madre era vedova: ha sempre pensato che le donne valgono meno dei maschi e che sono sempre a rischio. È stata molto rigida, mi ha perseguitato con le sue ossessioni. Forse per questo non le ho detto mai che quando avevo 14 anni il suo compagno di allora mi aveva sbattuta sul letto e immobilizzata. Era stato un raptus: mi ritrovai addosso le sue mani, sotto le mutandine. Non capivo perché, ma sentivo qualcosa di sbagliato, di volgare, di violento. Per fortuna non abusò di me. Mi lasciò perdere e se ne andò bofonchiando. Ma quella fu una molestia, la prima, che non cancellerò mai dalla mente e che non avevo mai avuto il coraggio di confessare prima d’ora. Con mia madre l’argomento sesso era tabù. Non sapevo niente del ciclo mestruale: mi sono impaurita vedendo la prima emorragia. Il suo commento è stato: «Sono cose che succedono».

SEGNATA DALLA VIOLENZA - Se mi ha segnata la violenza del suo compagno? Credo di sì. A lungo non ho saputo cosa fossero l’amore e un’intimità soddisfacente. Il primo rapporto, per esempio, è stato casuale. A 17 anni ho deciso di fare un esperimento: lui era bello, sui trenta, mi ha colpito la sua Mercedes e l’ho scelto come cavia. Mi ha fermata per strada, abbiamo bevuto un drink e io ho finto di essere emancipata. Ci siamo ritrovati a letto, tutto si è consumato in pochi minuti e non l’ho più rivisto. Ho pensato che il sesso fosse una cosa stupida. Non conoscevo il mio corpo e per anni non ho provato l’orgasmo, ma non mi ponevo il problema: ero interessata alla mia carriera di attrice, cercavo la sicurezza materiale. Pensavo che il piacere non mi riguardasse, ero preda degli uomini con cui mi accompagnavo: ricchi e potenti, spesso sposati o impegnati, in cerca di avventure.

AGNELLI E KASHOGGI - I miei amanti volevano appagare un desiderio erotico, nel più breve tempo possibile, secondo le loro modalità. Ero un oggetto per loro, ma andava bene così: vivevo in una sorta di fascinazione, penso alle mie relazioni con Gianni Agnelli, con Kashoggi. L’amore è un’altra cosa, non ne conoscevo il significato, credevo di esserne immune. Crescendo ho cominciato a desiderare dei figli e a 26 anni, a Milano, ho incontrato Eric Clapton. Mi sono innamorata. Con lui ho scoperto il sentimento, la passione, il coinvolgimento fisico. Ho capito cosa significa godere, prima il sesso si riduceva a una serie di operazioni meccaniche, scontate. Poi è arrivata la sofferenza. Ho pianto per amore, non pensavo fosse possibile. E ancora di più ho pianto per la morte di nostro figlio, caduto dalla finestra: un dolore straziante, ineguagliabile. Il mio rapporto con la maternità è stato travagliato. Ho perso un altro figlio, partorito al sesto mese, e anche per Loren, che adesso ha nove anni, ho vissuto un’odissea della speranza in attesa che fosse fuori pericolo: è nato prematuro e la sua vita era a rischio. Sono sempre stata forte davanti alle difficoltà e fin da bambina ho imparato a cavarmela da sola. Me la sono cavata per conto mio anche dopo quella molestia, sul letto di casa. Nel silenzio, in me stessa ho trovato il coraggio di reagire: tirando fuori i valori che potessero tenermi ancorata alla vita, aggrappandomi alle motivazioni più profonde per andare avanti, anche quando tutto, apparentemente, non aveva più senso.


testo raccolto da Francesca Turi
27 gennaio 2009(ultima modifica: 31 gennaio 2009)


da corriere.it
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« Risposta #101 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:19:54 am »

Germania: I figli aspettano ancora di essere riconosciuti come vittime

I «bimbi rubati» della Ddr ora rivogliono i loro genitori

Forse migliaia i piccoli tolti alle famiglie «asociali»

La battaglia di Katrin, che aiuta gli «orfani»


Dal nostro inviato  Mara Gergolet

 
BERLINO — Di quella notte ricorda il freddo. La madre stava dietro la porta, lei dall'altra parte del corridoio. L'avevano svegliata le urla e il pianto. Poi la madre la tirò, le mise le lunghe calze di lana che graffiavano. Lei si ribellava, e la madre le mise una mano in faccia. Quando la porta s'aprì, gli uomini dai lunghi mantelli entrarono e fecero tutto in fretta. La sua famiglia, quattro persone, fu portata nella piazza di Gera, la mamma in una macchina, lei in un'altra. «Vai dalla nonna», le mentirono.

Katrin Behr aveva 4 anni e 9 mesi quando la separarono dalla madre, e la perse per sempre. È una delle vittime delle adozioni forzate della Ddr, le Zwangsadoption. Nessuno sa quanti siano questi bambini, forse centinaia, forse migliaia. Oggi Katrin ha 42 anni, vive sempre a Gera, nell'Est, e si batte perché lei e gli altri vengano riconosciuti come vittime della dittatura della Ddr.

Un computer, un telefono, un sito Internet. Ha trasformato la sua casa in ufficio un anno fa. Aiuta i figli a trovare i genitori o i fratelli: sa a quali uffici rivolgersi, come navigare negli archivi della Stasi. Sua madre era stata definita un'«asociale », come altri genitori a cui venivano strappati i bambini. Ossia, persone che non riuscivano a integrarsi nel socialismo: sbandati, prostitute, o, semplicemente, persone che avevano contatti in Occidente e venivano sospettati d'essere degli oppositori. Katrin, perché l'hanno tolta a sua madre? «Era una ribelle. Voleva andare all'Ovest. L'aveva detto a qualche amica».

Katrin per anni non ci aveva pensato. Solo nel '91, quando rimase incinta, un medico notò che le mancava un'articolazione a un dito. È perché sua madre s'è ammalata mentre era incinta di lei, le disse. Il passato tornò, tutto all'improvviso. I ricordi rimossi di quella notte, la visita della nonna all'orfanotrofio («la tua famiglia non c'è più, cercatene una nuova»). Rintracciò la madre, le scrisse, lei rispose. Andò a trovarla. «Fui scioccata quando vidi il gabinetto a pompa nel giardino. Ma poi pensai: non è perché è povera che è anche un'asociale».
Per anni non sapeva se crederle. Se non erano tutte bugie. Solo nel 2007, quando ebbe l'accesso alla sua documentazione della Stasi, vide che non si era inventata nulla. «Non ha mai avuto la possibilità di tenermi con sé o di riavermi indietro».

In un anno l'hanno cercata circa 350 persone. Altre decine di persone hanno contattato un altro portale (Suchpool Ddr Bürger), costruito 6 mesi fa da un'altra donna a Lipsia, Eva Siebenherz. Lasciano messaggi sul muro come questo. «Wilfried Marschall, nato il 26.10.1958 a Berlino. Cerco i miei due bambini Henry e Heidi, gemelli. Al tempo della Ddr ero in prigione, accusato attraverso il paragrafo 249 di comportamento asociale: mi sono rifiutato di fare il servizio militare, e ho presentato una richiesta per un viaggio all'estero per me e per mia moglie. Ho perso allora i contatti con la mia famiglia, le lettere non sono mai state spedite». Qualcuno di quelli che si rivolgono a Katrin, come Oliver (che ha trovato la madre due mesi fa) ha poco più di vent'anni.

Eppure, per i figli della Zwangsadoption avere qualche forma di riconoscimento non sarà facile. La Ddr non elaborò mai una dottrina ufficiale, anche se la pratica era nota dagli anni '70, anzi ne fu ritenuta paladina l'odiata «Strega viola» Margot Honecker. Però, a oggi, sulle Zwangsadoption non c'è una documentazione, il punto di raccolta-dati, creato dal governo federale tra il '91-93, fu un fiasco. Già la definizione è problematica: «Formalmente — dice la giurista Maria Louisa Warnecke —, c'è una vera Zwangsadoption solo quando i figli sono tolti definitivamente alla famiglia perché i genitori agivano contro lo Stato». Ossia, se fuggivano all'Ovest: i casi documentati sono pochissimi. Di più, una sentenza del 2000 non riconosce gli «asociali» come vittime della dittatura della Ddr. «Occorrerebbe una nuova definizione giuridica per riconsiderare il loro caso».

Katrin Behr si batte per questo: ha raccolto una petizione, il Parlamento l'ha invitata a presentarla in marzo. «Ovvio che non furono solo persecuzioni politiche — dice — ma i metodi furono comunque inflessibili e disumani ». Più passa il tempo, racconta, e più le persone mi chiamano, «è come una palla di neve che si ingrossa». Lei risponde a tutti, in rete ha messo anche il suo numero di cellulare. «Però dopo le 8 di sera lo stacco. Non voglio portarmi gli incubi a letto».


Mara Gergolet
02 febbraio 2009


da corriere.it
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« Risposta #102 inserito:: Febbraio 06, 2009, 12:44:07 pm »

Il pm chiede la sospensione del protocollo. I medici: stop solo con un atto formale

La procura indaga sulle volontà di Eluana

Convocati nuovi testimoni, acquisita la cartella clinica. Ipotesi di sequestro per la casa di riposo
 

UDINE - La procura di Udine indaga sulla volontà di Eluana. Lo comunica ieri mattina Antonio Biancardi, procuratore capo, seduto alla scrivania, tra le mani alcuni fogli parte del fascicolo appena aperto. Al suo cospetto Giuseppe Campeis, avvocato della famiglia Englaro, e Amato De Monte, il rianimatore capo dell'équipe di volontari che assisterà Eluana. Un incontro preannunciato, che avrebbe dovuto portare alla consegna di nuova documentazione. Invece arriva la sorpresa. Il magistrato, riferisce il legale, parla di una lettera, firmata da Pietro Crisafulli che accusa papà Beppino di essersi inventato tutto, nella quale scrive che non sarebbe vero che sua figlia, «ridotta a un vegetale, avrebbe voluto morire». In più ci sono altri esposti sui quali Biancardi vuole vedere chiaro. Spiega così che ha intenzione di sentire parenti e amici per accertare le volontà di Eluana (audizioni disposte già in serata a Lecco, Padova e altre città del Nord) e che ha disposto di acquisire la sua cartella clinica (prelevata ieri sera). Venti minuti di colloquio, non solo per illustrare l'iniziativa della procura, ma anche per chiedere informalmente che venga sospeso il protocollo. Richiesta sulla quale l'avvocato Campeis si riserva di dare una risposta solo dopo essersi consultato con il collega Vittorio Angiolini e Beppino Englaro. Alle 9.20 Campeis torna in studio, telefona, decide: il protocollo non si fermerà, se non di fronte a un provvedimento formale o un atto con valore di legge.

La giornata prosegue non senza emozioni. Il procuratore capo convoca la stampa per le 12. Appuntamento disdetto, sostituto da un comunicato laconico: «In merito alla drammatica vicenda della giovane Eluana, comunico che questo ufficio sta attentamente valutando i numerosi esposti qui pervenuti. Alla polizia giudiziaria sono state delegate opportune direttive». Sarà Campeis a spiegarne il senso: «Verranno svolte indagini per valutare se ci sono i presupposti per formulare ipotesi di reato». E qui si intravede un nuovo scenario: secondo il legale non sarebbe improbabile che la procura decidesse di intervenire, mentre sono in corso le indagini, bloccando di fatto l'applicazione della sentenza che autorizza la sospensione di idratazione e alimentazione artificiali ad Eluana. Così più che l'eventuale decreto del governo, sembra preoccupare l'interesse della procura: non è escluso, infatti, la possibilità di un provvedimento cautelare come il sequestro preventivo della stanza di Eluana. Per adesso solo un'ipotesi. Di fatto il protocollo non si ferma. Ieri Amato De Monte e Carlo Alberto Defanti, neurologo di Eluana, hanno visitato la donna nella prospettiva di dimezzarle l'alimentazione e idratazione sin da oggi. Domani una seconda riduzione. Da domenica, in teoria, solo farmaci e sostanze per alleviare le conseguenze.

Grazia Maria Mottola
06 febbraio 2009

da corriere.it
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 07, 2009, 05:21:29 pm »

Gli ispettori lasciano la clinica di Udine

Scritte ingiuriose contro Beppino Englaro sono state tracciate nel corso della notte a Udine. I vigili urbani hanno subito provveduto a cancellarle.
Carabinieri e Polizia stanno svolgendo indagini. Ma davanti alla casa di riposo 'La Quietè, dove Eluana è ricoverata da martedì, sono stati anche  esposti cartelli con scritte in favore di Eluana e per invitare papà Beppino «a non uccidere la figlia».

Il dramma di Eluana sempre più sullo sfondo. Adesso conta solo la prova forza di forza del Governo, l'applauso della Chiesa, lo Stato di diritto ridotto a uno zerbino. E intanto  il ministero del Welfare  Sacconi ha inviato gli ispettori a Udine "per fare chiarezza sulla vicenda di Eluana Englaro": «Ho provveduto a inviare gli ispettori a Udine,perchè purtroppo mancano alcune risposte ad alcuni interrogativi che abbiamo rivolto».
Questo dice il ministro in un comunicato, non chiarendo quali siano gli "interrogativi".

I tre ispettori inviati a Udine dal  Ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, hanno voluto vedere Eluana Englaro abbandonando poi la clinica alle ore 15.15.  "Siamo tranquilli e tutto procede come da protocollo": lo ha detto l'avvocato Giuseppe Campeis, che assiste la famiglia Englaro, al termine della visita degli ispettori del Ministero del Welfare a Udine. "Ritengo che abbiano acquisito elementi di conoscenza - ha spiegato Campeis - e in base a quelli operaranno delle valutazioni che a nostro avviso non possono che essere positive per quanto ci riguarda".  E intanto è iniziata la riduzione dell'alimentazione della paziente.  «Confermo che sono  stati sospesi sia l'alimentazione che l'idratazione artificiali, ma non è ancora iniziata la sedazione. In questa fase, infatti, non si è ancora resa necessaria». Lo ha spiegato Carlo Alberto Defanti, il neurologo che da anni segue Eluana nel suo stato  vegetativo persistente.

Gli ispettori hanno avuto incontri, sabato mattina, all'assessorato regionale alla Sanità e all'Azienda sanitaria n.4 'Medio Friuli nella cui giurisdizione ricade la casa di riposo 'La Quiete'.  Gli ispettori - si è appreso da fonti regionali - sono tre e sono arrivati alla clinica per visitare la struttura e vedere la stanza in cui si trova Eluana.  In particolare intendono chiarire i rapporti intercorrenti tra l'associazione 'Per Eluana', che da lunedì sera ha assunto in carico la ragazza, l'Azienda sanitaria e la stessa casa di riposo. Questi tre soggetti sono i firmatari del protocollo di attuazione del decreto della Corte di Appello di Milano che autorizza l'interruzione della nutrizione di Eluana.
 
Ma le intimidazioni di Sacconi non fermano i medici. «È fuori di ogni discussione: si  andrà avanti». Lo ha detto il prof. Vittorio Angiolini, legale  della famiglia Englaro. Angiolini ha assicurato che la sospensione  dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali, cominciata  oggi, «andrà avanti». Non è chiaro però in che termini: «In questa fase non ha senso parlare di percentuali»: ha detto Carlo Alberto Defanti, neurologo che ha in cura Eluana Englaro da 17 anni, che non ha voluto dire se è già cominciata, o meno, l'interruzione totale dell'alimentazione di Eluana. Defanti ha riferito che sarà a Udine lunedì. «In questa fase - ha spiegato - non servono due medici per coordinare l'equipe che sta lavorando a 'La Quiete' di Udine».

«Sono sconvolto, è un tormento  senza fine, non riesco neppure a pensare e riflettere e  preferisco continuare a restare nel silenzio». È l'unico  commento di Beppino Englaro, il padre di Eluana. Englaro ha deciso di osservare un rigoroso silenzio stampa da  martedì mattina, da quando la figlia è ricoverata a Udine,  dove oggi è stato avviato il protocollo medico per la  sospensione dell'alimentazione.

«Non importa come mi sento io - ha ripetuto - Quello che conta è la volontà di Eluana». Sono le ore più sconvolgenti per papà Beppino.
Da stamattina Eluana, la figlia in stato vegetativo da 17 anni dopo un incidente stradale, ha cominciato il suo cammino verso la morte. Un cammino che, iniziato dopo anni di battaglie legali, rischia di interrompersi subito. Il decreto legge del governo contro l'interruzione dell'alimentazione, non è stato firmato dal presidente della Repubblica. Ma nuovi ostacoli potrebbero trattenere ancora Eluana sospesa nel vuoto della sua, come è definita, 'non vità.

Avrebbe voluto essere vicino alla figlia ma per il momento non ha potuto lasciare Lecco. Anche se, con molto pudore e riservatezza, non ne accenna quasi mai, c'è un'altra tragedia nella sua vita. La moglie Saturna, da lui chiamata affettuosamente Sati, da anni è ammalata di cancro e le sue condizioni negli ultimi tempi si sono aggravate.

È una mamma che si è consumata prima nella speranza di vedere di nuovo la figlia sorridere.
Poi nel dolore di assistere alla sua trasformazione in una persona prigioniera di un sonno senza fine. Per questo è rimasta sempre in disparte. Chiusa come ogni genitore stroncato da una tragedia simile. Protetta dal marito che ha cercato di risparmiarle altra angoscia.

A casa, Beppino Englaro è stato informato da legali, parenti, amici di quanto stava accadendo a Roma. «Ma dove vogliono arrivare?», ha mormorato più volte, incredulo. Incredulo della battaglia che si è scatenata.
Il Dl approvato, non firmato, un ddl in arrivo, centinaia di commenti e reazioni, il parere di tanti esperti.

«Siamo solo due genitori stravolti e una figlia...», ha ripetuto. Qualche momento di sollievo solo per le posizioni del presidente della repubblica, Giorgio Napolitano. «La prova che siamo in uno stato di diritto», altra frase ribadita in tante circostanze negli ultimi mesi.


06 febbraio 2009
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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 09, 2009, 11:49:56 am »

La Passione di Nostro Signore Gesù Cristo

Alcuni anni fa un dottore francese, Barbet, si trovava in Vaticano insieme con un suo amico, il dottor Pasteau. Nel circolo di ascoltatori c'era anche il cardinale Pacelli. Pasteau raccontava che, in seguito alle ricerche del dottor Barbet, si poteva ormai essere certi che la morte di Gesù in croce era avvenuta per contrazione tetanica di tutti i muscoli e per asfissia.

Il cardinal Pacelli impallidì. Poi mormorò piano: "Non non ne sapevamo nulla; nessuno ce ne aveva fatto parola".

In seguito a quella osservazione Barrbet stese per iscritto una allucinante ricostruzione, dal punto di vista medico, della Passione di Gesù. Premise un'avvertenza:"Io sono soprattutto un chirurgo; ho insegnato a lungo. Per 13 anni sono vissuto in compagnia di cadaveri; durante la mia carriera ho studiato a fondo l'anatomia. Posso dunque scrivere senza presunzione".

***

"Gesù entrato in agonia nell'orto del Getsemani - scrive l'evangelista Luca - pregava più intensamente. E diede in un sudore come di gocce di sangue che cadevano fino a terra". Il solo evangelista che riporta il fatto è un medico, Luca. E lo fa con la precisione di un clinico. Il sudar sangue, o ematoidròsi, è un fenomeno rarissimo. Si produce in condizioni eccezionali: a provocarlo ci vuole una spossatezza fisica, accompagnata da una scossa morale violenta, causata da una profonda emozione, da una grande paura. Il terrore, lo spavento, l'angoscia terribile di sentirsi carico di tutti i peccati degli uomini devono aver schiacciato Gesù.

Questa tensione estrema produce la rottura delle finissime vene capillari che stanno sotto le ghiandole sudoripare...Il sangue si mescola al sudore e si raccoglie sulla pelle; poi cola per tutto il corpo fino a terra.

***

Conosciamo la farsa di processo imbastito dal Sinedrio ebraico, l'invio di Gesù a Pilato e il ballottaggio della vittima fra il procuratore romano ed Erode. Pilato cede e ordina la flagellazione di Gesù. I soldati spogliano Gesù e lo legano per i polsi a una colonna dell'atrio. La flagellazione si effettua con delle strisce di cuoio multiplo su cui sono fissate due palle di piombo o degli ossicini. Le tracce sulla Sindone di Torino sono innumerevoli; la maggior parte delle sferzate è sulle spalle, sulla schiena, sulla regione lombare e anche sul petto.

I carnefici devono essere stati due, uno da ciascun lato, di ineguale corporatura. Colpiscono a staffilate la pelle, già alterata da milioni di microscopiche emorragie del sudor di sangue. La pelle si lacera e si spacca; il sangue zampilla.

A ogni colpo il corpo di Gesù trasale in un soprassalto di dolore. Le forze gli vengono meno: un sudor freddo gli imperla la fronte, la testa gli gira in una vertigine di nausea, brividi gli corrono lungo la schiena. se non fosse legato molto in alto per i polsi, crollerebbe in una pozza di sangue.

***

Poi lo scherno dell'incoronazione. Con lunghe spine, più dure di quelle dell'acacia, gli aguzzini intrecciano una specie di casco e glielo applicano sul capo. Le spine penetrano nel cuoio capelluto e lo fanno sanguinare (i chirurghi sanno quanto sanguina il cuoio capelluto). Dalla Sindone si rileva che un forte colpo di bastone dato obliquamente, lasciò sulla guancia destra di Gesù una orribile piaga contusa; il naso è deformato da una frattura dell'ala cartilaginea. Pilato, dopo aver mostrato quello straccio d'uomo alla folla inferocita, glielo consegna per la crocifissione.

***

Caricano sulle spalle di Gesù il grosso braccio orizzontale della croce; pesa una cinquantina di chili. Il palo verticale è già piantato sul Calvario. Gesù cammina a piedi scalzi per le strade dal fondo irregolare cosparso di ciottoli. I soldati lo tirano con le corde. Il percorso, fortunatamente, non è molto lungo, circa 600 metri. Gesù a fatica mette un piede dopo l'altro; spesso cade sulle ginocchia. E sempre quella trave sulla spalla. Ma la spalla di Gesù è coperta di piaghe. Quando cade a terra la trave gli sfugge e gli scortica il dorso.

***

Sul Calvario ha inizio la crocifissione. I carnefici spogliano il condannato; ma la sua tunica è incollata alle piaghe e il toglierla è semplicemente atroce. Non avete mai staccato la garza di medicazione da una larga piaga contusa? Non avete sofferto voi stessi questa prova che richiede talvolta l'anestesia generale? potete allora rendervi conto di che si tratta.

Ogni filo di stoffa aderisce al tessuto della carne viva; a levare la tunica, si lacerano le terminazioni nervose messe allo scoperto nelle piaghe. I carnefici danno uno strappo violento. Come mai quel dolore atroce non provoca una sincope?

Il sangue riprende a scorrere; Gesù viene steso sul dorso. Le sue piaghe s'incrostano di polvere e di ghiaietta. Lo distendono sul braccio orizzontale della croce. Gli aguzzini prendono le misure. Un giro di succhiello nel legno per facilitare la penetrazione dei chiodi e l'orribile supplizio ha inizio. Il carnefice prende un chiodo (un lungo chiodo appuntito e quadrato), lo appoggia sul polso di Gesù; con un colpo netto di martello glielo pianta e lo ribatte saldamente sul legno.

Gesù deve avere spaventosamente contratto il viso. Nello stesso istante il pollice, con un movimento violento, si è messo in opposizione nel palmo della mano: il nervo mediano è stato leso. Si può immaginare ciò che Gesù deve aver provato: un dolore lancinante, acutissimo che si è diffuso nelle sue dita, è zampillato, come una lingua di fuoco, nella spalla, gli ha folgorato il cervello. E' il dolore più insopportabile che un uomo possa provare, quello dato dalla ferita dei grossi tronchi nervosi. Di solito provoca una sincope e fa perdere la conoscenza. In Gesù no. Almeno il nervo fosse stato tagliato di netto! Invece (lo si constata spesso sperimentalmente) il nervo è stato distrutto solo in parte: la lesione del tronco nervoso rimane in contatto col chiodo. Quando il corpo di Gesù sarà sospeso sulla croce, il nervo si tenderà fortemente come una corda di violino tesa sul ponticello. A ogni scossa, a ogni movimento, vibrerà risvegliando il dolore straziante.

Un supplizio che durerà tre ore.

Anche per l'altro braccio si ripetono gli stessi gesti, gli stessi dolori. il carnefice e il suo aiutante impugnano le estremità della trave; sollevano Gesù mettendolo prima seduto e poi in piedi; quindi facendolo camminare all'indietro, lo addossano al palo verticale. Poi rapidamente incastrano il braccio orizzontale della croce al palo verticale.

Le spalle di Gesù hanno strisciato dolorosamente sul legno ruvido. Le punte taglienti della grande corona di spine hanno lacerato il cranio. La povera testa di Gesù è inclinata in avanti, poiché lo spessore del casco di spine le impedisce di riposare sul legno. Ogni volta che Gesù solleva la testa, riprendono le fitte acutissime.

Gli inchiodano i piedi. E' mezzogiorno. Gesù ha sete. Non ha bevuto nulla né mangiato dalla sera precedente. I lineamenti sono tirati, il volto è una maschera di sangue. La bocca è semiaperta e il labbro inferiore già comincia a pendere. La gola è secca e gli brucia, ma Gesù non può deglutire. Ha sete. Un soldato gli tende, sulla punta di una canna, una spugna imbevuta di una bevanda acidula in uso tra i militari.

***

Ma questo non è che l'inizio di una tortura atroce. Uno stano fenomeno si produce nel corpo di Gesù. I muscoli delle braccia si irrigidiscono in una contrazione che va accentuandosi: i deltoidi, i bicipiti sono tesi e rilevati, le dita si incurvano. Si tratta di crampi. Alle cosce e alle gambe gli stessi mostruosi rilievi rigidi; le dita dei piedi si incurvano. Si direbbe un ferito colpito da tetano, in preda a quelle orribili crisi che non si possono dimenticare. E' ciò che i medici chiamano tetanìa, quando i crampi si generalizzano: i muscoli dell'addome si irrigidiscono in onde immobili; poi quelli intercostali, quelle del collo e quelli respiratori. Il respiro si è fatto a poco a poco più corto. L'aria entra con un sibilo ma non riesce quasi più a uscire. Gesù respira con l'apice dei polmoni. Ha sete di aria: come un asmatico in piena crisi, il suo volto pallido a poco a poco diventa rosso, poi trascolora nel violetto purpureo e infine nel cianotico.

Gesù, colpito da asfissia, soffoca. I polmoni, gonfi d'aria non possono più svuotarsi. La fronte è imperlata di sudore, gli occhi gli escono fuori dall'orbita. Che dolori atroci devono aver martellato il suo cranio!

***

Ma cosa avviene? Lentamente, con uno sforzo sovrumano, Gesù ha preso un punto di appoggio sul chiodo dei piedi. Facendosi forza, a piccoli colpi, si tira su, alleggerendo la trazione delle braccia. I muscoli del torace si distendono. La respirazione diventa più ampia e profonda, i polmoni si svuotano e il viso riprende il pallore primitivo.

Perché tutto questo sforzo? Perché Gesù vuole parlare:"Padre, perdona loro: non sanno quello che fanno".

Dopo un istante il corpo ricomincia ad afflosciarsi e l'asfissia riprende. Sono state tramandate sette frasi di Gesù dette in croce: ogni volta che vuol parlare, Gesù dovrà sollevarsi tenendosi ritto sui chiodi dei piedi....inimmaginabile!

***

Uno sciame di mosche (grosse mosche verdi e blu come se ne vedono nei mattatoi e nei carnai), ronza attorno al suo corpo; gli si accaniscono sul viso, ma egli non può scacciarle. Fortunatamente, dopo un po', il cielo si oscura, il sole si nasconde: d'un tratto la temperatura si abbassa.

Fra poco saranno le tre del pomeriggio. Gesù lotta sempre; di quando in quando si risolleva per respirare. E' l'asfissia periodica dell'infelice che viene strozzato e a cui si lascia riprendere fiato per soffocarlo più volte. Una tortura che dura tre ore.

Tutti i suoi dolori, la sete, i crampi, l'asfissia, le vibrazioni dei nervi mediani, non gli hanno strappato un lamento. Ma il Padre (ed è l'ultima prova) sembra averlo abbandonato: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"

Ai piedi della croce stava la madre di Gesù. Potete immaginare lo strazio di quella donna?

Gesù dà un grido: "E' finito".

E a gran voce dice ancora:"Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito".

E muore.

---

Brano tratto dal libro "L'Apocalisse", edito dal centro Mater Divinae Gratiae di Rosta (Torino).

Traduzione dal greco e commento di Carlo De Ambrogio

1967
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