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Autore Discussione: BRUTTE e tristi STORIE...  (Letto 150733 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Maggio 22, 2009, 12:00:44 pm »

IL RACCONTO

"La verità sulla morte di Mimì" Berté accusa il padre padrone

Lo sfogo su "Musica leggera".

"Tre giorni prima di morire mia sorella andò a trovarlo e lui l'aveva sistemata da schifo. Era piena di lividi. E' sempre stato violento"

di GINO CASTALDO

 

ROMA - Finalmente l'ha raccontata la "sua" sconvolgente verità. La nuda, cruda e brutale verità che la insegue da una vita intera, il macigno che spiega, almeno in parte, il disagio, le follie, le ombre scure che hanno martoriato la sua esistenza e quella della sorella Mimì, meglio nota come Mia Martini, scomparsa in circostanze drammatiche il 12 maggio del 1995.

Questa inconfessabile verità Loredana Berté l'ha raccontata in una lunga intervista rilasciata alla rivista Musica leggera, in edicola la prossima settimana, di cui anticipiamo i passi più significativi. A cominciare dalla morte della sorella: "Ho saputo che Mimì era andata due giorni dal padre (a Cardano al campo, ndr), che non vedeva da 40 anni". Da notare che si riferisce "al padre" con agghiacciante distacco, come se non fosse anche il suo di padre, Giuseppe Radames Berté, stimato professore di latino e greco a Bagnara Calabra, dove sono nate lei e le tre sorelle. "Lui le ha dato un appartamento del c..., dove non c'era niente. C'era un materasso steso per terra e basta. Mimì si lamentava, diceva che quel posto faceva schifo e che non ci sarebbe rimasta. C'è stata in tutto tre giorni: uno da viva e due da morta, ma in quell'appartamento ce l'ha messa il padre, poteva tenersela lui... poi quando l'ho vista dentro la bara, era massacrata, piena di lividi".
Maurizio Becker, l'intervistatore della rivista, è incredulo, chiede spiegazioni, anche perché il referto ufficiale, redatto dopo l'autopsia, parlava di arresto cardiaco per overdose di stupefacenti. "Che ne so, magari Mimì si è fatta uno spinello, e lui è entrato e l'ha massacrata. Perché è sempre stato così: un padre padrone. A mia madre la prendeva a calci in c.., le dava il veleno".


Becker le fa notare l'enormità di queste affermazioni, ma la Berté è decisa, come mai aveva fatto prima, a dire tutto: "È vero. Voglio vedere cosa mi fa. Cosa mi fa? Ma lo sai cos'ha fatto al funerale di Mimì? Renato (Zero, ndr) mi ha lasciata sola con lui, nella camera mortuaria. Io non lo vedevo da quando avevo 5 anni, e la prima cosa che gli ho detto è stata: "Che le hai fatto? L'hai ammazzata!". E lui mi ha preso per i capelli. Renato mi ha dovuto portare a Roma, per 6 mesi ho fatto delle siringhe, perché in testa avevo dei buchi grandi così, dove mi mancavano i capelli che gli erano rimasti in mano. Dai cazzotti che mi ha dato io sono cascata nella bara di Mimì, che era aperta".

Più che un'intervista è uno sfogo, a lungo trattenuto. La Berté descrive il padre con toni furenti, un ritratto impietoso che in parte aveva già tratteggiato (in particolare in una vecchia puntata di Tempo reale di Santoro) ma mai con questa spietata dovizia di particolari. I racconti lasciano immaginare un'infanzia devastata dalla presenza di un padre violento, ai limiti della perversione. Ma questa volta Loredana è decisa a non lasciare nulla all'immaginazione. I racconti d'infanzia, se possibile, sono ancora più agghiaccianti: "Mimì aveva un sesto senso, aveva capito che quando in casa si sentiva Beethoven a tutto spiano, stavano per arrivare le botte. Allora scappava e mi portava via, mi portava davanti al mare. Alla sorella più grande, Leda, un giorno l'ha fatta volare dalla finestra solo perché aveva preso 6 in latino, e lui che era professore di latino e greco non poteva sopportarlo. Mimì allora, una volta che prese 4 in inglese, non ci pensò due volte e scappò di casa: porella, la ritrovarono tutta graffiata, in mezzo ai rovi di non so quale prato vicino Roma. L'unica ad averla scampata sono io. Mica ero scema. Ero piccola, ma le cose le vedevo: ad esempio che lui gonfiava di botte la mamma ogni volta che rimaneva incinta...".

Un orrore senza fine, che lascia sbalorditi. Alla domanda di Becker sulla loro capacità di sopportazione e sul momento in cui hanno deciso di sottrarsi alle violenze paterne, la Berté è molto precisa: "Quando nostra madre aspettava il maschio. Lui la prese a calci nella pancia e io vidi il pavimento del bagno che aveva cambiato colore: aveva ammazzato l'unico figlio maschio. Allora ce ne siamo andate, io e Mimì. E così purtroppo quello è morto, non ce l'ha fatta".

C'è poco da commentare. Sono parole cariche di dolore, una ferita profonda, mai rimarginata, e che verosimilmente ha condizionato l'intera esistenza di Loredana. Tanto da far sbiadire il resto dell'intervista dove con sboccata e irriverente sfrontatezza racconta le sue avventure musicali, i suoi incontri con Renato Zero, con Mastroianni, col vecchio pioniere della discografia italiana Ladislao Sugar, con Lavezzi, Fossati e tanti altri. Episodi che alla luce del racconto della sua infanzia sembrano solo tappe di una disperata fuga dall'orrore.

(22 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 22, 2009, 12:16:44 pm »

Cassino, accusati del lancio di un masso che causò 1 morto e 5 feriti: assolti
 
   
 
 CASSINO (21 maggio) - Sono stati assolti con formula piena dalla Corte d'assise di Cassino, Gregorio Mattia e Agostino Mastrangeli, due giovani di Villa Santa Lucia accusati di omicidio volontario e tentato omicidio, aggravato da futili motivi, perché ritenuti responsabili del lancio sull'autostrada di un masso di 41 kg. Quel gesto causò un incidente nel quale perse la vita Natale Gioffré, operaio calabrese residente a Torino e rimasero ferite altre 5 persone, due in modo gravissimo.

Il masso fu lanciato da un cavalcavia dell'A1 all'altezza di Piumarola, frazione del Comune di Villa Santa Lucia, nella notte tra il 12 e 13 agosto 2005. Per Mattia e Mastrangeli la pubblica accusa, forte di un testimone oculare, aveva chiesto la pena del carcere a vita. Gli avvocati difensori, Daniele Bartolomucci e Marco Paliotta sostenevano l'estraneità ai fatti dei loro assistiti. La camera di Consiglio si era riunita alle 11 circa di stamattina e, dopo quasi cinque ore, il presidente Anna Maria De Santis ha letto la sentenza di assoluzione.

In aula era presente solo Gregorio Mattia. 
 

da ilmessaggero.it
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 02, 2009, 11:33:59 am »

La malese Manohara fugge e racconta in tv la sua odissea

"Mi tagliava parti del corpo con il rasoio". Come è scappata

Il sultano e la modella in fuga "Seviziata per un anno intero"

di RAIMONDO BULTRINI

 
 BANGKOK - Una storia d'amore da rotocalco, un giovane sultano ereditario del Kelantan malese che incontra un'attraente modella sedicenne considerata tra le "cento donne più preziose dell'Indonesia" e la sposa nell'agosto 2007 alla presenza delle più alte personalità della politica e dell'aristocrazia malese. Ma la realtà era un'altra. Dopo un anno di clausura e sevizie, la ragazza fugge dalla stretta sorveglianza del potente marito e delle sue bodyguard dentro l'ascensore di un grattacielo di Singapore monitorato da telecamere collegate alla polizia. Ed è così che finisce l'inquietante fiaba del moderno Barbablù asiatico, al secolo principe Tengku Temenggong Mohammad Fakhry, 31 anni, e di Manohara Odelia Pinot, che oggi ne ha 17, figlia di una donna indonesiana e di un imprenditore franco-americano che tentò inutilmente di opporsi al matrimonio.

La storia delle violenze subite dalla ragazza e dei suoi tentativi di fuga dalla reggia dell'isolata provincia nord orientale della Malesia circolava già da più di due mesi, sebbene gli annunci di querele e l'influenza della famiglia di lui (il padre Ismail Shah II è governatore del Kelantan e vanta una parentela con l'attuale premier malese) fossero riusciti finora a contenere lo scandalo. Ieri Manohara, "Colei che ruba il cuore", è ricomparsa però a Giakarta per raccontare in tv la drammatica vita di consorte-bambina chiusa in una stanza da letto regale e sorvegliata a vista da guardie armate, mentre il governo malese negava addirittura a sua madre Daisy il visto per visitarla ("sono fatti privati", aveva commentato un ministro di Kuala Lumpur).

"Abusi e violenze sessuali erano una specie di routine quotidiana, e (il principe) lo faceva ogni volta che rifiutavo di avere rapporti...", ha rivelato l'ex modella. A un cronista che le domandava se fossero vere le voci di numerose ferite al seno, un'intimidita Manohara ha ammesso anche questo dettaglio: "Sì, è vero, certe parti del mio corpo sono state tagliate con un rasoio".

La modella ha raccontato anche di iniezioni di potenti droghe ogni volta che tentava di scappare dalla reggia di Kota Bharu. Una sola volta Manohara era riuscita a fuggire e a raggiungere sua madre in Indonesia, ma venne rintracciata, rapita e riportata dal sadico consorte. Da allora usciva dal castello solo per partecipare a feste dell'alta società "con il sorriso stampato in volto - ha detto - per timore di ritorsioni violente".

Finalmente a fine maggio l'occasione propizia, durante un viaggio medico a Singapore con il marito e il suocero-Sultano. Manohara fugge in ascensore lasciando le guardie del corpo reali con un palmo di naso sotto gli occhi delle telecamere collegate alla polizia già preavvisata. "Ora spero che anche altre ragazze segregate nelle case degli aristocratici malesi possano liberasi come me".

(2 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #123 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:10:16 am »

cronaca

Strage, l’autista guidava da 44 giorni consecutivi: «Fogli ferie virtuali»

Il titolare dell’azienda padovana: «Nessun falso, così fan tutti e gli stessi camionisti ce lo chiedono»

L'8 agosto 2008, nell'A4 di Treviso un tir salta la corsia: sette i morti



CESSALTO (Treviso) - Quel tragico pomeriggio stava lavo­rando per il quarantaquattresi­mo giorno di fila. Perché i ripo­si certificati sul foglio ferie fir­mato dall’azienda, in realtà non li aveva mai goduti Ro­man Baran, il conducente del camion-killer che l’8 agosto dello scorso anno causò un’au­tentica strage sull’A4 a Cessal­to, provocando la morte di set­te persone fra cui lo stesso po­lacco. Ad ammetterlo l’altra se­ra ad Anno Zero è stato Arman­do Bizzotto, contitolare del­l’azienda di autotrasporti Bfc di Tombolo di cui il 48enne era dipendente. «Ma non era un falso e comunque lo fanno tutti», si giustifica ora l’im­prenditore.

Nella puntata di giovedì, il programma di Michele Santo­ro ha proposto il reportage «Corri bisonte corri!». Un’am­pia parte dello speciale è stata dedicata all’incidente per il quale sono attualmente inda­gati cinque rappresentanti del­l’azienda padovana e tre espo­nenti di Autovie Venete. Secon­do le consulenze disposte dal­la procura di Treviso, a deter­minare la brusca sterzata a sini­stra del tir sarebbe stato un guasto tecni­co, non un malore occor­so all’autista. Le testimo­nianze raccol­te dalla trou­pe di RaiDue gettano però un’ombra in­quietante sul­le condizioni di lavoro del camionista e dei suoi colle­ghi. A rivelarle sono stati alcu­ni ex dipendenti della Bfc, og­gi aderenti ai Cobas. Ha riferi­to uno: «Per quarantaquattro giorni Roman ha lavorato inin­terrottamente, senza mai un giorno totale di riposo». Ha commentato un altro: «È una cosa disumana». Ecco il rac­conto dei ritmi lavorativi: «Non avevamo tempo di respi­rare, non potevamo tornare a casa. Giorno e notte, ventiquat­tr’ore su ventiquattro. Qual­che momento di riposo buttati in cuccetta, ma poi basta. Ho viaggiato con Roman in Rus­sia, addirittura abbiamo ripara­to il suo camion una notte inte­ra, a meno venti-venticinque in centro a Mosca».

L’ultima chiacchierata con Baran prima della fatale partenza per la Rus­sia: «Ho detto: 'Dove stai an­dando?'. E lui: "Sto andando a Mosca, però non me la sento di andare. Guarda in che condi­zioni mi mandano via: con le gomme lesse. L’ho già detto che mi cambino le gomme, lo­ro non vogliono cambiarle. Fai un altro viaggio, mi hanno det­to". Tutto così». Ma è sui tem­pi di guida che i sindacalisti hanno lanciato le accuse più pesanti ai loro ex principali. Carte alla mano, i camionisti hanno mostrato le discrepan­ze tra i fogli ferie e le buste pa­ga di Baran e degli altri. Secondo questa denuncia, era prassi che gli autisti figu­rassero in vacanza in periodi in cui invece erano stati rego­larmente in servizio: nel caso di un controllo stradale, la sot­toscrizione del dipendente e della ditta avrebbe salvato en­trambi dalle sanzioni per lo sforamento del monte-ore.

«Ma questo è un falso materia­le », ha osservato l’inviato di Anno Zero. «No - ha replicato Bizzotto - questo è un escamo­tage che si faceva ancora pri­ma che entrassero in funzione i famosi cronotachigrafi digita­li ». E poi, zoppicando sui con­giuntivi, ma fermo sulla pro­pria posizione: «Se io mi sen­tissi in colpa, se io avessi pro­vocato delle forzature». E anco­ra: «L’autista è complice, ma non dell’orario di guida, è com­plice del tempo impiegato. La sicurezza è fatta sulle ore di guida. Quello che facciamo, d’accordo con l’autista, è di im­piegarlo più giorni in un me­se». All’indomani della trasmis­sione, l’imprenditore si difen­de: «Mi hanno massacrato, in­fangando senza un contraddit­torio noi e tutta la categoria. Ora ha in mano tutto il nostro avvocato, probabilmente de­nunceremo i nostri ex dipen­denti».

Bizzotto torna anche a sostenere la pratica dal foglio ferie «virtuale», per così dire: «È l’unico modo che abbiamo per poter lavorare, altrimenti non teniamo il ritmo della con­correnza. Ma non siamo certo gli unici. Quel documento non sarà ortodosso al cento per cento, ma non è un falso. Ma­gari su dieci giorni di ferie indi­cati, l’autista ne ha effettiva­mente goduti solo sette o otto. Ma quei due o tre che avanza, non glieli rubiamo mica: li fa­rà più avanti, accorpati ad al­tri. Sono gli stessi dipendenti a chiedercelo, perché in questo modo staccano per un periodo più lungo. Così come sono lo­ro a chiederci di fare più ore, se hanno bisogno di soldi».

Angela Pederiva
06 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #124 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:41:39 pm »

La figlia dell'avvocato porta l'attacco più duro nell'affaire dell'eredità del "signor Fiat".

Gabetti replica: risponderemo entro una settimana "Il tesoro nascosto dell'Avvocato"

La verità di Margherita Agnelli

di ETTORE BOFFANO e PAOLO GRISERI

 

TORINO - Ieri mattina, infatti, la figlia dell'Avvocato e le sue controparti, oltre a Gabetti anche l'avvocato Franzo Grande Stevens, il commercialista svizzero Siegfried Maron e la madre Marella Caracciolo, hanno depositato le memorie finali davanti al giudice del Tribunale civile di Torino Brunella Rosso.
(l'udienza decisiva è fissata per il 30 giugno). E se Gabetti e Grande Stevens ribadiscono di non aver mai amministrato i soldi dell'Avvocato, la vedova Agnelli ha prodotto copia di una citazione inoltrata alla giustizia elvetica nella quale chiede di dichiarare la validità della divisione ereditaria stipulata in Svizzera nel 2004 con la figlia.

Ma il vero colpo di scena emergerebbe dalle carte consegnate proprio da Margherita: la figlia di Gianni Agnelli, infatti, avrebbe quantificato per la prima volta ciò che, a suo dire, le sarebbe stato tenuto in buona parte nascosto. L'unica erede diretta dell'Avvocato non chiede quel denaro, ma conferma al giudice la sua istanza: quelli che lei considera i "gestori" degli averi del padre, Grande Stevens, Gabetti e Maron, devono consegnarle il rendiconto di tutto. Un gesto clamoroso e un'affermazione molto pesante che si spiegano solo col duro scontro giudiziario che ormai si è imposto nella causa civile cominciata due anni fa. A sostegno della sua posizione, Margherita indica una serie di documenti e le sofisticate operazioni finanziarie che costituiscono l'asse della sua tesi. Una vicenda che corre tra Svizzera, Liechtenstein, Lussemburgo, Usa e paradisi fiscali dei Caraibi. Un possibile "tesoro" estero che, a detta del gruppo di analisti internazionali ingaggiati per tre anni dalla figlia dell'Avvocato, avrebbe il suo fulcro in un'operazione finanziaria del 1998 celebrata all'epoca come una delle più importanti dal dopoguerra: l'Opa Exor.

"L'Opa pour rire". "Un'Opa per ridere" e dunque finta, secondo invece i consulenti di Margherita. Cerchiamo di spiegare i perché di questa tesi clamorosa. Nel 1996 Gianni Agnelli deve subire un delicato intervento al cuore a Montecarlo. e scrive un "memoriale" per indicare la successione alla guida della Famiglia e della Fiat: tocca al primogenito di Margherita, John Elkann. Superata l'operazione, l'Avvocato capisce che è necessaria una costruzione più accurata della questione ereditaria con l'obiettivo di attribuire al nipote la guida dell'accomandita di famiglia. Il problema più importante, sostengono i legali di Margherita, sarebbe però quello del "patrimonio" estero riconducibile a Gianni Agnelli. Somme ingenti, a detta della figlia, le cui tracce potrebbero essersi addirittura intersecate con i "fondi neri" Fiat emersi nel processo torinese contro Cesare Romiti sui falsi in bilancio.

Il "salvadanaio" del Lussemburgo. Nella ricostruzione degli analisti dell'erede Agnelli, tutto sarebbe accaduto nel Granducato dov'era quotata la società "Exor Group". In realtà essa esisteva dal 1966 (ma aveva un altro nome) come filiale dell'Ifi ed era stata creata da Gianni Agnelli e dal cugino Giovanni Nasi. Col trascorrere dei decenni, però, la partecipazione dell'Ifi e dell'accomandita di famiglia, la "Giovanni Agnelli Sapaz", diminuisce costantemente, sino a rappresentare all'inizio del 1998 solo il 19,74 per cento, mentre oltre il 60 per cento è in mano ad "azionisti anonimi" rappresentati nelle assemblee da fiduciari. Al momento della fondazione, Exor Group ha un capitale di mille dollari, ma esso crescerà con dodici aumenti sino a consentire la quotazione nella Borsa del Lussemburgo per usufruire dei benefici fiscali di una legge del 1929. La società lussemburghese è strategica nel Gruppo Agnelli-Fiat e ha distribuito dividendi anche dieci volte superiori a quelli delle finanziarie italiane, Ifi e Ifil: dal 1974 al 2002, infatti, Exor assicura un miliardo e 808 milioni di euro a fronte di 215 milioni di euro da parte delle finanziarie italiane. Quanto alla quotazione in borsa essa appare, a detta degli analisti, "flebile": il flottante resterà sempre inferiore all'1 per cento.

Questioni di fisco. Nel 1998 Exor è ricchissima grazie alle numerose filiali negli Stati Uniti e in Asia. Al 31 dicembre 1997 il patrimonio netto è di 737 milioni di euro, ma il consolidato è di due miliardi e 286 milioni. A questo punto, nello scenario dei consulenti, la società mette in vendita le filiali creando un maxidividendo pari a un miliardo e 750 milioni di euro sul quale i soci italiani (sia ufficiali che anonimi) dovrebbero poi versare al nostro fisco somme molto elevate. Secondo la consulenza, chi comandava davvero in Exor avrebbe allora deciso di trasformare quei dividendi in plusvalenze pagabili all'estero e non tassabili. Si tratterebbe di "un'operazione geniale": la famosa Opa lanciata ufficialmente dalla "Giovanni Agnelli e Sapaz" il 10 novembre 1998 per 2600 miliardi di lire.

L'amico americano. In realtà l'accomandita fonda, sempre in Lussemburgo, una nuova società. È il 12 novembre e la chiama "Giovanni Agnelli & C. International". Sarà quest'ultima a lanciare ufficialmente l'Opa (il prospetto è di 15 pagine e l'offerta va dal 21 dicembre 1998 al 15 gennaio 1999) su tutte le azioni di Exor escluse quelle detenute dall'Ifi, dall'accomandita di famiglia e da Sopraexo (della famiglia Mentzelopoulos): tutti i titoli degli azionisti anonimi. Per farlo, però, la nuova società chiede un prestito di 1,3 miliardi di dollari alla Chase Manatthan Bank controllata da un grande amico di Agnelli e Gabetti: David Rockefeller. Il prestito è subito concesso, nonostante un capitale sociale di 16 milioni di dollari. L'Opa ha un effetto immediato tra gli azionisti sconosciuti: i titoli acquistati ammontano a un totale di un miliardo 364 milioni 474.680 dollari finiti nelle casse degli "anonimi" i quali, da quel momento, escono per sempre da Exor Group. Il 21 giugno, la stessa Exor delibera il futuro pagamento del maxidividendo da un miliardo 526 milioni 915.745 dollari e il 30 giugno assorbe la sua azionista, la "Giovanni Agnelli & C. International", che sparisce. A questo punto, Exor delibera infine di saldare il debito con la banca di Rockefeller (debito che ha "eredidato" dalla società scomparsa) e lo fa utilizzando proprio il denaro del maxidividendo. Al termine dell'operazione, Ifi e accomandita controllano assieme l'84,79% della società lussemburghese (che nel frattempo è uscita dalla Borsa) anche se nessuna delle società italiane coinvolte ha dichiarato di aver ricevuto un reddito dall'Opa. Gli "anonimi", invece, avrebbero lasciato Exor portando con sé un miliardo e trecento milioni di dollari.

Il "sancta sanctorum". Ma chi sono i "soci anonimi" che hanno rotto il "salvadanaio lussemburghese"? Qui sta il perno della tesi di Margherita Agnelli. I fiduciari in realtà avrebbero rappresentato, secondo quel che dice la consulenza, quasi sempre una sola persona: Gianni Agnelli. In altre parole, il lento declino azionario di Ifi e dell'accomandita dal 100 per cento di Exor del 1966 sino al 19,74 per cento del 1998 avrebbe avuto un contraltare "riservato": chi comprava le azioni da altri membri della Famiglia sarebbero stati lo stesso Avvocato o dei suoi fiduciari. Ma in quale percentuale? Gli analisti hanno varato due ipotesi: da un minimo del 33% (in questo caso Agnelli avrebbe ricavato un miliardo 44 milioni 54.418 euro dall'Opa del 1998) a un massimo del 100 per cento (pari a 2 miliardi 514 milioni 675.897 euro). Nell'ipotesi mediana (il 50 per cento), quell'accumulazione di capitale all'estero ammonterebbe a un miliardo 463 milioni 243.000 euro: proprio quest'ultima è quella prospettata al Tribunale. Dal 1999 il denaro sarebbe poi transitato su una decina di trust offshore già indicati da Margherita Agnelli nella citazione a giudizio del 2007.

La risposta di Exor. Gianluigi Gabetti, interpellato ieri da "Repubblica", ha scelto di non replicare: "Non ho ancora visto le carte - ha detto - Le stanno valutando i miei legali e ci vorrà almeno una settimana. Per ora non com-mento".

(11 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #125 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:37:39 pm »

L’operazione aveva provocato danni su tutto il corpo

Stacca la spina alla moglie dopo la liposuzione

L’ex capitano della Scozia decide di far morire la donna al termine di un calvario durato 7 anni


MILANO — Il capitano Hendry ancora una volta si è comportato da capitano. Si è assunto la responsabilità di far spegnere la macchina che teneva in vita sua moglie Denise.

È la storia che commuove tutta la Gran Bretagna quella di Colin e Denise Hendry, sposati da oltre vent’anni. Lui, 43 anni, leggenda del calcio scozzese, ex capitano della nazionale ai mondiali di Francia ’98, una lunga carriera da ruvido difensore nella Premier League inglese con le maglie del Blackburn Rovers e del Manchester City. Lei, 42 anni, madre di quattro figli, l’esatto contrario dello stereotipo della compagna di una star del football.

Denise Hendry con i 4 figli (Daily Mail e Paul Lewis)
Denise Hendry ha iniziato a morire sette anni fa quando decise di sottoporsi, dopo la quarta gravidanza, ad un intervento di liposuzione per ridurre l’addome e riconquistare la silhouette perduta. «Voleva tornare ad indossare i suoi bikini preferiti», ricordava nei giorni scorsi il marito. Doveva essere un’operazione di routine, oltretutto eseguita da un mago della chirurgia estetica, lo svedese Gustav Aniansson, in seguito espulso dall’ordine dei medici britannico dopo aver pagato 300 mila sterline (350 mila euro) alla famiglia Hendry a titolo di risarcimento. Invece, quella liposuzione si è trasformata in un incubo: danni irreversibili all’intestino e al colon, setticemia e il cuore che, dopo l’intervento, per quattro minuti aveva smesso di battere.

Da allora, Mrs. Hendry si è sottoposta a una ventina di operazioni per riparare i danni causati da quella maledetta liposuzione del 2002. L’ultimo intervento per ricostruire l’addome, durato ben 16 ore, in maggio presso il Salford Royal Hospital di Manchester. L’ennesimo errore dei medici, o forse solo sfortuna: sotto i ferri la donna ha contratto la meningite cadendo nuovamente in coma (il legale degli Hendry sta valutando l’opportunità di far causa all’ospedale).

Fino a settimana scorsa, sia il marito Colin che i figli (Rheagan di 19 anni, Kyle di 18, Calum di 10 e Niamh di 9), avevano rifiutato l’ipotesi di staccare la spina alla macchina che teneva in vita, da sei settimane, Denise. «Ha mostrato qualche segno di miglioramento, è una grande combattente. Io e i miei figli non ci arrendiamo, la speranza è che riprenda conoscenza », diceva ai giornali inglesi l’ex capitano della nazionale scozzese.

La coppia Colin e Denise Hendry. (Daily Mail e Paul Lewis)
Poi, le speranze si sono affievolite fino ad azzerarsi del tutto. E quando i medici del Salford Royal Hospital hanno rinnovato a Colin Hendry la possibilità di mettere fine ai tormenti della sua amata Denise, il capitano ha detto di sì. «Non ci sono parole per descrivere il nostro dolore», sono state le uniche parole dell’ex calciatore. Durante le ultime sei settimane lui e i suoi figli maggiori passavano tutto il tempo al capezzale di Denise: «Il mio più grande rimpianto è che i miei fratelli minori non hanno alcun ricordo della mamma prima della malattia—ha detto in lacrime Rheagan, il più grande dei quattro —. Lei non era la tipica moglie del calciatore, viveva solo per la nostra famiglia».

La storia di Colin e Denise ha fatto scalpore anche per l’atteggiamento della coppia verso la vita e nei confronti di chi gliel’ha rovinata, come il chirurgo estetico Aniansson. «Sarebbe facile guardare indietro e dire che vorremmo che Denise non si fosse mai affidata a quel dottore—spiegava qualche giorno fa l’ex calciatore al quotidiano Daily Telegraph —, ma è successo e dobbiamo vivere facendo i conti con la negligenza del medico ».

Roberto Rizzo
12 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #126 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:23:57 pm »

L'Aquila, al via lo smantellamento del campo di piazza d'Armi

"Vi sembra giusto dopo 5 mesi di tenda finire in una camerata?"

La tendopoli chiude l'ira degli sfollati


L'AQUILA - La notizia rimbalza di tenda in tenda. "Ci mandano via, ci deportano come gli ebrei". C'è paura, nella tendopoli di piazza d'Armi. "Per ora - raccontano alcuni sfollati in attesa del pranzo in mensa - non ci sono conferme ufficiali, solo annunci di prossime riunioni. Ma noi sfollati abbiamo già capito che qui stanno smobilitando tutto. Ci sono già i primi segnali: hanno smontato alcuni bagni e lavandini e altri servizi. E poi - ecco un altro segnale - sono arrivate le televisioni, come se sapessero che sta per succedere qualcosa. In tenda si sta male ma fuori si può stare peggio. C'è già chi minaccia di incatenarsi da qualche parte per non farsi deportare. Le voci sono tante. "Ci portano nella caserma della Guardia di Finanza, quella del G8". "Ci faranno entrare a forza nelle nostre case anche se ancora le scosse non si sono fermate".
Dopo cinque mesi di tenda dovremo finire nelle camerate di una caserma?".

La conferma arriva dopo pochi minuti. "Parte oggi pomeriggio - annuncia Guido Bertolaso, il capo della Protezione civile - lo smantellamento delle tendopoli dell'Aquila.
Si comincia con piazza d'Armi. Non sarà un intervento drastico ma un alleggerimento progressivo fino allo smontaggio definitivo".

E dove andranno gli ex ospiti? Bertolaso si mostra sicuro. "Ci hanno chiesto di dare un tetto agli aquilani e così stiamo facendo. I 18.000 aquilani che hanno avuto la casa inagibile saranno sistemati nelle nuove case antisismiche mentre il resto degli sfollati - le cui abitazioni richiedono interventi minori - sarà ospitato nei residence, negli alberghi e anche negli alloggi della Guardia di Finanza".

Per quanto riguarda i tempi dei lavori per la costruzione delle abitazioni antisismiche, il sottosegretario ribadisce che "a dispetto delle critiche siamo nel rispetto dei programmi". E aggiunge: "A L'Aquila ci sono ottomila operai che lavorano, giorno e notte, per cinquanta imprese in 45 cantieri dove si stanno costruendo case, moduli abitativi e scuole, che inizieranno regolarmente il 21 settembre. Dunque - conclude - a quelli che dicono che l'Aquila è ferma rispondo che oggi L'Aquila è il più grande cantiere d'Italia, dove si rispettano tutte le norme di sicurezza sul lavoro".

Solo Bertolaso comunque si mostra sicuro. Il sindaco Massimo Cialente e la presidente della Provincia Stefania Pezzopane denunciano che le case non basteranno per tutti e le famiglie che non avranno un tetto non potranno nemmeno mandare a scuola i loro figli. Fra coloro che hanno la casa agibile molti non sono rientrati perché le scosse continuano a fare paura.

Chi ha l'abitazione B o C, che necessita di "piccoli interventi", ha scoperto che per i lavori servono ancora molti mesi. Per tanti l'unica prospettiva è un hotel sulla costa fino alla prossima primavera.

(3 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #127 inserito:: Settembre 06, 2009, 10:36:36 pm »

La strategia

Ghedini: il Cavaliere spiegherà che non è impotente

Il legale di Berlusconi: la controparte dimostri il contrario. Frasi che offendono, per questo vogliamo andare in Tribunale


ROMA — «Senta, scusi: ma se io ora dicessi che lei è un gran porco? Eh? Un gran porco e, per giunta, impotente? E lo dicessi a tutti gli italiani? Mi risponda sinceramente: si arrabbierebbe o no?».

Avvocato Ghedini, è libero di dire ciò che vuole. Per altro, io sono un cronista del Corriere, non sono il premier di questo Paese.
«Guardi, mi creda: stavolta ci siamo mossi per una pura questione di principio. Un giornale, vale a dire l'Unità, non può scrivere che una persona è impotente, è un maiale, senza aspettarsi che poi la persona accusata si dispiaccia, e reagisca».
(Niccolò Ghedini, deputato della Repubblica per il Pdl e avvocato personale di Silvio Berlusconi è, come sempre, rapido, con soprassalti di insospettabile ironia).

Va bene, lei dice che chiedete due milioni di risarcimento danni all'Unità per una questione di principio: solo che ora tutti, e non solo noi, ma anche Libero e il Giornale, siamo qui, ancora costretti a parlare di certi presunti problemi sessuali del Cavaliere. «È stata l'Unità a tirar fuori i problemi di erezione di Berlusconi».

Ma perché, ce li ha? «Cosaaa? Scherza?».

Comunque, l'opinione pubblica, tornata dalle vacanze, quasi se ne era dimenticata. Ora invece con la vostra azione legale... «L'Unità ha passato il limite. L'avvocato Fabio Lepri, citando gli articoli, è piuttosto preciso...».

Molto. Riportando il contenuto di alcuni articoli scrive che «si spazia da "rapporti anali non graditi", a "ore e ore di tormenti in attesa di una erezione che non fa capolino"». «Sì, sono queste alcune delle frasi che offendono il premier».

Avvocato, scusi la brutalità: ma in aula il punto sarà fisico, e non politico. «Può essere più chiaro?».

Bisognerà accertare se Berlusconi è potente, come lui lascia intendere quasi ad ogni comizio, o impotente. «Ho capito. Vuol sapere se noi dovremo fornire prove? No, noi assolutamente no. La controparte, semmai, se crede...».

Ci sono così tante ragazze che dicono di aver frequentato Villa Certosa e Palazzo Grazioli... «Vedremo. Vedremo in aula cosa riusciranno a dimostrare».

In aula ci sarà Berlusconi? «Se il giudice lo riterrà opportuno, sì. Il rito civile, di fatto, non impone la sua presenza».

Ma poniamo che il giudice voglia ascoltarlo: Berlusconi dovrà spiegare se, davvero, come scritto dal direttore dell'Unità, Concita De Gregorio, che riporta una frase della comica Luciana Littizzetto, «egli pratichi iniezioni nel corpo cavernoso che trasformano in una stecca da biliardo...». «Vedo che anche lei è piuttosto affascinato da queste immaginarie iniezioni sul... eh?».

Su questo argomento avete chiesto due milioni di euro di danni a un giornale. Un po' di curiosità, ammetterà, è legittima. «Mah... comunque, se è questo che vuol sapere, Berlusconi è pronto ad andare in aula a spiegare che non solo non è un gran porco, ma nemmeno impotente».

Va bene, ha risposto a tutte le domande. Ma io, se permette, insisto: davvero è convinto che questa citazione per danni sia stata una buona mossa? «Vede, non tutto è frutto di astuzia politica. Ci sono anche mosse dettate dal puntiglio, dall'orgoglio. E perché mai, mi risponda lei, allora, perché mai Berlusconi non dovrebbe poter spiegare a venti milioni di italiani, suoi affezionati elettori, che è perfettamente funzionante?».

Fabrizio Roncone
04 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #128 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:42:41 pm »

Nazisti per sempre

di Paolo Tessadri


Grazie alle indagini di un pm si apre a Verona il processo contro 14 responsabili di efferati crimini nel 1944.

Sono tedeschi che non si sono mai pentiti
 

Allora erano ventenni, con l'uniforme del Terzo Reich e l'ordine di fare terra bruciata. Ora sono diventati vecchi, ma non si pentono di avere massacrato la popolazione di interi paesi sui monti tra Toscana ed Emilia. Ne parlano al telefono, senza rimorsi. "Anche le donne? Anche i bambini?". "Sì". "Non avete quindi fatto alcuna differenza: avete falciato tutto?". "Sì". L'importante è che questa storia resti sepolta, che i magistrati tedeschi e italiani finiscano di dargli la caccia: "Io ho sempre negato: ho fatto lo gnorri e non mi veniva nemmeno difficile. Anche se avessi riconosciuto qualcuno... Lo sai com'era da noi: non avevamo sempre le mani pulite e non posso certo tradire i camerati". E l'altro veterano delle stragi ride: "Certo che no. Però noi due sappiamo quello che succedeva...". "Sì. Dopo la guerra non volevo ricordare niente: l'ho rimosso fino a ora e continuerò a rimuoverlo. Sono passati tanti anni e mi sono rotto le scatole".

Queste conversazioni sono un documento unico. A parlare sono 14 dei militari che nella primavera del 1944 massacrarono la popolazione dei borghi di Monchio, Cervarolo e Vallucciole sull'Appennino tosco-emiliano uccidendo 360 persone, incluse - come ricordano serenamente - donne e bambini. Non fu una rappresaglia, non fu una vendetta per gli attacchi dei partigiani, ma un'operazione preventiva per rendere sicure le retrovie della linea gotica. I fucilatori appartenevano a un'unità molto speciale, la divisione Hermann Göring, che già prima dell'armistizio si era distinta per i crimini contro la popolazione. Ora i superstiti di quella macchina di morte finiranno sotto processo il 5 ottobre a Verona, rintracciati grazie alle indagini del pm Marco De Paolis che ha condotto le più importanti istruttorie sugli eccidi nazisti in Italia. In questo caso determinante è stata la collaborazione con gli investigatori tedeschi, che con perquisizioni e intercettazioni hanno smantellato la rete difensiva degli imputati.

A tradirli è stato proprio il loro attaccamento alla memoria dei giorni di battaglia. In casa di Alfred Lühmann, all'epoca giovane caporale, è stato trovato il diario di guerra, con l'attività di ogni singola compagnia coinvolta negli eccidi. Herbeck Döneke al telefono gli aveva raccomandato invano: "Per carità, nascondilo". E Horst Gabriel, un altro dei vecchietti impenitenti, si infuria: "Ma sei matto? Glieli hai fatti vedere! Io ho sempre detto "non lo conosco, mai visto" anche se c'erano alcuni volti conosciuti. Ma io ho sempre negato...".

C'è chi. come Lühmann, racconta ai camerati di essere tornato in vacanza proprio sui luoghi dello sterminio. E poche ore dopo mente anche ai propri famigliari. Al figlio che gli domanda: "C'è differenza tra sparare a partigiani o a civili", lui risponde che era solo un soldato e ha sparato "solo a partigiani che erano fuggiti nella valli laterali". Invece ricorda bene, sa "che si sono verificate altre atrocità". E Schulze-Rohnoff gli consiglia: "Eviterei quindi del tutto di parlarne". Mentre a un altro camerata Lühmann riferisce che al procuratore non ha detto nulla, nemmeno di quel sottufficiale che ha sparato in testa a una o più donne. "Lo sai quello... Quello, lo conosci no, quello che ha sparato in testa alle donne. Io ricordo ancora, come si chiamava?", gli chiede Horst Gabriel. E Lühmann: "Sì, sottufficiale Hausmann, mi pare". Poi racconta un massacro "in cui alcuni bambini sono sopravvissuti". Si lasciano andare alle confidenze sui giorni di guerra. "Sì, sì, non ci siamo tenuti per niente indietro", ricorda Gabriel a Lühmann. Che risponde: "Certo, lì ci abbiamo dato dentro... Ma se vengo interrogato dirò che non ricordo nulla".

"Neppure oggi c'è un pur pavido rimorso", spiega l'avvocato di parte civile Ernesto D'Andrea. È un orrore senza limiti, che ogni tanto viene squarciato proprio dall'eccesso di nostalgia. Come Wolfgang Bach, ex ufficiale che ha scritto un memoriale sulla divisione Göring, finito sui giornali e usato per identificare i responsabili dei massacri. I suoi camerati lo insultano: "Quelli da dove l'hanno saputo? Eh certo, dal comportamento da minchione di Bach!", si sfoga Lotz: "Sono talmente arrabbiato: ci hai messo nella merda, accidenti! A questo punto, Wolfgang, devo dire: stai attento! Nell'azione verso monte Falterona sono stati uccisi anche bambini, anche un neonato di tre mesi. L'omicidio non è caduto in prescrizione". E invita Bach a tacere: "Lì sono capitate quelle cose con il neonato di tre mesi, eccetera e Wolfgang... Tu lì non ci sei stato, non ci sei stato per niente". Lotz cerca di convincere Bach a negare qualsiasi partecipazione, scrive la polizia tedesca, e a dire che in quelle azioni non erano presenti bambini. I depistaggi sono stati sistematici. "Devono aver ripulito ben bene. Non riesco nemmeno a immaginare...", commenta Bach. E Lotz conferma: "È andata davvero così, ma di questo ne parliamo più tardi".

L'episodio si riferisce con molta probabilità alla strage di Vallucciole dove un anziano ha raccontato che "i tedeschi non risparmiarono neppure una donna con il suo bambino appena nato che stava allattando. Erano spietati, delle belve assetate di sangue". Wolfgang Bach non sarà in tribunale: è morto da poco. A impartire la consegna del silenzio è stato soprattutto Lotz, ex ufficiale del comando e presidente dell'Associazione del corpo dei paracadutisti. Al telefono ammette che la morte del neonato "è stata veramente un porcheria. Lì di reazioni esagerate ce ne sono state e alcuni camerati mi hanno detto apertamente come hanno operato: ahiahiahiahi!". La polizia tedesca sintetizza i suoi discorsi: "Lotz conferma che per un comandante di compagnia non vi sarebbe stata nessun'altra possibilità che "distruggere alla radice" un simile covo. Non sarebbe stato possibile dividere prima le donne e i bambini dagli uomini". Anzi, i bambini erano un bersaglio: "All'epoca egli avrebbe avvertito di continuo di "stare attenti ai bambini. Sono i più pericolosi poiché non sembravano strumenti dei partigiani, maledetti italiani!".

Lotz invita gli altri reduci a tacere o mentire. E se necessario può aiutarli finanziariamente nella scelta di un avvocato: "Ma per l'amor di Dio chiudete la bocca così che né io né i camerati andiamo a finire nel fango", ripete a tutti. Il vecchio combattente nazista ha però paura dei magistrati e si fa fare un certificato medico per sfuggire all'interrogatorio. Telefona a un medico compiacente "che da buon camerata ancora una volta sarebbe stato al suo fianco", scrive la polizia federale. Poi parla con la figlia a cui legge il certificato e alla fine "entrambi ridono": "Tanto il procuratore è uno stupido". Ma la rete di connivenze di Lotz è estesa. Arriva anche in alto: "Ho appena parlato con quel procuratore generale importante di qui, che dice naturalmente: "Come si può fare una cosa del genere a un ottantottenne! Deve presentare un certificato medico, dire che non è in grado di subire interrogatori". Anche se le sue stragi se le ricorda ancora molto bene.

(08 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #129 inserito:: Settembre 19, 2009, 06:35:06 pm »

19/9/2009 (7:26)  - LA TESTIMONIANZA

"Gli stavo parlando, poi solo sangue"

Il racconto choc del caporale ferito: «Ho visto l’inferno con i miei occhi»

FULVIO MILONE
ROMA


«Mi sono ritrovato fra le braccia il corpo di un compagno con cui avevo parlato fino a qualche istante prima. Non aveva più la testa. “Adesso muoio anch’io”, ho pensato quando ho visto tutto il sangue che mi scorreva addosso: c’è voluto un po’ perché capissi che non era mio, ma di quel poveraccio. E mi sono detto: “Ecco l’inferno”».

Ecco Kabul, alle 12,10 di giovedì, sulla Airport road che porta al centro della città. In uno dei due «Lince» italiani saltati in aria c’era anche Ferdinando Buono, 30 anni, primo caporalmaggiore della «Folgore». Gli è andata bene, l’onda d’urto provocata da 150 chili di tritolo fatti esplodere dai talebani ha ucciso sei suoi commilitoni, ma ha solo lambito lui e altri tre soldati. Se l’è cavata con una brutta ferita a una mano e un trauma al timpano sinistro. L’hanno portato con gli altri all’ospedale militare francese, e da lì ha telefonato a casa, a Napoli, al fratello Vincenzo, per dirgli del fumo nero e dell’odore insopportabile che stagnavano sulla strada, dei corpi riversi sul selciato in pose innaturali e di un blindato, quello che precedeva il suo, «squagliato dal calore». In fondo non ha fatto altro che raccontare l’orrore della guerra che infiamma l’Afghanistan: un conflitto che nel linguaggio freddo degli esperti è definito «a bassa intensità» per il numero esiguo di vittime contate fra i militari, ma che nulla toglie al dolore di chi, di quelle vittime, era amico o parente.

Ferdinando conosceva bene Roberto Valente, uno dei sei militari uccisi: anche lui un parà, anche lui napoletano. Il suo racconto comincia proprio dal ricordo di quella amicizia. Erano tornati insieme a casa per una licenza di 15 giorni, e insieme sono andati all’aeroporto di Fiumicino, mercoledì mattina, per rientrare a Kabul. Giovedì, il giorno della strage, si trovavano entrambi nei “Lince” che avevano appena superato la rotonda Massud ed erano diretti al comando della missione Nato. «Roberto si trovava nel primo blindato, io nel secondo - ha raccontato Ferdinando -. La tensione era alle stelle, l’allarme massimo. Come sempre, da settimane, questi viaggi sono diventati delle lotterie: se vinci sopravvivi, se perdi muori. Insomma, ogni volta stai lì a chiederti se tornerai o no alla base».

E la morte, questa volta, Ferdinando l’ha davvero sfiorata: ne ha sentito l’odore, l’ha vista portarsi via i suoi amici. «Ricordo che l’autobomba era ferma sul ciglio della strada ed è esplosa al passaggio del primo “Lince”, quello su cui viaggiava Roberto. Il botto è stato spaventoso. Era come se una mano gigantesca avesse sollevato il blindato per poi lasciarlo ricadere pesantemente al suolo. Per qualche attimo è calato il silenzio. Non capivo più nulla, mi sono ripreso solo quando qualcosa mi è caduta addosso. Era il corpo del mitragliere che si trovava allo scoperto in ralla (torretta, ndr). L’esplosione l’aveva decapitato». Ferdinando Buono non ne fa il nome, ma probabilmente si tratta di Giandomenico Pistonami, 28 anni, un parà che appena un mese fa, a un giornalista di un settimanale, aveva rilasciato un’intervista che a leggerla oggi dà i brividi: «Il mio, qui a Kabul, è il ruolo più importante della pattuglia, ho più campo visivo e uditivo, con un gesto posso fermare le auto che passano...».

Ferdinando prosegue nel suo racconto: «Sentivo i lamenti dei compagni feriti. Dovevamo uscire al più presto da quella trappola d’acciaio che minacciava di andare a fuoco. Ho trovato a tentoni la botola sul pianale del blindato e sono sgattaiolato all’esterno. Quando mi sono alzato ho visto che la strada era completamente devastata, poi ho visto il “Lince” che mi precedeva: era quasi disintegrato, quel po’ di lamiere che si potevano ancora distinguere erano accartocciate, come liquefatte dal calore».

E’ stato allora che Ferdinando ha visto il suo amico Roberto: «L’esplosione l’aveva catapultato fuori dal mezzo. A guardarlo sembrava ancora vivo: sul corpo non c’erano ferite evidenti, solo un braccio aveva una posizione strana, come fosse fratturato. Allora l’ho chiamato: “Roberto, Roberto”, ma lui non rispondeva. Gli sono andato vicino, ho tentato di sollevarlo, ma il corpo era come afflosciato. Allora ho capito che il mio amico non c’era più».

Del resto della storia fanno parte i ricordi di una bella amicizia. Sia Ferdinando che Roberto avrebbero concluso il loro lavoro a fine ottobre. Roberto aveva deciso di farla finita con le missioni all’estero, voleva vivere accanto alla moglie e al figlio; Ferdinando avrebbe atteso una nuova partenza perché, come dice il fratello Vincenzo, «per lui la Folgore è tutto».
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« Risposta #130 inserito:: Settembre 21, 2009, 04:09:21 pm »

21/9/2009 - OMICIDIO GHIGLIENO

Fantasmi di Killer a Torino
   
CESARE MARTINETTI


Trent’anni fa un commando di Prima linea uccise sparandogli alle spalle Carlo Ghiglieno: ingegnere, un uomo mite, un dirigente sconosciuto ma strategico nell’universo Fiat. L’attentato segnò una svolta negli anni di piombo e nelle relazioni industriali tra la grande azienda e il sindacato.

Piovigginava, quel mattino. L'aria era grigia. Nell'ultimo tratto di via Petrarca chiusa da una volante blu della polizia, il silenzio era di piombo. A pochi passi da corso Massimo una grande macchia bianca appariva sull'asfalto umido, un lenzuolo copriva, non interamente, un corpo. Accanto, una borsa di pelle e un ombrello. Tutti si muovevano lentamente, là intorno. Poliziotti, passanti, giornalisti, fotografi. Il sindaco Novelli, il presidente della Regione Viglione. Una donna composta e silenziosa, che a un certo punto si è quasi inginocchiata accanto a quel corpo portandosi una mano sulla bocca. Nessun grido. Era come se l'enormità della ferocia che si era manifestata improvvisa in quell'angolo composto di città avesse risucchiato tutto in un grande vuoto.

Capitava così, allora, a Torino. Quasi sempre di mattino, spesso all'alba. I testimoni raccontavano ogni volta la stessa scena: erano giovani, si sono sentiti quattro cinque colpi secchi, sono scappati di là, correvano... Per terra, su strade quasi sempre di periferia o sui marciapiedi accanto alle grandi fabbriche rimanevano rivoli di sangue e lenzuoli bianchi. Fantasmi i killer, fantasmi anche le vittime: persone normali, un vecchio avvocato, capisquadra o sorveglianti Fiat, poliziotti, carabinieri, dirigenti industriali, politici di seconda fila improvvisamente e spesso casualmente eletti a bersagli inermi e simbolici da quegli altri fantasmi, vili e spietati.

Anche Carlo Ghiglieno era una di quelle persone normali. Un ingegnere che aveva appreso una moderna cultura industriale alla scuola di Adriano Olivetti e che in Fiat svolgeva un ruolo importante e sconosciuto. Un uomo del dialogo, come tutte le vittime del terrorismo. Il suo omicidio, rivendicato da Prima linea, fu un punto di svolta. I funerali, nella chiesa del Sacro Cuore in via Nizza, furono un altro momento simbolico. C'era tutto lo Stato: dal presidente Pertini al presidente del Consiglio Cossiga, buona parte del governo, il mondo dell'industria, i capi del sindacato, i segretari dei partiti, Giovanni e Umberto Agnelli, Romiti, dirigenti come Ghiglieno che avevano lavorato con lui e che avevano sentito quelle pallottole fischiare da vicino.

Pochi giorni dopo partivano le lettere di licenziamento per 61 operai Fiat, alcuni dei quali - si seppe dopo - erano militanti delle Br: l'equilibrio della paura era saltato. La caduta di rappresentanza del sindacato dei consigli che aveva trasformato gli Anni Settanta in un autunno caldo permanente si sarebbe rivelata di lì a poco di fronte alla crisi dell'auto e della Fiat. E per uno di quei casi che diventano simbolici anch'essi, un anno dopo, la marcia dei quarantamila sarebbe partita a pochi metri da quel tratto di via Petrarca, dove tre giovani assassini avevano spento la vita mite di Carlo Ghiglieno.

da lastampa.it
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« Risposta #131 inserito:: Settembre 22, 2009, 11:09:47 am »

22/9/2009


Tutti colpevoli Mosley in testa
   
CRISTIANO CHIAVEGATO


Flavio Briatore esce distrutto dal crashgate, ma in questa vicenda non sembra che anche gli altri protagonisti se la siano cavata meglio. Partiamo dalla testa: Max Mosley. Sapeva da tempo dei dubbi sull’incidente di Piquet. Ha temporeggiato, ha cavalcato la storia per attuare una vendetta meditata da tempo. Astuto ma anche dotato di una bella faccia di bronzo. Dopo aver superato con troppa disinvoltura lo scandalo dell’orgia sadomaso, dopo gli assurdi diktat sui regolamenti, ha dato un altro bel colpo alla credibilità della F1. Le decisioni del Consiglio Mondiale sembra essere la somma di una serie di compromessi, di giochi d’interesse personali.

Anche il suo amico-(finto)nemico Bernie Ecclestone ha avuto la sua parte. Il boss del circus non voleva che la Renault venisse cacciata: ha pensato soprattutto ai quattrini. Briatore avrebbe dovuto discutere con lui la questione dei diritti commerciali e televisivi, ora chiunque sostituirà il manager italiano non avrà lo stesso potere. Non ha difeso quello che è il suo socio nella proprietà della squadra di calcio dei Queens Park Rangers, mostrando tutto il cinismo possibile. Quando Piquet padre gli aveva chiesto cosa avrebbe dovuto fare contro Flavio, gli rispose senza mezzi termini: «Fottilo».

In realtà il tre volte campione del mondo brasiliano degli anni Ottanta, ora imprenditore di successo, rivelando la confessione di suo figlio a un giornalista di Rede Globo ha affossato la carriera del figlio. Voleva difenderlo e cercare di colpire Briatore. Alla fine però ha tolto a Nelsinho la possibilità di tornare in F1. Chi vorrà un pilota che accetta comportamenti illeciti? A meno che non si tratti del proprietario di una scuderia che voglia farsi pubblicità ingaggiando un driver così chiacchierato e quindi interessante per i media.

Il povero Nelsinho, 24 anni, cocco di papà che lo ha fatto sempre gareggiare in team di proprietà o sponsorizzati da amici, è stato l’anello debole della catena. Con 17 incidenti in meno di due stagioni voleva il rinnovo del contratto per il 2009. E così, a quanto pare, ha accettato la proposta di Symonds e Briatore. Poteva ribellarsi allora. E’ anche lui il simbolo di uno sport che ha toccato il fondo, in attesa del prossimo scandalo.

da lastampa.it
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« Risposta #132 inserito:: Ottobre 02, 2009, 11:04:51 pm »

Bertolaso: «dissesto idrogeologico causato dall'abusivismo»

Frane e crolli nel Messinese, 20 morti

Il governo dichiara lo stato d'emergenza

Una decina i dispersi. Molti comuni isolati, interrotte strade e ferrovia

   
MILANO - Sicilia orientale devastata da un violento nubifragio: diciotto vittime (ma altri due cadaveri sono già stati avvistati in mare), una quarantina di feriti e dieci dispersi nella provincia di Messina. Il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato d'emergenza. La zona più colpita da frane e smottamenti è tra i comuni di Scaletta Marina, Giampilieri, Briga e Scaletta Zanchea: un'area di circa 3,5 chilometri. La situazione più grave a Giampilieri Superiore, frazione a circa 20 chilometri dal capoluogo, dove un costone roccioso ha travolto alcune palazzine. Qui due donne sono state estratte vive dalle macerie di due palazzine. Le due ferite sono state portate in elicottero in ospedale. L'elicottero è per il momento l'unico mezzo in grado di raggiungere il piccolo centro, su cui peraltro sta nuovamente cadendo una pioggia battente. I soccorritori fino a poche ore fa erano costretti a scavare con le mani nel fango. Ora i Bobcat, piccoli mezzi meccanici, sono riusciti ad aprirsi un varco e raggiungeranno presto la zona alluvionata.

L'ALLARME - A fare scattare l'allarme è stata la segnalazione di un'auto finita in mare. Ma quando i militari sono giunti sul posto lo spettacolo che si sono trovati davanti è stato ben peggiore. Le città sono isolate: le frane hanno interrotto l'autostrada A18 Messina-Catania (Bertolaso ha disposto che debba essere utilizzata soltanto dai mezzi di soccorso), la strada statale 114 e il tratto ferroviario all'altezza di Giampilieri-Scaletta. «Fino ad ora abbiamo contato venti edifici crollati» afferma l'ingegnere Mario Arrigo, responsabile delle emergenze della Protezione civile regionale. «Gli sfollati, almeno fino a questo momento, sono 415 - aggiunge. Ma i numeri sono destinati a cambiare in peggio». Intanto la procura della Repubblica di Messina ha aperto un'inchiesta. Lo conferma il capo dell'ufficio Guido Lo Forte: «Ho disposto - ha detto - l'apertura di un procedimento penale nei confronti di ignoti. L'ipotesi di reato è di disastro colposo. Ho delegato il comando provinciale dei carabinieri di Messina a svolgere accertamenti preliminari, d'intesa con una serie di organismi amministrativi, per verificare in concreto e con la serietà e il rigore di un'indagine giudiziaria le cause del disastro e le eventuale responsabilità».

BERTOLASO - «Eravamo in allerta meteorologica da giovedì mattina, più di questo non potevamo fare: o si fa una grande opera di messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale o queste tragedie sono destinate a ripetersi - ha detto il capo dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, durante una conferenza stampa in Prefettura a Messina -. Non può essere la Protezione civile a risolvere i problemi di dissesto idrogeologico creati dall'abusivismo. È stato difficile raggiungere i luoghi della tragedia perché erano chiuse l'autostrada, la ferrovia e la strada statale e perché c'erano le strade dissestate tra le due vallate dove si trovano i comuni che sono stati maggiormente colpiti dal nubifragio. Stiamo facendo tutto il possibile per intervenire al più presto». Bertolaso ha spiegato che i soccorsi, pur se tempestivi, sono molto difficili: «Anche se la zona interessata da crolli è strettamente localizzata si tratta di un'area estremamente difficile da raggiungere. Sono due vallate strettissime, in cui i mezzi di soccorso non possono arrivare via terra perché le strade sono sbriciolate dal fango e gli elicotteri non possono atterrare». Il presidente Napolitano ha chiamato il prefetto Franco Alecci, chiedendo di essere aggiornato ed esprimendo il proprio cordoglio alle famiglie delle vittime, mentre il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo andrà a Messina per un sopralluogo tecnico.

SINDACO - Il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca ha disposto che sabato le scuole di ogni ordine e grado di tutto il territorio comunale sospenderanno le attività scolastiche. «È una situazione critica, la macchina dei soccorsi è in azione anche se è difficile raggiungere le zone colpite dal disastro. Giampilieri è isolata; le squadre possono raggiungerla solo a piedi. Alcune persone sono state soccorse via mare dalla Guardia costiera» ha detto il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca. Il sindaco ha poi lanciato un appello: c'è bisogno di volontari, soprattutto medici e infermieri. «Siamo ancora isolati da Catania, i soccorsi sono venuti da Palermo e dalla Calabria - osserva Buzzanca -, ma sui posti dove l'emergenza è maggiore, come la zona sud della città, si arriva soltanto a piedi e il traffico è completamente paralizzato». Tanto che negli ospedali di Messina i feriti arrivano via mare. «I malati e i feriti delle zone periferiche li facciamo arrivare in un piccolo porticciolo e con mezzi navali sono trasportati nel porto di Messina e trasferiti negli ospedali» spiega Buzzanca.

VITTIME - Sono 17 i morti finora accertati, secondo l'unità di crisi della prefettura di Messina. Il maggior numero di vittime, 10, nel villaggio di Giampilieri Superiore, altre 6 a Scaletta Zanclea e una a Briga Marina. Otto vittime sono state identificate: Pasquale Bruno, 40 anni, travolto e soffocato dal fango nella piazza di Giampilieri, e un pensionato di 70 anni, Francesco De Luca, annegato nello scantinato della sua casa in contrada Vallone. Un terzo cadavere è stato recuperato dentro un'auto travolta da un torrente in piena nei pressi di Scaletta Zanclea: è Roberto Carullo, sovrintendente della Polizia ferroviaria. La quarta e la quinta vittima sono un pensionato di ottant'anni, Martino Scibilia e Salvatore Scionti, 64 anni, trovati nelle rispettive abitazioni a Scaletta. Onofrio Sturiale, di 26 anni, è stato travolto da una frana tra Giampilieri e Scaletta Zanclea. Il cadavere di una donna, Agnese Pellegrino di 44 anni, è stato recuperato a Briga Superiore. Un'enorme massa di fango e terra è precipitata sulla casa dove viveva con la famiglia: il casolare in contrada Iannazzo è stato travolto. La parete della cucina in cui la vittima si trovava coi familiari è venuta giù. Il marito e i ragazzi, dopo avere sentito il boato della frana, sono riusciti a rifugiarsi in un'altra stanza, mentre Agnese è rimasta intrappolata in cucina ed è stata travolta dalla parete crollata. Il marito e i figli sono stati tirati fuori dalle macerie dai vigili del fuoco. E l'ottava vittima è Ketty De Francesco, 30 anni, rimasta uccisa a Scaletta.

SI SCAVA NEL FANGO - Le squadre di soccorritori stanno scavando nel fango, alto in alcuni punti più di un metro. «La situazione è drammatica. Si scava anche con le mani senza pausa e senza fermarsi mai tra i detriti e il fango per cercare i dispersi con l'aiuto dei cani» dice il capo del Protezione civile regionale Salvatore Cocina. Parecchie centinaia gli uomini in campo tra Protezione civile, forze dell'ordine, 118, vigili del fuoco e volontari, mentre sono mobilitate squadre da Pisa specializzate nella ricerca dei dispersi. «C'è la massima mobilitazione e il massimo sforzo da tutta la regione e non solo» conclude Cocina. Da Calabria e Campania sono arrivate squadre di vigili del fuoco, dalla Toscana nove unità dell'Usar, il nucleo specializzato in ricerche, con due cani.

TASK FORCE - In provincia di Messina è stata attivata una task force: le operazioni sono coordinate dallo stesso Cocina, attraverso l'Unità di crisi istituita nella Prefettura di Messina. Le squadre dei vigili del fuoco, della Protezione civile e dell'esercito sono coadiuvate da due elicotteri, uno della Marina militare e uno della Guardia costiera. Centinaia di persone - tra cui molti feriti - sono state portate in salvo dalle zone costiere con un pattugliatore d'altura della Guardia di Finanza, mobilitato insieme a quattro motovedette per portare soccorso nelle località non raggiungibili via terra. Altre unità navali delle Fiamme Gialle stanno trasportando gli evacuati, tra cui molti anziani, al porto di Messina. Nel Policlinico di Messina sono ricoverate 15 persone, due sono rimaste ustionate per lo scoppio di una bombola di gas dovuto a una frana a Scaletta. I soccorritori hanno allestito due posti medici avanzati, con brande, coperte e generi di prima necessità: uno nella palestra di Gravitelli a Messina, dove sono stati trasferiti 75 sfollati, il secondo a Roccalumera. Un altro presidio è stato istituito presso la Polstrada di Giardini Naxos. A Giampilieri la Protezione civile ha organizzato un centro di primo soccorso nella scuola elementare Da Vinci.

STRADE CHIUSE - Centinaia di persone sono rimaste bloccate dentro le auto e molte altre, a decine, si sono arrampicate sui tetti delle case per sfuggire alla piena: i soccorritori cercano di raggiungerli in elicottero. «I soccorsi, seppur attivati tempestivamente, stanno incontrando grandissime difficoltà - spiega il comandante dei Ris di Messina Sergio Schiavone -. La gente si è rifugiata nei balconi e sui tetti delle case per evitare il peggio». Allagamenti e case evacuate anche a Giardini Naxos: una trentina di famiglie ha trovato riparo nella caserma dei carabinieri. Sull'autostrada A18 Messina-Catania molti automobilisti sono rimasti bloccati e hanno passato la notte in auto, a causa delle frane: l'autostrada è chiusa da diverse ore in direzione Catania e viene consentito il transito solo ai mezzi di soccorso. La circolazione ferroviaria è sospesa da giovedì sera fra Messina e Santa Teresa Riva, sulla linea che collega Catania e Messina, spiega in una nota il gruppo Ferrovie dello Stato. La contemporanea chiusura dell'autostrada e della statale 114 non consente a Trenitalia di attivare il servizio di autobus sostitutivi per i treni regionali. Per i viaggiatori dei treni a lunga percorrenza il trasferimento viene effettuato con bus tra Catania e Termini Imerese (Palermo). La statale 114, che da Messina porta a Taormina è invasa da montagne di detriti, fango, fiumi di acqua. Le auto sono state sepolte dalla terra e l'acqua è entrata nei piani bassi delle abitazioni, negli scantinati e nei garage. I marciapiedi sono coperti da montagne di terra alte anche dieci metri. «Ogni anno appena dal cielo cade un po' di acqua in più avviene sempre la stessa tragedia» dice un anziano.

PALERMO E TRAPANI - Il maltempo ha colpito anche le province di Palermo e Trapani. Nel capoluogo i sommozzatori dei vigili del fuoco sono intervenuti per gli allagamenti nei sottopassi lungo la via Regione siciliana, l'asse che taglia la città e collega le autostrade Trapani-Palermo e Palermo-Messina. Un'impalcatura è crollata in piazza Santa Cecilia, molti automobilisti sono rimasti bloccati in via Oreto, in via Orsa Minore, in via Messina Marine, nelle borgate di Mondello e Partanna dove le strade sono diventate torrenti in piena. In via Ciaculli sono intervenuti i carabinieri per salvare un uomo in un'ambulanza in panne. Il nubifragio ha provocato anche il parziale allagamento del pronto soccorso dell'ospedale Buccheri La Ferla e di alcuni reparti dell'ospedale Civico. Nella borgata di Belmonte Chiavelli ci sono state delle frane e gli abitanti che erano tornati nelle proprie case dopo le piogge dei giorni scorsi sono di nuovo sfollati. Allagamenti e disagi anche a Trapani, Valderice e Mazara del Vallo.


01 ottobre 2009(ultima modifica: 02 ottobre 2009)
da corriere.it
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« Risposta #133 inserito:: Ottobre 31, 2009, 11:00:48 am »

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Il calvario di Stefano

di ADRIANO SOFRI


PRIMA di tutto riguardiamo le fotografie di Stefano Cucchi. Quelle di un giovane magro, un geometra, che ha avuto a che fare con la droga e sa che gli potrà succedere ancora, e intanto vive, sorride, lavora, abbraccia sua madre, scherza con sua sorella. I giornali in genere hanno preferito pubblicare queste. E quelle di un morto, scheletrito, tumefatto, infranto, il viso che eclissa quello del grido di Munch e delle mummie che lo ispirarono, il corpo di una settimana di Passione dell'ottobre 2009.

La famiglia di Stefano ha deciso di diffondere quelle fotografie.

Nessuno è tenuto a guardarle. Ma nessuno è autorizzato a parlare di questa morte, senza guardarle.
Per una volta, sembra che tutti (quasi) ne provino orrore e sdegno, e vogliano la verità e la punizione. È consolante che sia così. Ma è difficile rassegnarsi alle frasi generiche, anche le più belle e sentite. C'è un andamento provato delle cose, e le parole devono almeno partire da lì. Certo, le parole possono osare l'inosabile. Possono, l'hanno fatto perfino questa volta, dire e ripetere che Stefano Cucchi "è caduto dalle scale".

Non è nemmeno una provocazione, sapete: è una battuta proverbiale. Se incontrate uno gonfio di botte in galera, lo salutate così: "Sei caduto dalle scale". Hanno un gran senso dell'humour, in galera. Lo si può anche mettere per iscritto e firmare. Sembra che anche Stefano l'abbia messo a verbale presso il medico del carcere: "Sono caduto dalle scale". È un modo per evitare di cadere di nuovo dalle scale. Il meritorio dossier Morire in carcere curato da "Ristretti orizzonti" certifica che le morti per "cause da accertare" sono più numerose di quelle per "malattia".

Tuttavia bisogna guardarsi dall'assegnare senz'altro il calvario di Stefano al capitolo carcerario. Per due ragioni, già documentate a sufficienza. La prima: che fra la persona integra arrestata col suo piccolo gruzzolo di sostanze proibite e la persona cui vengono certificate nell'ambulatorio del tribunale "lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente", e che lamenta "lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori" (i medici del carcere le preciseranno come "ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione", e quelli dell'ospedale come "frattura del corpo vertebrale L3 dell'emisoma sinistra e frattura della vertebra coccigea") fra quelle due condizioni c'è stata solo una notte trascorsa in una caserma di carabinieri.

Il ministro della Difesa - un avvocato penalista - pur declinando ogni competenza nel caso, ha creduto ieri di dichiarare: "Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione". Non so come abbia fatto. So che qualcuno vorrà ammonirmi: "Ci risiamo". Infatti: ci risiamo. I medici e la polizia penitenziaria che dichiarano che Stefano "è arrivato in carcere così" hanno dalla loro una sequenza temporale interamente vidimata.

Questa era la prima ragione. La seconda è che nell'agonia di Stefano - di questo si è trattato, questo sono stati i suoi ultimi sette giorni - sono intervenute tante di quelle autorità costituite da far rabbrividire. Carabinieri, dall'arresto fino al trasporto al processo e alla consegna al carcere. Magistrati, uno dell'accusa e uno giudicante, che in un processo per direttissima per un reato irrisorio e con un giovane imputato così palesemente malmesso da suggerire la visita medica nei locali stessi del tribunale, rinviano l'udienza al 13 novembre e lo rimandano in carcere ammanettato.

Agenti di polizia penitenziaria, che piantonano così rigorosamente il pericoloso detenuto nell'(orrendo) reparto carcerario dell'ospedale intitolato a quel gran detenuto che fu Sandro Pertini, al punto di impedire ai famigliari del giovane di chiederne una qualche notizia ai medici, facendo intendere che occorra un'autorizzazione del magistrato: espediente indecente, perché per parlare col personale sanitario non occorre l'autorizzazione di nessuno. (Sono stato moribondo e piantonato in un ospedale, e nessuno si sognò di dire ai miei che non potevano interpellare i medici: e vale per chiunque). Espediente, oltretutto, che costringe a chiedersi quale movente lo ispirasse.

Una sovrintendente e, a suo dire, un medico di turno, che, anche ammesso che non abbiano saputo delle visite ripetute e trepidanti dei famigliari, hanno dichiarato di non aver notato i segni delle lesioni sul volto di Stefano, "in quanto si teneva costantemente il lenzuolo sulla faccia"! Frase che insegue l'altra sulla caduta dalle scale: un detenuto malconcio al punto di essere tradotto in ospedale non viene visto da chi lo sorveglia e da chi lo cura perché si tiene il lenzuolo sulla faccia.

Non hanno visto "il volto devastato, quasi completamente tumefatto, l'occhio destro rientrato a fondo nell'orbita, l'arcata sopraccigliare sinistra gonfia in modo abnorme, la mascella destra con un solco verticale, a segnalare una frattura, la dentatura rovinata"... Non era un lenzuolo: era l'anticipazione di un sudario. Questo non ha impedito a un medico di turno di stilare un certificato in cui si legge che Stefano è morto "di presunta morte naturale".

Infine, c'è l'autopsia eseguita sul cadavere straziato, nel corso della quale si proibisce al consulente di parte di eseguire delle foto. (Quelle che guardiamo oggi, chi ne ha la forza, sono state prese per la famiglia dal personale delle pompe funebri). È stata, la settimana di agonia di Stefano, una breve marcia attraverso le istituzioni. Questo sono infatti, al dunque, le istituzioni: persone che per conto di tutti si trovano a turno ad avere in balia dei loro simili: persone delle forze dell'ordine, giudici, medici, e anche politici e giornalisti...

Tutti (quasi) chiedono giustizia e verità. Bene. Un pubblico ministero ha già imputato di omicidio preterintenzionale degli ignoti, ieri. I colpevoli non sono certo noti, e non lo saranno fino a prova provata: ma gli imputati sono noti. Quanto al preterintenzionale, è un segno di garantismo notevole, venendo da una magistratura che quando l'aria tira imputa di omicidio volontario lo sciagurato che abbia travolto qualcuno con l'automobile.

© Riproduzione riservata (31 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #134 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:22:34 am »

Monfalcone. Cancellata frase di Ciampi dal monumento alle vittime delle foibe

Il vicesindaco: «Esprimeva la volontà di superare divisioni ma non volevamo creare altri motivi di dolore»
 
                   
 MONFALCONE (18 novembre) - È destinata a sollevare un piccolo vespaio la decisione di cancellare la frase dell'ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dal monumento alle vittime delle foibe. La decisione del Comune è stata presa per cercare di non creare nuovi conflitti che, secondo alcuni, avrebbero potuto essere sollevati dalla frase di Ciampi.

Al momento dell'inaugurazione, la targa con le parole dell'ex presidente è stata coperta con nastro adesivo. Parole che forse sarebbero normali in altre zone d'Italia, ma che a Monfalcone sono sembrate "pericolose". Sulla targa coperta c'è scritto: “L’odio e la pulizia etnica sono stati l’abominevole corollario dell’Europa tragica del Novecento, squassata da una lotta senza quartiere fra nazionalismi esasperati. È giunto il momento che i ricordi ragionati prendano il posto dei rancori esasperati".

L'inaugurazione è avvenuta senza la presenza dell'Unione degli Istriani, della Lega nazionale e dell'Associazione nazionale Venezia Giulia.

Secondo quanto scrive il sito Bora.la, la cerimonia di inaugurazione del monumento si è svolta in forma ridotta e il vicesindaco Altran ha difeso la scelta del Comune, sottolineando che la frase di Ciampi «esprime la volontà di superare drammi e divisioni», e che la scelta di rimuoverla dal monumento è stata accolta perchè la sua presenza «avrebbe costituito per molti motivo di dolore».
 
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