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Autore Discussione: MONDO DONNA N° 1  (Letto 148570 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Maggio 24, 2007, 10:55:10 pm »

Il Festival di Cannes L’orrore di un aborto.

Scene choc al festival Paura e clandestinità nella Romania di Ceausescu.

Il dramma della povertà e le maternità forzate imposte dall'ex leader comunista

Una scena di «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni» di Cristian Mungiu (Emmevi)


CANNES (Francia) — Cronaca di un aborto a porte chiuse. Otto ore di ordinaria paura, clandestinità, violenza, sangue, soldi, infezioni e morte nella Romania di vent’anni fa, Ceausescu ancora al potere. In una stanza d’albergo una ragazza aspetta l’uomo che ha promesso di liberarla da una gravidanza indesiderata. Con lei un’amica, Ottilia, pronta a darle una mano.

E anche di più, visto che l’atteso non è uno che si fa scrupoli: il denaro pattuito non basta più quando scopre che Gabita è incinta ben oltre quello che aveva confessato. Facendo bene i conti, sono 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, che è anche il titolo scelto da Cristian Mungiu per il suo film di agghiacciante realismo. Perché, visto che l’intervento si complica e i rischi sanitari e giudiziari crescono, l’uomo, un professionista di questi affari, capito che le due non hanno più una lira, chiede un surplus in natura. Con entrambe.

Quel che accade dopo è ordinario orrore paraginecologico. Dalla sua valigetta di commesso viaggiatore dell’utero, Monsieur Bebè, così si fa grottescamente chiamare (ma del resto da noi le sue colleghe non si chiamavano «fabbricanti di angeli»?) estrae alcol, cotone e la lunga cannula che servirà all’uopo. L’intervento per fortuna non si vede. Ma Mungiu non ci risparmia il peggio: il feto abbandonato sul pavimento del bagno. Che essendo di quasi cinque mesi, è formato e somiglia in tutto a un neonato. Una scena choc, come gli spicci consigli dati dall’uomo a Ottilia, che quel grumo di carne e sangue ha raccolto e infilato in borsa: «Non buttarlo nel gabinetto perché lo ostruirebbe, non lasciarlo in strada perché lo mangerebbero i cani...». Su come va eliminato, meglio sorvolare. Come dice Ottilia a Gabita: «Non ne voglio parlare. Né ora né mai più, per il resto della vita».

«Questa storia nasce da un ricordo privato. Quando avevo vent’anni qualcosa di simile accadde a una persona molto vicina a me», racconta Mungiu, 37 anni, considerato uno dei talenti del nuovo cinema rumeno, fucina di film di alta qualità e basso costo (590mila euro, il budget di questo) capaci di valicare i loro confini. Film che cercano di fare i conti con una storia recente e dolorosa. Accade anche qui, pur senza mai tirar direttamente in causa il regime. Il piccolo dramma che si consuma in quella stanza d’albergo dà un’idea precisa del contesto storico: le code davanti ai negozi, il baratto dei prodotti di prima necessità, i pacchetti di sigarette estere allungati per ottenere quello che altrimenti non si poteva comprare.

Una Romania povera, disperata, impaurita. Dove proprio Ceausescu, il comunista più mangiabambini dell’immaginario occidentale, nel 1966 aveva stilato una legge che proibiva l’aborto. «L’obiettivo era l’incremento demografico: tanti nuovi virgulti per andare a ingrossare le fila del Partito — spiega amaro Mungiu —. In pochi anni le nascite si quadruplicarono. Di quella generazione baby boom faccio parte anch’io: nella mia classe, affollatissima, eravamo sette a chiamarci Cristian. Ma le donne cominciarono a ribellarsi a quelle maternità coatte. Gli aborti illegali dilagarono, quasi una forma di resistenza al regime. Chi se lo poteva permettere ricorreva a medici compiacenti, chi non aveva mezzi finiva nelle mani di praticoni. Circa 500 mila si calcolano le donne morte in quel modo durante gli anni di Ceausescu. Dopo la sua caduta, nell’89, l’aborto è tornato legale. E ancora oggi è praticatissimo, usato come anticoncezionale».

Certo che proprio ora, con la Chiesa che tuona a colpi di scomunica, con movimenti e partiti che premono per una revisione della legge, l’aborto è tema quanto mai scottante. Oggi peraltro di nuovo alla ribalta in un altro film del concorso, Izignanie, del russo Andrei Zviaguintsev. In questo clima, mostrare immagini crude e di alto impatto emotivo come quelle di un feto «avanzato» può sembrare una presa di posizione, o forse una provocazione. «Né l’una né l’altra — assicura Mungiu —. Intanto non sono cattolicoma ortodosso. Poi, quello che pongo non è un problema religioso ma una riflessione morale. Su scelte difficili che è giusto vengano compiute in piena libertà da parte della donna, ma anche con piena consapevolezza delle loro conseguenze. L’aborto viene spesso presentato come un’astrazione. Ma un feto non è solo un mucchio di cellule. Ho voluto mostrarlo perché la gente veda quello che è».

Giuseppina Manin
22 maggio 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 16, 2010, 03:01:18 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 24, 2007, 10:56:17 pm »

«Zoo» alla Quinzaine, «ImportExport» e «Paranoid Park» in concorso

Nel giorno degli scandali, l’orrore umano Cannes, tra sesso e zoofilia svetta il film di Van Sant sull'animo di un ragazzino

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


CANNES—Il giorno degli scandali sessuali (annunciati) si è trasformato in quello degli orrori umani.

E i film sui rapporti sessuali tra uomini e cavalli («Zoo» di Robinson Devor) e quello sulla mercificazione del corpo umano («ImportExport» di Ulrich Seidl) lasciano deluso chi sperava in immagini morbose o eccitanti per guidare invece lo spettatore in un viaggio davvero al limiti della notte umana. Presentato alla Quinzaine, la sezione parallela che spesso ha rivelato autori e anticipato tendenze, «Zoo» prende spunto da un fatto di cronaca: la morte nel luglio del 2005, per sfondamento del colon, di un uomo abbandonato davanti a un ospedale.

L'inchiesta della polizia porto a scoprire l’esistenza di un gruppo di persone che frequentavano una fattoria dello Stato di Washington per avere rapporti sessuali con dei cavalli. Dopo aver incontrato alcuni membri di quel gruppo, il regista Robinson Devor ha costruito un film dove i personaggi sono interpretati da attori, ma i lunghi dialoghi fuori campo sono quelli autentici dei protagonisti. E proprio il flusso di confessioni in prima persona finisce per guidare le immagini, sprovviste di qualsiasi tentazione voyeuristica ma cariche di una tensione angosciantissima.

Perché nonostante certe ammissioni, le ragioni che spingono una persona a sentirsi «maggiormente attratta da esseri non umani» restano di fatto inspiegate.

E di fronte a questa insondabilità, Devor non chiede aiuto né alla psicoanalisi né alla sociologia: mette gli spettatori di fronte al mistero di quelle azioni e costruisce il film come un horror dell'animo, dove non esistono spiegazioni plausibili ma solo la scoperta di qualche cosa di inimmaginabile. Una specie di «male assoluto» che chi pratica neppure considera tale. Ma che lascia nello spettatore un senso d'angoscia che non se ne va facilmente.

Anche i due film in concorso di ieri, «ImportExport» dell'austriaco Ulrich Seidl e «Paranoid Park» dell'americano Gus Van Sant cercano di scavare nelle contraddizioni dell’animo umano, e con la stessa radicalità stilistica di Zoo, ma con punti di vista differenti. Che portano anche a risultati molto diversi tra loro. Dopo Canicola (premiato nel 2001 a Venezia), Seidl continua il suo viaggio nella disperazione umana, ma la pietas che riscattava le vite desolate di quel film lascia il posto in «ImportExport» a un ambiguo compiacimento. L’infermiera ucraina (Ekaterina Rak) che cerca lavoro in Austria e lo trova in un ospizio per anziani e il giovane disoccupato (Paul Hofmann) che accompagna il padre (Michael Thomas) in un lungo viaggio europeo (che finisce proprio in Ucraina) per piazzare videogiochi e distributori di caramelle diventano testimoni, alla fine insensibili, di una sofferenza — quella degli anziani —e di una sopraffazione — quella sulle prostitute ucraine — che trovano spiegazione nell’egoismo e nella cattiveria umana, ma che sono raccontate con una insistenza troppo ambigua. E la lettura «politica » che in Canicola rimandava alla lezione di Bernhard qui diventa facile (e compiaciuta) «rassegnazione » metafisica sulla stupidità umana.

Al centro del film di Gus Van Sant c’è invece un romanzo di Blake Nelson sul delitto irrisolto di una guardia ferroviaria, travolta da un treno non per un incidente ma perché qualcuno l’ha colpito in testa con uno skateboard. Per questo il detective Lu (Dan Liu) decide di indagare tra i frequentatori di una pista conosciuta come Paranoid Park. Lo spettatore scopre ben presto che il responsabile dell’assassinio, del tutto involontario, è il sedicenne Alex (Gabe Nevins) ma Gus Van Sant racconta solo marginalmente l’inchiesta poliziesca, senza peraltro svelarcene la fine: piuttosto cerca di entrare nella testa di Alex, nelle sue paure e nei suoi silenzi, nelle sue frasi smozzicate e nelle sue azioni quotidiane per costruire il quadro di una «normalità» inquietante e insoddisfatta.

Qui il regista porta all’estremo il metodo messo in atto per «Elephant »e, con maggior radicalità, per «Last Days», smontando la linearità cronologica ma anche mescolando riprese con tecniche diverse (il Super8 per le immagini «in soggettiva» degli skater e il 35mm, con un mascherino da vecchia inquadratura televisiva, per il resto) e affidando a una elaboratissima colonna audio, fatta di rumori, musiche, parole e suoni, (compresa una citazione da Nino Rota) il compito di offrire allo spettatore una specie di riflesso sonoro delle contraddizioni psicologiche e comportamentali di Alex. In questo modo lo spettatore si trova davanti una specie di puzzle incompleto ma stimolante di un universo mentale che sfugge a ogni definizione, com’è quello appunto degli adolescenti, «ribelli » senza cause ma anche «assassini» per caso. E che Van Sant filma con empatia e curiosità insieme, senza mai lasciarsi andare a prese di posizione moralistiche, ma anche senza compiacimenti o facili giustificazioni.

Paolo Mereghetti
22 maggio 2007
 
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 08, 2007, 11:53:08 pm »

Se il Nord riparte dal Sud
Barbara Pollastrini


Si parla molto del Nord, e non per caso. Se ritorniamo col pensiero a un mese fa la sensazione era di una valanga. Dalla difficoltà del governo a trasmettere il senso di un progetto all’esito negativo del voto amministrativo. Non era solo la protesta per gli studi di settore o il malumore degli amministratori per le scarse risorse. Era l’insieme a dare l’impressione di un’Italia sempre più propensa a «fare da sé». E a «produrre» sull’onda di un livore diffuso, come già in altri momenti - penso ai fenomeni della Lega o allo stesso berlusconismo - nuovi riferimenti politici.

Ma questa crisi - è giusto ricordarlo - non nasce ora. Incubava da prima. Lo stesso risultato delle elezioni, un anno fa, aveva anticipato la tendenza. Con una sola differenza, e cioè che l’Ulivo nel lombardo-veneto portava un valore aggiunto. Poi, nelle ultime settimane, molto è cambiato. Penso all’impatto della candidatura di Veltroni e al consenso raccolto dal suo discorso di Torino. Le due cose, insieme, hanno confermato che il Partito Democratico rimane la sola e forse l’ultima chance a nostra disposizione. Insomma, non possiamo fallire se non vogliamo rinviare nel tempo un recupero di credibilità della politica soprattutto nelle aree più dinamiche del Paese. Veltroni ha avuto la capacità di cogliere con intelligenza questa necessità. Il punto - e su questo nei giorni scorsi Gianni Cuperlo ha scritto cose che condivido - è che la scommessa del nuovo partito sarà vinta a due condizioni.

La prima è uno scatto del governo, e su questo qualche segnale c’è. L’altra è che il profilo del nuovo partito poggi su valori e discriminanti ideali e politiche chiare. Perché solo una limpidezza della politica può riannodare il filo di un’etica pubblica slabbrata e bloccare una crisi democratica tanto più insidiosa in un Paese dove il populismo non è stato mai espunto del tutto. Anche per questo, credo giusto affrontare i nodi del partito che verrà. Ora, un articolo non consente di scendere nel dettaglio. Ma alcuni titoli è possibile accennare. E allora, cosa dovrà dire un partito a vocazione maggioritaria per recuperare, a partire dal Nord, una funzione di guida? Direi che in primo luogo dovrà restituire un’anima alle parole. Penso a tre termini. Il primo è “sicurezza”. Anzi, per quanto mi riguarda direi “sicurezza e diritti umani”. Perché questa relazione è oggi la condizione per una convivenza fondata sul rispetto delle regole e della legalità.

Ecco perché al nuovo partito serve uno sguardo ampio. Che sappia misurarsi con l’Europa e col mondo. Perché i problemi di casa nostra, a partire dalla sicurezza, non si risolvono alzando steccati. Solo una visione d’insieme dei processi globali offre chiavi di senso e strumenti adeguati al tempo. È questa la ragione che mi spinge da mesi - fuori e dentro il governo - a porre il tema dei diritti umani in cima alle priorità. Non è per testimoniare un’etica dei principi. È uno snodo della modernità. Non vederlo equivale a non capire chi siamo e soprattutto cosa saremo. Prendiamo l’attentato sventato a Londra la settimana scorsa. L’autobomba doveva uccidere centinaia di donne riunite quella sera in un pub lì vicino. Donne, dunque. Da tempo vittime di quel fondamentalismo di nuova matrice che vede nel loro corpo il simbolo di uno scontro che ha come posta il potere e il dominio sulla libertà femminile. Sbaglia chi pensa che la questione ci sfiora soltanto. E non solo perché di violenza continuano a soffrire e morire moltissime donne italiane. Questo dramma irrompe nelle nostre società e sollecita gesti e politiche coerenti coi valori di una civiltà democratica e liberale. Ecco perché l’omicidio di Hina per mano del padre e il processo che si è aperto una settimana fa, fino all’aggressione alla leader delle donne musulmane consumata nel cuore di Milano, interrogano una interpretazione della sicurezza. Perché dietro gli episodi di Londra o di Brescia c’è la questione di come si contrasta il fondamentalismo abbinando sicurezza e libertà.

È da qui che acquista significato la seconda parola da porre al centro di un confronto politico e culturale, “laicità”. Che non è solo l’appello giusto a far prevalere le ragioni del dialogo sulle trincee contrapposte. È la coerenza di classi dirigenti capaci di difendere l’autonomia della politica per costruire virtù civiche condivise. Dal capitolo della convivenza globale fino alle coppie di fatto, alla fecondazione o alla sfera intima della sofferenza, quel che una cultura democratica deve sfuggire è il primato di una Verità sulle altre. È la rinuncia a esercitare la critica e la decisione, sedando la prima e appaltando la seconda. Perché così, semplicemente, non si governano capitoli fondamentali della modernità a partire dai nuovi flussi migratori, dal dialogo tra culture e religioni, fino ai capitoli della scienza, della ricerca, dell’autonomia dell’individuo. Quell’autonomia che introduce l’ultimo termine, l’idea di Progresso e di “Crescita”.

Le possibilità di una crescita effettiva e di una reale competitività per il Paese sono legate a filo doppio con un’espansione della democrazia e della cittadinanza, delle opportunità individuali, dei diritti e doveri delle persone. È la scelta della politica di non permettere che l’ordine sociale divenga un ordine naturale. Non vorrei banalizzare ma la questione è di una semplicità disarmante. Ed è questa. La sinistra - le Democratiche e i Democratici - non possono accettare che si vale per dove si nasce, per la casa dove si cresce, per il reddito dei genitori. Questa è una regressione feudale prima che sociologica. L’anno scorso, parlando al congresso laburista, l’ex presidente Clinton ha detto che «le pari opportunità sono la grande sfida della democrazia nel XXI secolo». Parole da scolpire. Ma se le si condivide ne discendono alcune coerenze. A partire da un accesso al mercato e al reddito per quanti, e quante, oggi sono esclusi. Giro l’Italia a raccontare i dati sull’occupazione femminile. Siamo quindici punti sotto la media europea e in alcune aree del Sud più di trenta punti sotto l’obiettivo di Lisbona. Sono cifre spesso sconosciute in alcuni circoli della politica o tra le forze sociali. Ma se lavorano poche donne i consumi si bloccano e nascono meno bambini. La mobilità frena. La realtà è che le élite del Paese continuano a essere in prevalenza conservatrici e chiuse. Classi dirigenti contro le quali non a caso si sta manifestando l’insofferenza di tante donne e di tante persone perbene legate a un’etica del lavoro e dell’intraprendere e che sono stanche di non essere riconosciute per i loro meriti, anche sotto il profilo economico e delle carriere.

Penso che anche le polemiche sulla pressione fiscale e sul ritardo di un federalismo che finalmente il governo ha incardinato, potranno trarre beneficio da una politica autorevole e capace di segnare una rotta. In questa ricerca le tre parole che ho indicato si riassumono in un primato fondamentale. Che è la Persona. La scelta mai compiuta fino in fondo dalla politica di investire sulla libertà e responsabilità del singolo. Rivedendo la logica che ha dominato fin qui e che ha sempre premiato gli interessi e gli istituti più consolidati rispetto ai diritti, ai bisogni e alle responsabilità di chi oggi è meno rappresentato e che invece esprime la maggiore vitalità e voglia di farcela. Si tratti delle donne, dei giovani precari o del piccolo e piccolissimo imprenditore. Ed è qui la parte più affascinante nella costruzione del nuovo Partito. Sapere che le Democratiche e i Democratici dovranno anticipare scelte e contenuti di un tempo a venire. Questo nuovo partito, insomma, dovrà trovare la forza e le idee per essere un passo avanti alla politica che c’è. Ecco perché è stato giusto scegliere questa via. Perché davvero «nessuno basta a se stesso».

Ma allora la mescolanza di volti e sensibilità, nelle liste del 14 ottobre, sarà decisiva. E se ci saranno altre candidature, agganciate a piattaforme politiche e culturali, ciò sarà una ricchezza in più. Lo stesso vale per la scelta delle leadership a livello regionale. E aggiungo, certo che il Partito Democratico deve riconquistare il Nord. Il punto è come le leadership del Nord sanno avanzare una visione che, muovendo da quelle realtà, si misuri coll’interesse generale del Paese, a partire dalla scelta strategica di un’Europa allargata. Lo dico innanzitutto da donna, da donna milanese e di sinistra, che non ha mai smesso però di sentire come propri potenzialità e ritardi del Sud e del suo popolo. Perché se una bambina calabrese o campana nasce con molte possibilità in meno di laurearsi rispetto alle sue coetanee venete o piemontesi il problema non è del Mezzogiorno, ma dell’Italia e dell’idea che un grande partito nazionale e federativo deve coltivare di sé. Penso che solo così noi potremo ricollocare nella storia del Paese la tradizione migliore della sinistra italiana. Non è facile, lo so. Ma continuo a pensare che sia la strada giusta. E la sola che può restituire senso alla partecipazione di tanti. A partire dalle donne, e dalle giovani donne, che esigono dalla politica una diversa etica del potere, delle regole, dello stile. Perché sanno che quella è la condizione vera - oltre ogni paternalismo - per affermare la propria autonomia a tutti i livelli e in tutte le sedi. Piaccia o meno il Partito Democratico sarà giudicato anche per questo.

Pubblicato il: 08.07.07
Modificato il: 08.07.07 alle ore 6.28   
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 24, 2007, 05:54:02 pm »

24/7/2007 (12:51)

Le ragazze sognano la trasgressione: "Il 21% tradirà il proprio compagno"

Le donne tra i 18 e i 45 anni ambiscono a veri e propri trofei da riportare a casa


ROMA
Quest’estate la trasgressione è donna, anzi cattiva ragazza. Sarà infatti il segno distintivo con cui vorrebbe trascorrere l’estate il 21% degli intervistati secondo uno studio condotto dall’Associazione Donne e Qualità della Vita, coordinato dalla sessuologa Serenella Salomoni, su un campione di 800 donne accoppiate (fidanzate o sposate) di età compresa tra i 18 e i 45 anni e pubblicato sul numero in edicola domani dal settimanale Diva e Donna.

Una trasgressione da perseguire attraverso una ricetta ben precisa. Ad esempio, con una vera e propria avventura extra coppia, confessa il 24% del panel; facendo a gara con le amiche per avere il maggior numero di foto con altri uomini sedotti, (23%), adottando un look seducente che il suo lui, ma non solo, vuole (21%), prendendo apposta un secondo numero di cellulare per flirtare con altri (19%), andando per l’unico periodo di vacanza con le amiche invece che con il fidanzato (16%), dormendo fuori dopo una notte di divertimenti pazzi senza il proprio lui (15%).

Fino a piccoli gesti, certo minori, ma che danno il segno di questo cambiamento di mood tra le donne italiane: ad esempio, il 14% dichiara che terrà spento il cellulare per far ingelosire il proprio compagno, l’11% che, in assenza del proprio uomo, si metterà in topless in spiaggia per attirare lo sguardo di altri uomini. Infine il 9% promette di farsi un tatuaggio su una parte del corpo intima. Secondo quanto riporta il settimanale diretto da Silvana Giacobini, la maggioranza delle cattive ragazze, in partenza per le vacanze più calienti del secolo, ambiscono a veri e propri trofei, da riportare a casa dalle località balneari di mezza Italia.

Bottino più gettonato, la collezione di foto dei ragazzi sedotti, 23%, sulla scia del tormentone in arrivo direttamente dalle spiagge di Copacabana. Cioè il ficar (in italiano rimanere, restare), che significa collezionare il numero più grande possibile di baci in discoteca in una sola notte. Una moda che sta sbarcando anche in Italia, sulla riviera romagnola, come in Versilia e in Sardegna, dove sempre più donne dichiarano di voler essere protagoniste, almeno per una volta, nell’arco dell’estate, di questo nuovo gioco.

Al secondo posto, un altro scalpo ambitissimo: la copia della tessera magnetica della sua camera di albergo (21%), boxer o altri indumenti intimi sfilatigli (18%), il numero record di sms ricevuti in un solo giorno dalla persona con cui ha flirtato (15%) oppure una gara tra amiche per portare a casa collana o braccialetto dell’ ’avventura estivà(11%). Insomma seduzione, trasgressione e, soprattutto, tentazione. Eccolo il trittico delle cattive ragazze 2007. Sulla falsariga di alcune vip da emulare in questo grande gioco della tentazione da spiaggia. A cominciare dalla conturbante Eva Longoria, casalinga disperata per eccellenza, una delle donne più sexy del mondo, fresca sposa del campione di basket Tony Parker che, nello spot tv internazionale per il MagnuM Temptation, guarda caso, invita a cadere in tentazione.

Proseguendo con l’altrettanto splendida Angelina Jolie, per essere riuscita a far capitolare l’adone Brad Pitt. Poi Elisabetta Canalis, che ha sottratto Valentino Rossi all’eterna fidanzata; Victoria Cabello, cioè la cattiva ragazza per eccellenza; Kate Middleton, che sta facendo impazzire persino il principino William, facendolo piegare alla sua volontà, Gabriella Pession, per essersi mostrata senza veli a tutta l’Italia, Paola Ferrari, per aver sedotto tutti gli uomini italiani, come grande esperta di calcio, sfondando in un settore a forte trazione maschile.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Luglio 24, 2007, 06:07:41 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 03, 2007, 04:44:04 pm »

3/8/2007 (8:2) - IL CASO

"Riabilitate Anna l'ultima strega"

Bestseller sulle ingiustizie di un antico processo porta il caso davanti al parlamento svizzero

FABIO GALVANO


Non finì al rogo, l'ultima strega d'Europa, ma fu decapitata con un colpo di spada. Nella civilissima ma tutt'altro che illuminata Svizzera - era l'anno di grazia 1782 - Anna Göldi fu probabilmente vittima non tanto di un errore giudiziario, quando di una congiura ordita ai suoi danni per salvare la reputazione del suo datore di lavoro, un influente politico locale che prima l'aveva sedotta e poi ne aveva temuto le scottanti rivelazioni. Ora la Göldi è tornata all'onore delle cronache, 225 anni dopo quel giorno all'ombra di un oscurantismo di stampo medievale. Da una parte è un fenomeno letterario, per un libro che Walter Hauser, noto avvocato svizzero, ha scritto in sua difesa forse senza pensare che in breve tempo sarebbe balzato al vertice delle classifiche librarie della Confederazione. Dall'altra è al centro, proprio sulla spinta di quel libro, di un'azione senza precedenti da parte di un gruppo di deputati dei maggiori partiti, volta a una riabilitazione - ovviamente postuma - di quell'«ultima strega».

E' probabile che l'iniziativa vada a buon fine, anche se oggi non tutti sono d'accordo che sia il caso di disturbare prima il parlamento cantonale e poi quello nazionale per rimettere a posto una questione di due secoli fa. «Tiriamoci una riga sopra e andiamo avanti», ha suggerito un portavoce del governo locale. Ma a Glarus, la cittadina della Svizzera orientale dove i giudici e la protestante Chiesa Evangelica (che oggi riconosce l'errore) montarono quel caso straordinario, quel precedente storico brucia ancora: i suoi abitanti hanno raccolto robuste adesioni per la loro campagna.

Anna Göldi, 42 anni, faceva la serva in casa di un ricco e influente politico - nonché giudice - dell'epoca, tale Johann Jakob Tschudi. Il quale, evidentemente, non sapeva tenere le mani a posto. Per paura forse che la moglie scoprisse la relazione, l'uomo decise di porre fine alla tresca ancillare. Oggi è difficile stabilire se la Göldi fosse rimasta incinta: certo è, secondo la ricostruzione fatta da Walter Hauser, che la donna minacciò di rivelare l'accaduto. Apriti cielo. Nella Svizzera bacchettona gli adulteri rischiavano l'esclusione da tutti i pubblici uffici. Tschudi sentì l'ombra della rovina piombargli addosso, se solo quella donna avesse parlato.

L'uomo seppe sfruttare al meglio le sue conoscenze, oltre a quelle di parenti e amici. L'accusa fu presto costruita: la Göldi, si disse, aveva cercato di uccidere la figlia del suo datore di lavoro facendo comparire aghi di ferro, con inspiegabile magia, nella tazza di latte di una figlia di Tschudi, una bambina di otto anni. La donna fuggì, ma le autorità di Glarus non demorsero: offrirono una taglia dalle pagine del Zürcher Zeitung e il denaro, si sa, fa miracoli. Arrestata pochi giorni dopo, come qualsiasi strega che si rispetti anche questa fu torturata e alla fine i suoi accusatori riuscirono a estrarle la tanto attesa confessione: «Sì, ho fatto un patto con il Malvagio». Il 18 giugno 1782 la condanna; anche se formalmente, e forse proprio per evitare di esporsi all'inevitabile ridicolo, l'accusa al processo non fu di stregoneria - se ne parlò, ma solo in sottordine - bensì di tentato infanticidio. La spada del boia le mozzò la testa e la reputazione di Johann Jakob Tschudi fu salva.

Negli anni seguenti tutti i riferimenti alla «strega» furono sistematicamente cancellati dagli atti processuali. Ma rimase, racchiusa fra le scartoffie del tribunale di Glarus, una copia dell'interrogatorio. E' il documento su cui Hauser ha basato il suo best-seller, intitolato «L'assassinio giudiziario di Anna Göldi». «Questa sarebbe la prima volta - ha detto l'avvocato - in cui un Parlamento riabilita una strega. In realtà non c'è dubbio che si trattò di mala giustizia. Fin dall'inizio il processo fu un tentativo di farla stare zitta. E’ stato un caso palese di assassinio giudiziario».

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 09, 2007, 11:10:27 pm »

Libri

Vita ribelle
di Fabrizia Ramondino

Da bambina ostinata a donna consapevole: esce in Italia 'La nuova me' di Tsitsi Dangarenbga, a metà tra il romanzo di formazione e la saga familiare.

Forse l'opera più bella mai scritta da una donna nera africana

 
La nuova me' di Tsitsi Dangarenbga (Gorée, traduzione di Claudia Di Vittorio, pp. 270, euro 15), pubblicato nel 1989 con il titolo 'Nervous conditions', è secondo Doris Lessing il più bel romanzo scritto da una donna nera africana. Un romanzo di formazione e una saga familiare, in cui l'io narrante, Tambu, da bambina ribelle e ostinata, vissuta fino all'adolescenza in miseria e fatica, diventa una giovane donna consapevole e forte, capace di affrontare l'anglicizzazione, che ha sconvolto e distrutto le vite del fratello e dei cugini, senza rinnegare le sue origini né dimenticare la lingua materna, lo shona, superando ogni ostacolo, fino a ottenere rispetto come donna e come nera.

Il titolo inglese rende meglio la complessità del romanzo perché le 'turbe nervose' appartengono a tutti i personaggi e sono tipiche di chi è vissuto in regime coloniale (perché dall'edizione italiana è stata tolta l'epigrafia di Sartre a 'I dannati della terra' di Fanon: "La condizione del colonizzato è una condizione nervosa"?). Di grande bellezza è il racconto dell'infanzia di Tambu nella fattoria dove, nonostante la fatica quotidiana e la povertà, ella riesce a vivere momenti panici e magici; e di grande acume psicologico e sociologico sono i capitoli successivi, quando adolescente viene accolta a scuola prima nella missione diretta dallo zio, poi nel prestigioso istituto del Sacro Cuore - unica nera ammessavi.

La meta che Tambu persegue con tenacia è raggiungere attraverso lo studio la propria emancipazione come donna e come nera. Aspro e crudo come la vita è talvolta lo stile, a cominciare dal folgorante incipit: "Quando mio fratello morì non provai dolore"; o quando racconta della cugina anoressica, quasi uno scheletro, ai cui genitori lo psichiatra bianco diagnostica: "Non può essere malata sul serio perché gli africani non soffrono di questi disturbi descrittimi. Riportatela a casa e siate più severi".

(08 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 29, 2007, 06:03:31 pm »

CRONACA

Il quotidiano Avvenire chiede un intervento del ministro Turco per aggiornare la legge

Nell'articolo si parla di una "vera e propria deriva eugenetica" nell'applicazione della norma

Aborto, i vescovi attaccano la 194

"Ha trent'anni, ha bisogno di revisione"


 ROMA - "La 194 ha ormai trent'anni, e li dimostra. Forse le servirebbe un tagliando". Lo afferma il quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire" in un'editoriale a firma di Eugenia Roccella, già militante femminista e poi portavoce del Family Day. La giornalista, rileva una vera e propria "deriva eugenetica" nell'applicazione della legge ed invoca l'intervento del ministro Livia Turco.

Sotto accusa soprattutto le nuove possibilità della medicina, che "compromettono" la corretta applicazione della legge. "Che i bambini affetti da trisomia 21, cioè da sindrome di Down, vengano ormai sistematicamente eliminati prima di nascere, l'abbiamo già denunciato più di una volta su queste pagine" - scrive la portavoce del Family day - sottolineando che "le nuove tecniche mediche, e le scelte che implicano, tendono a svuotare di senso la legge, approfittando delle incertezze interpretative".

In particolare, spiega l'articolo, "la diffusione e lo sviluppo delle diagnosi prenatali hanno scardinato gli articoli 6 e 7 della norma, fatti in origine per circoscrivere il ricorso all'aborto terapeutico, ed escluderlo quando il bambino ha possibilitá di sopravvivenza autonoma (quindi a partire dalla 22esima settimana)".

Critiche anche alla mancata applicazione degli interventi di prevenzione previsti dalla 194: "In tutti questi anni le donne che avevano bisogno di aiuto per diventare madri si sono trovate vicine solo i volontari dei Centri di aiuto alla vita".

Ecco perchè la giornalista chiede l'intervento del ministro Turco: "Il ministero - scrive la Roccella - potrebbe fornire indirizzi e regole, stilando delle linee guida, senza toccare la legge. Per mettere qualche paletto basta un atto amministrativo, senza modificare la legge, e probabilmente il ministro potrebbe contare su un'ampia area trasversale di consenso. C'è stato un tavolo dei volonterosi sui temi economici. Perché - conclude - non provare a farne uno sui temi della vita umana?".

Il ministro della Sanità Livia Turco aveva già fatto sapere che sono in arrivo nuove linee guida per "aggiornare" alcuni aspetti della legge 194, che regola l'interruzione di gravidanza.

(29 agosto 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Maggio 28, 2008, 07:01:33 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 29, 2007, 06:07:16 pm »

LIBRI

Vangelo secondo Fo

di Fabrizia Ramondino

L'altra faccia di Gesù, quella che al catechismo non insegnano: piena di dubbi e capace di dare scandalo presso i potenti 


Agnostica o non credente, solo a partire dall'età adulta ho cominciato a provare interesse per le religioni, monoteiste o politeiste, e per la loro storia.

Mentre mi è stata impartita solo la 'dottrina' parrocchiale, dalla quale mi sono allontanata a 13 anni. Ora ne so di più grazie ad appassionate ed eclettiche letture e ascolto regolarmente le belle trasmissioni di Rai 3 'Uomini e profeti' a cura di Gabriella Caramore.

Se avessi avuto fra le mani a 13 anni il libro appena uscito di Dario Fo 'Gesù e le donne', all'indifferenza ribelle e ignorante sarebbero subentrate la consapevolezza, la curiosità, la coltivazione del dubbio.

La lettura di Fo dei vangeli sinottici e apocrifi, accompagnata dalla storia del cristianesimo e del periodo storico in cui si è sviluppato, è sapiente, documentata, sostenuta da molti teologi e storici; al contempo questa sapienza è strettamente unita al suo mestiere di grande attore tragicomico, ora caustico, e attinge alla ricezione popolare dei vari Vangeli, quale si manifestava nelle rappresentazioni medievali sul sagrato delle chiese, in particolare in occasione del rito del 'Risus Paschalis'.

Gesù era un eversivo, non privo di dubbi e umorismo, che dava scandalo presso i potenti, religiosi o politici, e i benpensanti, perché osava avvicinarsi di preferenza agli oppressi, ai malati, ai poveri, soprattutto agli intoccabili: i lebbrosi, i matti, le donne... Non diversamente da Francesco d'Assisi secoli dopo, quando, dopo il rifiuto oppostogli dal papa di predicare in volgare e il suo sprezzante invito ad andare a predicare nei porcili, proprio in un porcile, quale paradossale segno di obbedienza, andò a predicare.

Il libro è ricco di immagini, dipinti di Fo stesso o di grandi maestri, o collage delle sue espressioni artistiche: simili ai grandi teli o cartoni dipinti che si calavano nelle rappresentazioni popolari sacre o profane. Tredicenni o genti rimaste a quella età, compratelo! È caro ma non più di qualche ricarica di telefonino.

Dario Fo

'Gesù e le donne'

Rizzoli, pp. 316, euro 45

(28 agosto 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 31, 2007, 12:05:19 am »

Distrazioni pericolose
Carlo Flamigni


Vogliamo parlare dell’aborto selettivo finito in tragedia in un ospedale di Milano? Leggo sui giornali che il Vaticano «è irato», che nessuno ha il diritto di sostituirsi a Dio, che questa è eugenetica, che bisogna cambiare la legge 194. Spero di non suscitare ulteriore irritazione dichiarando che sono perplesso. Anzitutto, mi chiedo di quale Dio stiamo parlando. Non trovo argomenti razionali per scegliere, vorrei indicazioni più precise: il Dio degli eserciti? Allah? Geova? Budda? Non è cosa di poco conto: se si tratta del Dio dei musulmani, siamo nei guai, le interpretazioni delle scuole giuridiche sull’inizio della vita personale non sono uniformi e per alcune di loro il feto merita rispetto solo dopo l’animazione, 40 o addirittura 120 giorni dopo il concepimento; per gli ebrei è bene andare a chiedere ai rabbini, ma è molto citato uno di loro che ritiene che l’embrione sia una goccia d’acqua.

Per i cattolici - ma solo per i buoni cattolici - vale il concetto della “palla prigioniera” per il quale è sufficiente che i gameti si tocchino perché si possa dichiarare iniziata la vita personale; immagino che per un evangelista conti di più il personalismo relazionale (bisogna che l’embrione entri in contatto con il grembo materno, perché è così che ha inizio la sua relazione con l’umanità, che fa di lui una persona), ed esiste una setta, non molto nota ma ricca di fantasia e di cultura, quella dei Dubitatori di Bertinoro secondo la quale è possibile (i Dubitatori di Bertinoro non sono mai certi di nulla) che l’embrione divenga persona solo dopo aver avuto il primo rapporto sessuale. E se vi sorprende l’incertezza degli ebrei e dei musulmani, non so cosa mai potrete dire dei cattolici i quali hanno depositato dal notaio almeno dieci differenti versioni della teoria sull’inizio della vita personale, sembra che le loro frequentazioni notarili superino quelle del cavalier Berlusconi. E mi chiedo come potranno togliersi dall’imbarazzo atei e agnostici razionalisti che all'esistenza di dio non credono e che da Dio, Geova, Allah, Budda si tengono lontani, anche seguendo il consiglio dei genitori che li hanno sempre pregati di guardarsi dagli sconosciuti.

Certo che, di fronte a tanta confusione, il rigore della Chiesa cattolica mi impressiona, tanta determinazione deve essere per forza indice di certezza. Non è che saranno loro i proprietari della verità? Ho cercato conferma di questa straordinaria sicurezza, e siccome sono ingiustamente accusato di essere un anticlericale, sono andato a curiosare nel paese che ha, unico in Europa, il privilegio di aver legiferato contro l’aborto volontario, seguendo pedissequamente le indicazioni di Santa madre chiesa, l’Irlanda. Potevo scegliere meglio di così? Ebbene, non voglio tenervi in sospeso.

L’Irlanda ha inserito nella sua Costituzione questo articolo: «Lo stato riconosce il diritto alla vita del non ancora nato, nel rispetto dell’uguale diritto alla vita della madre, e garantisce nelle sue leggi di rispettare e, per quanto possibile, di difendere e tutelare tale diritto con leggi opportune». Perfetto.

Solo che nel 2002 il governo irlandese propone di modificare un pochino questa norma e di approvare una nuova legge che conferma il divieto assoluto di abortire, ma che cambia un po’ le regole del gioco perché afferma che «è punita la distruzione intenzionale della vita umana non ancora nata dopo che sia stata impiantata nell’utero». Non è cosa di poco conto: con questa norma si legittima la pillola del giorno dopo, l’inserimento delle spirali e la ricerca sugli embrioni in vitro, tutte cose che il Magistero romano respinge con fierezza e con determinazione. Ebbene, si va al referendum, si chiariscono gli schieramenti, e guarda un po’ chi ritroviamo tra i favorevoli a questa nuova norma: l’episcopato cattolico irlandese, tutti i 26 vescovi titolari e i 9 vescovi ausiliari. Follia? Disobbedienza? Ebbene, qualcuno insinua che la promessa del governo di risarcire le centinaia di vittime di abusi sessuali compiuti sui bambini da membri del clero tra gli anni cinquanta e settanta abbia avuto un qualche peso. Allora, chi sono io per giudicare le intenzioni? Però concedetemi di essere perplesso (e anche un po’ deluso).

Passiamo al problema dell’eugenetica. Qui dobbiamo chiedere scusa ai genetisti che ci dicono che eugenetica significa semplicemente buona genetica, e la buona genetica l’approvava persino Pio XII.

Sempre chiedendo scusa ai genetisti, provo a definire meglio questo termine: immagino che nelle intenzioni significhi semplicemente genetica positiva migliorativa, il che significa volontà di ottenere qualcosa di migliore di quello che la natura ci offre. Ho qualche obiezione. Oggi la genetica non è in grado di fare alcunché di positivo, come costruire bambini più intelligenti e più coraggiosi, ma si limita a evitare che nascano bambini destinati a una vita di sola sofferenza o portatori di patologie che proporrebbero ai genitori e al resto dei famigliari sacrifici e problemi insopportabili, sulla base del principio che l'umanità non è in grado di accettare tutto quello che la natura impone. So, per aver convissuto con questi problemi per tutta la vita, che le coppie che vengono messe di fronte a queste possibili scelte passano attraverso a un vero inferno e credo che nei loro confronti l’unico sentimento moralmente accettabile sia quello della compassione. Mi sembra che da questa Chiesa, oggi, ci arrivino molte cose - verità, dogmi, anche pietà, se proprio volete - ma nessuna compassione e questo non delude solo me, delude anche i molti cattolici che ritengono giusto vivere la fede in modo del tutto diverso. Tutte le volte che succede qualcosa del genere, il genere di cose che sono fondamentalmente ascrivibili a un errore, ma che fanno scattare un interruttore nel petto dei cattolici più intransigenti, non passano dieci minuti - potete rimetterci l’orologio - che la senatrice Binetti dice che bisogna cambiare la legge 194 e il ministro della Salute afferma che bisogna meditarci sopra.

Ho già detto che sarebbe come chiudere le autostrade perché un automobilista si è addormentato al volante e ha causato un incidente mortale. Errori ne abbiamo fatti tutti e continueremo a farne, è indecoroso approfittare di uno dei tanti per sputtanare una legge che ha dimostrato di funzionare perfettamente. Dal 1983 ad oggi le interruzioni volontarie di gravidanza sono diminuite di più del 45% e ciò malgrado la presenza nel paese di molte nuove cittadine che non hanno ancora le idee chiare sul controllo delle nascite. Consiglierei al ministro, non appena ha finito di meditare (attività che peraltro considero meritoria) di preoccuparsi dell’uso illecito che molte cittadine che arrivano dall'Europa dell’Est fanno delle prostaglandine, acquistate per il mal di stomaco e utilizzate come abortigeni.

Concludo: sono assai poco interessato all’ira del Vaticano, non sono fatti miei; mi piacerebbe invece vedere almeno un po’ di irritazione nelle donne italiane di fronte a certe dichiarazioni. Pensateci ragazze: i diritti si acquisiscono al termine di lunghe e faticose battaglie e si perdono, per un attimo di distrazione, magari mentre state fondando un nuovo partito.

Pubblicato il: 30.08.07
Modificato il: 30.08.07 alle ore 8.43   
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 02, 2007, 11:41:53 am »

ESPLORAZIONI

Eros oltre ogni limite
di Valerie Tasso


Una scrittrice disposta a inseguire ogni tipo di ossessione erotica. Un reportage dai territori più oscuri della sessualità 
Ho sempre intuito che la sessualità ha possibilità infinite. Che genitalità è sesso, ma anche che sesso non è solo genitalità. Spiegare questo concetto è difficile, la gente non capisce. Tutto ciò che esce dal modello stabilito di sessualità, o dalla quarta posizione del Kamasutra, è considerato 'deviato'. L'intuizione che c'è una sessualità alternativa ugualmente valida e legittima, e la curiosità di scoprire questo 'altro lato' delle modalità erotiche, mi hanno portato a intraprendere un viaggio poco comune: vivere un erotismo diverso. E raccontarlo in prima persona. Con questa ricerca ho tentato di ampliare lo sguardo, di scoprire i margini di questo territorio tanto fertile che chiamiamo sessualità, esplorando la condizione umana. E la condizione umana non ha limiti. Questo è ciò che ho vissuto.

Infiltrata nel Castello del dolore

La prima tappa del mio viaggio cominciò vicino a Praga, nella Repubblica ceca, in un castello chiamato The Other World Kingdom (il regno dell'altro mondo). Nell'Owk le donne comandano sugli uomini. Questo è il suo motto ('Women over men') e il sadomasochismo è il principio del suo erotismo. Ci andai due volte. La prima con Lady Monique de Nemours, dominatrix professionista (una 'dominatrix' è una persona che, nel ruolo dominante, pratica il sadomasochismo sotto qualsiasi aspetto), che sarebbe stata la mia madrina in quel castello. La seconda con il mio compagno, che non avevo voluto far venire con me la prima volta per paura che gli potesse accadere qualcosa.

Eravamo in volo ormai da due ore e io ero più che mai nervosa. Sapevo che questo viaggio sarebbe stato il culmine di due anni di lavoro per scoprire perché esistono delle persone che godono attraverso il dolore, perché ad alcune persone piace sentirsi umiliate, vessate, schiavizzate e sono capaci di trasformare questa sensazione in piacere sessuale. All'eccitazione di visitare questo posto così singolare si sommava la paura per ciò che avrei trovato.

Conoscevo il Regno dell'Altro Mondo, ero entrata nel sito del castello. Avevo visto le immagini, situazioni estreme in cui c'erano donne che rinchiudevano uomini in catacombe per tutta la notte, segrete con celle equipaggiate di oggetti di tortura, bavagli, cappucci, fruste, ecc. A volte era stato difficile mantenere lo sguardo su alcune delle foto, soprattutto quando si trattava del castigo fisico puro e semplice. Ma mi affascinava il fatto di poter vivere tutto questo in prima persona. Avevo già avuto dei rapporti sadomasochistici, in maniera non consapevole. Ora avevo bisogno di Lady Monique per infiltrarmi nell'Owk. Lì entravano solo le iniziate. Io ero una semplice mistress novizia, e molto curiosa.

All'aeroporto di Praga ebbi paura. Mi sentivo come una delinquente. Se un poliziotto avesse trovato gli strumenti di lavoro che Lady Monique portava nella valigia, ci saremmo trovate in serie difficoltà. Un uomo ci aspettava all'uscita, con un cartello dove era scritto a grandi lettere Owk. Arrossii. Come faceva quell'uomo ad avere il coraggio di gridare ai quattro venti che veniva dall'Owk a prendere due 'domine'?

L'attesa prima di entrare nel castello fu lunga. Quindici minuti, finché un ragazzo, di una corpulenza impressionante, con un collare da cane che gli strangolava il collo, ci aprì la porta. Nessun uomo, nell'Owk, può fare a meno di indossare il collare da cane. È il segno della sottomissione per eccellenza.

Gli uomini erano poco vestiti, alcuni nudi. Mi colpì la naturalezza con cui camminavano nelle dipendenze del castello, con la testa china per non incrociare i nostri sguardi, segno di sottomissione e affidamento. La maggior parte di loro era accompagnata dalle rispettive padrone, alcuni erano 'orfani' e condannati a una sorte peggiore degli altri. Essendo dei ragazzi 'pubblici', qualsiasi domina poteva fargli quello che voleva. Quelli che erano accompagnati erano più protetti essendo trattati da una donna che li conosce bene. Potevano dormire con loro nelle stanze con aria condizionata del castello o passare la notte nella stalla o nelle catacombe del castello. Senza lamentarsi. Senza dire nulla.

Pensavo che avrei trovato delle persone un po' eccentriche, ma non incontrai altro che persone. Semplicemente. Gente che aveva indagato profondamente sulla nostra condizione, sui suoi limiti e le sue debolezze. Madame Helen, domina specializzata nel medical (un aspetto del Bdsm che usa giochi con aghi, incisioni e tutto ciò che ha a che fare con il sangue) era 'comprensibile' quando conficcava nei testicoli del suo schiavo una siringa piena di acqua e sale.

Facevamo delle offerte per acquistare gli schiavi che si vendevano all'asta in una stalla fredda. Delle creature acquistate sapevamo che cosa erano disposte a fare e cosa no. E rispettavamo rigorosamente la loro volontà.

Mentre mi trovavo all'Owk, immaginavo la quantità di uomini e di donne che praticano il sesso nel mondo, un sabato sera, non perché ne abbiano voglia, ma perché bisogna farlo. La quantità di uomini e di donne che non si scambiano una parola, che non si interessano all'altro, perché nel sesso si crede che non si debba chiedere che cosa piace o meno. Si deve intuire. Nell'Owk, anche se sussurrando, si comunicava costantemente con l'altro. Si stava attenti a qualsiasi segno corporeo o verbale, a qualsiasi indizio che dicesse come si stesse svolgendo l'incontro.

Nessuno si dilungò a spiegare chi fosse nella vita reale, che cosa facesse, perché queste informazioni, nell'Owk, erano irrilevanti. Gli ospiti del castello venivano a vivere il loro erotismo. Giocavano, come i bambini. Nell'Owk la professione di ognuno non risponde alla domanda di chi è ciascuno, come di solito accade nella vita di ogni giorno. Uno non è quello che fa. Uno è qualcosa di più di ciò di cui si occupa. Conchita, la cameriera che ci aveva accompagnato durante la nostra permanenza, che era fiera di avere un orologio che ha sempre l'ora esatta per non arrivare mai nemmeno con un minuto di ritardo, era un prestigioso avvocato londinese. Ma lì, come dicevo, era irrilevante.

traduzione di Luis E. Moriones
 
Identificazione di una donna
 
Valerie Tasso è di origine francese, si è laureata in Scienze economiche e in Lingue straniere applicate e ha un master in Direzione aziendale. Vive in Spagna dal 1991. Nel 1999, "per curiosità", spiega lei, ha esercitato la prostituzione di alto bordo. Ha pubblicato nel 2003 in Spagna la sua opera prima, 'Diario di una ninfomane', pubblicato in Italia da Marco Tropea Editore nel 2004, che l'ha collocata tra le scrittrici in lingua spagnola più note a livello internazionale. A questo libro ha fatto seguito 'Paris. La nuit' e nel marzo del 2006 'El otro lado del sexo', in libreria in Italia dal 13 settembre come 'L'altro lato del sesso-un'indagine di Valérie Tasso' (Marco Tropea Editore, pp. 256, 14 euro). I suoi lavori sono stati pubblicati in più di 15 paesi e apparsi nelle classifiche dei più venduti. Attualmente è in preparazione una versione cinematografica di 'Diario di una ninfomane'. Collaboratrice di programmi televisivi, radiofonici, oltre che di quotidiani e riviste, è conferenziera e ricercatrice. Si è laureata nel 2006 in Sessuologia presso la Incisex, che dipende dall'università di Alcalá de Henares di Madrid. Ha un suo sito: www.valerietasso.com.
 
Infermiere del sesso
 
Il ruolo e lo status delle prostitute dipende dalle società in cui svolgono la loro attività. Che può anche essere di terapia erotica

Ho sempre difeso la prostituzione come un'attività lavorativa, purché sia esercitata liberamente. Non posso farne a meno, tenendo conto della mia traiettoria esistenziale. Ho sempre cercato di spiegare che essere una prostituta non è una cosa indegna se non si vive come tale. Ma in molti paesi il dibattito sul regolarizzarla o meno è sempre sul tavolo. Alcuni l'hanno proibita, altri continuano a discutere. Quel che è chiaro è che molti parlano al posto di queste donne, invece di lasciare che siano loro a esprimersi sulla decisione di disporre con una totale libertà del proprio corpo. La Danimarca non ha problemi con le sue prostitute. E, di fatto, ha riconvertito alcune meretrici in 'terapiste sessuali' che si prendono cura di persone che non hanno la possibilità di vivere la loro sessualità in modo pieno, o perché soffrono di qualche handicap fisico o mentale, o perché sono persone ormai di una certa età e non possono avere accesso al sesso come prima, ma non per questo hanno rinunciato a esercitare la propria condizione di esseri umani sessuati. Per soddisfare questa necessità in una comunità particolarmente vulnerabile, il governo danese ha messo a disposizione di chi ne fa richiesta delle meretrici che prestano un servizio economico-sessuale ai più 'deboli'. Nonostante la controversia che l'opposizione danese ha manifestato in diverse occasioni, il modello finora continua a funzionare. Io stessa entrai involontariamente nel ruolo di una di queste 'infermiere sessuali' quando lavorai come prostituta e l'esperienza creò dei vincoli emotivi con il cliente particolarmente gratificanti. Queste persone, sistematicamente respinte dagli altri, non avrebbero potuto mai avere un incontro sessuale con una donna che si dedichi a un'altra attività. E se fosse stato possibile, il sentimento di fallimento avrebbe potuto diventare traumatico per loro. Quando esercitai il mestiere di 'terapista sessuale', invece, fu tutto il contrario.

Non mi è facile raccontare la gratitudine che si leggeva sulla faccia di alcuni miei clienti. La Danimarca non nasconde le sue prostitute né le stigmatizza. Allo stesso modo, non tratta gli invalidi o le persone della terza età come cittadini di seconda categoria. Non è necessario dire che il modello danese è unico (a parte la Svizzera, che si è unita a questa iniziativa di maturità). V. T.
 
Il punto G? È il Santo Graal
La chirurgia plastica della vagina è un business sempre più fiorente. Per tornare vergini. O per sognare nuove frontiere del piacere 
Molti oggi sono disposti a ricostruire il corpo femminile, tanto misterioso per molti e per noi stesse, perché si adatti perfettamente alla sessualità maschile. Il noto chirurgo del ringiovanimento della vagina, il Dr. Matlock, è un americano che, ricostruendo imeni per tornare vergini o ringiovanendo vagine di donne che hanno avuto figli, vende la sua chirurgia come un modo in cui le donne possono godere meglio della sessualità. Ma è vero? Questo tipo di chirurgia comincia a trovare molti adepti in Europa, a tal punto che in Spagna stiamo vivendo un fenomeno inedito: la vendita all'asta di vergini. Donne che si ricostruiscono l'imene tutte le volte che vogliono (l'operazione costa circa 3 mila euro) e si sottopongono a un'asta sul mercato sessuale per circa 6 mila euro, facendosi passare per vere vergini. L'affare (il conto non è difficile) è redditizio. Il Dr. Matlock ha anche inventato una tecnica che ingrandisce il punto G perché la donna possa provare un piacere maggiore durante la penetrazione. Ho sempre avuto i miei dubbi sul punto G, tra l'altro perché non esiste come tale un punto dentro la vagina insensibile, detto

en passant. Quello che c'è è la radice del clitoride, di una dozzina di centimetri, dall'altra parte della parete vaginale che si può stimolare dall'interno. Che alcune donne provino piacere quando sono stimolate dal pene nella parete vaginale, non ne dubito. Ma da qui ad affermare che tutte le donne provano piacere... Conosco bene il mio corpo e devo confessare che trovare il presunto punto G è quasi più difficile che trovare il Santo Graal...

Alle prime comunicazioni inviate al Dr. Matlock per avere delle informazioni ho ottenuto subito risposta. Ma quando ho cominciato a chiedere maggiori informazioni specifiche, nessuno ha voluto più mettersi in contatto con me. Comunque, non ho ancora desistito.


da espressonline.it
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 05, 2007, 04:20:53 pm »

Ruini ci riprova: «La legge 194 va cambiata»


Ogni tanto ci riprova Camillo Ruini a interferire nella politica italiana. Per il cardinale sarebbe addirittura «non solo lecita ma doverosa» una modifica della legge sull'interruzione di gravidanza, conquista di civiltà fatta dall´Italia negli anni Settanta. L´ex presidente della Cei cerca di giustificare questo suo attacco argomentando che servirebbe «un´interpretazione che aggiorni e migliori la legge 194 ai progressi medico scientifici e non peggiori la legge» che, ha ricordato, risale a quasi 30 anni fa.

Certo, se fosse per lui, la legge andrebbe proprio abolita. «Per un credente sarebbe meglio che questa legge non ci fosse, ma c'è», ha detto Ruini, «e non c'è una situazione culturale e politica per la sua abrogazione». D'altra parte, per il vicario del Papa nella diocesi di Roma, ripete che la materia «risente di una grande trasformazione che è prodotto del progresso medico e scientifico». La conseguenza, secondo la logica di Ruini, è che «darne un'interpretazione che la aggiorni, che la migliori e non la peggiori, è non solo lecito ma doveroso».

Pubblicato il: 04.09.07
Modificato il: 04.09.07 alle ore 18.26   
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 06, 2007, 05:52:41 pm »

Una riflessione pacata ma ferma della componente l'Ufficio di Presidenza di Sd

La Legge 194 non si tocca

di Katia Zanotti


Consiglio  di andare a vedere un bel film, vincitore a Cannes 2007, del regista  rumeno Cristian  Mungiu, che è  nelle sale in questi giorni.  Il titolo è “ 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” e parla in modo straordinariamente delicato e insieme straordinariamente agghiacciante dell’aborto illegale di Gabita, ragazza rumena e della  sua amica Otilia, nella Bucarest della metà anni 80.
Per chi si fosse dimenticato di  che cosa è l’aborto clandestino.
Ma veniamo a questo tempo presente, tempo in cui si propone ripetutamente una offensiva tutta ideologica, per il modo in cui si riparla di aborto,  contro la legge 194.
Il cardinale Ruini e  Famiglia Cristiana, puntuali e   con perfetta sincronia, hanno aperto la campagna d’autunno contro la legge 194, campagna  che ha già invaso ossessivamente la politica  in questi ultimi anni, anni di governo del centro destra e anni di gara di alcuni settori del mondo politico,  gara spregiudicata in gran parte infestata da motivazioni e finalità politiche  per l’accreditamento presso le gerarchie ecclesiastiche e l’elettorato cattolico.
Ruini afferma “ La legge c’è, non ci sono le condizioni culturali e politiche per abrogarla….. Dunque è doveroso darne una interpretazione che aggiorni e migliori la legge”.
Il cardinale vicario ha ragione sulla sua prima considerazione. In questo Paese è diventata coscienza collettiva,  ampiamente consolidata, l’idea che l’aborto non è un reato, e non è neppure un diritto.  E’ una decisione che una donna sa prendere, consapevole.
E’ diventata consapevolezza assai diffusa che la legge 194 non è una legge come tutte le altre e che se ha retto nel corso del tempo agli attacchi ripetuti e mai sopiti cui è stata sottoposta, tra cui il referendum abrogativo del 1981, è perché nella pratica essa non ha incentivato l’aborto, al contrario ne ha diminuito in modo assai significativo il numero,  ha garantito assistenza a chi ne ha avuto necessità, e soprattutto si è affidata al senso di responsabilità delle donne che hanno saputo far valere la loro autonomia.
 Davvero oggi sollevare la questione dell’abrogazione della legge vorrebbe dire rischiare di perdere milioni di voti.  E Ruini è molto  ben avvertito  su tutto  ciò.
La vicenda drammatica dell’aborto selettivo di Milano richiesto da una donna incinta di due gemelle, dopo che alla quindicesima settimana la diagnosi prenatale ha mostrato alterazioni cromosomiche su uno dei due feti,  ha  spinto il Vaticano a parlare di doppio suicidio  e Ruini delle “gravissime interpretazioni eugenetiche della legge 194”. 
Di fronte  ad una scelta che porta con sé dolore e sofferenza  la Chiesa  parla di cultura della perfezione  del corpo e della 194 come responsabile  di tale nefandezza.
Almeno a questo riguardo la risposta  non consente ambiguità come sottolinea il Prof. Ainis  sulla Stampa di qualche giorno fa:   dopo i primi 90 giorni l’interruzione della gravidanza è lecita per salvare la vita della madre, o altrimenti di fronte a malformazioni del feto che mettano a repentaglio la «salute fisica o psichica» della stessa madre. Non c’è insomma un diritto ad avere figli sani; c’è solo il diritto a non soffrire.
Il silenzio in generale, il silenzio della Chiesa in questo caso, sarebbe  stato la migliore forma di rispetto per le decisioni che chiamano in causa la responsabilità delle persone, la loro coscienza, i loro sentimenti. Perché  ignorare che dentro il valore del rispetto per la vita c’è anche il rispetto per la vita delle donna? Per la Chiesa, purtroppo e ancora una volta ciò che va difeso è il primato del concepito, anche se questo può significare contrapporlo alla madre.
La Relazione al Parlamento sullo stato di applicazione sulla legge 194 indica che occorre completare numericamente la rete consultoriale sul territorio, assicurare organici completi, connetterli in rete con tutti i servizi del territorio, soprattutto quelli sociali, per la presa in carico della donna e/o della coppia, sostenendola nella maternità e paternità consapevoli ed in particolare fornendo tutte le informazioni e i sostegni sul versante economico e sociale proprio per rimuovere quelle cause che molte volte sono alla base delle motivazioni della scelta di una Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza).  Sappiamo bene quante difficoltà in Italia si frappongono alla libertà di scelta di procreare, quali siano i costi sostenuti da chi (soprattutto le donne) fa questa scelta  e quali siano gli effetti delle diseguaglianze sociali alla nascita. Di questo e non di altro si dovrebbe trattare quando si parla di miglioramento nell’applicazione della legge 194.     
La legge 194 è un rigoroso e saggio punto di equilibrio fra convinzioni diverse da cui non si può in alcun modo arretrare.  La legge 194 non si tocca.

da sinistra.democratica.it
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 09, 2007, 09:53:01 pm »

POLITICA

L'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi critico su lavavetri e rom sgomberati con la forza

Sicurezza, il monito dei cardinali

"La legalità deve valere per tutti"

Ferrero e la Bindi: bravo Veltroni a stoppare l'idea dei sindaci sceriffi

Lega e Bossi all'attacco. Gentilini: taglia su Prodi e Mastella

di ZITA DAZZI

 
MILANO - Anche la Chiesa interviene nel dibattito sulla sicurezza nelle città. A Milano ieri ha parlato l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi: "Parlare di sicurezza senza pensare all'ascolto, all'integrazione e alla prevenzione è una cosa senza logica. La sicurezza deve essere umana, deve passare dall'educazione. È un diritto di tutti. Non solo dei cittadini milanesi, ma anche di quelli che vivono nell'emergenza cronica, i rom e i lavavetri".

Non fa giri di parole, il cardinale, quando gli si chiede dei sindaci in lotta contro gli accattoni e gli zingari: "Bisogna intervenire con il cuore e con la mente, senza alimentare le contrapposizioni, senza soluzioni unilaterali che fanno crescere la paura della gente". Nelle stesse ore a Firenze un altro porporato, Ennio Antonelli, mette in guardia dalle semplificazioni: "Bisogna che la legalità sia sempre curata e sia fatta rispettare. Il fenomeno dei lavavetri dobbiamo cercare di capirlo ma anche dobbiamo stare attenti a non fare di ogni erba un fascio".

Anche nel mondo politico la polemica non si placa. Se il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro spiega che "prendersela con i lavavetri, ultima ruota del carro, è un modo per coprire la malattia non per curarla", Massimo Donadi, capogruppo dell'Italia dei Valori alla Camera, minaccia: "Se non passa la linea della tolleranza zero, mettiamo a rischio non la tenuta del governo ma lo stesso nostro futuro nel centrosinistra".

Il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero plaude a Veltroni per la stroncatura dei sindaci-sceriffi: "Auspico che questi primi timidi segnali aprano la discussione nel Partito democratico. La lotta ai criminali non diventi lotta ai poveracci". E il ministro della Famiglia Rosy Bindi chiosa: "Stavolta vado d'accordo con Walter, sono contenta che Cofferati dica una cosa e Veltroni un'altra". La proposta del sindaco di Bologna viene bocciata anche dal ministro Fabio Mussi: "Propaganda che liscia il pelo alle paure". Molti sono i sindaci che prendono le distanze da Cofferati e Domenici, le cui proposte anti-lavavetri vengono definite "ridicole" da Silvio Berlusconi. Rosa Russo Iervolino, primo cittadino a Napoli, invita i suoi assessori a una "maggiore discussione" sul provvedimento anti parcheggiatori abusivi appena votato. E sul dibattito nazionale aggiunge: "Non ho apprezzato i fuochi d'artificio di questi giorni, e lo dico anche da ex ministro dell'Interno. Mi sono astenuta finora da sparare anch'io tric-trac. E continuerò, con la tecnica di chi parla poco e lavora molto". Il sindaco di Palermo Diego Cammarata distingue: "Da noi, non è certo dando poteri di polizia ai sindaci che si offre più sicurezza. La nostra emergenza è la mafia, non certo i lavavetri". Da Bari incalza il sindaco Michele Emiliano: "Ultimamente va di moda dare la colpa ai lavavetri, ai parcheggiatori abusivi. Noi non ce la caviamo così a buon mercato".


(9 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 24, 2007, 10:58:16 pm »

24/9/2007 (14:59)

Toscani shock contro l'anoressia

Il famoso fotografo ha ripreso una modella magrissima "perché gente sappia e veda"

MILANO


C’è la mano di Oliviero Toscani e la presa di coscienza, da parte di una modella anoressica, della propria condizione di malata, dietro la foto, già definita da «pugno nello stomaco», della magrissima giovane francese Isabelle Caro, che da oggi appare sui giornali e sui manifesti affissi nelle maggiori città. Il suo corpo, di soli 31 chili, è stato scelto come testimonial per la campagna pubblicitaria, accompagnata dallo slogan «No anoressia», della casa di moda Nolita, del gruppo Flash&Partners. La donna, completamente nuda, ha deciso di accettare di mostrarsi «perchè la gente sappia e veda davvero, a che cosa può portare l’anoressia». Una campagna che ha già suscitato diverse reazioni e che ha ricevuto l’approvazione del ministro della Salute Livia Turco, che ha dichiarato di apprezzarne sia i contenuti che le modalità di realizzazione.

Isabelle Caro ha raccontato a Vanity Fair (in edicola il 26 settembre) le vicende familiari che l’hanno condotta sulla strada della malattia che oggi, dopo 15 anni, l’ha ridotta 31 chili di ossa e pelle affetta da psoriasi, ricoperta di una lanugine bionda e completamente nera sotto gli zigomi. «Mi sono nascosta e coperta per troppo tempo: adesso voglio mostrarmi senza paura, anche se so che il mio corpo ripugna - spiega al settimanale - Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito hanno un senso solo se possono essere d’aiuto a chi è caduto nella trappola da cui io sto cercando di uscire».

La campagna pubblicitaria si rivolge in particolare alle giovani donne attente alle indicazioni delle mode e intende richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla malattia che, insieme alla bulimia, colpisce in Italia due milioni di persone ed è spesso causata dagli stereotipi imposti dal mondo della moda.

«L’anoressia è un tema tabù per la moda - osserva Oliviero Toscani - Come l’Aids ai tempi: nessuno nel giro della moda aveva l’Aids. Adesso invece l’argomento tabù è l’anoressia». Ma Toscani afferma di non ritenere che «la moda abbia grandi responsabilità nel problema dell’anoressia, è una cosa molto più ampia - sostiene - che riguarda tutti i media e in particolare la televisione, che propone alle ragazze modelli di successo assurdi». «La tv - aggiunge - ha creato una società che non si ama e non si accetta. E il sistema è degenerato. La mostruosità piace. Siamo in preda a una malattia culturale: ci piacciono i mostri perchè non ci vogliamo bene». Sulle eventuali critiche che la campagna, per la sua crudezza, potrebbe sollevare, Toscani replica che «C’è una bellezza nella tragedia. Il paradosso è che ci si sconvolge davanti all’immagine e non di fronte alla realtà. Io ho fatto, come sempre, un lavoro da reporter: ho testimoniato il mio tempo».

Anche Luisa Bertoncello, amministratore delegato di Flash&Partners, afferma di essere rimasta scioccata quando ha visto la foto «per la crudezza e la verità che comunica. Oggi però l’intento aziendale è proprio quello di usare i mezzi pubblicitari come strumento di sensibilizzazione ai mali sociali». Anche per il ministro della Sanità Livia Turco un’iniziativa come questa può essere in grado di «aprire efficacemente un canale comunicativo originale e privilegiato con il pubblico giovane attraverso un messaggio di grande impatto idoneo a favorire un’assunzione di responsabilità verso il dramma dell’anoressia».

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 08, 2007, 11:15:24 am »

Cronache   

«Citare il cognome che porto ha cancellato 15 anni di muro contro muro»

Veronica a Veltroni: grazie, ma non posso

La signora Berlusconi: rispetto il ruolo di moglie del capo dell'opposizione


MILANO - «Mi piacerebbe un Paese dove si incrociano le idee, penso sarebbe bello che Veronica Berlusconi potesse dare un suo contributo. Ha due caratteristiche rare: è open minded, curiosa, e ha una grande autonomia intellettuale». Così, la settimana scorsa, Walter Veltroni su A. Quel che si è scatenato dopo lo sapete, se vi è capitato di leggere i quotidiani di giovedì 4 ottobre, di ascoltare qualche tg, di seguire Matrix o l'Infedele di Gad Lerner o Omnibus. 

Negli Stati Uniti, a fine settembre, la first lady Laura Bush partecipa da due anni al seminario internazionale sull'ambiente promosso da Bill Clinton, vale a dire dall'uomo che ha sconfitto Bush padre, il marito della candidata democratica che cercherà di soffiare la Casa Bianca ai repubblicani. Nessuno si scandalizza. In Francia, ha fatto molto discutere la mossa a sorpresa con la quale Sarkozy, appena eletto, ha corteggiato tre o quattro socialisti, portandone qualcuno al governo e qualcun altro in una autorevole commissione presieduta da Jacques Attali.

In Italia, finora, la politica non ha invece previsto forme di comunicazione diciamo civile. Si dirà: che c'entra Veronica Berlusconi con tutto questo, commissioni di Sarkozy, convegni sull'ambiente dove Laura Bush e Bill Clinton siedono allo stesso tavolo? Non c'entra niente, per ora, ma è quel genere di clima, un contesto ambientale in cui nessuno si stupisce se parli con «la moglie del tuo miglior nemico» (Beppe Severgnini, Corriere della Sera) che Walter Veltroni auspicava nell'intervista ad A. Con questo pensiero in testa, martedì scorso, 2 ottobre, ho fatto leggere a Veronica Berlusconi l'intervista che il giorno dopo sarebbe stata pubblicata da A. La prima reazione? Quasi di imbarazzo: «Non sono abituata a tanti complimenti ». Poi, com'è già capitato con lei in altre occasioni, mi ha chiesto tempo per poter riflettere: era il caso di rispondere? E come? Nei giorni successivi, per quel che so, ci sono state battute in famiglia, una prima telefonata, da palazzo Grazioli, con Silvio Berlusconi che indagava: «Hai intenzione di rispondere?» e Gianni Letta, un altro nome «di diverso sentire» citato spesso dal sindaco di Roma , che scherzava: «Cara Veronica, Veltroni vuole solo te e me». Luigi, il terzogenito neo iscritto alla Bocconi ha letto l'intervista e l'ha così commentata: «Adesso chiamo papà e gli dò la notizia: "Papà, ce ne siamo liberati, la prendono nel Partito democratico».

Veronica Berlusconi ha sorriso, ascoltato, letto.E, qualche giorno dopo, ha deciso di dire la sua. È una donna curiosa, no? Lo dice pure Veltroni. Che effetto le ha fatto la proposta di Veltroni? Il candidato alla segreteria del Pd le propone di dialogare, di dare un contributo come donna «di grande autonomia intellettuale». «Mi sento un po' come un embrione da adottare. Battuta a parte, apprezzo la cortesia. Fa piacere che abbia formulato questa idea in ragione delle cose che ho detto nel libro Tendenza Veronica o in qualche intervista o scritto in un paio d'occasioni». Secondo lei perché ha pensato a Veronica Berlusconi? «Forse ha pensato alla valorizzazione di un ruolo, quello di chi per oltre vent'anni ha fatto solo la moglie e la madre. Forse Veltroni vorrebbe dare rilievo all'esperienza di una madre di famiglia, sia pure molto privilegiata. È un ruolo che per tante donne è ancora il più importante». A questo punto che cosa gli risponde? «Non vorrei parlare di me, ma dell'apertura che si coglie nelle parole di Veltroni. Citare il cognome che porto significa anche superare quindici anni di conflitti, cercare di costruire una strada diversa rispetto alla demonizzazione dell'avversario. Noi viviamo da anni in un clima di "muro contro muro" e sarebbe ora che questo La settimana scorsa, intervistato da Maria Latella per A, Walter Veltroni ha espresso tutto il suo apprezzamento per la moglie di Silvio Berlusconi: «L'ho incontrata qui in Campidoglio e mi sembra abbia due caratteristiche rare, entrambe utili a questo Paese: è open minded, curiosa e ha una grande autonomia intellettuale. Mi sembra una personalità di primissimo piano. Sarebbe bello disporre di un contesto dove possa dare un suo contributo ». Le sue parole hanno suscitato molte reazioni politiche. La prima è arrivata direttamente dal Cavaliere, che al sindaco di Roma ha fatto sapere: «Fa piacere tanta stima verso mia moglie, ma chi la conosce sa che è una persona molto riservata».

Critici i quotidiani di sinistra, dal manifesto al Riformista, e le donne del Pd. Adesso però a Veltroni risponde proprio la signora Berlusconi: «Aver citato il cognome che porto significa superare 15 anni di conflitti». Ecco l'intervista di Maria Latella alla moglie dell'ex premier che uscirà sul prossimo numero di A. stato d'animo finisse. È dimostrato che non ha fatto bene a nessuno, soprattutto non ha fatto bene a questo Paese. Veltroni porta con sé passione politica e il fascino di un'idea che apre al dialogo. Mi sembra di capire che la sfida sia ricreare un'unità intorno allo Stato, avvicinare le culture e le forze riformiste di destra e di sinistra, politiche e civili». Veltroni ha raccontato di averla incontrata in Campidoglio. Quando vi siete visti? «Due anni fa. Con alcuni amici ero stata invitata a visitare una mostra al Vittoriano e in quell'occasione siamo stati ricevuti dal sindaco in Campidoglio. È stato un incontro cordiale, interessante. Ho potuto constatare quanto conosca bene la sua città e quanto la ami. Ci ha fatto da Cicerone, dalle finestre del Campidoglio ci ha fatto ammirare scorci di Roma più che suggestivi ». Andrebbe a votare il 14 ottobre? «No». Non lo fa perché è la moglie del capo dell'opposizione? «È così. Come moglie del leader dell'opposizione ho un ruolo e lo rispetto. Ci sono confini che non possono essere superati». C'è un ruolo diciamo pubblico che vorrebbe svolgere, che la incuriosisce? «Mi incuriosisce tutto ciò a cui posso dare il mio contributo, si tratti di una scelta sociale, morale o di condotta di vita. Mi chiedo spesso quanto sia giusto mantenere un distacco dalla realtà politica che ci circonda. Mi chiedo quale prezzo o quali conseguenze potrebbero pagare i nostri figli o i nostri nipoti per tale comportamento. Ma nonostante tutti questi interrogativi, non vedo ancora un ruolo in politica». Che reazioni le suscita l'antipolitica di Beppe Grillo? «Personalmente, preferisco un linguaggio che oltre a farsi comprendere, possa farsi anche apprezzare. Questa, però, è solo una questione di forma. La sostanza è che Grillo interpreta ed in fondo esorcizza un sentimento diffuso nella gente: la diffidenza, l'incredulità nei confronti della politica. Rende visibile questo sentimento, con franchezza propone in un linguaggio accessibile, concetti semplificati, finalizzati anche alla riuscita dello show. Il rischio però è di diventare un banalizzatore della complessità dei problemi, il pericolo è trasformare il dubbio e l'incertezza in una sfiducia generalizzata, qualcosa che scolli ancora di più la società dallo Stato. È quello che ogni tanto succede anche a Bossi quando dal suo palcoscenico parla di fucili da imbracciare, "lotta di liberazione e uomini pronti a lanciarsi nel sacrificio"».

 Lei è certamente una privilegiata. Che cosa pensa dei politici che, arrivati al potere, scalpitano per piccoli e grandi privilegi? In fondo, aspirano a condividere se non la vita dei miliardari, almeno un frammento del loro stile di vita. «Non ho un pregiudizio sul privilegio, quando si distingue tra concessioni e diritti acquisiti. Un esponente dello Stato non rappresenta solo se stesso ma anche i suoi concittadini, per cui gli sono concessi dei privilegi per svolgere al meglio questo compito. È risaputo che succede la stessa cosa nel mondo delle aziende dove esistono dei benefit per i manager perché rappresentanti dell'azienda. Oggi si polemizza molto sugli stipendi e sulle pensioni dei parlamentari. Certo chi collabora all'attività parlamentare solo per un breve periodo non dovrebbe godere di un trattamento simile a chi svolge l'attività di politico per tutta la sua vita. Ecco, percepire una pensione dopo essere rimasto in Parlamento per appena una metà della legislatura mi pare un eccesso. Ma percepire uno stipendio adeguato mi sembra doveroso per chi rappresenta lo Stato». Dei suoi tre figli, una studia all'estero, un altro, Luigi, ha appena fatto uno stage a Londra e l'altra, Barbara, potrebbe decidere di fare un master all'estero dopo la prossima laurea in filosofia. Considerata l'attenzione che lei ha sempre avuto per l'educazione dei figli, non le sembra un peccato che l'Italia offra meno ai suoi studenti di quanto non facciano gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e ora anche la Cina? «Ma se ho appena letto che la Bocconi ha superato Harvard! Mi è difficile dare un giudizio sulle università , le conosco per quanto leggo sui giornali o per quel che mi raccontano i miei figli. Credo che in Italia ci siano ottime università, con percorsi di studio seri, frequentate a volte anche da stranieri. Vedo piuttosto un problema tra università e mondo del lavoro. Nelle università americane è normale effettuare periodi di stage nelle aziende durante tutto il corso di studi, in estate o nei periodi di sospensione delle lezioni, da noi è un'eccezione, lo fanno quelli molto bravi o chi ha la fortuna di avere un docente che lo stimola. Attraverso lo stage un ragazzo studia e mette in pratica ciò che ha imparato, confrontandosi fin da subito con il mondo del lavoro, capisce meglio le sue propensioni ed i suoi interessi. E questo può essere anche un grande incentivo a portare a termine i propri studi».

Maria Latella
08 ottobre 2007

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