LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA-U STORICA 2 -Ante 12 maggio 2023 --ARCHIVIO ATTIVO, VITALE e AGGIORNABILE, DA OLTRE VENTANNI. => Discussione aperta da: Arlecchino - Maggio 24, 2007, 10:55:10 pm



Titolo: MONDO DONNA N° 1
Inserito da: Arlecchino - Maggio 24, 2007, 10:55:10 pm
Il Festival di Cannes L’orrore di un aborto.

Scene choc al festival Paura e clandestinità nella Romania di Ceausescu.

Il dramma della povertà e le maternità forzate imposte dall'ex leader comunista

Una scena di «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni» di Cristian Mungiu (Emmevi)


CANNES (Francia) — Cronaca di un aborto a porte chiuse. Otto ore di ordinaria paura, clandestinità, violenza, sangue, soldi, infezioni e morte nella Romania di vent’anni fa, Ceausescu ancora al potere. In una stanza d’albergo una ragazza aspetta l’uomo che ha promesso di liberarla da una gravidanza indesiderata. Con lei un’amica, Ottilia, pronta a darle una mano.

E anche di più, visto che l’atteso non è uno che si fa scrupoli: il denaro pattuito non basta più quando scopre che Gabita è incinta ben oltre quello che aveva confessato. Facendo bene i conti, sono 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, che è anche il titolo scelto da Cristian Mungiu per il suo film di agghiacciante realismo. Perché, visto che l’intervento si complica e i rischi sanitari e giudiziari crescono, l’uomo, un professionista di questi affari, capito che le due non hanno più una lira, chiede un surplus in natura. Con entrambe.

Quel che accade dopo è ordinario orrore paraginecologico. Dalla sua valigetta di commesso viaggiatore dell’utero, Monsieur Bebè, così si fa grottescamente chiamare (ma del resto da noi le sue colleghe non si chiamavano «fabbricanti di angeli»?) estrae alcol, cotone e la lunga cannula che servirà all’uopo. L’intervento per fortuna non si vede. Ma Mungiu non ci risparmia il peggio: il feto abbandonato sul pavimento del bagno. Che essendo di quasi cinque mesi, è formato e somiglia in tutto a un neonato. Una scena choc, come gli spicci consigli dati dall’uomo a Ottilia, che quel grumo di carne e sangue ha raccolto e infilato in borsa: «Non buttarlo nel gabinetto perché lo ostruirebbe, non lasciarlo in strada perché lo mangerebbero i cani...». Su come va eliminato, meglio sorvolare. Come dice Ottilia a Gabita: «Non ne voglio parlare. Né ora né mai più, per il resto della vita».

«Questa storia nasce da un ricordo privato. Quando avevo vent’anni qualcosa di simile accadde a una persona molto vicina a me», racconta Mungiu, 37 anni, considerato uno dei talenti del nuovo cinema rumeno, fucina di film di alta qualità e basso costo (590mila euro, il budget di questo) capaci di valicare i loro confini. Film che cercano di fare i conti con una storia recente e dolorosa. Accade anche qui, pur senza mai tirar direttamente in causa il regime. Il piccolo dramma che si consuma in quella stanza d’albergo dà un’idea precisa del contesto storico: le code davanti ai negozi, il baratto dei prodotti di prima necessità, i pacchetti di sigarette estere allungati per ottenere quello che altrimenti non si poteva comprare.

Una Romania povera, disperata, impaurita. Dove proprio Ceausescu, il comunista più mangiabambini dell’immaginario occidentale, nel 1966 aveva stilato una legge che proibiva l’aborto. «L’obiettivo era l’incremento demografico: tanti nuovi virgulti per andare a ingrossare le fila del Partito — spiega amaro Mungiu —. In pochi anni le nascite si quadruplicarono. Di quella generazione baby boom faccio parte anch’io: nella mia classe, affollatissima, eravamo sette a chiamarci Cristian. Ma le donne cominciarono a ribellarsi a quelle maternità coatte. Gli aborti illegali dilagarono, quasi una forma di resistenza al regime. Chi se lo poteva permettere ricorreva a medici compiacenti, chi non aveva mezzi finiva nelle mani di praticoni. Circa 500 mila si calcolano le donne morte in quel modo durante gli anni di Ceausescu. Dopo la sua caduta, nell’89, l’aborto è tornato legale. E ancora oggi è praticatissimo, usato come anticoncezionale».

Certo che proprio ora, con la Chiesa che tuona a colpi di scomunica, con movimenti e partiti che premono per una revisione della legge, l’aborto è tema quanto mai scottante. Oggi peraltro di nuovo alla ribalta in un altro film del concorso, Izignanie, del russo Andrei Zviaguintsev. In questo clima, mostrare immagini crude e di alto impatto emotivo come quelle di un feto «avanzato» può sembrare una presa di posizione, o forse una provocazione. «Né l’una né l’altra — assicura Mungiu —. Intanto non sono cattolicoma ortodosso. Poi, quello che pongo non è un problema religioso ma una riflessione morale. Su scelte difficili che è giusto vengano compiute in piena libertà da parte della donna, ma anche con piena consapevolezza delle loro conseguenze. L’aborto viene spesso presentato come un’astrazione. Ma un feto non è solo un mucchio di cellule. Ho voluto mostrarlo perché la gente veda quello che è».

Giuseppina Manin
22 maggio 2007
 
da corriere.it


Titolo: ... l’orrore umano Cannes, tra sesso e zoofilia ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 24, 2007, 10:56:17 pm
«Zoo» alla Quinzaine, «ImportExport» e «Paranoid Park» in concorso

Nel giorno degli scandali, l’orrore umano Cannes, tra sesso e zoofilia svetta il film di Van Sant sull'animo di un ragazzino

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


CANNES—Il giorno degli scandali sessuali (annunciati) si è trasformato in quello degli orrori umani.

E i film sui rapporti sessuali tra uomini e cavalli («Zoo» di Robinson Devor) e quello sulla mercificazione del corpo umano («ImportExport» di Ulrich Seidl) lasciano deluso chi sperava in immagini morbose o eccitanti per guidare invece lo spettatore in un viaggio davvero al limiti della notte umana. Presentato alla Quinzaine, la sezione parallela che spesso ha rivelato autori e anticipato tendenze, «Zoo» prende spunto da un fatto di cronaca: la morte nel luglio del 2005, per sfondamento del colon, di un uomo abbandonato davanti a un ospedale.

L'inchiesta della polizia porto a scoprire l’esistenza di un gruppo di persone che frequentavano una fattoria dello Stato di Washington per avere rapporti sessuali con dei cavalli. Dopo aver incontrato alcuni membri di quel gruppo, il regista Robinson Devor ha costruito un film dove i personaggi sono interpretati da attori, ma i lunghi dialoghi fuori campo sono quelli autentici dei protagonisti. E proprio il flusso di confessioni in prima persona finisce per guidare le immagini, sprovviste di qualsiasi tentazione voyeuristica ma cariche di una tensione angosciantissima.

Perché nonostante certe ammissioni, le ragioni che spingono una persona a sentirsi «maggiormente attratta da esseri non umani» restano di fatto inspiegate.

E di fronte a questa insondabilità, Devor non chiede aiuto né alla psicoanalisi né alla sociologia: mette gli spettatori di fronte al mistero di quelle azioni e costruisce il film come un horror dell'animo, dove non esistono spiegazioni plausibili ma solo la scoperta di qualche cosa di inimmaginabile. Una specie di «male assoluto» che chi pratica neppure considera tale. Ma che lascia nello spettatore un senso d'angoscia che non se ne va facilmente.

Anche i due film in concorso di ieri, «ImportExport» dell'austriaco Ulrich Seidl e «Paranoid Park» dell'americano Gus Van Sant cercano di scavare nelle contraddizioni dell’animo umano, e con la stessa radicalità stilistica di Zoo, ma con punti di vista differenti. Che portano anche a risultati molto diversi tra loro. Dopo Canicola (premiato nel 2001 a Venezia), Seidl continua il suo viaggio nella disperazione umana, ma la pietas che riscattava le vite desolate di quel film lascia il posto in «ImportExport» a un ambiguo compiacimento. L’infermiera ucraina (Ekaterina Rak) che cerca lavoro in Austria e lo trova in un ospizio per anziani e il giovane disoccupato (Paul Hofmann) che accompagna il padre (Michael Thomas) in un lungo viaggio europeo (che finisce proprio in Ucraina) per piazzare videogiochi e distributori di caramelle diventano testimoni, alla fine insensibili, di una sofferenza — quella degli anziani —e di una sopraffazione — quella sulle prostitute ucraine — che trovano spiegazione nell’egoismo e nella cattiveria umana, ma che sono raccontate con una insistenza troppo ambigua. E la lettura «politica » che in Canicola rimandava alla lezione di Bernhard qui diventa facile (e compiaciuta) «rassegnazione » metafisica sulla stupidità umana.

Al centro del film di Gus Van Sant c’è invece un romanzo di Blake Nelson sul delitto irrisolto di una guardia ferroviaria, travolta da un treno non per un incidente ma perché qualcuno l’ha colpito in testa con uno skateboard. Per questo il detective Lu (Dan Liu) decide di indagare tra i frequentatori di una pista conosciuta come Paranoid Park. Lo spettatore scopre ben presto che il responsabile dell’assassinio, del tutto involontario, è il sedicenne Alex (Gabe Nevins) ma Gus Van Sant racconta solo marginalmente l’inchiesta poliziesca, senza peraltro svelarcene la fine: piuttosto cerca di entrare nella testa di Alex, nelle sue paure e nei suoi silenzi, nelle sue frasi smozzicate e nelle sue azioni quotidiane per costruire il quadro di una «normalità» inquietante e insoddisfatta.

Qui il regista porta all’estremo il metodo messo in atto per «Elephant »e, con maggior radicalità, per «Last Days», smontando la linearità cronologica ma anche mescolando riprese con tecniche diverse (il Super8 per le immagini «in soggettiva» degli skater e il 35mm, con un mascherino da vecchia inquadratura televisiva, per il resto) e affidando a una elaboratissima colonna audio, fatta di rumori, musiche, parole e suoni, (compresa una citazione da Nino Rota) il compito di offrire allo spettatore una specie di riflesso sonoro delle contraddizioni psicologiche e comportamentali di Alex. In questo modo lo spettatore si trova davanti una specie di puzzle incompleto ma stimolante di un universo mentale che sfugge a ogni definizione, com’è quello appunto degli adolescenti, «ribelli » senza cause ma anche «assassini» per caso. E che Van Sant filma con empatia e curiosità insieme, senza mai lasciarsi andare a prese di posizione moralistiche, ma anche senza compiacimenti o facili giustificazioni.

Paolo Mereghetti
22 maggio 2007
 
da corriere.it


Titolo: MONDO DONNA
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2007, 11:53:08 pm
Se il Nord riparte dal Sud
Barbara Pollastrini


Si parla molto del Nord, e non per caso. Se ritorniamo col pensiero a un mese fa la sensazione era di una valanga. Dalla difficoltà del governo a trasmettere il senso di un progetto all’esito negativo del voto amministrativo. Non era solo la protesta per gli studi di settore o il malumore degli amministratori per le scarse risorse. Era l’insieme a dare l’impressione di un’Italia sempre più propensa a «fare da sé». E a «produrre» sull’onda di un livore diffuso, come già in altri momenti - penso ai fenomeni della Lega o allo stesso berlusconismo - nuovi riferimenti politici.

Ma questa crisi - è giusto ricordarlo - non nasce ora. Incubava da prima. Lo stesso risultato delle elezioni, un anno fa, aveva anticipato la tendenza. Con una sola differenza, e cioè che l’Ulivo nel lombardo-veneto portava un valore aggiunto. Poi, nelle ultime settimane, molto è cambiato. Penso all’impatto della candidatura di Veltroni e al consenso raccolto dal suo discorso di Torino. Le due cose, insieme, hanno confermato che il Partito Democratico rimane la sola e forse l’ultima chance a nostra disposizione. Insomma, non possiamo fallire se non vogliamo rinviare nel tempo un recupero di credibilità della politica soprattutto nelle aree più dinamiche del Paese. Veltroni ha avuto la capacità di cogliere con intelligenza questa necessità. Il punto - e su questo nei giorni scorsi Gianni Cuperlo ha scritto cose che condivido - è che la scommessa del nuovo partito sarà vinta a due condizioni.

La prima è uno scatto del governo, e su questo qualche segnale c’è. L’altra è che il profilo del nuovo partito poggi su valori e discriminanti ideali e politiche chiare. Perché solo una limpidezza della politica può riannodare il filo di un’etica pubblica slabbrata e bloccare una crisi democratica tanto più insidiosa in un Paese dove il populismo non è stato mai espunto del tutto. Anche per questo, credo giusto affrontare i nodi del partito che verrà. Ora, un articolo non consente di scendere nel dettaglio. Ma alcuni titoli è possibile accennare. E allora, cosa dovrà dire un partito a vocazione maggioritaria per recuperare, a partire dal Nord, una funzione di guida? Direi che in primo luogo dovrà restituire un’anima alle parole. Penso a tre termini. Il primo è “sicurezza”. Anzi, per quanto mi riguarda direi “sicurezza e diritti umani”. Perché questa relazione è oggi la condizione per una convivenza fondata sul rispetto delle regole e della legalità.

Ecco perché al nuovo partito serve uno sguardo ampio. Che sappia misurarsi con l’Europa e col mondo. Perché i problemi di casa nostra, a partire dalla sicurezza, non si risolvono alzando steccati. Solo una visione d’insieme dei processi globali offre chiavi di senso e strumenti adeguati al tempo. È questa la ragione che mi spinge da mesi - fuori e dentro il governo - a porre il tema dei diritti umani in cima alle priorità. Non è per testimoniare un’etica dei principi. È uno snodo della modernità. Non vederlo equivale a non capire chi siamo e soprattutto cosa saremo. Prendiamo l’attentato sventato a Londra la settimana scorsa. L’autobomba doveva uccidere centinaia di donne riunite quella sera in un pub lì vicino. Donne, dunque. Da tempo vittime di quel fondamentalismo di nuova matrice che vede nel loro corpo il simbolo di uno scontro che ha come posta il potere e il dominio sulla libertà femminile. Sbaglia chi pensa che la questione ci sfiora soltanto. E non solo perché di violenza continuano a soffrire e morire moltissime donne italiane. Questo dramma irrompe nelle nostre società e sollecita gesti e politiche coerenti coi valori di una civiltà democratica e liberale. Ecco perché l’omicidio di Hina per mano del padre e il processo che si è aperto una settimana fa, fino all’aggressione alla leader delle donne musulmane consumata nel cuore di Milano, interrogano una interpretazione della sicurezza. Perché dietro gli episodi di Londra o di Brescia c’è la questione di come si contrasta il fondamentalismo abbinando sicurezza e libertà.

È da qui che acquista significato la seconda parola da porre al centro di un confronto politico e culturale, “laicità”. Che non è solo l’appello giusto a far prevalere le ragioni del dialogo sulle trincee contrapposte. È la coerenza di classi dirigenti capaci di difendere l’autonomia della politica per costruire virtù civiche condivise. Dal capitolo della convivenza globale fino alle coppie di fatto, alla fecondazione o alla sfera intima della sofferenza, quel che una cultura democratica deve sfuggire è il primato di una Verità sulle altre. È la rinuncia a esercitare la critica e la decisione, sedando la prima e appaltando la seconda. Perché così, semplicemente, non si governano capitoli fondamentali della modernità a partire dai nuovi flussi migratori, dal dialogo tra culture e religioni, fino ai capitoli della scienza, della ricerca, dell’autonomia dell’individuo. Quell’autonomia che introduce l’ultimo termine, l’idea di Progresso e di “Crescita”.

Le possibilità di una crescita effettiva e di una reale competitività per il Paese sono legate a filo doppio con un’espansione della democrazia e della cittadinanza, delle opportunità individuali, dei diritti e doveri delle persone. È la scelta della politica di non permettere che l’ordine sociale divenga un ordine naturale. Non vorrei banalizzare ma la questione è di una semplicità disarmante. Ed è questa. La sinistra - le Democratiche e i Democratici - non possono accettare che si vale per dove si nasce, per la casa dove si cresce, per il reddito dei genitori. Questa è una regressione feudale prima che sociologica. L’anno scorso, parlando al congresso laburista, l’ex presidente Clinton ha detto che «le pari opportunità sono la grande sfida della democrazia nel XXI secolo». Parole da scolpire. Ma se le si condivide ne discendono alcune coerenze. A partire da un accesso al mercato e al reddito per quanti, e quante, oggi sono esclusi. Giro l’Italia a raccontare i dati sull’occupazione femminile. Siamo quindici punti sotto la media europea e in alcune aree del Sud più di trenta punti sotto l’obiettivo di Lisbona. Sono cifre spesso sconosciute in alcuni circoli della politica o tra le forze sociali. Ma se lavorano poche donne i consumi si bloccano e nascono meno bambini. La mobilità frena. La realtà è che le élite del Paese continuano a essere in prevalenza conservatrici e chiuse. Classi dirigenti contro le quali non a caso si sta manifestando l’insofferenza di tante donne e di tante persone perbene legate a un’etica del lavoro e dell’intraprendere e che sono stanche di non essere riconosciute per i loro meriti, anche sotto il profilo economico e delle carriere.

Penso che anche le polemiche sulla pressione fiscale e sul ritardo di un federalismo che finalmente il governo ha incardinato, potranno trarre beneficio da una politica autorevole e capace di segnare una rotta. In questa ricerca le tre parole che ho indicato si riassumono in un primato fondamentale. Che è la Persona. La scelta mai compiuta fino in fondo dalla politica di investire sulla libertà e responsabilità del singolo. Rivedendo la logica che ha dominato fin qui e che ha sempre premiato gli interessi e gli istituti più consolidati rispetto ai diritti, ai bisogni e alle responsabilità di chi oggi è meno rappresentato e che invece esprime la maggiore vitalità e voglia di farcela. Si tratti delle donne, dei giovani precari o del piccolo e piccolissimo imprenditore. Ed è qui la parte più affascinante nella costruzione del nuovo Partito. Sapere che le Democratiche e i Democratici dovranno anticipare scelte e contenuti di un tempo a venire. Questo nuovo partito, insomma, dovrà trovare la forza e le idee per essere un passo avanti alla politica che c’è. Ecco perché è stato giusto scegliere questa via. Perché davvero «nessuno basta a se stesso».

Ma allora la mescolanza di volti e sensibilità, nelle liste del 14 ottobre, sarà decisiva. E se ci saranno altre candidature, agganciate a piattaforme politiche e culturali, ciò sarà una ricchezza in più. Lo stesso vale per la scelta delle leadership a livello regionale. E aggiungo, certo che il Partito Democratico deve riconquistare il Nord. Il punto è come le leadership del Nord sanno avanzare una visione che, muovendo da quelle realtà, si misuri coll’interesse generale del Paese, a partire dalla scelta strategica di un’Europa allargata. Lo dico innanzitutto da donna, da donna milanese e di sinistra, che non ha mai smesso però di sentire come propri potenzialità e ritardi del Sud e del suo popolo. Perché se una bambina calabrese o campana nasce con molte possibilità in meno di laurearsi rispetto alle sue coetanee venete o piemontesi il problema non è del Mezzogiorno, ma dell’Italia e dell’idea che un grande partito nazionale e federativo deve coltivare di sé. Penso che solo così noi potremo ricollocare nella storia del Paese la tradizione migliore della sinistra italiana. Non è facile, lo so. Ma continuo a pensare che sia la strada giusta. E la sola che può restituire senso alla partecipazione di tanti. A partire dalle donne, e dalle giovani donne, che esigono dalla politica una diversa etica del potere, delle regole, dello stile. Perché sanno che quella è la condizione vera - oltre ogni paternalismo - per affermare la propria autonomia a tutti i livelli e in tutte le sedi. Piaccia o meno il Partito Democratico sarà giudicato anche per questo.

Pubblicato il: 08.07.07
Modificato il: 08.07.07 alle ore 6.28   
© l'Unità.


Titolo: Donne ambiscono a veri e propri trofei da riportare a casa (di sesso).
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2007, 05:54:02 pm
24/7/2007 (12:51)

Le ragazze sognano la trasgressione: "Il 21% tradirà il proprio compagno"

Le donne tra i 18 e i 45 anni ambiscono a veri e propri trofei da riportare a casa


ROMA
Quest’estate la trasgressione è donna, anzi cattiva ragazza. Sarà infatti il segno distintivo con cui vorrebbe trascorrere l’estate il 21% degli intervistati secondo uno studio condotto dall’Associazione Donne e Qualità della Vita, coordinato dalla sessuologa Serenella Salomoni, su un campione di 800 donne accoppiate (fidanzate o sposate) di età compresa tra i 18 e i 45 anni e pubblicato sul numero in edicola domani dal settimanale Diva e Donna.

Una trasgressione da perseguire attraverso una ricetta ben precisa. Ad esempio, con una vera e propria avventura extra coppia, confessa il 24% del panel; facendo a gara con le amiche per avere il maggior numero di foto con altri uomini sedotti, (23%), adottando un look seducente che il suo lui, ma non solo, vuole (21%), prendendo apposta un secondo numero di cellulare per flirtare con altri (19%), andando per l’unico periodo di vacanza con le amiche invece che con il fidanzato (16%), dormendo fuori dopo una notte di divertimenti pazzi senza il proprio lui (15%).

Fino a piccoli gesti, certo minori, ma che danno il segno di questo cambiamento di mood tra le donne italiane: ad esempio, il 14% dichiara che terrà spento il cellulare per far ingelosire il proprio compagno, l’11% che, in assenza del proprio uomo, si metterà in topless in spiaggia per attirare lo sguardo di altri uomini. Infine il 9% promette di farsi un tatuaggio su una parte del corpo intima. Secondo quanto riporta il settimanale diretto da Silvana Giacobini, la maggioranza delle cattive ragazze, in partenza per le vacanze più calienti del secolo, ambiscono a veri e propri trofei, da riportare a casa dalle località balneari di mezza Italia.

Bottino più gettonato, la collezione di foto dei ragazzi sedotti, 23%, sulla scia del tormentone in arrivo direttamente dalle spiagge di Copacabana. Cioè il ficar (in italiano rimanere, restare), che significa collezionare il numero più grande possibile di baci in discoteca in una sola notte. Una moda che sta sbarcando anche in Italia, sulla riviera romagnola, come in Versilia e in Sardegna, dove sempre più donne dichiarano di voler essere protagoniste, almeno per una volta, nell’arco dell’estate, di questo nuovo gioco.

Al secondo posto, un altro scalpo ambitissimo: la copia della tessera magnetica della sua camera di albergo (21%), boxer o altri indumenti intimi sfilatigli (18%), il numero record di sms ricevuti in un solo giorno dalla persona con cui ha flirtato (15%) oppure una gara tra amiche per portare a casa collana o braccialetto dell’ ’avventura estivà(11%). Insomma seduzione, trasgressione e, soprattutto, tentazione. Eccolo il trittico delle cattive ragazze 2007. Sulla falsariga di alcune vip da emulare in questo grande gioco della tentazione da spiaggia. A cominciare dalla conturbante Eva Longoria, casalinga disperata per eccellenza, una delle donne più sexy del mondo, fresca sposa del campione di basket Tony Parker che, nello spot tv internazionale per il MagnuM Temptation, guarda caso, invita a cadere in tentazione.

Proseguendo con l’altrettanto splendida Angelina Jolie, per essere riuscita a far capitolare l’adone Brad Pitt. Poi Elisabetta Canalis, che ha sottratto Valentino Rossi all’eterna fidanzata; Victoria Cabello, cioè la cattiva ragazza per eccellenza; Kate Middleton, che sta facendo impazzire persino il principino William, facendolo piegare alla sua volontà, Gabriella Pession, per essersi mostrata senza veli a tutta l’Italia, Paola Ferrari, per aver sedotto tutti gli uomini italiani, come grande esperta di calcio, sfondando in un settore a forte trazione maschile.

da lastampa.it


Titolo: Vita ribelle. Forse l'opera più bella mai scritta da una donna nera africana
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2007, 04:44:04 pm
3/8/2007 (8:2) - IL CASO

"Riabilitate Anna l'ultima strega"

Bestseller sulle ingiustizie di un antico processo porta il caso davanti al parlamento svizzero

FABIO GALVANO


Non finì al rogo, l'ultima strega d'Europa, ma fu decapitata con un colpo di spada. Nella civilissima ma tutt'altro che illuminata Svizzera - era l'anno di grazia 1782 - Anna Göldi fu probabilmente vittima non tanto di un errore giudiziario, quando di una congiura ordita ai suoi danni per salvare la reputazione del suo datore di lavoro, un influente politico locale che prima l'aveva sedotta e poi ne aveva temuto le scottanti rivelazioni. Ora la Göldi è tornata all'onore delle cronache, 225 anni dopo quel giorno all'ombra di un oscurantismo di stampo medievale. Da una parte è un fenomeno letterario, per un libro che Walter Hauser, noto avvocato svizzero, ha scritto in sua difesa forse senza pensare che in breve tempo sarebbe balzato al vertice delle classifiche librarie della Confederazione. Dall'altra è al centro, proprio sulla spinta di quel libro, di un'azione senza precedenti da parte di un gruppo di deputati dei maggiori partiti, volta a una riabilitazione - ovviamente postuma - di quell'«ultima strega».

E' probabile che l'iniziativa vada a buon fine, anche se oggi non tutti sono d'accordo che sia il caso di disturbare prima il parlamento cantonale e poi quello nazionale per rimettere a posto una questione di due secoli fa. «Tiriamoci una riga sopra e andiamo avanti», ha suggerito un portavoce del governo locale. Ma a Glarus, la cittadina della Svizzera orientale dove i giudici e la protestante Chiesa Evangelica (che oggi riconosce l'errore) montarono quel caso straordinario, quel precedente storico brucia ancora: i suoi abitanti hanno raccolto robuste adesioni per la loro campagna.

Anna Göldi, 42 anni, faceva la serva in casa di un ricco e influente politico - nonché giudice - dell'epoca, tale Johann Jakob Tschudi. Il quale, evidentemente, non sapeva tenere le mani a posto. Per paura forse che la moglie scoprisse la relazione, l'uomo decise di porre fine alla tresca ancillare. Oggi è difficile stabilire se la Göldi fosse rimasta incinta: certo è, secondo la ricostruzione fatta da Walter Hauser, che la donna minacciò di rivelare l'accaduto. Apriti cielo. Nella Svizzera bacchettona gli adulteri rischiavano l'esclusione da tutti i pubblici uffici. Tschudi sentì l'ombra della rovina piombargli addosso, se solo quella donna avesse parlato.

L'uomo seppe sfruttare al meglio le sue conoscenze, oltre a quelle di parenti e amici. L'accusa fu presto costruita: la Göldi, si disse, aveva cercato di uccidere la figlia del suo datore di lavoro facendo comparire aghi di ferro, con inspiegabile magia, nella tazza di latte di una figlia di Tschudi, una bambina di otto anni. La donna fuggì, ma le autorità di Glarus non demorsero: offrirono una taglia dalle pagine del Zürcher Zeitung e il denaro, si sa, fa miracoli. Arrestata pochi giorni dopo, come qualsiasi strega che si rispetti anche questa fu torturata e alla fine i suoi accusatori riuscirono a estrarle la tanto attesa confessione: «Sì, ho fatto un patto con il Malvagio». Il 18 giugno 1782 la condanna; anche se formalmente, e forse proprio per evitare di esporsi all'inevitabile ridicolo, l'accusa al processo non fu di stregoneria - se ne parlò, ma solo in sottordine - bensì di tentato infanticidio. La spada del boia le mozzò la testa e la reputazione di Johann Jakob Tschudi fu salva.

Negli anni seguenti tutti i riferimenti alla «strega» furono sistematicamente cancellati dagli atti processuali. Ma rimase, racchiusa fra le scartoffie del tribunale di Glarus, una copia dell'interrogatorio. E' il documento su cui Hauser ha basato il suo best-seller, intitolato «L'assassinio giudiziario di Anna Göldi». «Questa sarebbe la prima volta - ha detto l'avvocato - in cui un Parlamento riabilita una strega. In realtà non c'è dubbio che si trattò di mala giustizia. Fin dall'inizio il processo fu un tentativo di farla stare zitta. E’ stato un caso palese di assassinio giudiziario».

da lastampa.it


Titolo: Vita ribelle. Forse l'opera più bella mai scritta da una donna nera africana
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2007, 11:10:27 pm
Libri

Vita ribelle
di Fabrizia Ramondino

Da bambina ostinata a donna consapevole: esce in Italia 'La nuova me' di Tsitsi Dangarenbga, a metà tra il romanzo di formazione e la saga familiare.

Forse l'opera più bella mai scritta da una donna nera africana

 
La nuova me' di Tsitsi Dangarenbga (Gorée, traduzione di Claudia Di Vittorio, pp. 270, euro 15), pubblicato nel 1989 con il titolo 'Nervous conditions', è secondo Doris Lessing il più bel romanzo scritto da una donna nera africana. Un romanzo di formazione e una saga familiare, in cui l'io narrante, Tambu, da bambina ribelle e ostinata, vissuta fino all'adolescenza in miseria e fatica, diventa una giovane donna consapevole e forte, capace di affrontare l'anglicizzazione, che ha sconvolto e distrutto le vite del fratello e dei cugini, senza rinnegare le sue origini né dimenticare la lingua materna, lo shona, superando ogni ostacolo, fino a ottenere rispetto come donna e come nera.

Il titolo inglese rende meglio la complessità del romanzo perché le 'turbe nervose' appartengono a tutti i personaggi e sono tipiche di chi è vissuto in regime coloniale (perché dall'edizione italiana è stata tolta l'epigrafia di Sartre a 'I dannati della terra' di Fanon: "La condizione del colonizzato è una condizione nervosa"?). Di grande bellezza è il racconto dell'infanzia di Tambu nella fattoria dove, nonostante la fatica quotidiana e la povertà, ella riesce a vivere momenti panici e magici; e di grande acume psicologico e sociologico sono i capitoli successivi, quando adolescente viene accolta a scuola prima nella missione diretta dallo zio, poi nel prestigioso istituto del Sacro Cuore - unica nera ammessavi.

La meta che Tambu persegue con tenacia è raggiungere attraverso lo studio la propria emancipazione come donna e come nera. Aspro e crudo come la vita è talvolta lo stile, a cominciare dal folgorante incipit: "Quando mio fratello morì non provai dolore"; o quando racconta della cugina anoressica, quasi uno scheletro, ai cui genitori lo psichiatra bianco diagnostica: "Non può essere malata sul serio perché gli africani non soffrono di questi disturbi descrittimi. Riportatela a casa e siate più severi".

(08 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: MONDO DONNA
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2007, 06:03:31 pm
CRONACA

Il quotidiano Avvenire chiede un intervento del ministro Turco per aggiornare la legge

Nell'articolo si parla di una "vera e propria deriva eugenetica" nell'applicazione della norma

Aborto, i vescovi attaccano la 194

"Ha trent'anni, ha bisogno di revisione"


 ROMA - "La 194 ha ormai trent'anni, e li dimostra. Forse le servirebbe un tagliando". Lo afferma il quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire" in un'editoriale a firma di Eugenia Roccella, già militante femminista e poi portavoce del Family Day. La giornalista, rileva una vera e propria "deriva eugenetica" nell'applicazione della legge ed invoca l'intervento del ministro Livia Turco.

Sotto accusa soprattutto le nuove possibilità della medicina, che "compromettono" la corretta applicazione della legge. "Che i bambini affetti da trisomia 21, cioè da sindrome di Down, vengano ormai sistematicamente eliminati prima di nascere, l'abbiamo già denunciato più di una volta su queste pagine" - scrive la portavoce del Family day - sottolineando che "le nuove tecniche mediche, e le scelte che implicano, tendono a svuotare di senso la legge, approfittando delle incertezze interpretative".

In particolare, spiega l'articolo, "la diffusione e lo sviluppo delle diagnosi prenatali hanno scardinato gli articoli 6 e 7 della norma, fatti in origine per circoscrivere il ricorso all'aborto terapeutico, ed escluderlo quando il bambino ha possibilitá di sopravvivenza autonoma (quindi a partire dalla 22esima settimana)".

Critiche anche alla mancata applicazione degli interventi di prevenzione previsti dalla 194: "In tutti questi anni le donne che avevano bisogno di aiuto per diventare madri si sono trovate vicine solo i volontari dei Centri di aiuto alla vita".

Ecco perchè la giornalista chiede l'intervento del ministro Turco: "Il ministero - scrive la Roccella - potrebbe fornire indirizzi e regole, stilando delle linee guida, senza toccare la legge. Per mettere qualche paletto basta un atto amministrativo, senza modificare la legge, e probabilmente il ministro potrebbe contare su un'ampia area trasversale di consenso. C'è stato un tavolo dei volonterosi sui temi economici. Perché - conclude - non provare a farne uno sui temi della vita umana?".

Il ministro della Sanità Livia Turco aveva già fatto sapere che sono in arrivo nuove linee guida per "aggiornare" alcuni aspetti della legge 194, che regola l'interruzione di gravidanza.

(29 agosto 2007)

da repubblica.it


Titolo: L'altra faccia di Gesù, quella che al catechismo non insegnano...
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2007, 06:07:16 pm
LIBRI

Vangelo secondo Fo

di Fabrizia Ramondino

L'altra faccia di Gesù, quella che al catechismo non insegnano: piena di dubbi e capace di dare scandalo presso i potenti 


Agnostica o non credente, solo a partire dall'età adulta ho cominciato a provare interesse per le religioni, monoteiste o politeiste, e per la loro storia.

Mentre mi è stata impartita solo la 'dottrina' parrocchiale, dalla quale mi sono allontanata a 13 anni. Ora ne so di più grazie ad appassionate ed eclettiche letture e ascolto regolarmente le belle trasmissioni di Rai 3 'Uomini e profeti' a cura di Gabriella Caramore.

Se avessi avuto fra le mani a 13 anni il libro appena uscito di Dario Fo 'Gesù e le donne', all'indifferenza ribelle e ignorante sarebbero subentrate la consapevolezza, la curiosità, la coltivazione del dubbio.

La lettura di Fo dei vangeli sinottici e apocrifi, accompagnata dalla storia del cristianesimo e del periodo storico in cui si è sviluppato, è sapiente, documentata, sostenuta da molti teologi e storici; al contempo questa sapienza è strettamente unita al suo mestiere di grande attore tragicomico, ora caustico, e attinge alla ricezione popolare dei vari Vangeli, quale si manifestava nelle rappresentazioni medievali sul sagrato delle chiese, in particolare in occasione del rito del 'Risus Paschalis'.

Gesù era un eversivo, non privo di dubbi e umorismo, che dava scandalo presso i potenti, religiosi o politici, e i benpensanti, perché osava avvicinarsi di preferenza agli oppressi, ai malati, ai poveri, soprattutto agli intoccabili: i lebbrosi, i matti, le donne... Non diversamente da Francesco d'Assisi secoli dopo, quando, dopo il rifiuto oppostogli dal papa di predicare in volgare e il suo sprezzante invito ad andare a predicare nei porcili, proprio in un porcile, quale paradossale segno di obbedienza, andò a predicare.

Il libro è ricco di immagini, dipinti di Fo stesso o di grandi maestri, o collage delle sue espressioni artistiche: simili ai grandi teli o cartoni dipinti che si calavano nelle rappresentazioni popolari sacre o profane. Tredicenni o genti rimaste a quella età, compratelo! È caro ma non più di qualche ricarica di telefonino.

Dario Fo

'Gesù e le donne'

Rizzoli, pp. 316, euro 45

(28 agosto 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Carlo Flamigni Distrazioni pericolose
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2007, 12:05:19 am
Distrazioni pericolose
Carlo Flamigni


Vogliamo parlare dell’aborto selettivo finito in tragedia in un ospedale di Milano? Leggo sui giornali che il Vaticano «è irato», che nessuno ha il diritto di sostituirsi a Dio, che questa è eugenetica, che bisogna cambiare la legge 194. Spero di non suscitare ulteriore irritazione dichiarando che sono perplesso. Anzitutto, mi chiedo di quale Dio stiamo parlando. Non trovo argomenti razionali per scegliere, vorrei indicazioni più precise: il Dio degli eserciti? Allah? Geova? Budda? Non è cosa di poco conto: se si tratta del Dio dei musulmani, siamo nei guai, le interpretazioni delle scuole giuridiche sull’inizio della vita personale non sono uniformi e per alcune di loro il feto merita rispetto solo dopo l’animazione, 40 o addirittura 120 giorni dopo il concepimento; per gli ebrei è bene andare a chiedere ai rabbini, ma è molto citato uno di loro che ritiene che l’embrione sia una goccia d’acqua.

Per i cattolici - ma solo per i buoni cattolici - vale il concetto della “palla prigioniera” per il quale è sufficiente che i gameti si tocchino perché si possa dichiarare iniziata la vita personale; immagino che per un evangelista conti di più il personalismo relazionale (bisogna che l’embrione entri in contatto con il grembo materno, perché è così che ha inizio la sua relazione con l’umanità, che fa di lui una persona), ed esiste una setta, non molto nota ma ricca di fantasia e di cultura, quella dei Dubitatori di Bertinoro secondo la quale è possibile (i Dubitatori di Bertinoro non sono mai certi di nulla) che l’embrione divenga persona solo dopo aver avuto il primo rapporto sessuale. E se vi sorprende l’incertezza degli ebrei e dei musulmani, non so cosa mai potrete dire dei cattolici i quali hanno depositato dal notaio almeno dieci differenti versioni della teoria sull’inizio della vita personale, sembra che le loro frequentazioni notarili superino quelle del cavalier Berlusconi. E mi chiedo come potranno togliersi dall’imbarazzo atei e agnostici razionalisti che all'esistenza di dio non credono e che da Dio, Geova, Allah, Budda si tengono lontani, anche seguendo il consiglio dei genitori che li hanno sempre pregati di guardarsi dagli sconosciuti.

Certo che, di fronte a tanta confusione, il rigore della Chiesa cattolica mi impressiona, tanta determinazione deve essere per forza indice di certezza. Non è che saranno loro i proprietari della verità? Ho cercato conferma di questa straordinaria sicurezza, e siccome sono ingiustamente accusato di essere un anticlericale, sono andato a curiosare nel paese che ha, unico in Europa, il privilegio di aver legiferato contro l’aborto volontario, seguendo pedissequamente le indicazioni di Santa madre chiesa, l’Irlanda. Potevo scegliere meglio di così? Ebbene, non voglio tenervi in sospeso.

L’Irlanda ha inserito nella sua Costituzione questo articolo: «Lo stato riconosce il diritto alla vita del non ancora nato, nel rispetto dell’uguale diritto alla vita della madre, e garantisce nelle sue leggi di rispettare e, per quanto possibile, di difendere e tutelare tale diritto con leggi opportune». Perfetto.

Solo che nel 2002 il governo irlandese propone di modificare un pochino questa norma e di approvare una nuova legge che conferma il divieto assoluto di abortire, ma che cambia un po’ le regole del gioco perché afferma che «è punita la distruzione intenzionale della vita umana non ancora nata dopo che sia stata impiantata nell’utero». Non è cosa di poco conto: con questa norma si legittima la pillola del giorno dopo, l’inserimento delle spirali e la ricerca sugli embrioni in vitro, tutte cose che il Magistero romano respinge con fierezza e con determinazione. Ebbene, si va al referendum, si chiariscono gli schieramenti, e guarda un po’ chi ritroviamo tra i favorevoli a questa nuova norma: l’episcopato cattolico irlandese, tutti i 26 vescovi titolari e i 9 vescovi ausiliari. Follia? Disobbedienza? Ebbene, qualcuno insinua che la promessa del governo di risarcire le centinaia di vittime di abusi sessuali compiuti sui bambini da membri del clero tra gli anni cinquanta e settanta abbia avuto un qualche peso. Allora, chi sono io per giudicare le intenzioni? Però concedetemi di essere perplesso (e anche un po’ deluso).

Passiamo al problema dell’eugenetica. Qui dobbiamo chiedere scusa ai genetisti che ci dicono che eugenetica significa semplicemente buona genetica, e la buona genetica l’approvava persino Pio XII.

Sempre chiedendo scusa ai genetisti, provo a definire meglio questo termine: immagino che nelle intenzioni significhi semplicemente genetica positiva migliorativa, il che significa volontà di ottenere qualcosa di migliore di quello che la natura ci offre. Ho qualche obiezione. Oggi la genetica non è in grado di fare alcunché di positivo, come costruire bambini più intelligenti e più coraggiosi, ma si limita a evitare che nascano bambini destinati a una vita di sola sofferenza o portatori di patologie che proporrebbero ai genitori e al resto dei famigliari sacrifici e problemi insopportabili, sulla base del principio che l'umanità non è in grado di accettare tutto quello che la natura impone. So, per aver convissuto con questi problemi per tutta la vita, che le coppie che vengono messe di fronte a queste possibili scelte passano attraverso a un vero inferno e credo che nei loro confronti l’unico sentimento moralmente accettabile sia quello della compassione. Mi sembra che da questa Chiesa, oggi, ci arrivino molte cose - verità, dogmi, anche pietà, se proprio volete - ma nessuna compassione e questo non delude solo me, delude anche i molti cattolici che ritengono giusto vivere la fede in modo del tutto diverso. Tutte le volte che succede qualcosa del genere, il genere di cose che sono fondamentalmente ascrivibili a un errore, ma che fanno scattare un interruttore nel petto dei cattolici più intransigenti, non passano dieci minuti - potete rimetterci l’orologio - che la senatrice Binetti dice che bisogna cambiare la legge 194 e il ministro della Salute afferma che bisogna meditarci sopra.

Ho già detto che sarebbe come chiudere le autostrade perché un automobilista si è addormentato al volante e ha causato un incidente mortale. Errori ne abbiamo fatti tutti e continueremo a farne, è indecoroso approfittare di uno dei tanti per sputtanare una legge che ha dimostrato di funzionare perfettamente. Dal 1983 ad oggi le interruzioni volontarie di gravidanza sono diminuite di più del 45% e ciò malgrado la presenza nel paese di molte nuove cittadine che non hanno ancora le idee chiare sul controllo delle nascite. Consiglierei al ministro, non appena ha finito di meditare (attività che peraltro considero meritoria) di preoccuparsi dell’uso illecito che molte cittadine che arrivano dall'Europa dell’Est fanno delle prostaglandine, acquistate per il mal di stomaco e utilizzate come abortigeni.

Concludo: sono assai poco interessato all’ira del Vaticano, non sono fatti miei; mi piacerebbe invece vedere almeno un po’ di irritazione nelle donne italiane di fronte a certe dichiarazioni. Pensateci ragazze: i diritti si acquisiscono al termine di lunghe e faticose battaglie e si perdono, per un attimo di distrazione, magari mentre state fondando un nuovo partito.

Pubblicato il: 30.08.07
Modificato il: 30.08.07 alle ore 8.43   
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Titolo: Valerie Tasso - Eros oltre ogni limite
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2007, 11:41:53 am
ESPLORAZIONI

Eros oltre ogni limite
di Valerie Tasso


Una scrittrice disposta a inseguire ogni tipo di ossessione erotica. Un reportage dai territori più oscuri della sessualità 
Ho sempre intuito che la sessualità ha possibilità infinite. Che genitalità è sesso, ma anche che sesso non è solo genitalità. Spiegare questo concetto è difficile, la gente non capisce. Tutto ciò che esce dal modello stabilito di sessualità, o dalla quarta posizione del Kamasutra, è considerato 'deviato'. L'intuizione che c'è una sessualità alternativa ugualmente valida e legittima, e la curiosità di scoprire questo 'altro lato' delle modalità erotiche, mi hanno portato a intraprendere un viaggio poco comune: vivere un erotismo diverso. E raccontarlo in prima persona. Con questa ricerca ho tentato di ampliare lo sguardo, di scoprire i margini di questo territorio tanto fertile che chiamiamo sessualità, esplorando la condizione umana. E la condizione umana non ha limiti. Questo è ciò che ho vissuto.

Infiltrata nel Castello del dolore

La prima tappa del mio viaggio cominciò vicino a Praga, nella Repubblica ceca, in un castello chiamato The Other World Kingdom (il regno dell'altro mondo). Nell'Owk le donne comandano sugli uomini. Questo è il suo motto ('Women over men') e il sadomasochismo è il principio del suo erotismo. Ci andai due volte. La prima con Lady Monique de Nemours, dominatrix professionista (una 'dominatrix' è una persona che, nel ruolo dominante, pratica il sadomasochismo sotto qualsiasi aspetto), che sarebbe stata la mia madrina in quel castello. La seconda con il mio compagno, che non avevo voluto far venire con me la prima volta per paura che gli potesse accadere qualcosa.

Eravamo in volo ormai da due ore e io ero più che mai nervosa. Sapevo che questo viaggio sarebbe stato il culmine di due anni di lavoro per scoprire perché esistono delle persone che godono attraverso il dolore, perché ad alcune persone piace sentirsi umiliate, vessate, schiavizzate e sono capaci di trasformare questa sensazione in piacere sessuale. All'eccitazione di visitare questo posto così singolare si sommava la paura per ciò che avrei trovato.

Conoscevo il Regno dell'Altro Mondo, ero entrata nel sito del castello. Avevo visto le immagini, situazioni estreme in cui c'erano donne che rinchiudevano uomini in catacombe per tutta la notte, segrete con celle equipaggiate di oggetti di tortura, bavagli, cappucci, fruste, ecc. A volte era stato difficile mantenere lo sguardo su alcune delle foto, soprattutto quando si trattava del castigo fisico puro e semplice. Ma mi affascinava il fatto di poter vivere tutto questo in prima persona. Avevo già avuto dei rapporti sadomasochistici, in maniera non consapevole. Ora avevo bisogno di Lady Monique per infiltrarmi nell'Owk. Lì entravano solo le iniziate. Io ero una semplice mistress novizia, e molto curiosa.

All'aeroporto di Praga ebbi paura. Mi sentivo come una delinquente. Se un poliziotto avesse trovato gli strumenti di lavoro che Lady Monique portava nella valigia, ci saremmo trovate in serie difficoltà. Un uomo ci aspettava all'uscita, con un cartello dove era scritto a grandi lettere Owk. Arrossii. Come faceva quell'uomo ad avere il coraggio di gridare ai quattro venti che veniva dall'Owk a prendere due 'domine'?

L'attesa prima di entrare nel castello fu lunga. Quindici minuti, finché un ragazzo, di una corpulenza impressionante, con un collare da cane che gli strangolava il collo, ci aprì la porta. Nessun uomo, nell'Owk, può fare a meno di indossare il collare da cane. È il segno della sottomissione per eccellenza.

Gli uomini erano poco vestiti, alcuni nudi. Mi colpì la naturalezza con cui camminavano nelle dipendenze del castello, con la testa china per non incrociare i nostri sguardi, segno di sottomissione e affidamento. La maggior parte di loro era accompagnata dalle rispettive padrone, alcuni erano 'orfani' e condannati a una sorte peggiore degli altri. Essendo dei ragazzi 'pubblici', qualsiasi domina poteva fargli quello che voleva. Quelli che erano accompagnati erano più protetti essendo trattati da una donna che li conosce bene. Potevano dormire con loro nelle stanze con aria condizionata del castello o passare la notte nella stalla o nelle catacombe del castello. Senza lamentarsi. Senza dire nulla.

Pensavo che avrei trovato delle persone un po' eccentriche, ma non incontrai altro che persone. Semplicemente. Gente che aveva indagato profondamente sulla nostra condizione, sui suoi limiti e le sue debolezze. Madame Helen, domina specializzata nel medical (un aspetto del Bdsm che usa giochi con aghi, incisioni e tutto ciò che ha a che fare con il sangue) era 'comprensibile' quando conficcava nei testicoli del suo schiavo una siringa piena di acqua e sale.

Facevamo delle offerte per acquistare gli schiavi che si vendevano all'asta in una stalla fredda. Delle creature acquistate sapevamo che cosa erano disposte a fare e cosa no. E rispettavamo rigorosamente la loro volontà.

Mentre mi trovavo all'Owk, immaginavo la quantità di uomini e di donne che praticano il sesso nel mondo, un sabato sera, non perché ne abbiano voglia, ma perché bisogna farlo. La quantità di uomini e di donne che non si scambiano una parola, che non si interessano all'altro, perché nel sesso si crede che non si debba chiedere che cosa piace o meno. Si deve intuire. Nell'Owk, anche se sussurrando, si comunicava costantemente con l'altro. Si stava attenti a qualsiasi segno corporeo o verbale, a qualsiasi indizio che dicesse come si stesse svolgendo l'incontro.

Nessuno si dilungò a spiegare chi fosse nella vita reale, che cosa facesse, perché queste informazioni, nell'Owk, erano irrilevanti. Gli ospiti del castello venivano a vivere il loro erotismo. Giocavano, come i bambini. Nell'Owk la professione di ognuno non risponde alla domanda di chi è ciascuno, come di solito accade nella vita di ogni giorno. Uno non è quello che fa. Uno è qualcosa di più di ciò di cui si occupa. Conchita, la cameriera che ci aveva accompagnato durante la nostra permanenza, che era fiera di avere un orologio che ha sempre l'ora esatta per non arrivare mai nemmeno con un minuto di ritardo, era un prestigioso avvocato londinese. Ma lì, come dicevo, era irrilevante.

traduzione di Luis E. Moriones
 
Identificazione di una donna
 
Valerie Tasso è di origine francese, si è laureata in Scienze economiche e in Lingue straniere applicate e ha un master in Direzione aziendale. Vive in Spagna dal 1991. Nel 1999, "per curiosità", spiega lei, ha esercitato la prostituzione di alto bordo. Ha pubblicato nel 2003 in Spagna la sua opera prima, 'Diario di una ninfomane', pubblicato in Italia da Marco Tropea Editore nel 2004, che l'ha collocata tra le scrittrici in lingua spagnola più note a livello internazionale. A questo libro ha fatto seguito 'Paris. La nuit' e nel marzo del 2006 'El otro lado del sexo', in libreria in Italia dal 13 settembre come 'L'altro lato del sesso-un'indagine di Valérie Tasso' (Marco Tropea Editore, pp. 256, 14 euro). I suoi lavori sono stati pubblicati in più di 15 paesi e apparsi nelle classifiche dei più venduti. Attualmente è in preparazione una versione cinematografica di 'Diario di una ninfomane'. Collaboratrice di programmi televisivi, radiofonici, oltre che di quotidiani e riviste, è conferenziera e ricercatrice. Si è laureata nel 2006 in Sessuologia presso la Incisex, che dipende dall'università di Alcalá de Henares di Madrid. Ha un suo sito: www.valerietasso.com.
 
Infermiere del sesso
 
Il ruolo e lo status delle prostitute dipende dalle società in cui svolgono la loro attività. Che può anche essere di terapia erotica

Ho sempre difeso la prostituzione come un'attività lavorativa, purché sia esercitata liberamente. Non posso farne a meno, tenendo conto della mia traiettoria esistenziale. Ho sempre cercato di spiegare che essere una prostituta non è una cosa indegna se non si vive come tale. Ma in molti paesi il dibattito sul regolarizzarla o meno è sempre sul tavolo. Alcuni l'hanno proibita, altri continuano a discutere. Quel che è chiaro è che molti parlano al posto di queste donne, invece di lasciare che siano loro a esprimersi sulla decisione di disporre con una totale libertà del proprio corpo. La Danimarca non ha problemi con le sue prostitute. E, di fatto, ha riconvertito alcune meretrici in 'terapiste sessuali' che si prendono cura di persone che non hanno la possibilità di vivere la loro sessualità in modo pieno, o perché soffrono di qualche handicap fisico o mentale, o perché sono persone ormai di una certa età e non possono avere accesso al sesso come prima, ma non per questo hanno rinunciato a esercitare la propria condizione di esseri umani sessuati. Per soddisfare questa necessità in una comunità particolarmente vulnerabile, il governo danese ha messo a disposizione di chi ne fa richiesta delle meretrici che prestano un servizio economico-sessuale ai più 'deboli'. Nonostante la controversia che l'opposizione danese ha manifestato in diverse occasioni, il modello finora continua a funzionare. Io stessa entrai involontariamente nel ruolo di una di queste 'infermiere sessuali' quando lavorai come prostituta e l'esperienza creò dei vincoli emotivi con il cliente particolarmente gratificanti. Queste persone, sistematicamente respinte dagli altri, non avrebbero potuto mai avere un incontro sessuale con una donna che si dedichi a un'altra attività. E se fosse stato possibile, il sentimento di fallimento avrebbe potuto diventare traumatico per loro. Quando esercitai il mestiere di 'terapista sessuale', invece, fu tutto il contrario.

Non mi è facile raccontare la gratitudine che si leggeva sulla faccia di alcuni miei clienti. La Danimarca non nasconde le sue prostitute né le stigmatizza. Allo stesso modo, non tratta gli invalidi o le persone della terza età come cittadini di seconda categoria. Non è necessario dire che il modello danese è unico (a parte la Svizzera, che si è unita a questa iniziativa di maturità). V. T.
 
Il punto G? È il Santo Graal
La chirurgia plastica della vagina è un business sempre più fiorente. Per tornare vergini. O per sognare nuove frontiere del piacere 
Molti oggi sono disposti a ricostruire il corpo femminile, tanto misterioso per molti e per noi stesse, perché si adatti perfettamente alla sessualità maschile. Il noto chirurgo del ringiovanimento della vagina, il Dr. Matlock, è un americano che, ricostruendo imeni per tornare vergini o ringiovanendo vagine di donne che hanno avuto figli, vende la sua chirurgia come un modo in cui le donne possono godere meglio della sessualità. Ma è vero? Questo tipo di chirurgia comincia a trovare molti adepti in Europa, a tal punto che in Spagna stiamo vivendo un fenomeno inedito: la vendita all'asta di vergini. Donne che si ricostruiscono l'imene tutte le volte che vogliono (l'operazione costa circa 3 mila euro) e si sottopongono a un'asta sul mercato sessuale per circa 6 mila euro, facendosi passare per vere vergini. L'affare (il conto non è difficile) è redditizio. Il Dr. Matlock ha anche inventato una tecnica che ingrandisce il punto G perché la donna possa provare un piacere maggiore durante la penetrazione. Ho sempre avuto i miei dubbi sul punto G, tra l'altro perché non esiste come tale un punto dentro la vagina insensibile, detto

en passant. Quello che c'è è la radice del clitoride, di una dozzina di centimetri, dall'altra parte della parete vaginale che si può stimolare dall'interno. Che alcune donne provino piacere quando sono stimolate dal pene nella parete vaginale, non ne dubito. Ma da qui ad affermare che tutte le donne provano piacere... Conosco bene il mio corpo e devo confessare che trovare il presunto punto G è quasi più difficile che trovare il Santo Graal...

Alle prime comunicazioni inviate al Dr. Matlock per avere delle informazioni ho ottenuto subito risposta. Ma quando ho cominciato a chiedere maggiori informazioni specifiche, nessuno ha voluto più mettersi in contatto con me. Comunque, non ho ancora desistito.


da espressonline.it


Titolo: Ruini ci riprova: «La legge 194 va cambiata»
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2007, 04:20:53 pm
Ruini ci riprova: «La legge 194 va cambiata»


Ogni tanto ci riprova Camillo Ruini a interferire nella politica italiana. Per il cardinale sarebbe addirittura «non solo lecita ma doverosa» una modifica della legge sull'interruzione di gravidanza, conquista di civiltà fatta dall´Italia negli anni Settanta. L´ex presidente della Cei cerca di giustificare questo suo attacco argomentando che servirebbe «un´interpretazione che aggiorni e migliori la legge 194 ai progressi medico scientifici e non peggiori la legge» che, ha ricordato, risale a quasi 30 anni fa.

Certo, se fosse per lui, la legge andrebbe proprio abolita. «Per un credente sarebbe meglio che questa legge non ci fosse, ma c'è», ha detto Ruini, «e non c'è una situazione culturale e politica per la sua abrogazione». D'altra parte, per il vicario del Papa nella diocesi di Roma, ripete che la materia «risente di una grande trasformazione che è prodotto del progresso medico e scientifico». La conseguenza, secondo la logica di Ruini, è che «darne un'interpretazione che la aggiorni, che la migliori e non la peggiori, è non solo lecito ma doveroso».

Pubblicato il: 04.09.07
Modificato il: 04.09.07 alle ore 18.26   
© l'Unità.


Titolo: La Legge 194 non si tocca
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2007, 05:52:41 pm
Una riflessione pacata ma ferma della componente l'Ufficio di Presidenza di Sd

La Legge 194 non si tocca

di Katia Zanotti


Consiglio  di andare a vedere un bel film, vincitore a Cannes 2007, del regista  rumeno Cristian  Mungiu, che è  nelle sale in questi giorni.  Il titolo è “ 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” e parla in modo straordinariamente delicato e insieme straordinariamente agghiacciante dell’aborto illegale di Gabita, ragazza rumena e della  sua amica Otilia, nella Bucarest della metà anni 80.
Per chi si fosse dimenticato di  che cosa è l’aborto clandestino.
Ma veniamo a questo tempo presente, tempo in cui si propone ripetutamente una offensiva tutta ideologica, per il modo in cui si riparla di aborto,  contro la legge 194.
Il cardinale Ruini e  Famiglia Cristiana, puntuali e   con perfetta sincronia, hanno aperto la campagna d’autunno contro la legge 194, campagna  che ha già invaso ossessivamente la politica  in questi ultimi anni, anni di governo del centro destra e anni di gara di alcuni settori del mondo politico,  gara spregiudicata in gran parte infestata da motivazioni e finalità politiche  per l’accreditamento presso le gerarchie ecclesiastiche e l’elettorato cattolico.
Ruini afferma “ La legge c’è, non ci sono le condizioni culturali e politiche per abrogarla….. Dunque è doveroso darne una interpretazione che aggiorni e migliori la legge”.
Il cardinale vicario ha ragione sulla sua prima considerazione. In questo Paese è diventata coscienza collettiva,  ampiamente consolidata, l’idea che l’aborto non è un reato, e non è neppure un diritto.  E’ una decisione che una donna sa prendere, consapevole.
E’ diventata consapevolezza assai diffusa che la legge 194 non è una legge come tutte le altre e che se ha retto nel corso del tempo agli attacchi ripetuti e mai sopiti cui è stata sottoposta, tra cui il referendum abrogativo del 1981, è perché nella pratica essa non ha incentivato l’aborto, al contrario ne ha diminuito in modo assai significativo il numero,  ha garantito assistenza a chi ne ha avuto necessità, e soprattutto si è affidata al senso di responsabilità delle donne che hanno saputo far valere la loro autonomia.
 Davvero oggi sollevare la questione dell’abrogazione della legge vorrebbe dire rischiare di perdere milioni di voti.  E Ruini è molto  ben avvertito  su tutto  ciò.
La vicenda drammatica dell’aborto selettivo di Milano richiesto da una donna incinta di due gemelle, dopo che alla quindicesima settimana la diagnosi prenatale ha mostrato alterazioni cromosomiche su uno dei due feti,  ha  spinto il Vaticano a parlare di doppio suicidio  e Ruini delle “gravissime interpretazioni eugenetiche della legge 194”. 
Di fronte  ad una scelta che porta con sé dolore e sofferenza  la Chiesa  parla di cultura della perfezione  del corpo e della 194 come responsabile  di tale nefandezza.
Almeno a questo riguardo la risposta  non consente ambiguità come sottolinea il Prof. Ainis  sulla Stampa di qualche giorno fa:   dopo i primi 90 giorni l’interruzione della gravidanza è lecita per salvare la vita della madre, o altrimenti di fronte a malformazioni del feto che mettano a repentaglio la «salute fisica o psichica» della stessa madre. Non c’è insomma un diritto ad avere figli sani; c’è solo il diritto a non soffrire.
Il silenzio in generale, il silenzio della Chiesa in questo caso, sarebbe  stato la migliore forma di rispetto per le decisioni che chiamano in causa la responsabilità delle persone, la loro coscienza, i loro sentimenti. Perché  ignorare che dentro il valore del rispetto per la vita c’è anche il rispetto per la vita delle donna? Per la Chiesa, purtroppo e ancora una volta ciò che va difeso è il primato del concepito, anche se questo può significare contrapporlo alla madre.
La Relazione al Parlamento sullo stato di applicazione sulla legge 194 indica che occorre completare numericamente la rete consultoriale sul territorio, assicurare organici completi, connetterli in rete con tutti i servizi del territorio, soprattutto quelli sociali, per la presa in carico della donna e/o della coppia, sostenendola nella maternità e paternità consapevoli ed in particolare fornendo tutte le informazioni e i sostegni sul versante economico e sociale proprio per rimuovere quelle cause che molte volte sono alla base delle motivazioni della scelta di una Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza).  Sappiamo bene quante difficoltà in Italia si frappongono alla libertà di scelta di procreare, quali siano i costi sostenuti da chi (soprattutto le donne) fa questa scelta  e quali siano gli effetti delle diseguaglianze sociali alla nascita. Di questo e non di altro si dovrebbe trattare quando si parla di miglioramento nell’applicazione della legge 194.     
La legge 194 è un rigoroso e saggio punto di equilibrio fra convinzioni diverse da cui non si può in alcun modo arretrare.  La legge 194 non si tocca.

da sinistra.democratica.it


Titolo: Sicurezza, il monito dei cardinali (mettono il naso dappertutto)
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2007, 09:53:01 pm
POLITICA

L'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi critico su lavavetri e rom sgomberati con la forza

Sicurezza, il monito dei cardinali

"La legalità deve valere per tutti"

Ferrero e la Bindi: bravo Veltroni a stoppare l'idea dei sindaci sceriffi

Lega e Bossi all'attacco. Gentilini: taglia su Prodi e Mastella

di ZITA DAZZI

 
MILANO - Anche la Chiesa interviene nel dibattito sulla sicurezza nelle città. A Milano ieri ha parlato l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi: "Parlare di sicurezza senza pensare all'ascolto, all'integrazione e alla prevenzione è una cosa senza logica. La sicurezza deve essere umana, deve passare dall'educazione. È un diritto di tutti. Non solo dei cittadini milanesi, ma anche di quelli che vivono nell'emergenza cronica, i rom e i lavavetri".

Non fa giri di parole, il cardinale, quando gli si chiede dei sindaci in lotta contro gli accattoni e gli zingari: "Bisogna intervenire con il cuore e con la mente, senza alimentare le contrapposizioni, senza soluzioni unilaterali che fanno crescere la paura della gente". Nelle stesse ore a Firenze un altro porporato, Ennio Antonelli, mette in guardia dalle semplificazioni: "Bisogna che la legalità sia sempre curata e sia fatta rispettare. Il fenomeno dei lavavetri dobbiamo cercare di capirlo ma anche dobbiamo stare attenti a non fare di ogni erba un fascio".

Anche nel mondo politico la polemica non si placa. Se il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro spiega che "prendersela con i lavavetri, ultima ruota del carro, è un modo per coprire la malattia non per curarla", Massimo Donadi, capogruppo dell'Italia dei Valori alla Camera, minaccia: "Se non passa la linea della tolleranza zero, mettiamo a rischio non la tenuta del governo ma lo stesso nostro futuro nel centrosinistra".

Il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero plaude a Veltroni per la stroncatura dei sindaci-sceriffi: "Auspico che questi primi timidi segnali aprano la discussione nel Partito democratico. La lotta ai criminali non diventi lotta ai poveracci". E il ministro della Famiglia Rosy Bindi chiosa: "Stavolta vado d'accordo con Walter, sono contenta che Cofferati dica una cosa e Veltroni un'altra". La proposta del sindaco di Bologna viene bocciata anche dal ministro Fabio Mussi: "Propaganda che liscia il pelo alle paure". Molti sono i sindaci che prendono le distanze da Cofferati e Domenici, le cui proposte anti-lavavetri vengono definite "ridicole" da Silvio Berlusconi. Rosa Russo Iervolino, primo cittadino a Napoli, invita i suoi assessori a una "maggiore discussione" sul provvedimento anti parcheggiatori abusivi appena votato. E sul dibattito nazionale aggiunge: "Non ho apprezzato i fuochi d'artificio di questi giorni, e lo dico anche da ex ministro dell'Interno. Mi sono astenuta finora da sparare anch'io tric-trac. E continuerò, con la tecnica di chi parla poco e lavora molto". Il sindaco di Palermo Diego Cammarata distingue: "Da noi, non è certo dando poteri di polizia ai sindaci che si offre più sicurezza. La nostra emergenza è la mafia, non certo i lavavetri". Da Bari incalza il sindaco Michele Emiliano: "Ultimamente va di moda dare la colpa ai lavavetri, ai parcheggiatori abusivi. Noi non ce la caviamo così a buon mercato".


(9 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: POPULIVISMO: Mondo Donna
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2007, 10:58:16 pm
24/9/2007 (14:59)

Toscani shock contro l'anoressia

Il famoso fotografo ha ripreso una modella magrissima "perché gente sappia e veda"

MILANO


C’è la mano di Oliviero Toscani e la presa di coscienza, da parte di una modella anoressica, della propria condizione di malata, dietro la foto, già definita da «pugno nello stomaco», della magrissima giovane francese Isabelle Caro, che da oggi appare sui giornali e sui manifesti affissi nelle maggiori città. Il suo corpo, di soli 31 chili, è stato scelto come testimonial per la campagna pubblicitaria, accompagnata dallo slogan «No anoressia», della casa di moda Nolita, del gruppo Flash&Partners. La donna, completamente nuda, ha deciso di accettare di mostrarsi «perchè la gente sappia e veda davvero, a che cosa può portare l’anoressia». Una campagna che ha già suscitato diverse reazioni e che ha ricevuto l’approvazione del ministro della Salute Livia Turco, che ha dichiarato di apprezzarne sia i contenuti che le modalità di realizzazione.

Isabelle Caro ha raccontato a Vanity Fair (in edicola il 26 settembre) le vicende familiari che l’hanno condotta sulla strada della malattia che oggi, dopo 15 anni, l’ha ridotta 31 chili di ossa e pelle affetta da psoriasi, ricoperta di una lanugine bionda e completamente nera sotto gli zigomi. «Mi sono nascosta e coperta per troppo tempo: adesso voglio mostrarmi senza paura, anche se so che il mio corpo ripugna - spiega al settimanale - Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito hanno un senso solo se possono essere d’aiuto a chi è caduto nella trappola da cui io sto cercando di uscire».

La campagna pubblicitaria si rivolge in particolare alle giovani donne attente alle indicazioni delle mode e intende richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla malattia che, insieme alla bulimia, colpisce in Italia due milioni di persone ed è spesso causata dagli stereotipi imposti dal mondo della moda.

«L’anoressia è un tema tabù per la moda - osserva Oliviero Toscani - Come l’Aids ai tempi: nessuno nel giro della moda aveva l’Aids. Adesso invece l’argomento tabù è l’anoressia». Ma Toscani afferma di non ritenere che «la moda abbia grandi responsabilità nel problema dell’anoressia, è una cosa molto più ampia - sostiene - che riguarda tutti i media e in particolare la televisione, che propone alle ragazze modelli di successo assurdi». «La tv - aggiunge - ha creato una società che non si ama e non si accetta. E il sistema è degenerato. La mostruosità piace. Siamo in preda a una malattia culturale: ci piacciono i mostri perchè non ci vogliamo bene». Sulle eventuali critiche che la campagna, per la sua crudezza, potrebbe sollevare, Toscani replica che «C’è una bellezza nella tragedia. Il paradosso è che ci si sconvolge davanti all’immagine e non di fronte alla realtà. Io ho fatto, come sempre, un lavoro da reporter: ho testimoniato il mio tempo».

Anche Luisa Bertoncello, amministratore delegato di Flash&Partners, afferma di essere rimasta scioccata quando ha visto la foto «per la crudezza e la verità che comunica. Oggi però l’intento aziendale è proprio quello di usare i mezzi pubblicitari come strumento di sensibilizzazione ai mali sociali». Anche per il ministro della Sanità Livia Turco un’iniziativa come questa può essere in grado di «aprire efficacemente un canale comunicativo originale e privilegiato con il pubblico giovane attraverso un messaggio di grande impatto idoneo a favorire un’assunzione di responsabilità verso il dramma dell’anoressia».

da lastampa.it


Titolo: La signora Berlusconi: rispetto il ruolo di moglie del capo dell'opposizione
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2007, 11:15:24 am
Cronache   

«Citare il cognome che porto ha cancellato 15 anni di muro contro muro»

Veronica a Veltroni: grazie, ma non posso

La signora Berlusconi: rispetto il ruolo di moglie del capo dell'opposizione


MILANO - «Mi piacerebbe un Paese dove si incrociano le idee, penso sarebbe bello che Veronica Berlusconi potesse dare un suo contributo. Ha due caratteristiche rare: è open minded, curiosa, e ha una grande autonomia intellettuale». Così, la settimana scorsa, Walter Veltroni su A. Quel che si è scatenato dopo lo sapete, se vi è capitato di leggere i quotidiani di giovedì 4 ottobre, di ascoltare qualche tg, di seguire Matrix o l'Infedele di Gad Lerner o Omnibus. 

Negli Stati Uniti, a fine settembre, la first lady Laura Bush partecipa da due anni al seminario internazionale sull'ambiente promosso da Bill Clinton, vale a dire dall'uomo che ha sconfitto Bush padre, il marito della candidata democratica che cercherà di soffiare la Casa Bianca ai repubblicani. Nessuno si scandalizza. In Francia, ha fatto molto discutere la mossa a sorpresa con la quale Sarkozy, appena eletto, ha corteggiato tre o quattro socialisti, portandone qualcuno al governo e qualcun altro in una autorevole commissione presieduta da Jacques Attali.

In Italia, finora, la politica non ha invece previsto forme di comunicazione diciamo civile. Si dirà: che c'entra Veronica Berlusconi con tutto questo, commissioni di Sarkozy, convegni sull'ambiente dove Laura Bush e Bill Clinton siedono allo stesso tavolo? Non c'entra niente, per ora, ma è quel genere di clima, un contesto ambientale in cui nessuno si stupisce se parli con «la moglie del tuo miglior nemico» (Beppe Severgnini, Corriere della Sera) che Walter Veltroni auspicava nell'intervista ad A. Con questo pensiero in testa, martedì scorso, 2 ottobre, ho fatto leggere a Veronica Berlusconi l'intervista che il giorno dopo sarebbe stata pubblicata da A. La prima reazione? Quasi di imbarazzo: «Non sono abituata a tanti complimenti ». Poi, com'è già capitato con lei in altre occasioni, mi ha chiesto tempo per poter riflettere: era il caso di rispondere? E come? Nei giorni successivi, per quel che so, ci sono state battute in famiglia, una prima telefonata, da palazzo Grazioli, con Silvio Berlusconi che indagava: «Hai intenzione di rispondere?» e Gianni Letta, un altro nome «di diverso sentire» citato spesso dal sindaco di Roma , che scherzava: «Cara Veronica, Veltroni vuole solo te e me». Luigi, il terzogenito neo iscritto alla Bocconi ha letto l'intervista e l'ha così commentata: «Adesso chiamo papà e gli dò la notizia: "Papà, ce ne siamo liberati, la prendono nel Partito democratico».

Veronica Berlusconi ha sorriso, ascoltato, letto.E, qualche giorno dopo, ha deciso di dire la sua. È una donna curiosa, no? Lo dice pure Veltroni. Che effetto le ha fatto la proposta di Veltroni? Il candidato alla segreteria del Pd le propone di dialogare, di dare un contributo come donna «di grande autonomia intellettuale». «Mi sento un po' come un embrione da adottare. Battuta a parte, apprezzo la cortesia. Fa piacere che abbia formulato questa idea in ragione delle cose che ho detto nel libro Tendenza Veronica o in qualche intervista o scritto in un paio d'occasioni». Secondo lei perché ha pensato a Veronica Berlusconi? «Forse ha pensato alla valorizzazione di un ruolo, quello di chi per oltre vent'anni ha fatto solo la moglie e la madre. Forse Veltroni vorrebbe dare rilievo all'esperienza di una madre di famiglia, sia pure molto privilegiata. È un ruolo che per tante donne è ancora il più importante». A questo punto che cosa gli risponde? «Non vorrei parlare di me, ma dell'apertura che si coglie nelle parole di Veltroni. Citare il cognome che porto significa anche superare quindici anni di conflitti, cercare di costruire una strada diversa rispetto alla demonizzazione dell'avversario. Noi viviamo da anni in un clima di "muro contro muro" e sarebbe ora che questo La settimana scorsa, intervistato da Maria Latella per A, Walter Veltroni ha espresso tutto il suo apprezzamento per la moglie di Silvio Berlusconi: «L'ho incontrata qui in Campidoglio e mi sembra abbia due caratteristiche rare, entrambe utili a questo Paese: è open minded, curiosa e ha una grande autonomia intellettuale. Mi sembra una personalità di primissimo piano. Sarebbe bello disporre di un contesto dove possa dare un suo contributo ». Le sue parole hanno suscitato molte reazioni politiche. La prima è arrivata direttamente dal Cavaliere, che al sindaco di Roma ha fatto sapere: «Fa piacere tanta stima verso mia moglie, ma chi la conosce sa che è una persona molto riservata».

Critici i quotidiani di sinistra, dal manifesto al Riformista, e le donne del Pd. Adesso però a Veltroni risponde proprio la signora Berlusconi: «Aver citato il cognome che porto significa superare 15 anni di conflitti». Ecco l'intervista di Maria Latella alla moglie dell'ex premier che uscirà sul prossimo numero di A. stato d'animo finisse. È dimostrato che non ha fatto bene a nessuno, soprattutto non ha fatto bene a questo Paese. Veltroni porta con sé passione politica e il fascino di un'idea che apre al dialogo. Mi sembra di capire che la sfida sia ricreare un'unità intorno allo Stato, avvicinare le culture e le forze riformiste di destra e di sinistra, politiche e civili». Veltroni ha raccontato di averla incontrata in Campidoglio. Quando vi siete visti? «Due anni fa. Con alcuni amici ero stata invitata a visitare una mostra al Vittoriano e in quell'occasione siamo stati ricevuti dal sindaco in Campidoglio. È stato un incontro cordiale, interessante. Ho potuto constatare quanto conosca bene la sua città e quanto la ami. Ci ha fatto da Cicerone, dalle finestre del Campidoglio ci ha fatto ammirare scorci di Roma più che suggestivi ». Andrebbe a votare il 14 ottobre? «No». Non lo fa perché è la moglie del capo dell'opposizione? «È così. Come moglie del leader dell'opposizione ho un ruolo e lo rispetto. Ci sono confini che non possono essere superati». C'è un ruolo diciamo pubblico che vorrebbe svolgere, che la incuriosisce? «Mi incuriosisce tutto ciò a cui posso dare il mio contributo, si tratti di una scelta sociale, morale o di condotta di vita. Mi chiedo spesso quanto sia giusto mantenere un distacco dalla realtà politica che ci circonda. Mi chiedo quale prezzo o quali conseguenze potrebbero pagare i nostri figli o i nostri nipoti per tale comportamento. Ma nonostante tutti questi interrogativi, non vedo ancora un ruolo in politica». Che reazioni le suscita l'antipolitica di Beppe Grillo? «Personalmente, preferisco un linguaggio che oltre a farsi comprendere, possa farsi anche apprezzare. Questa, però, è solo una questione di forma. La sostanza è che Grillo interpreta ed in fondo esorcizza un sentimento diffuso nella gente: la diffidenza, l'incredulità nei confronti della politica. Rende visibile questo sentimento, con franchezza propone in un linguaggio accessibile, concetti semplificati, finalizzati anche alla riuscita dello show. Il rischio però è di diventare un banalizzatore della complessità dei problemi, il pericolo è trasformare il dubbio e l'incertezza in una sfiducia generalizzata, qualcosa che scolli ancora di più la società dallo Stato. È quello che ogni tanto succede anche a Bossi quando dal suo palcoscenico parla di fucili da imbracciare, "lotta di liberazione e uomini pronti a lanciarsi nel sacrificio"».

 Lei è certamente una privilegiata. Che cosa pensa dei politici che, arrivati al potere, scalpitano per piccoli e grandi privilegi? In fondo, aspirano a condividere se non la vita dei miliardari, almeno un frammento del loro stile di vita. «Non ho un pregiudizio sul privilegio, quando si distingue tra concessioni e diritti acquisiti. Un esponente dello Stato non rappresenta solo se stesso ma anche i suoi concittadini, per cui gli sono concessi dei privilegi per svolgere al meglio questo compito. È risaputo che succede la stessa cosa nel mondo delle aziende dove esistono dei benefit per i manager perché rappresentanti dell'azienda. Oggi si polemizza molto sugli stipendi e sulle pensioni dei parlamentari. Certo chi collabora all'attività parlamentare solo per un breve periodo non dovrebbe godere di un trattamento simile a chi svolge l'attività di politico per tutta la sua vita. Ecco, percepire una pensione dopo essere rimasto in Parlamento per appena una metà della legislatura mi pare un eccesso. Ma percepire uno stipendio adeguato mi sembra doveroso per chi rappresenta lo Stato». Dei suoi tre figli, una studia all'estero, un altro, Luigi, ha appena fatto uno stage a Londra e l'altra, Barbara, potrebbe decidere di fare un master all'estero dopo la prossima laurea in filosofia. Considerata l'attenzione che lei ha sempre avuto per l'educazione dei figli, non le sembra un peccato che l'Italia offra meno ai suoi studenti di quanto non facciano gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e ora anche la Cina? «Ma se ho appena letto che la Bocconi ha superato Harvard! Mi è difficile dare un giudizio sulle università , le conosco per quanto leggo sui giornali o per quel che mi raccontano i miei figli. Credo che in Italia ci siano ottime università, con percorsi di studio seri, frequentate a volte anche da stranieri. Vedo piuttosto un problema tra università e mondo del lavoro. Nelle università americane è normale effettuare periodi di stage nelle aziende durante tutto il corso di studi, in estate o nei periodi di sospensione delle lezioni, da noi è un'eccezione, lo fanno quelli molto bravi o chi ha la fortuna di avere un docente che lo stimola. Attraverso lo stage un ragazzo studia e mette in pratica ciò che ha imparato, confrontandosi fin da subito con il mondo del lavoro, capisce meglio le sue propensioni ed i suoi interessi. E questo può essere anche un grande incentivo a portare a termine i propri studi».

Maria Latella
08 ottobre 2007

da corriere.it


Titolo: POPULIVISMO: Mondo Donna
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2007, 04:59:28 pm
CRONACA

Storie di dolore e di riscatto tra le ospiti di alcuni centri antiviolenza

Ma è polemica per l'esclusione degli uomini dalla manifestazione oggi a Roma

"Il giorno in cui ho smesso di avere paura..."

Donne in marcia contro la violenza

Il corteo in coincidenza con la giornata mondiale. I dati: un milione e 150 mila vittime in un anno, il 70 % in casa

Il sottosegretario Linguiti: "Sbagliato escludere gli uomini. Bisogna intervenire sui modelli culturali"

di CLAUDIA FUSANI


 ROMA - La voce di donna arriva per telefono, sono le sette di sera, in lontananza i rumori chi dovrà occuparsi della cena nella casa accoglienza del centro antiviolenza di Imola: "Non sono stati gli schiaffi, forse a quelli mi ci ero abituata. E neppure le botte, la violenza, quel fare sempre quello che voleva lui. Io ho detto basta quando mi trascinava davanti allo specchio e mi urlava: 'Guardati, fai schifo, sei una nullità'. Ecco, il mio riscatto comincia da lì, non dalle botte ma dall'umiliazione...".

Un'altra voce di donna, questa volta "protetta" in uno dei quattro centri antiviolenza Differenza donna di Roma: "Ci ho messo sette anni, sette anni di violenza davanti agli occhi dei miei figli. Poi quando ho detto basta è stato un basta deciso, difficile, drammatico, puoi immaginare cosa significa scappare via da casa tua sapendo che non la vedrai mai più, che non vedrai più le tue cose, e portare con te i bambini, piccoli, ma grandi abbastanza per avere i loro giochi e la loro camera... Ecco, è successo che un giorno, dopo sette anni, ho detto addio a tutto questo... e bentornata a me stessa".

Nel centro Roberta Lanzino di Cosenza vivono cinque donne, una è mamma di due bambini, anche loro vivono qua. Sono tutte italiane, tutte della provincia di Cosenza , hanno dai 35 ai 55 anni. Tra poco potrebbe arrivare una nuova ospite, una studentessa. In loro nome parla la responsabile Antonella Veltri: "Hanno impiegato mesi e anni per arrivare fin qui e quando lo hanno fatto è stato per disperazione assoluta. Oltre alle violenze fisiche e psicologiche qui devono combattere anche la cultura mafiosa. E' un'altra forma di violenza". Che andrebbe aggiunta ai tanti tipi di violenza che le donne possono subire.

Cifre da paura - Voci senza nome. Paura, vergogna, motivi di sicurezza: è terribilmente rischioso in Italia, oggi, anno 2007, dire no a un marito o a un convivente violento, ribellarsi e scappare via, cercare di recuperare la propria autonomia. Provare a smettere di avere paura. Sono voci di donne senza nome che accettano di parlare solo perché "più se ne parla e meno paura ci sarà in giro". Perché, forse, se avesse trovato il coraggio Barbara Spaccino, incinta del terzo figlio, uccisa dal marito, sarebbe ancora viva. E così Hina, la ragazza pakistana uccisa dal padre perché vestiva minigonne e non voleva il velo. E poi Anna, Paola violentata a Torre del Lago, Sara stuprata a Torino da un amico, Carla a Bologna. Anche Mez, la dolce ragazza inglese sgozzata in camera da letto a Perugia ancora non si sa da chi. Sono solo alcuni dei nomi di quel milione e 150 mila di donne vittime in Italia negli ultimi dodici mesi di violenze e abusi, il 22 per cento in più dell'anno scorso, il 5,4 per cento del totale delle donne. Alcuni - nomi - delle 180 morte per le violenze subìte, una ogni due giorni; di quel 3,5% vittima di violenza sesssuale, di quel 2,7che ha subìto violenza fisica e di quelle 74 mila stuprate o quasi.

La giornata contro la violenza sulle donne - "La violenza degli uomini contro le donne comincia in famiglia e non ha confini" è scritto nello striscione che oggi apre, vigilia della giornata mondiale, la marcia delle donne contro la violenza e in nome della propria autodifesa. Manifestazione (raduno piazza della Repubblica, ore 14; info: www. controviolenzadonne. org) partita dal basso, senza cappelli politici, grazie alla forza di mobilitazione di collettivi femministi come Amatrix, Libellule, Feramenta, Assemblea femminile via dei Volsci 22 e degli oltre settanta Centri antiviolenza sparsi in tutta Italia. Una manifestazione nata e cresciuta - hanno aderito il ministero delle Pari Opportunità, della Famiglia e della Sanità e oltre 400 organizzazioni tra cui Amnesty, Arci, Cgil, Udi, le donne del Prc - proprio perché quella massa di cifre e percentuali messi a disposizione quest'anno per la prima volta dall'Istat su richiesta del ministro Pollastrini non diventino solo statistiche. Ma restino volti e storie. Di dolore e, soprattutto, di riscatto.

Gli esclusi, cioè gli uomini - La manifestazione è sessista e le organizzatrici hanno deciso di tenere fuori gli uomini. Le polemiche si sono sprecate in questi giorni. "Non sono d'accordo, è una scelta sbagliata, che non condivido e non comprendo perché proprio in questo tema, nel momento in cui le cifre e i dati ci dimostrano che bisogna intervenire sui modelli culturali e sulla incultura patriarcale, è sbagliato tenere fuori una delle due parti interessate" sottolinea il sottosegretario alle Pari Opportunità Donatella Linguiti. Comunque il corteo sarà grande. E da qualche parte - si novella- gli uomini troveranno posto. Magari in fondo, magari ultimi ma ci saranno.
 
Una manifestazione femminista

"Il potere di ricatto delle famiglie" - Il 69, 7 per cento delle violenze avviene all'interno delle mura domestiche. Ma solo il 18,2% delle donne che ha subìto violenza in famiglia la considera un reato e solo il 7,2% la denuncia. Bisogna soffermarsi su queste cifre prima di "entrare" nel centro Roberta Lanzino di Cosenza. "L'80 per cento delle nostre ospiti non è autonoma dal punto di vista economico e il ricatto che può fare la famiglia è tale che sei su dieci rinunciano ad arrivare fin da noi, a fare questo passo" racconta Antonella Veltri responsabile del centro. Una signora ha saltato cinque colloqui. Si è fatta viva la prima volta un anno fa. La non cultura mafiosa aggiunge violenza a violenza. "Il potere di ricatto delle famiglie è altissimo e tocca una gamma svariata, dalla solitudine all'infamia, dal 'non vedrai più i tuoi figlì al 'nessuno al paese ti rivolgerà più la parola'". Una volta vinta la minaccia della famiglia, il passo successivo è "farsi credere": "Molte donne, prima di arrivare da noi per un colloquio, sono andate dal maresciallo disperate, gonfie, con i lividi, col referto medico, a una era stato sbattuto in testa l'oblò divelto dalla lavatrice... beh, si sono sentite rispondere 'Signora ci pensi bene, forse è meglio che si tenga suo marito...'". Nei centri si entra solo se c'è volontà di farlo "ma anche quando hanno trovato la forza di arrivare sin qua, il 10 per cento a un certo punto abbandona: la pressione da parte della famiglia o del marito è tale per cui non ce la fanno. Ci lasciano e di loro non sappiamo più nulla". Le altre, a cui la disperazione fa fare quello che non avrebbero mai immaginato - lasciare la famiglia - cominciano un faticosissimo ma meraviglioso viaggio "verso la consapevolezza, l'autostima, la propria autonomia. Il riscatto. Cerchiamo di insegnare loro un mestiere o di valorizzare quello che già sanno fare, troviamo una casa, una stanza, soprattutto le accompagniamo verso la separazione e il divorzio prima, il processo penale poi, un altro appuntamento a cui si arriva con molta difficoltà perché non ci sono pene per i mariti violenti".

"Dopo sette anni ho smesso di avere paura" - Maria, nome di fantasia, ha 30 anni. Mancano pochi minuti alle quattro e deve scappare a prendere i suoi figli a scuola, "sperando di non trovare lui che mi aspetta da qualche parte". Parla da uno dei centri Differenza Donna di Roma. "Sono riuscita a dire basta in modo deciso dopo sette anni di botte, insulti, umiliazioni, paura. Ma quando ho deciso è stato un basta definitivo. Non saprei dire cosa e quando: è successo che un giorno davanti a me non avevo altra via se non quella di andarmene. All'improvviso ho smesso di avere paura. Così ho guardato per l'ultima volta la mia casa e le mie cose che non avrei più rivisto, ho preso i miei due figli e sono venuta qua. Due, tre mesi prima avevo trovato il coraggio, aiutata dall'assistente sociale, di prendere il telefono, fare quella telefon0326ata e chiedere aiuto. La cosa più difficile era proprio raccontare quello che mi succedeva, far capire come era lui, il mio ex marito, come poteva cambiare all'improvviso dentro le mura di casa. La paura più grande, a quel punto, era quella di non essere creduta". Con l'assistenza del centro Maria ha potuto fare tre denunce penali e ha cominciato a ricostruire se stessa "perché ero distrutta. I miei figli sanno tutto, o meglio sapevano già perché hanno sempre visto tutto. Diciamo che adesso sanno dove è il bene e dove è il male e hanno imparato a rispettarmi di nuovo e a riconoscermi autorevolezza". Maria potrà stare qui sei mesi- un anno. "Durante il giorno lavoro come donna delle pulizie, qualche ora per non far mancare nulla ai miei bambini. Prima non lavoravo. Devo cominciare a guardarmi intorno perché tra sei mesi, un anno, dovrò fare da sola ed essere autosufficiente. Per me, per i miei figli, per la mia nuova vita".

Un problema culturale - Sabrina Frasca, responsabile di un centro Differenza donna, spiega che sarebbe "fondamentale, a livello generale e nell'interesse di tutti, poter lavorare e mettere in discussione il modello culturale patriarcale nel rapporto uomo- donna", non solo tra marito e moglie ma anche tra padre e figlia o tra superiore e dipendente, "ovunque ci sia una relazione donna-uomo in rapporto di autorità". "Solo così - aggiunge - si può sperare, in un tempo medio lungo, di poter correggere le statistiche disperate sulla violenza del partner e dentro le mura di casa". Alla cooperativa Trama di terre, in Romagna, le ospiti sono quasi tutte straniere, per l'esattezza nove mamme e dieci bambini. Le nazionalità coprono mezzo atlante geografico: Russia, Tunisia, Marocco, Angola, Pakistan, Romania, Armenia. Sono mogli-bambine di matrimoni combinati che poi una volta in Italia scappano dalla casa-prigione; ci sono ragazze cacciate di casa perché incinte; una ragazza rom di 23 anni abbandonata dal marito con due figli. "E' qui da pochi giorni - racconta Tiziana Dal Pra, responsabile del centro - ci guarda e ripete: da noi se una donna parla troppo il marito la picchia". Arriva al telefono Anna, un altro nome di fantasia, 32 anni, straniera, arrivata in Italia tre anni fa, primo approdo Bologna, una bimba - allora - di di cinque mesi: "Ho trovato lavoro come commessa. Tra poco andrò a vivere con mia figlia in una casa che divido con un'altra donna che ho conosciuto nel centro. Ora mi guardo allo specchio e sono fiera di me". Prima c'era stata una storia di violenze, botte e umiliazioni infinte. Anna era la "prima" voce parlante di questo viaggio nel dolore e nel riscatto: "Mio marito vedeva la tivù qui in Italia, vedeva le donne in tivù poi si girava verso di me e mi diceva che facevo schifo, che ero una nullità, che non avrei mai combinato nulla nella mia vita, mi trascinava davanti allo specchio e mi diceva 'ma guarda come sei diventata'. Adesso io ho un lavoro, tra poco avrò una casa mia, saprò crescere mia figlia e insegnarle ad avere rispetto di sé".

Oggi saranno tutte in marcia, a Roma. Anna, Maria, i loro figli e le altre avranno un cartello, uno striscione tradotto in tutte le lingue: "La violenza non ha né cultura né religione né nazionalità. Ha solo un sesso".

(24 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: POPULIVISMO: Mondo Donna
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2007, 05:56:08 pm
SPETTACOLI & CULTURA

Luttazzi, lettera di Giuliano Ferrara

"Era satira, ma un limite ci vuole"

di GIULIANO FERRARA


Caro Direttore, quella di Luttazzi su di me era satira, su questo non ci piove. Letta la frase in cui venivo messo oniricamente in una vasca e trattato come una latrina, per tirare fuori una pacifista antiamericana dallo smarrimento di fronte a una espressione per lei crudelmente surreale di Berlusconi ("ero contrario alla guerra in Iraq"), in un primo momento ho pensato che fosse una forzatura miserabile per tirarsi d'impaccio in un programma non particolarmente baciato dal successo e dallo scandalo. Ma non è così. La satira è un prodotto di ideologia e cultura, procede dai libri alla strada al palcoscenico in modo circolare. L'immaginario di Luttazzi, come lui dice, è Abu Ghraib e Ruzante, quella è per lui la cornice dello sketch a me dedicato (e anche ai miei compagni di latrina).

D'altra parte non sono forse una specie di Petraeus all'amatriciana? Esiste una satira cruda e coprolalica, che si è espressa e si esprime, con risultati migliori o peggiori, in tutte le lingue, in molte situazioni e in molti regimi politici, antichi e moderni.

Dunque era satira. Lui non sarà Aristofane o Molière, ma era satira.

Perché allora, visto che sono sempre stato difensore della libertà di satira, ho approvato la sospensione del programma di Luttazzi, e in particolare la motivazione del comunicato e delle successive dichiarazioni di Antonio Campo Dall'Orto, il dirigente libertario e frecceriano de La7 che si è sentito tradito dall'uso irresponsabile della libertà concordata anche contrattualmente tra la sua emittente e il comico? Me lo sono spiegato così come segue, e penso sia utile comunicarlo pubblicamente ai lettori o più genericamente al pubblico.

Il fondamento di una democrazia ormai sfasciata e sgangherata come la nostra è questo: Dio è relativo, è un culto privato, invece la libertà assoluta, è l'unico culto pubblico ammesso. E' noto che non sono d'accordo con questa impostazione e che penso sia vero il contrario. Ci sono criteri di valore e di vita non negoziabili, e pubblici per definizione anche al di là della fede religiosa o civile confessata, e invece la libertà, che prediligo e vorrei la più ampia possibile in ogni situazione della mia esistenza e di quella degli altri, è relativa. Culturalmente non sono spinoziano, sono cattolico romano. E' dunque naturale che io la pensi così. "Che c'entra?", direte. C'entra, c'entra.

Perché ogni discussione sulle esperienze limite, e l'esercizio crudele della satira è una di queste esperienze, è una discussione sulla libertà e sui termini del suo esercizio. Il comunicato de La7 ha fissato un limite, e la società vive anche di limiti. E' culturalmente la stessa cosa di un divieto alla produzione sperimentale e assassina di embrioni, ha lo stesso valore linguistico pur trattandosi in questo caso di faccende per fortuna effimere.

Non ho mosso un dito e nemmeno uno straccio di avvocato, non ho nemmeno corsivato alla mia maniera, quando Luttazzi ha portato in decine di teatri off off Broadway una definizione di "Giulianone" come del "residuo di sperma e cacca lasciato sul lenzuolo dopo un rapporto anale". Se sbiglietti in un teatro e la gente decide di venirti a vedere, lo puoi fare, e se a qualcuno non piacesse essere definito come sopra avrebbe al massimo il diritto di chiedere a un giudice una sanzione, posto che la ottenga, o di schiaffeggiare Luttazzi in pubblico o di denunciarne il linguaggio.

Un mio amico americano dice: c'è la libertà di guidare, anche a trecento all'ora in una pista riservata a un pubblico pagante, ma in autostrada esistono limiti. In una tv generalista, insomma, è diverso. C'è per esempio un problema di coesione commerciale.

La tv, come i giornali, è uno spazio in cui gli editori investono, e giornalisti e artisti praticano quello spazio contro pagamento di una mercede e devono praticarlo conoscendone i confini, sapendo, come dico da anni, che la loro libertà è relativa, che sono tecnicamente indipendenti ma sono dipendenti in senso stretto o soggetti, quando lavoratori autonomi, a un rapporto coordinato e continuativo che ammette la possibilità contrattuale di essere sciolto da chi investe e paga e ha il problema, non commerciale ma anche commerciale, di tutelare la propria identità di fronte al pubblico e agli inserzionisti.

Questo vale per Luttazzi e per il suo rapporto con La7 e i suoi spettatori, come dovrebbe valere per quei furbetti "de sinistra" e "de provincia" di Santoro & C., i quali danno per ore la caccia al funzionario Rai di turno (Del Noce? Saccà?) sputtanandolo come assassino di Enzo Biagi con i complimenti, i denari, e le marchette apposte alle loro buste paga dalla ditta che inquisiscono. Sgradevole e forse spregevole uso privato, non dirò "criminoso" perché non ho l'autorevolezza televisiva o bulgara di Berlusconi, del mezzo pubblico e televisivo in genere.

Il problema della libertà in Italia, come hanno spesso notato Aldo Grasso e Francesco Merlo, e con ragione, è proprio questo. Vogliono tutti fare Lenny Bruce, ma non vogliono vivere e morire nella gloria dell'outsider emarginato, alcolizzato e cirrotico, vogliono farlo con l'assistenza pubblica e privata del mercato televisivo per famiglie, possibilmente in prima serata, e con l'ulteriore assistenza del mercato della politica, che li fa deputati al primo segno di martirio. Ricchi e potenti perché liberi.

Nel caso del furbissimo Benigni, adesso aspirano anche alla vita eterna con il timbro di Sua Eminenza Reverendissima Tarcisio Cardinal Bertone. In America, che è una democrazia costituzionale under God più autorevole della nostra, non si fa così. Quando sgarri, te ne vai secondo regole di mercato e di etica pubblica convenzionale, e nessuno ti verrà a molestare se eserciti il massimo della libertà a spese tue e del tuo pubblico.

Questo tipo di libertà controassicurata, comunque, mi fa un po' ridere. E' la sanzione di un paese che non ha establishment, la cui grottesca rovina politica è cominciata nelle procure alla Tonino Di Pietro e alla Forleo, a loro modo eroi di satira televisiva anch'essi, ed è continuata con il clamoroso successo di pistaroli e demagoghi che invece di sbigliettare e faticarsi la libertà relativa di cui tutti godiamo, e facciamo l'uso che crediamo, chiedono e ottengono la libertà assoluta del prime time televisivo a una borghesia e a un sistema politico che non hanno più alcuna autorità, severità, ironia, significanza.

Insomma. Se il mio editore televisivo fissa nella responsabilità televisiva un limite alla libertà di satira io sono contento, mi spiace solo che per farlo si debba ricorrere al canone secondo cui quella di Luttazzi non è satira, il che non è vero anche se in un primo momento ho equivocato leggendo il testo delle sue parole fuori del loro contesto drammaturgico e della loro legittima cornice ideologica (per me, ovviamente, un pochino ributtante). Se la sospensione del programma serve a far discutere di questo, io sono contento. Se Luttazzi torna in onda su La7 dopo che questa discussione si è svolta, e ricomincia, sono contento. Se lui e Campo Dall'Orto volessero venire a parlarne a "8 e mezzo", quando desiderino, sarei contento.

Come vedete, sono molto contento. Sono contento anche della passione che il Manifesto, quotidiano comunista e dunque tribuna satirica fin nella testata, mette nella alta trattazione culturale del caso Ferrara-Luttazzi & Cacca.

Sarei anche molto contento, ancora più contento, se accettasse l'idea che si deve ridere del patriarcalismo autoritario degli islamici o imbastisse nelle sue dense pagine difese così sofisticate della libertà di satira nel caso in cui un comico di destra prendesse Rossana Rossanda, la mettesse in una latrina e la trattasse come sono stato satiricamente trattato io. Non dubito che i colleghi comunisti sarebbero inflessibilmente coerenti con i loro principi.

(10 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: Ferrara: mi candido con la Lista per la vita
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 11:00:45 am
L'intervista

Ferrara: mi candido con la Lista per la vita

E corro anche da solo

«Ci danno tra 4 e 6%. Con voti da sinistra»

 
ROMA — Giuliano Ferrara ha deciso: si candiderà alle elezioni con la sua lista pro-life. Alleato con il centrodestra o da solo. Comunque scenderà in campo e, di conseguenza, abbandonerà anche il suo programma televisivo a La7, Otto e mezzo.


Scalfari l'accusa di fare una lista della Cei.
«Una scemenza smentita il giorno stesso dal giornale della Cei, che sconsigliava la nascita di questa lista e si batteva per "salvare il soldato Casini". Il collateralismo non è il nostro metodo. È politica tradizionale. La Chiesa non è un soggetto politico e non mi verrebbe mai in mente di chiedere il suo appoggio. Il suo consiglio sì, non il suo appoggio».


C'è chi sostiene che attraverso la sua battaglia passerà la cancellazione della 194.
«Mi hanno accusato di qualsiasi nefandezza, figuriamoci. Il mio pensiero è semplice e si basa su tre principi. Primo, nessuna donna è obbligata a partorire; secondo, nessuna donna deve essere perseguita legalmente perché abortisce; terzo, l'aborto è un male, va sradicato, non può essere utilizzato come strumento di controllo delle nascite, come avviene quando le donne sono obbligate o incentivate ad abortire. L'aborto è legale ma non è un diritto legittimo o moralmente indifferente, come si è predicato in questi trent'anni, con un miliardo di aborti in Occidente. C'è una bella differenza tra atto legale e legittimo. Il diritto di autodeterminazione della donna non può affermarsi contro il bambino».


Non sta esagerando in integralismo?
«Casomai si esagera con la bandiera idolatrica dell'eugenetica. Tu sì, tu no. E siamo tornati a immettere il veleno nel corpo delle donne per abortire: cos'altro è la Ru 486 se non il prezzemolo moderno? Riporta l'aborto lontano dagli ospedali, tra il tinello di casa e il bagno dove si espelle il feto. La nuova frontiera su cui dare battaglia è quella dell'eugenetica e della barbarie, quella di chi vorrebbe che un neonato non venisse curato se non c'è l'autorizzazione dei genitori, come ho letto sull'Unità, giornale del Partito democratico».


Ma che senso ha una lista pro-life?
«C'è chi parla delle licenze dei tassisti, chi della privatizzazione di Alitalia, chi delle aliquote che vanno abbassate: questo argomento è almeno altrettanto importante».
L'aborto debutta di nuovo in politica.
«Negli Usa il veltroniano Obama e la dalemiana Clinton hanno un punto in comune: il sì all'aborto e all'eugenetica selettiva. Mc Cain invece dice di volersi battere per "i nati e per i non nati". È la nostra posizione».


Così negli Usa. E in Europa?
«Il Ppe è pro-life, ma è un po' in sonno come certi bei massoni, e il Pse è per le sorti magnifiche e progressive di questo tempo in cui si è dimenticato il bisogno di vita».
Lei ha chiesto l'apparentamento della sua lista a Berlusconi.
«Sì, ma non mi ha ancora risposto».


Che le ha detto?
«Mi ha controproposto di mettermi nel Pdl insieme ad altri tre, quattro, con la collocazione di numero due in qualche circoscrizione, poi mi ha chiamato amichevolmente "signor Testone" quando gli ho risposto: "No, grazie"».


Ma lei insiste con l'apparentamento.
«Il centrodestra sarebbe il luogo naturale di una lista così. Il sondaggista Pagnoncelli ha rilevato che una lista come la nostra avrebbe sicuro il 4 per cento, forse il 6. Se Berlusconi rispondesse di sì all'apparentamento lo sbarramento sarebbe al 2 per cento: riuscirei ad andare in Parlamento con un gruppo di persone che farebbe questa battaglia culturale. Se invece Berlusconi resiste, per chissà quali ragioni che non saprà spiegare né a me ne a se stesso, andrò avanti. Gli proporrò di apparentarsi con noi in alcune regioni al Senato».


E se la risposta sarà un no?
«In questo caso non riuscirò a presentare una lista alla Camera, probabilmente, ma la farò al Senato in alcune regioni come Lazio, Lombardia, Sicilia e Sardegna. Potrei superare lo sbarramento molto alto, e se non lo supererò, pazienza. Ci sono splendide vittorie e splendide sconfitte. Comunque, funzionerà da spinta per tutti».


Candidandosi dovrà lasciare La7.
«Lascerò la tv, questa tv fantastica che mi ha dato grande libertà, ma penso che sia giusto fare così. Non per far circolare delle liste, ma per far circolare delle idee».


Da solo farà perdere voti al centrodestra.
«No. Pagnoncelli dice che prenderò voti a sinistra ».


Ma a sinistra dicono che la sua è una battaglia contro le donne.
«Sono violenze verbali, è una crociata ad personam. Mi hanno dato dello stupratore culturale. Ma non è così. Questa è una versione grottesca e bugiarda della moratoria. Del resto anche la Chiesa non chiede, come si vuol far credere, l'abolizione della 194, ma la sua integrale applicazione e quindi anche questa sordida polemica è pura controinformazione vecchio stile. Disonesta».


Ferrara, chi ci sarà nelle sue liste?
«Ci saranno alcuni collaboratori del Foglio, esponenti del movimento della vita, lo proporrò a Susanna Tamaro e ad altre donne e uomini liberi. Mi piacerebbe avere anche mia moglie in lista, è una femminista storica ma sa che alle origini del femminismo c'era il disprezzo per gli uomini che inducevano le donne all'aborto. Lei però resiste, dice che non ha il mio fuoco nella pancia, fire in the belly ».


 Che dice a Berlusconi per convincerlo?
«Gli dico solo che almeno mi dia una risposta in fretta. Quando mi propose al telefono di candidarmi contro Di Pietro nel Mugello, io ero in macchina a pochi minuti dal teatro dove dovevo partecipare a un Costanzo Show. Cinque minuti dopo salii sul palcoscenico e annunciai in quella trasmissione che mi sarei candidato. A Berlusconi chiedo stile: mi risponda presto, anche con un no, ma lo faccia senza perdere tempo».


Maria Teresa Meli
12 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: POPULIVISMO: Mondo Donna
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:16:48 pm
Saraceno: «L’Italia rompa il monopolio maschile del potere»

Marina Mastroluca


«Non è questione di quote ma di norme contro il monopolio maschile della politica».
Visto con gli occhi di Chiara Saraceno, sociologa, docente all’Università di Torino, il neonato governo Zapatero non potrebbe essere più lontano dall’Italia, con una forte, dichiarata presenza delle donne anche in un ministero pesante. «Quello è stato il massimo, mettere una donna incinta al settimo mese alla Difesa. Mentre da noi alle donne si lasciano ministeri leggeri leggeri, a volte praticamente inventati».

Perché un governo al femminile succede solo nei Paesi degli altri?
«La classe politica spagnola, e Zapatero in particolare, si è concentrata nell’enfatizzare i diritti civili, l’uguaglianza, almeno come opportunità se non sul piano delle politiche sociali. Quello che impressiona è che la Spagna che si è affacciata più tardi di noi alla democrazia sia molto più veloce nel seguire i cambiamenti della società. Il fatto è che noi abbiamo una delle classi politiche più fossilizzate, anche per età. L’ultimo cambiamento di ceto politico c’è stato con l’ingresso di Berlusconi, ma ormai anche quello è datato: una volta lì, guai a chi si muove».

In campagna elettorale si è parlato di percentuali di rappresentanza, Berlusconi arriva al 33%, Veltroni promette «il più alto numero di donne» mai visto al governo.
«Non c’è stata finora una differenza sostanziale. Sinistra e centrosinistra magari fanno grandi dichiarazioni di principio, ma poi la presenza delle donne diventa l’ultima cosa da prendere in considerazione. Al momento delle decisioni emerge il fatto che il nostro è un ceto politico maschile monopolistico. Bisognerebbe semmai chiedersi perché l’emarginazione delle donne non riesce a diventare un tema prioritario della politica in Italia».

Perché secondo lei?
«In parte per la nostra cultura, che è vecchia, preoccupata solo di salvaguardare rendite di posizione che sono in larga parte maschili: c’è sempre qualche altra priorità, che si chiami equilibrio della maggioranza o altro. Quando venne formato il governo Prodi io scrissi alle donne che non avrebbero dovuto accettare quel poco che era stato offerto, che avrebbero dovuto protestare come hanno fatto altri. Ma anche qui, e io lo posso capire, è prevalsa la paura di perdere quello che con tanta fatica si era riuscito ad avere».

Quindi la questione non è prioritaria nemmeno per le donne?
«Lo è a livello individuale. Ma non riusciamo - mi ci metto anche io come italiana - ad articolare una protesta, non facciamo paura, non abbiamo potere negoziale. Ne aveva di più un Mastella, o un Bossi. Anche in questa campagna elettorale sarebbe stato utile se avessimo esplicitato con un’azione pubblica la possibilità di non votare. E invece anche le donne nell’assemblea del Pd non sono riuscite a farsi sentire, a far valere il loro peso: non c’è stata una protesta organizzata per ottenere una presenza più significativa nelle liste nelle posizioni che contano. Paghiamo anche anni di un certo femminismo che guardava con disprezzo al potere, squalificando il discorso della rappresentanza delle donne».

In Norvegia hanno imposto una presenza obbligatoria delle donne nei consigli d’amministrazione delle imprese, anche private. In Spagna già dagli anni 80 il Psoe ha introdotto le quote al suo interno. Non spetta alla politica indirizzare il cambiamento anche con le quote rosa?
«Innanzi tutto bisognerebbe smetterla di chiamarle così: sono politiche antimonopolistiche. Non è un dettaglio, è una questione sostanziale. Se avessimo la stessa situazione di monopolio che c’è nella politica in altri settori sarebbe dichiarata fuorilegge. Le quote protette non sono quelle delle donne, ma quelle attuali degli uomini, ulteriormente enfatizzate dalla legge elettorale in vigore: qualcuno sceglie chi può entrare e chi no. Quello che dobbiamo dire con chiarezza invece è che questo monopolio maschile è altamente lesivo della democrazia e per questo combattuto».

Pubblicato il: 14.04.08
Modificato il: 14.04.08 alle ore 9.11   
© l'Unità.


Titolo: Ministre spagnole a Berlusconi: «Ci ha offeso»
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 03:18:40 pm
Ministre spagnole a Berlusconi: «Ci ha offeso»

Il governo Zapatero ha una forte presenza femminile? «il presidente del consiglio se l'è voluta e ora dovrà guidarle...». Lui dirà che era una battuta, ma per tutta Europa si tratta della prima gaffe internazionale del Berlusconi Terzo. Una gaffe che ha provocato la reazione delle ministre spagnole.

La titolare delle Infrastrutture, la socialista andalusa Magdalena Alvarez, ha definito «assolutamente inappropriati» i commenti del leader del centrodestra italiano Silvio Berlusconi sulla composizione «troppo rosa» del nuovo governo di Madrid del premier Josè Luis Zapatero.

In dichiarazioni riportate dall'agenzia Europa Press, Alvarez ha detto anche di ritenere che le parole di Berlusconi siano «un'offesa» per tutti i cittadini. «Probabilmente - ha detto ancora a proposito del leader del centrodestra italiano - non avrà mai questo problema, perchè molte donne non vorrebbero lavorare con un politico che pensa questo delle donne». Noi, ha aggiunto, «in molte non entreremmo mai in un governo presieduto da Berlusconi».

Un altra delle 9 donne ministro (su 17) del governo "Zapatero Due", la titolare del nuovo dicastero dell'Uguaglianza uomo-donna, Bibiana Aido, ha detto ai cronisti che «è ovvio che le donne sono preparate quanto gli uomini ad assumere responsabilità politiche». «Questo è più che dimostrato» ha aggiunto.

Prima di Alvarez e Aido aveva già replicato a Berlusconi la segretaria per le relazioni internazionali del Psoe, il partito socialista di Zapatero. «In Italia, come in Spagna, ci sono abbastanza donne qualificate e intelligenti da occupare posti di ministro o per altri impegni di governo», aveva affermato.

Elena Valenciano ha aggiunto che il leader del Pdl dovrebbe rispettare le decisioni dei premier di altri paesi e anzi seguire l'esempio di Zapatero, perch‚ in tal modo «ne beneficerebbero la politica e l'Italia».

Sulla vicenda è intervenuta anche la dirigente del Partido Popular (opposizione di centrodestra) Esperanza Aguirre, presidente della comunità di Madrid. «Questo è il secolo delle donne - ha detto ai giornalisti - ed una delle cose migliori che abbia fatto il presidente (Zapatero) è stato nominare tante donne in questo governo».

Intanto re Juan Carlos di Spagna ha formalmente inaugurato a Madrid la nuova legislatura invitando il paese e le forze politiche a dare prova di «grandezza, dialogo, coesione e solidarietà» nel fare fronte alle «difficoltà e all'incertezza economica».

In un intervento davanti a deputati e senatori riuniti nell'aula del Congresso, in presenza del governo presieduto dal socialista Josè Luis Zapatero, Juan Carlos si è anche pronunciato per una «Spagna moderna, unita, plurale e diversa, che esige di conciliare e armonizzare gli interessi per garantire che la nostra vita collettiva sia un progetto solidale e integratore». La IX legislatura spagnola, nata dalle elezioni politiche del 9 marzo vinte dal Psoe di Zapatero, avrà una durata di 4 anni. Le prossime elezioni legislative regolari sono previste nel 2012. Nel nuovo Congresso dei Deputati il Psoe ha una maggioranza relativa di 169 seggi su 350 contro 154 al Partido Popular (opposizione).


Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 15.36   
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Titolo: Re: POPULIVISMO: Mondo Donna
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 05:56:16 pm
Berlusconi difende Putin "minacce" a giornalista russa

"Gestaccio" contro gossip sentimentale


La giovane giornalista russa, quando ha visto il gesto, è scoppiata in lacrime. Natalia Melikova, della Nezavsinaya Gazeta, aveva rivolto al suo presidente Vladimir Putin una domanda scomoda. Gli aveva chiesto conferme sulla sua relazione con l'ex olimpionica di ginnastica artistica Alina Kabayeva, neoeletta deputata a soli 24 anni, e se fosse imminente un divorzio dalla moglie. Il futuro premier italiano Silvio Berlusconi ha anticipato la risposta del leader del Cremlino mimando il gesto che vedete nella foto. Un mitra. Peccato che in Russia i giornalisti, a cominciare da Anna Politkoskaja, vengano uccisi. Davvero.

E così, dopo il "gestaccio", si assiste ad una doppia scena. Da una parte Berlusconi che scherza sulla giovane e minuta cronista indicando a Putin un noto «retroscenista» italiano e dicendogli: «Tu mi lasci questa giornalista e io ti mando lui». Dall'altra la giornalista, visibilmente scossa, che cerca di tranquillizzarsi ripetendo: «Ho visto il gesto di Berlusconi ma so che il vostro presidente è abituato agli scherzi. Non avrà alcuna conseguenza».

Putin, meno incline agli scherzi, mette intanto in chiaro con i giornalisti, quello che gli preme. Ovvero di «non mettere il naso» nelle sue faccende private. Un addetto all'informazione del governo russo si affretta ad assicurare alla Melikova e ai giornalisti italiani che il monito del presidente «non era rivolto a lei personalmente ma alla stampa in genere».

Pubblicato il: 18.04.08
Modificato il: 18.04.08 alle ore 16.14   
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Titolo: La proposta di Rutelli sul dispositivo anti stupro spacca il fronte femminista
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:04:34 pm
CRONACA

La proposta di Rutelli sul dispositivo anti stupro spacca il fronte femminista

Il Pd: in Inghilterra si usa già. Le militanti del Pdl manifestano con il burqa

Ma il braccialetto divide le donne "Non siamo cani". "Così più sicure"

Patrizia Sentinelli (SA): "Può essere uno strumento utile ma è la cultura del possesso del corpo che va stroncata"

di ALESSANDRA PAOLINI

 
ROMA - "Contro lo stupro anche il braccialetto elettronico va bene", parola di femminista. "No. E' un'aberrazione", rispondono le trenta donne del Pdl che si incatenano velate di nero, indignate, davanti alla stazione romana della Storta. Si gioca a parti invertite l'ultimo scontro sulla sicurezza, il nuovo fronte che nel pieno della battaglia per il Campidoglio ha aperto la violenza sessuale a La Storta, sei mesi dopo la morte violenta di Giovanna Reggiani.

Rutelli evoca il braccialetto elettronico per lanciare l'allarme, già in vigore in Inghilterra per controllare i detenuti in libertà provvisoria. Adottato anche in Italia in via sperimentale. Ed allora era la destra a cavalcare l'idea. Ma adesso le truppe di Berlusconi si scandalizzano davanti a una soluzione del genere: "Non siamo né schiave né cani né macchine dotate di antifurto", ha spiegato Barbara Saltamartini neo eletta del Pdl anche lei alla Storta col burqa.

Alle associazioni femministe, in mattinata riunite nella Casa internazionale della donna a Trastevere per fare il punto su un problema che nasce dalla violenza sessista, invece l'idea rutellina non dispiace: "Perché no? Non è una misura obbligatoria, e se ci fa sentire più tutelate, ben venga", ha commentato Manuela Moroli di Differenza Donna. "Può essere uno strumento utile, una tecnologia a difesa dei cittadini come le paline dell'Sos in ogni stazione della metro o alla fermata dell'autobus. Anche se è la cultura del possesso del corpo che va stroncata", afferma Patrizia Sentinelli ex sottosegretaria agli Esteri, una delle leader romane della Sinistra Arcobaleno.

Ma la proposta "indecente" per le velate del Pdl non è che un'idea tutta di Rutelli buttata là sull'onda dell'emotività davanti a una Roma scossa per l'ennesimo fatto di violenza. Il braccialetto fa parte del programma del Pd. Un'idea di Walter Tocci, deputato Pd copiata su un format tutto inglese, messo in pratica in alcuni comuni d'Oltremanica. Spiega Enrico Morando, curatore del programma veltroniano: "Ho studiato bene come si può mettere in pratica. Non è fantascienza, ma una realtà a portata di mano. Roma e Milano potrebbero già adottarla perché si basa sul sistema della banda larga, sul cosiddetto Wi-max". In pratica schiacciando il bottone del bracciale il segnale arriva via Internet alla centrale operativa delle forze dell'ordine. Il segnale dà le coordinate precise del punto da dove è partito l'Sos.

"Indispensabile chiaramente che sul territorio ci siano 24 ore su 24 delle volanti che possano intervenire - spiega Morando - Il costo dell'apparecchio è minimo, quello che va potenziato è il pattugliamento in ogni zona della città". Un segnale dunque, che istante dopo istante rivela dove sei. E qui stanno le perplessità del Garante della Privacy.

Per Francesco Pizzetti presidente dell'Authority in questo caso bisogna capire a fondo la tecnica, le modalità. "Se il segnale è fisso e in qualsiasi momento si può essere individuati, un problema di privacy c'è. Di sicuro serve un consenso molto informato. E' una misura molto rilevante e va studiata con cautela".

In attesa di sviluppi c'è già chi si propone sul mercato. E' la società di Codroipo vicino Udine, "OmniaEvo" che ha ultimato un sistema articolato su un portale web e su un dispositivo portatile, che ha le dimensioni di un piccolo cellulare. "Il suo utilizzo potrebbe migliorare la sicurezza personale di noi donne", spiega l'ideatrice del congegno, l'ingegnere Loredana Valentino. Intanto, chi può si attrezza: spray urticanti al peperoncino, e corsi di difesa personale. Il "Mugging" che arriva dall'America, sorta di arte marziale molto mirata e non troppo difficile da imparare, va per la maggiore. Corsi strapieni al centro "Difesa Donna" a Milano e allo Iusm romano.

(22 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Veronica Berlusconi "Io, la Lega, il Ponte e il Bagaglino"
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:10:44 pm
25/4/2008 (7:13) - IL DOPO VOTO - LA MOGLIE DEL CAVALIERE

"Io, la Lega, il Ponte e il Bagaglino"
 
«Sono la leghista della famiglia, basta con snobismi e puzza sotto il naso»

LUCA UBALDESCHI


MILANO
C’è un filo che unisce Shakespeare ad Arthur Miller, arriva fino a Gioele Dix e per quanto sorprendente possa sembrare si srotola nell’Italia del dopo voto.

Perché per riflettere sul Paese uscito dalle urne Veronica Berlusconi chiede aiuto al teatro, sua grande passione. Walter Veltroni diventa Amleto, il dramma «Morte di un commesso viaggiatore» di Miller lo specchio della crisi economica e lo spettacolo «Tutta colpa di Garibaldi» di Dix l’escamotage per analizzare il successo di Bossi, la vera novità elettorale.

«Un risultato straordinario», spiega la moglie del futuro premier, «che impone di affrontare subito le questioni poste dalla Lega e di smetterla di considerare con snobismo o con la puzza sotto il naso i suoi esponenti».

Ripete più volte di parlare da cittadina - «Privilegiata, lo so, però sento molto forte la novità che preme sul Paese» - e non ha timore di mettere in guardia su quale ritiene essere la vera posta in gioco: «Dobbiamo ammettere che l’Italia non si riconosce più in un valore come l’unità del Paese. Da un punto di vista ideale ci vorrebbe un governo tecnico, con un leader al di sopra degli schieramenti. Ma la realtà è diversa.

Dobbiamo ascoltare ciò che chiede la Lega e a mio marito spetta un compito da vero statista: da una parte traghettare le istanze leghiste in progetti concreti e dall’altra dialogare con il Pd per avviare le riforme. Credo che così si ridurrebbe il rischio di una spaccatura dell’Italia».

Veronica Berlusconi leghista. Possiamo dirlo?
«Diciamo (e ride, ndr) che sono la componente leghista della famiglia. Ma, come è ovvio, non ho votato Lega».

Che spiegazione dà dell’affermazione del partito di Bossi?
«Questo è un Paese stanco e sfiduciato, anche dopo la vittoria di Berlusconi. Le difficoltà economiche sono pesanti, il Nord - un Nord i cui confini si sono allargati verso il Centro - patisce di più a causa di un costo della vita superiore anche del 30% rispetto al Sud. Sceglie la Lega, ma non chiamiamolo voto di protesta. La Lega esprime esigenze concrete, della parte d’Italia più produttiva, che è stanca di fare da traino al Paese e che non trova rappresentanza nella sinistra estrema, nonostante una persona come Bertinotti di cui certo non si può dir male».

La crisi economica è tanto grave?
«La nostra realtà assomiglia sempre più alla “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, a quell’America dove la ricerca del denaro e del benessere sembrava un traguardo facile, ma poi si rivelava un’illusione al punto da spingere il protagonista al suicidio dopo la perdita del lavoro. L’Italia di oggi è così, il rischio del degrado aumenta. Speriamo di non dover contare troppi suicidi eroici».

Un paragone molto duro, non crede?
«Sì, mi rendo conto, ma la crisi è davvero seria. D’altronde anche mio marito ha fatto una campagna elettorale che si poteva intitolare “Attenzione a sognare”. Non ha voluto creare illusioni».

Come si può uscire da questa situazione?
«Gli italiani chiedono il federalismo. Cominciamo da quello fiscale, da interventi diversi a seconda delle Regioni. Il governo rinunci alle idee imprenditoriali, lasciamo riposare in un cassetto il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. Per i grandi progetti potrà giocare sulla politica estera, che anche in passato è stata una carta vincente per tenere unita la maggioranza».

Ma non aumenterà il divario tra Nord e Sud?
«Già oggi il Paese si muove a velocità diverse, prendiamone atto, c’è un’unità artificiale. Consiglio di assistere a “Tutta colpa di Garibaldi”, uno spettacolo in cui Gioele Dix, con intelligenza, dimostra come l’unificazione dell’Italia sia stata una forzatura. Il Paese non è mai stato pronto né adatto per essere uno stato unitario e non è mai maturato a sufficienza per diventarlo».

Signora Berlusconi, evoca la secessione?
«No, dico però che c’è un Nord che vuole rompere gli argini e bisogna gestire le richieste delle Lega senza guardare con folclore ai suoi rappresentanti. Certo che Tremonti è un fiore all’occhiello del Paese, ma se la gente vota Calderoli, significa che impone una sua credibilità. Sarà compito della Lega fare ora un salto di qualità, dimostrare che sa realizzare le sue idee».

Quando il Pd muoveva i primi passi, Walter Veltroni disse che gli sarebbe piaciuto un contributo da parte sua. C’è stato un seguito a quelle parole?
«No. Ho pensato che quella frase fosse sì una forma di stima, ma anche un messaggio che passava sopra la mia testa».

Come valuta l’esperienza del Partito democratico?
«Veltroni mi ricorda Amleto, quando dice “Ah Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni”. Poteva rimanere nel suo guscio, ma ha fatto il sogno di cambiare il suo schieramento. Non è il killer della sinistra, ha capito che la situazione era già compromessa, senza Pd sarebbe andata ancora peggio. E’ stato bravo, ma ora temo che possa restare vittima di un complotto per sostituirlo. Però chi potrebbe andare al suo posto? Avrebbero bisogno di un Berlusconi. Credo che il Pd dovrebbe evitare guerre interne, non aiutano a capire che cosa pensa l’Italia. Come forse non l’hanno capito i giornali».

Lo dice da lettrice o da editrice del «Foglio»?
«Tanti articoli che ho letto prima del voto sul recupero di Veltroni indicano che probabilmente i giornali non intercettano i sentimenti prevalenti nel Paese. E mi lascia perplessa anche un altro aspetto: con il centrodestra che è ampia maggioranza, perché “Il Giornale” non vende molte più copie? Gli italiani hanno un pensiero più libero e meno facilmente influenzabile di quanto si creda e i giornali dovrebbero imparare ad ascoltarli di più».

Lei rimarrà una first lady nell’ombra?
«Impegni di Stato a parte, non ho mai fatto la first lady e continuerò a non farla. Non è un ruolo che si addice al Paese. L’Italia non è come gli Stati Uniti in cui si assiste a scene agghiaccianti come quella del governatore di New York che si presenta in tv a confessare l’adulterio con la moglie a fianco, come fosse una garante del pentimento. E poi, in Europa, con Sarkozy che sposa Carla Bruni, con la storia di Putin e della ginnasta, la politica ha rotto gli schemi della famiglia tradizionale. Lasciamo la first lady in cantina».

Lei ha citato Sarkozy. Che ne pensa dell’ex moglie Cecilia che gli è rimasta al fianco per le elezioni anche se i segni della crisi erano già evidenti?
«E’ stata una gran bella operazione di marketing, per me le vere rappresentanti del Paese sono le donne che lavorano nei partiti. Mio marito può portare sotto i riflettori della politica la Brambilla, mentre la moglie resta tranquillamente nell’ombra».

Un’altra donna in prima linea: Hillary Clinton. Come la giudica?
«Facciamo un discorso emotivo. Se Obama identifica il cambiamento, l’idea di un’America giovane, dove resiste il sogno dell’uomo che riesce a farsi strada da solo, McCain è l’immagine di una nazione vecchiotta e più chiusa in se stessa. Hillary rappresenta una mediazione tra le due istanze. Io la voterei».

Quali donne vedrebbe bene al governo in Italia?
«Donne con una storia politica e un peso specifico importanti. Recentemente, con questo clima da Bagaglino, con le battute e le barzellette si è un po’ imbastardito il discorso sulla presenza femminile in politica. Un clima che penalizza anche donne capaci come Anna Finocchiaro: è stata sconfitta drasticamente in Sicilia anche perché il Paese guarda le donne con diffidenza. Per dirla con una battuta di Daniela Santanché, le vede orizzontali».

Suona il cellulare, e Veronica Berlusconi lascia i discorsi politici per tuffarsi in quella che chiama «la mia normalità». Organizzare una giornata con il nipotino Alessandro («Adoro fare la nonna») o l’appuntamento per vedere un film con Luigi. E’ proprio l’ultimogenito a chiamare: «Luigi è entusiasta di suo padre e della vittoria elettorale. Lui in politica? No, ama troppo la finanza. A meno che - dice sorridendo la moglie del Cavaliere - non diventi un finanziere alla Soros, che fa pure politica. Ma anche per i figli della borghesia italiana oggi non è facile seguire i propri sogni».

da lastampa.it


Titolo: Il terrore delle donne dentro casa
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 05:15:11 pm
Il terrore delle donne dentro casa

Pasquale Colizzi



C’è chi se le immagina solo "orizzontali", chi le porta al governo per promuovere politiche contro le discriminazioni di genere, chi invece usa loro violenza o le forza psicologicamente. I numeri sulle donne che subiscono abusi in casa da parte del marito, dell’ex o di un conoscente sono preoccupanti ma ancora di difficile lettura. Se è vero che, lo dice l’Istat, più del 90% dei casi non viene denunciato.

Amnesty International, che porta avanti la campagna "Il terrore dentro casa", parla di una esplosione di violenza "trasversale": poche differenze tra nord e sud del mondo e per classe sociale. Persino il cinema ha avuto reticenze a spiegare il problema, forse incapace di inquadrarlo. Pochi i titoli. A Hollywood nel ’91 tirarono fuori un thriller, A letto con il nemico, in cui Julia Roberts per sfuggire al marito che scopre psicopatico si finge addirittura morta.

E nel pacifico nord Europa? Arriva dalla Svezia Racconti da Stoccolma, che al Festival di Berlino ha vinto il Premio Amnesty International. Tre vicende, in parte ispirate a fatti reali. Una nota giornalista si decide a denunciare il marito violento e si candida al Parlamento europeo per fare politica attiva sul tema. Il proprietario di un locale e l’amico buttafuori testimoniano, a rischio della vita, dopo aver subito un attentato. Una giovane mediorientale si ribella ai rigidi codici morali del clan familiare inorridita dal terribile destino toccato alla sorella maggiore.

Sullo sfondo di una città considerata a ragione una delle più tolleranti del mondo, con una società multietnica e abbastanza integrata, il regista Anders Nilsson ha assunto lo scomodo ruolo di quello che “scoperchia” il pentolone. La sua idea di film, con qualche momento spettacolare e un uso attento del realismo di denuncia, è stata di porre al centro il problema della violenza sulle donne, senza avviare la pellicola sul binario del semplice thriller o del poliziesco. E ha usato una efficace metafora, mutuata dal titolo originale: Quando scendono le tenebre arriva il lungo inverno, le famiglie si ritirano in casa e accendono candele per tenere lontani gli spiriti che vengono a rapire i bambini. Le stesse candele che si vedono numerose per tutto il film, a ricordare che il pericolo è sempre in agguato.

Come si può intervenire? Amnesty dice che innanzitutto bisogna parlarne. L’Istat ha calcolato, attraverso indagini telefoniche anonime, che circa un terzo delle donne italiane nel corso di una vita ha subito violenza fisica o sessuale. Solo il 6% degli stupri è a opera di estranei, per il 70% sono coniugi o ex. Più di due milioni sono quelle sottoposte a "stalking", cioè "comportamenti persecutori" da parte di un partner da cui si sono separate. Fallita la discussione in Parlamento di disegni di legge avviati dal vecchio governo, nel nostro Paese resta la Legge 154 del 2001, che prevede l’allontanamento del partner violento.

Niente a che vedere con la "Legge di genere" da poco approvata in Spagna, che prevede una sezione speciale nei Tribunali dedicata alla violenza sulle donne, corsi di aggiornamento sul tema per funzionari, programmi di riabilitazione per i “maltrattanti”, facilitazioni lavorative per le donne che denunciano e finanziamenti per i centri anti-violenza. Adesso, però, precisa Amnesty, ci vorrebbe anche l’impegno e i soldi per attuarla.
pasquale.colizzi@fastwebnet.it


Pubblicato il: 24.04.08
Modificato il: 24.04.08 alle ore 17.32   
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Titolo: Consiglio d'Europa: garantire il «diritto all'aborto legale»
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 11:18:39 am
Consiglio d'Europa: garantire il «diritto all'aborto legale»

Garantire alle donne il «diritto all´aborto legale e senza rischi per la salute».


Lo chiede espressamente il Consiglio d´Europa con una risoluzione che raccomanda anche la depenalizzazione dell´interruzione volontaria di gravidanza. Il testo, presentato da una deputata socialista, è il primo in cui si parla esplicitamente di "diritto delle donne ad abortire". Alle donne che scelgono l´interruzione di gravidanza devono essere infatti offerti sostegno e cure medico-psicologiche e soprattutto supporto finanziario. Bisogna operare per la rimozione di tutti gli ostacoli e le condizioni che restringono la possibilità di abortire senza rischi per la salute. Quanti tra gli Stati aderenti non abbiano già provveduto dovranno «rispettare la libera scelta delle donne» e «superare le restrizioni, di fatto o di diritto, all´accesso a un aborto senza rischi».

L´aborto deve essere considerato l´extrema ratio, la soluzione a cui ricorrere in ultima istanza, e non deve mai essere adottato come «un metodo di pianificazione familiare». Il divieto dell´aborto non è conduce affatto alla sua diminuzione bensì all´aumento delle pratiche clandestine e traumatiche e alla diffusione di quello che viene chiamato il "turismo abortivo". La legge lo consente per salvare e tutelare la vita della madre in quasi tutti gli Stati membri del Consiglio d´Europa; nella maggioranza è anche permesso per altre ragioni o entro un determinato lasso di tempo. Il rapporto, redatto dalla Commissione sulle Pari Opportunità per le donne e gli uomini del Consiglio d'Europa e presentato dalla parlamentare socialista Gisela Wurm, ha evidenziato che sebbene la maggior parte dei paesi europei consenta l'aborto in caso di pericolo di vita della madre, in diversi paesi, quali Andorra, l'Irlanda, Malta, Monaco e la Polonia l'aborto è illegale o severamente limitato.

Secondo il Consiglio d´Europa, nelle scuole dovrebbe essere prevista, obbligatoriamente, l´educazione sessuale e sentimentale, adeguata naturalmente all´età e al sesso, per evitare gravidanze indesiderate e di conseguenza il ricorso all´aborto. La costruzione di una cultura di rispetto della donna passa soltanto attraverso campagne di sensibilizzazione sociale, che contrastano anche ogni tentativo di strumentalizzazione e di cattiva informazione di una materia così delicata, che investe la vita di migliaia di persone.

Si tratta, però, di una risoluzione, la "1607", che non ha valore «vincolante» per gli Stati membri. L´assemblea, che raccoglie i parlamentari di 47 Paesi europei in rappresentanza di 800 milioni di europei, l´ha approvata con 102 voti a 69 dopo un dibattito di 4 ore e l´esame di 72 emendamenti.

Secondo il Vaticano, però, la donna non dovrebbe abortire. Il «diritto all'aborto è un falso diritto», attacca l'Osservatore romano, in un articolo di prima pagina firmato da mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia accademia per la vita. Per Sgreccia non si deve garantire alle donne «il diritto effettivamente d´accesso all´aborto sicuro e legale». La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa contiene «un'affermazione contraria ai diritti umani». Quell'atto è, a suo parere, un «pericoloso precedente in quanto introduce per la prima volta in un documento internazionale un nuovo diritto, quello di aborto legale e senza rischi per la salute».

Pubblicato il: 26.04.08
Modificato il: 26.04.08 alle ore 17.41   
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Titolo: La storia è vera, il nome di fantasia… la chiameremo Laura
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 06:13:54 pm
Nel corso di una inchiesta sulla 194, la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, mi sono imbattuta in una serie non indifferente di scogli che hanno reso l’inchiesta particolarmente lunga, al punto da non arrivare ancora ad una conclusione definitiva.

La prima fondamentale difficoltà è legata ad una interminabile burocrazia che rende difficile parlare con chi si occupa di questa pratica, almeno in Emilia Romagna: paura, reticenza, necessità di evitare facili scontri con i movimenti per la vita, molto attivi e presenti nei centri preposti alla pratica abortiva. Dato sconcertante correlato a questa situazione è la massiccia presenza di obiettori di coscienza all’interno delle strutture pubbliche che dovrebbero soddisfare questo servizio.

E così nasce l’esigenza di raccontare l’esperienza di una delle vittime di questo stato delle cose: la storia è vera, il nome di fantasia… la chiameremo Laura

By Maria Genovese

Laura e Luca (anche questo di fantasia) si sono conosciuti nell'aprile del 2005. Nato come gioco è diventato presto amore, al punto da trasformarsi rapidamente in convivenza.
Dopo pochissimi mesi Laura rimane incinta: è un evento che ha del miracoloso, dal momento che ad entrambi era stata diagnosticata una sorta di sterilità!
Evento eccezionale! Chiunque si sarebbe aspettato solo gioia da questa incredibile novità... invece per Laura è un dramma, al punto da maturare la sofferta scelta dell'aborto.
E comincia così un piccolo calvario personale, che molte donne, con motivazioni analoghe o molto diverse dalle sue, hanno dovuto vivere nell'affrontare un percorso già di per se doloroso.
E' l'8 marzo... sono trascorsi più di 2 anni da allora. E Laura accetta di raccontare la sua storia, rappresentativa di come si può trasformare una buona legge in carta straccia!
Difendiamo la 194: è un patrimonio di civiltà!

Babylonbus: Per comprendere meglio il racconto che seguirà, è bene partire cominciando a spiegare: perchè un evento così incredibile, lo hai accolto così male? Cosa ti ha portato alla scelta dell'aborto?
Laura: Conoscevo Luca da soli 3 mesi e la paura che non potesse funzionare tra noi era tanta... Mi sentivo gia molto sicura del nostro rapporto tanto che per la prima volta sentivo di voler intraprendere una convivenza, dopo tanti anni che vivevo da sola per scelta. Sentivo di aver trovato la persona giusta per me e di aver raggiunto un giusto equilibrio interiore per poter condividere il quotidiano insieme a lui. Ma tre mesi erano pochi pensando che nel caso fosse nato....sarebbe stato tutto a spese del bambino. Mi ponevo tanti dubb, ma il terrore per questa scelta era legato a qualcosa di molto più profondo. La mia malattia!
Soffro da anni di depressione, una depressione vera, non uno stato emotivo che porta questa parola sulla bocca di tanti

B. Cosa avrebbe comportato una gravidanza in relazione alla tua depressione?
L. Innanzitutto per poter svolgere una vita, un quotidiano più o meno stabile devo aiutarmi con farmaci assunti sistematicamente e continuamente nel tempo: pur avendo provato tante volte negl'anni a non assumerne
Purtroppo questa scelta è sempre stato un fallimento perchè nonostante la mia tanta volontà di stare bene ha sempre vinto il cervello e sono sempre ricaduta nel buio.
Come potevo pensare di mettere a rischio la serenità e l'equilibrio del bambino con una madre così? Una mamma che a periodi alterni non riesce ad uscire di casa, a condurre una sana vita sociale,con una grande difficoltà perfino ad andare al lavoro. Sicuramente l'amore per un figlio da una forza inimmaginabile ma la depressione non lascia nessuno spazio alla volontà di combattere con lei.
Si diventa qualcuno fuori dal comune e un figlio ha bisogno di sicurezza e stabilità: cosa di cui non potevo neanche pensare di deprivarlo, rendendolo un figlio infelice per sempre.

B. L'uso di psicofarmaci durante la gravidanza, al di la del successivo allattamento che avresti potuto scegliere di non fare, avrebbe potuto comportare rischi per il feto? E nel caso, avresti potuto fare a meno di assumerne nel corso dei 9 mesi di gestazione?
L. Non sono al corrente dei rischi sul feto: il problema era sicuramente non poter affrontare un così lungo tempo senza essere coperta dal farmaco. Ma quello che mi terrorizzava era soprattutto il dopo.
Come potevo scegliere l'egoismo di tentare? Si tratta di una vita non di un giocattolo!

B. Fatte queste valutazioni hai deciso per l'interruzione della gravidanza... e così è iniziato l'iter. Innanzitutto a chi ti sei rivolta?
L. Mi sono rivolta subito all'ausl di appartenenza, era estate, periodo di ferie per molti. E nonostante sia stata seguita con interesse dall'impiegata a cui mi sono rivolta, è stato impossibile trovare un medico che potesse farmi avere il certificato che attesta la volontà di interruzione di gravidanza.
Ricordo che fece molte telefonate. anche a due ospedali ma niente, nessuno voleva farmi quel certificato

B. Perchè tanta difficoltà?
L. Proprio non capivo perchè... a quasi 40anni mi ritrovavo acerba come una bambina perchè proprio non capivo... una scelta molto sofferta, un periodo molto triste per me e il mio compagno e ci ritrovavamo davanti ad una burocrazia (così credevo) inverosimile.
Tornata a casa mi sono rivolta all'unica persona che conoscevo, una ostetrica: forse lei mi poteva aiutare, una grande amica!
Mi ha spiegato che l'obiezione di coscienza è molto radicata ma non proprio vera, in quanto fuori dalle strutture poteva verificarsi altro.....

B. Quindi era un problema di obiezione di coscienza?
L. Si

B. Ma la difficoltà ad ottenere questo certificato a cosa era dovuta? Daccordo l'obiezione di coscienza, ma un medico che non fosse obiettore non era disponibile?
L. A quanto pare no!

... A questo punto la mia amica si è offerta di aiutarmi e ha chiesto presso il reparto di ginecologia ed ostetricia dove lavora ma senza esito positivo. L'unico che con certezza mi avrebbe fatto il certificato era in ferie . Lo ha contattato telefonicamente e nel giro di 3 o 4 g avevo il certificato tra le mani. Ancora ho il magone quando penso a quel momento perchè proprio da quel momento ho cominciato a sentirmi un'assassina!
Il mio corpo gia da tempo mi faceva sentire diversa ed ora era tutto diventato così reale...
Ho cominciato subito a chiedermi perché mai bisogna sempre conoscere qualcuno! E le altre? Chi non ha “conoscenze? Cosa avrebbero fatto in quella situazione?

B. Ottenuto il certificato cosa è successo?
L. Ormai ero nelle mani della mia amica, che mi ha indicato l'unica strada percorribile: io ero gia provata, veramente, e non potevo certo avere la forza di sudare 7 camice alla ricerca di medico quindi mi ero affidata completamente alle sue direttive.
La mia amica mi ha portata subito in ambulatorio per fare tutti gli esami del sangue, dell'urina, ed un elettrocardiogramma e mi ha informata che la stessa mattina avrei fatto anche una ecografia transvaginal. Mi ha spiegato che saremmo poi andate insieme in un ufficio dove viene fissato il giorno per l'interruzione in base alle settimane di gravidanza.
Dopo aver fatto gli esami mancava solo l'eco... e a quel punto lei mi ha chiesto di isolarci un momento

B. Perchè?
L. Era come se lei sentisse cosa avrei potuto pensare o come avrei potuto reagire perchè si è posta con un atteggiamento dolce, rassicurante, protettivo...
Mi ha riferito che l'ecografista era obiettore e che sicuramente dentro l'ambulatorio sarebbe successo qualcosa, avrebbe sicuramente detto qualcosa di più o meno velato, e quindi, conoscendomi, mi ha proposto di entrare insieme. Sarebbe rimasta al lato del lettino, opposto al medico, mi avrebbe tenuto sempre per mano e io non avrei dovuto guardare mai il monitor qualunque cosa avessi udito. Lei poteva rimanere li con me in quanto di casa, e cosi insieme siamo entrate.

B. E una volta dentro, cosa è successo?
L. Andò tutto come previsto da lei ed è stata una vera pugnalata al cuore e a mio parere anche alla schiena...

B. Perchè?
L. Io volevo fare tutto quello che mi aveva consigliato lei e avevo gia capito perchè, ma non potevo immaginare tanta crudeltà in nome di un proprio credo. Io guardavo sempre la mia amica, tenendole la mano e facevo molta fatica a mantenermi decorosa. Non mi sono mai voltata verso il medico, quindi verso il monitor, ma lui nonostante questo ha scelto di dire alla sua collega (la mia amica), come se io non fossi li, svalutando la mia anima, le mie emozioni: "Ecco vedi? ora c'è il battito, lo vedi è qui! E' da qui che nasce la vita!"
Lei mi ha stretta la mano forte forte e così sono riuscita a non crollare li dentro.

B. La domanda è ovvia, quasi superflua... ma è importante porla, per capire cosa succede in una donna quando si affronta un aborto: cosa ti ha provocato quel commento? Hai parlato di crudeltà... perchè?
L. L'ho vissuta veramente come una violenza, e non credo di esagerare nel dire che questo atteggiamento, queste parole hanno contribuito ad un aborto pieno di sensi di colpa...una giusta parola potrebbe aiutare tanto la donna in quei momenti. Una parola sbagliata fa danni... eccome!
La crudeltà sta nel fatto che lo sconvolgimento interiore è grande e non si può svalutarlo in questo modo. Non si può avere tanta mancanza di sensibilità nei confronti di una donna, che non fa una simile scelta con superficialità. Non tutti hanno la forza e la salute per poter affrontare una gravidanza ma rimane comunque il fatto che abortire, anche se per scelta, ti fa morire un po’.

B. Sai che la 194, la legge sull'aborto, prevede che sia garantito a livello pubblico, assistenza per chi avesse intenzione di interrompere una gravidanza indesiderata? Hai visto rispettata questa parte della legge?
L. Fino a quel momento assolutamente no!!! Poi non posso pronunciarmi oltre in quanto la natura mi ha aiutata tantissimo.

B. In che senso la natura ti ha aiutata?
L. Nel senso che non ho dovuto affrontare nessun intervento: una notte mi sono sentita male e ho abortito naturalmente. Sono stata ricoverata e da quel momento trattata con rispetto ma solo fino al giorno del raschiamento perchè un'altro incontro infelice si è presentato.
Una notta di contrazioni e sanguinamento rendeva certo che fosse un aborto spontaneo, quindi la mattina mi hanno fatto un'altra eco transvaginale per stabilire se fare o no il raschiamento.
Continuavo ad essere sempre molto provata, inutile ripetermi, ma salvavo l'apparenza. Quando il medico, osservando il monitor, mi ha detto che il battito non c'era più, sono crollata. Mi sono messa a piangere in un modo molto composto e lui guardandomi negl'occhi mi ha detto:” non posso farci niente, queste cose se le deve risolvere da sola!” Per carità, vero! Ma bastava la scelta di parole e tono diversi

B. Sapeva che avresti dovuto affrontare un aborto?
L. I medici erano al corrente non solo dell'aborto già fissato in un altro ospedale, ma anche della mia depressione. La notte del ricovero mi è stato chiesto, molto velatamente, com'era accaduto, tanto da sentirmi in dovere di rispondere che non avevo avuto nessun rapporto sessuale violento per causarlo. Perchè tanta freddezza intorno? A questo punto non so se l'ecografista ne fosse al corrente, ma era tutto nella cartella clinica.

B. La 194 regolamenta l'interruzione volontaria di gravidanza, specificando innanzitutto che l'aborto non deve essere una forma di contraccezione, e in quanto tale, alla donna oltre all'assistenza di natura strettamente sanitaria, deve essere assicurata anche l'informazione necessaria per una scelta consapevole, che passa tra le altre cose attraverso l'illustrazione di possibili alternative all'aborto. La tua situazione era particolare, a causa della tua depressione: hai ricevuto da qualcuno questo tipo di assistenza, che ti desse modo di conoscere condizioni che ti consentissero di portare avanti questa gravidanza, senza conseguenze legate alla tua malattia?
L. No, nessuno mi ha spiegata nulla di nulla!

B. Quindi di tutto quello che è il principio alla base della legge sull'aborto, non hai ricevuto alla fine nessuna delle forme di assistenza che ti dovrebbero essere garantite: ne la possibilità di essere assistita da qualcuno che non fosse un obiettore, ne di essere assistita anche per scongiurare l'azione che stavi per compiere.
L. No, no, no! Ho solo un ricordo "felice". Un medico in visita una mattina, mai visto personalmente, ha battibeccato un pò con le infermiere per il giorno da fissare il raschiamento. Loro volevano mettermi in lista e lui voleva intervenire al più presto. Mi ha guardata e mi ha detto: stia tranquilla che in giornata lo facciamo. .E' stato per me il primo ed unico che abbia usato il giusto tono, le giuste parole ed uno sguardo comprensivo. Forse aveva lettodella mia depressione nella cartella o ne aveva parlato col collega che mi aveva ricoverata.

B. Hai qualcosa che vorresti aggiungere a tutto questo?
L. Solo che spero che donne "povere di conoscenze" possano ugualmente avere la giusta assistenza, e poi che i miei incontri, la mia esperienza, siano stati solo un caso...

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Last edited by mammamaria on 08 Mar 2008 04:16; edited 1 time in total
 
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 Posted: 08 Mar 2008 04:13    Post subject:     

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Gloria - Storia di una operatrice di chat line

Ce l’ho duro… fammi sentire come godi, puttana!

Ma come si fa? Come si fa a rispondere una cosa qualsiasi ad una simile richiesta? Puoi solo ansimare!
Ma tu per loro non sei una operatrice, sei una ragazza in cerca di divertimento… non ce l’hai a comando l’orgasmo!
Come fai a sembrare credibile, ad iniziare così ad ansimare, sospirare, gemere….

Ma probabilmente chi esordisce così non ci pensa neanche: ha solo bisogno della voce di una donna, di sussurri, urletti, moine…
Diodiodiodio… come si fa?
Gloria Gloria Gloria…. Stringi i pugni… e prova a ricordare quando da bambina ti sei calata nella parte per fare Pulcinella alla recita di carnevale!
Vai Gloria! Sei in scena!

Ciao, io sono Gloria, e chiamo da Roma... e tu chi sei?

La vera difficoltà di questo lavoro è quella di gestire la famiglia: lavoro prevalentemente di notte, mentre tutti dormono, nella speranza di non farmi sentire. L’appartamento non è grande, e non ci sono molte porte tra me ed i bambini, per cui devo fare attenzione: una notte il piccolo si è svegliato, aveva la pipì. Ma io non me ne sono accorta: ero presa dal turbine della follia di chi mi parlava al telefono… ero praticamente in un altro mondo.

“Mamma… perché piangi?”
Dio mio, anima mia! Ha creduto che la mia voce rotta fosse un pianto… e le lacrime sono spuntate davvero. Ho spento il telefono, l’ho preso tra le braccia e l’ho tenuto stretto, rassicurandolo…

Avevo solo nostalgia, piccolo mio, sono solo un po’ triste. Ma va tutto bene, amore mio, chiudi gli occhi e fai la nanna tra le braccia della mamma.

Poveri piccoli: che sacrificio gli sto imponendo! Non è mica facile per dei bambini piccoli sapere di avere la mamma, li a portata di coccola, e sapere di non poterla avvicinare, di non poter correre a prendere quel gesto di amore che desiderano. Quel bacio nascosto all’angolo della bocca che tanto sapeva di mamma per Peter Pan. Sapere di non potere fare nulla di più che guardarla attraverso la porta a vetro della cucina, dove mi chiudo abitualmente a lavorare quando sono tutti in casa: guardarla mentre ti fa le smorfie per farli ridere.

In fondo non è poi mica più facile con E. il mio amore. E’ scattato in me una sorta di istinto protettivo nei suoi confronti: vorrei tanto che non percepisse nulla dello schifo che mi sento addosso. Quando butto giù il telefono vorrei togliermi di dosso quella strana sensazione di ormoni sulla pelle, ma per quanto io mi lavi, quell’odore è sempre li… probabilmente perché è nella mia mente. E quando facciamo l’amore mi chiedo sempre se lo sta facendo con me, o con Lei, il mio allegro e disinibito alter ego che si lascia fare di tutto da mille voci sconosciute.
La prima volta che mi ha sentito ero in cucina, la porta non era ben chiusa. Davo le spalle alla porta, e non mi ero resa conto che fosse li: quando mi sono voltata l’ho visto li, che mi sorrideva, facendo dei gesti come a dirmi “Sei bravissima, mi stai facendo eccitare!”
C’era una specie di complicità rassicurante nei suoi modi… ma io mi sono sentita morire: era come se mi avesse colta in flagrante, in pieno tradimento! Ho buttato giù il telefono e sono scoppiata a piangere… giorni e giorni di tensione, vergogna, ansia che finalmente si scioglievano. Giorni e giorni a chiedermi come avessi fatto a ridurmi così, come fosse possibile che questa vita fosse proprio la mia. Avrei voluto sparire: invece lui mi ha presa tra le braccia e mi ha tenuta stretta, accusando i sobbalzi dei miei singhiozzi concitati. Non riuscivo a fermarmi. Non potevo fermarmi: tra le sue braccia tutto sembrava di più un incubo. Avrei voluto che mi schifasse, che mi allontanasse, che mi desse della troia…
“Ma come fai? Come puoi fare questo con altri uomini? Come fai a guardarmi negli occhi e farmi credere che sei la stessa donna che ho sposato, la madre dei miei figli!?”
E invece era li, comprensivo ed attento al mio dolore, e mi baciava, con tenerezza… e abbiamo fatto l’amore. E’ stato bellissimo!

E per un attimo ho dimenticato.
 
 
 
    da   ulivo.it Forum Index -> Discussioni uliviste in libertà
 

 


Titolo: Le donne della libertà
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 12:08:27 am
Le donne della libertà

Maurizio Chierici


Un giorno nei boschi, Appennino reggiano attorno a Felina. Trecento persone ascoltano Gianluca Foglia. Ricorda a suo modo il 25 aprile. Alle pareti dello chalet quattro ritratti coperti da garze. I suoi disegni. Foglia è autore di fumetti che interrogano la storia per far capire ai ragazzi con quale dignità è possibile affrontare la vita. «Once de septiembre», prigione e torture di una donna sopravvissuta a Pinochet.

Ne «La notte di San Nessuno» illustra l’ingiustizia sociale che sfinisce i popoli schiacciati dalle multinazionali. Si avvicina al ritratto di una donna. Nella sala allungano gli occhi ragazzi sui vent’anni, signori sopra i quaranta, vecchi partigiani. «Giovanna Quadreri aveva la vostra età quando curava i volontari della libertà feriti dai nazisti. Il dottor Marconi di Castelnuovo Monti nascondeva fasce e medicine nella cassetta da idraulico. I fascisti non avrebbero sospettato. “Se la ferita è grave portameli all’ospedale”».

Pagine del passato che svegliano la curiosità. Qualcuno vuol sapere: come poteva Giovanna portarli all’ospedale quando fascisti e tedeschi avevano in mano il paese?
Foglia sorride. Sessant’anni dopo Giovanna mantiene il segreto. Scopre il quadro di Laura, la sorella, ecco il disegno di Lidia Zafferri, classe 1921.

La staffetta Tullia Fontanili aveva 30 anni quando le brigate nere bloccano la sua bici. «Conosci questa?». Non la conosceva ma due pedalate dopo si ferma, cuore in gola.
È la sua foto pettinata diversa. Cercano lei e lei va in montagna.

In ogni posto del nord tante storie così, ma i ragazzi si distraggono perché le celebrazioni a volte suonano così diverse dalle parole sciolte nelle Tv.

Ecco perché Foglia racconta i racconti delle donne partigiane come un cantastorie nel mercato del tempo. Un fumetto, due chitarre, la fisarmonica accompagnano con Bella Ciao, Fischia il Vento, Cosa rimiri mio bel partigiano. Parole che non rimbombano; mai sacrificio, eroismo, coraggio. Solo gli inciampi quotidiani di un impegno che ha liberato la vita di tutti. I ragazzi non perdono una sillaba, i vecchi si commuovono. E quando cade la garza dell’ultimo disegno,

Foglia attraversa il pubblico. Prende per mano quattro piccole donne e le porta nella luce del riflettore: «Ecco Giovanna, Ilde, Laura, Tullia. Loro possono raccontarvi di più». Tutti in piedi e attorno per capire dalla tenerezza orgogliosa delle nonne come cercare la speranza. I ragazzi vogliono scoprire in quale modo sono cambiati i giorni delle famiglie nelle quali stanno crescendo anche perché la conoscenza virtuale del passato a volte si smarrisce nei discorsi di chi consacra il 25 aprile. Troppo solenni per le generazioni internet.

E il passato lontano e il passato prossimo ingrigiscono nella disattenzione.

Non sanno come si viveva 63 anni fa attorno ai banchi dove oggi cercano il futuro.
Nelle città o nei paesi che al mattino attraversano in fretta. La grande storia può insegnare qualcosa se misurata sulle abitudini negate. Nonni e padri impauriti nelle stesse strade sulle quali i nipoti sorridono coi telefonini dentro lo zaino. Nonni e padri avevano fame, e un pezzo di pane nero restava sogno proibito, mentre agli adolescenti 2000 si raccomanda «niente carboidrati», lievito dell’obesità.

Le paure e i delitti; soprattutto il disprezzo verso chi non si piegava al pensiero unico dell’Italia fascista, restano pagine rimpicciolite da programmi e da troppi insegnanti, eppure i vincitori delle elezioni annunciano di voler sfuocare nei libri di testo i ricordi sopravvissuti. Si vergognano di avere nostalgia dei massacri, e degli ebrei impacchettati nei vagoni merci come bestie da macello, non solo a Varsavia o Praga, come qualche film fa sapere; «bestie» arrestate a Roma, Milano, Ferrara, Firenze. In ogni piccola comunità d’Italia i compagni di classe sparivano e i professori diventavano ombre schiacciate dai passi delle brigate nere.

Stivali di Hitler, gagliardetti italiani. Insomma, memorie che a tirarle fuori danno fastidio alle corporazioni del fascismo al quale si aggrappano le corporazioni mercantili che trionfano in questi giorni. Con la stessa determinazione, leghe e popoli della libertà si impegnano a cancellare la memoria. Anche perché qualche vecchio signore che marciava nei battaglioni di Salò domani rientra in Parlamento.

I ragazzi non capirebbero un onorevole così.

Con la trasformazione della Tv commerciale nell’arma di disattenzione di massa dove le notizie strisciano e i grandi fratelli piangono, manganelli e deportazioni non servono, ormai. L’espianto si può fare a domicilio. Senza prediche o lezioni di retorica: un bel niente allegro aiuta a seppellire il passato prossimo che è ancora presente.

Qualche tempo fa ascoltando una ragazza, laurea in architettura, concorrente nei quiz seminati attorno ai Tg, si è capito come l’operazione «non parliamo del passato» stia dando risultati che confortano. Domanda del conduttore: «Quanti ebrei sono morti nei campi di concentramento nazisti?». La dottoressa stringe le labbra. Comincia a fare i conti. «Diecimila?». Silenzio imbarazzato del signore che fa le domande: «Troppi?». La povera si scompone: «Allora dico mille».

E se i «bamba» che sono andati in piazza a tener viva la memoria arrossiscono per desolazione, Vittorio Feltri (giornalista) ci ride su: «Ridotti al folklore, non riescono a cambiare». Val la pena insegnare ai giovani come diventare protagonisti del giornalismo lavanderia. Con la stessa femminilità di Maria Giovanna Maglie (ex giornalista Unità), Feltri ha sempre avuto un debole per gli uomini forti. Debutto anni Ottanta: portavoce dei socialisti craxiani alle assemblee del Corriere della Sera. L’impegno era rovesciare Alberto Cavallari chiamato dal presidente Pertini a riconfortare la dignità di un giornale sconvolto dalla mafia in doppiopetto della P2. Purtroppo Cavallari denuncia le cose che Mani Pulite avrebbe scoperto qualche anno dopo. Craxi si arrabbia. Urgente farlo tacere. Feltri è la manovalanza che serve. Oggi la P2 ha solo cambiato nome: i suoi uomini ridono al governo. Feltri marcia al passo di Berlusconi. È successo 30 anni fa; proibito spiegare nelle aule dove si forma la classe dirigente, chi sono, cosa volevano e le belle carriere dei protagonisti P2.

Intanto affoghiamo la Resistenza che spaventa le anime dei nuovi ministri. Il «bamba» lombardo del titolone Feltri è un frescone; cretino di campagna. Com’è possibile prendere sul serio i bamba che ricordano il 25 aprile? Marcello Veneziani, intellettuale della nostalgia nera, regala il consiglio decisivo: «Liberiamoci dall’ipocrisia di dire che il popolo italiano sia insorto per liberarsi dell’oppressore. Non è vero».

Cicale che nei prossimi mesi sciameranno in ogni Porta a Porta, dal Tg2 ai Tg Mediaset. Raggiungeranno le anime che si incantavano nel bosco dell’Appennino ormai impigrite sulle poltrone dell’inverno Tv. Ieri ascoltavano racconti e canzoni; interrogavano vecchie signore protagoniste di una piccola storia che illumina l’Italia 1945; oppure sfogliavano le lettere di un libro inventato dagli allievi del liceo Ulivi di Parma. Hanno scelto di fermare il tempo per dialogare con un compagno di classe fucilato dai fascisti a Modena nei giorni de «la guerra civile», per dirla con Veneziani: 10 novembre 1944. Giacomo Ulivi, 19 anni, non aveva fatto niente. Niente per modo di dire: le regole del tempo non permettevano di preferire Croce a Gentile e a Mussolini. Delitto imperdonabile. Ulivi costretto a nascondersi per colpe che oggi fanno ridere: qualche libro sgradito al podestà e amici «poco raccomandabili dalle idee liberali». Fucilato per rappresaglia.

Plotone italiano.

Nelle ore che precedono l’esecuzione, scrive lettere nelle quali sentimenti e rabbia affiorano senza voler graffiare. Con la lucidità di chi si sente rubare la vita, analizza gli errori della pigrizia di una generazione che sopravviveva nella zona grigia. Ulivi disegna le virtù indispensabili al futuro se davvero si vuole voltare pagina «quando sarà caduta la dittatura». Invita i compagni di scuola a evitare «il desiderio invincibile di quiete». Galleggiare e far finta di non capire «è il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione, o di educazione negativa, che martellando da ogni lato è riuscita a inchiodare in molti di noi il pregiudizio».

Sessant’anni dopo i ragazzi dello stesso liceo imbucano le risposte: «Caro Giacomo, come faccio a spiegarti che al posto del regime ci pensa la Tv a rendere schiave le nostre menti con la differenza che non ce ne accorgiamo?». Nel bosco dell’Appennino un po’ tutti vogliono sapere cosa è successo alle signore quando è finita la guerra.

Medaglie, posti comodi, paghe buone. Insomma, i benefici naturali di chi oggi è tentato di imitare il prossimo ministro dell’Istruzione che si è guadagnato la carriera mettendo in dubbio le stragi delle bande nere sulle quali piangevano i suoi discorsi quand’era sindaco Pci vicino a La Spezia.

Bondi, esempio dell’Italia nuova. Le vecchie signore ridono.

Sono invecchiate cameriere in Svizzera o nelle mense di fabbrica; mondine con l’acqua a mezza gamba nelle risaie, o nelle fornaci a fare mattoni o a vangare l’orto quando perdevano il lavoro e dovevano tirare giornata. «Abbiamo combattuto per fare ragionare la gente».

Ma certa gente si è distratta. I ragazzi che ascoltavano nel bosco, speriamo di no.


mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 28.04.08
Modificato il: 28.04.08 alle ore 10.48   
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Titolo: Precari, appello-choc di una donna napoletana al capo dello Stato
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 07:17:43 pm
CRONACA

Precari, appello-choc di una donna napoletana al capo dello Stato

"Caro presidente pochi soldi per un figlio, la ragione prevale sul cuore"

"Solo 1300 euro al mese ho deciso di abortire"

di LAURA LAURENZI

 
ABORTIRE perché non bastano i soldi. Non perché il bambino è gravemente malformato, non perché si è vittime di uno stupro, non perché si è sole senza un uomo accanto. Sandra (nome di fantasia) a 29 anni non se la sente, non ce la fa a diventare mamma: il motivo è che il suo è un lavoro precario, la sua esistenza è precaria, precari sono i suoi orizzonti. Ha fatto i conti e con sgomento ha deciso: un figlio è un lusso che non può permettersi.

E così ha scritto un appello al presidente Napolitano cui ha dato un titolo terribile: "Necrologio di un bimbo che è ancora nella mia pancia". Scoprirsi incinta le ha procurato "un'emozione bruciante, una felicità incontenibile", ma ben presto "la ragione ha preso il posto del cuore". Scrive nella lettera-appello che sta per inoltrare al Quirinale e che ha spedito al nostro giornale: "Presidente, ora devo scegliere se essere egoista e portare a termine la mia gravidanza sapendo di non poter garantire al mio piccolo neppure la mera sopravvivenza, oppure andare su quel lettino d'ospedale e lasciare che qualcuno risucchi il mio cuore spezzato dal mio utero sanguinante, dicendo addio a questo figlio che se ne andrà per sempre".

Ieri mattina Sandra, che vive con il marito in un centro dell'area vesuviana, ha fatto la prima ecografia al Policlinico di Napoli, ha firmato le carte, ha saputo la data in cui abortirà: il 27 maggio, un martedì. Chiede di mantenere l'anonimato perché sua madre non sa niente di questa gravidanza: "Nonostante tutti i problemi sarebbe felice di diventare nonna e di potermi aiutare".

Ha una famiglia alle spalle, un uomo che la ama, una casa. E' sicura di una decisione così importante?
"Mi prenderò questo periodo di tempo per riflettere. E rifletterò molto. Sono sempre in tempo a cambiare idea, intanto però ho prenotato l'intervento. E non mi perdono di non esserci stata attenta, nel breve periodo in cui ho sospeso l'anticoncezionale. Nel frattempo mi chiedo: dove è andata a finire la mia dignità? Ce l'ho messa tutta per costruirmi un futuro. Dopo avere fatto tanti sacrifici, dopo essermi quasi laureata in Scienze Politiche con 18 esami su 22, dopo avere collaborato a un giornale con oltre cento articoli senza mai avere un centesimo e neppure la tessera di pubblicista, dopo aver fatto, io e mio marito, infiniti lavoretti che definire umilianti e sottopagati è dir poco, mi ritrovo a non avere i mezzi per crescere un figlio. Perché se ti manca la moneta da un euro per prendere la metropolitana non importa, ma se ti mancano i cento euro per portare il tuo bambino dal dottore importa eccome".

Alla Asl non paga. Quanto guadagna al mese?
"Io, che oggi faccio la commessa in un negozio di informatica ma non sono ancora regolarizzata, prendo 800 euro al mese. Mio marito, che è più giovane di me, ha 25 anni, è cubano, diplomato all'Accademia, un artista, ha trovato un posto da apprendista sempre nel campo dei computer e guadagna 500 euro al mese. Lavoriamo sei giorni alla settimana e insieme le nostre entrate ammontano a circa 1.300 euro. E meno male che non paghiamo la casa perché ci ospita una mia vecchia zia".

Con duemila euro al mese non abortirebbe?
"Sicuramente mi terrei il bambino. La mia, oggi, è una scelta iper obbligata. Mio marito è più deciso di me: più di me vede la cosa dal punto di vista della concretezza. Pensa sia un fallimento non potere dare a un figlio ciò di cui ha bisogno. In altri paesi le coppie vengono aiutate, qui si parla tanto di baby bonus ma poi nei fatti non succede niente. Lo credo che l'Italia è alla crescita zero".

Perché ha scelto di rivolgersi a Napolitano?
"Perché è la più alta carica dello Stato. Perché è un simbolo. Perché è una persona che sento di rispettare più di tutti. La mia lettera è soprattutto uno sfogo, un gesto di disperazione e di impotenza. Gli scrivo che qui non c'è nessuno che ti tende una mano quando hai veramente bisogno. Gli scrivo anche: per favore, mi risparmi banalità del tipo: 'Dove si mangia in due si mangia anche in tre!. Mi risparmi la retorica, perché è l'unica cosa di cui non ho bisogno'".

Spesso le banalità sono vere. Cosa le ha detto stamattina l'ecografista?
"Che sono alla quarta settimana di gravidanza. L'embrione è ancora così piccolo che quasi non riusciva a vederlo. Poi la ginecologa mi ha prescritto degli esami del sangue per sapere l'età esatta del feto. Ho anche parlato con l'assistente sociale. Mi hanno fatto leggere e firmare una carta in cui sono elencati tutti i rischi che l'interruzione di gravidanza comporta".

Suo marito l'ha accompagnata?
"Purtroppo non poteva assentarsi dal lavoro, che ha trovato da poco, e al suo posto è venuta una mia amica. Ma mi ha telefonato molte volte. Sa qual è la cosa che mi fa più rabbia? La mancanza di prospettive. Mio padre, che è morto 15 anni fa, era un ingegnere, mia madre è una bancaria in pensione. Noi di questa generazione occupiamo ruoli sociali molto inferiori rispetto ai nostri genitori La mobilità sociale esiste, però in forma peggiorativa. Fra i vari lavori che ho fatto c'è anche quello di baby sitter, prima con un'agenzia, poi anche da sola. Amo moltissimo i bambini: ti riempiono la vita, sono splendidi. Avrei anche già scelto il nome per mio figlio, perché sento che è un maschio: lo stesso nome di mio padre".

Non ha pensato alla possibilità di farlo nascere e poi darlo in adozione?
"Non lo farei mai. Mai, per nessun motivo. Sapere che esiste da qualche parte nel mondo un mio bambino e io non mi occupo di lui sarebbe lo strazio peggiore".

(30 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Sandra adesso cambia idea "Ho deciso, non voglio più abortire"
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:40:49 am
CRONACA

L'autrice della lettera-choc inviata al nostro giornale ci ripensa: "Ho ricevuto tanto affetto, mio figlio nascerà"

Sandra adesso cambia idea "Ho deciso, non voglio più abortire"

di LAURA LAURENZI


 ROMA - Sandra ha cambiato idea e ha scelto di non abortire. La precaria che attraverso le pagine del nostro giornale aveva rivolto un appello-choc al presidente della Repubblica, una lettera dal titolo "Necrologio di un bimbo che è ancora nella mia pancia", il prossimo 27 maggio dunque non si presenterà al Policlinico di Napoli per sottoporsi a un'interruzione di gravidanza, come fissato. Un aborto deciso "perché non bastano i soldi, perché con 1300 euro in due al mese non ce l'avremmo fatta". E invece. Qual è il motivo che l'ha spinta a fare questa scelta? "È per ragioni morali che mio marito ed io, dopo averne tanto discusso, abbiamo deciso di accogliere questo bambino in arrivo. Riflettendoci meglio, non avrei potuto sopportare di sopprimere una vita", spiega Sandra, 29 anni, da dietro il bancone del negozio di computer dove lavora come commessa.

Dunque quella sua "lettera che stringe il cuore", come l'ha definita il ministro per le pari opportunità Barbara Pollastrini e che centinaia di messaggi, di solidarietà ma anche di perplessità, ha suscitato, ormai è superata.

"Sono felicissima. Spaventata ma felicissima. Mercoledì sera, grazie all'aiuto di una mia amica chirurgo (precaria anche lei) ho fatto in ospedale le analisi del sangue e un'altra ecografia, la seconda. Il ginecologo mi ha detto che l'embrione aveva cominciato a formarsi da poco e mi ha indicato sul monitor un piccolo pallino dai contorni più chiari raggomitolato in un angolo della sacca gestazionale. È stato davvero emozionante. La cosa incredibile è che quando il dottore mi diceva di non respirare il piccolo pallino si fermava, invece appena mi diceva di riprendere a respirare il mio piccolo bambino riprendeva a pulsare sincronizzato con il mio respiro. È stato davvero incredibile, commovente".

Il feto è di dieci settimane, come è stato evidenziato dalle analisi del sangue. "Purtroppo non ho potuto ancora dirlo a mia madre, che è all'oscuro di tutto e dovrà presto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico di coronarografia. Sono certa che sarà molto felice e si offrirà di aiutarmi". Sandra è sorpresa dalle reazioni provocate dal suo Sos lanciato sotto forma di lettera a Napolitano. Le critiche non sembrano scalfirla, è invece molto colpita dalle parole di affetto: "Non avrei mai sperato di suscitare tanto calore, di essere circondata da così tanta solidarietà. Vorrei dire a coloro che mi hanno scritto (anche sul forum online di Repubblica), che li ringrazio e che sapere di aver dato un piccolo input a una discussione su quello che oserei definire il nostro dramma generazionale, vale a dire l'assenza totale di prospettive, mi fa sperare che forse, se ci uniamo in un unico grido, le cose potranno cambiare. Lo scopo della mia lettera non era in nessuna misura quello di piangermi addosso. La mia rabbia era dettata dalla triste constatazione che questo Paese è strutturato in modo che non si possa mai crescere. Dal fatto che, nonostante io sia una persona adulta, mi sento costretta in una condizione da adolescente. Perché in Italia i lavoretti non si trasformano mai in lavori, a trent'anni vivi ancora in famiglia e il futuro è un concetto vacuo che non ci appartiene. Eppure a un certo punto il futuro arriva, magari sotto forma di un test di gravidanza positivo, e in quel momento senti che tutti i tuoi sforzi non sono riusciti a darti nessuna stabilità, nessuna autonomia".

Quanto alle molte trasmissioni televisive che hanno fatto a gara per individuare Sandra e portarla davanti alle telecamere, la protagonista, per lo meno fino ad oggi, è stata irremovibile: "Non voglio spettacolarizzare una situazione che ritengo privata".

(3 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Trecento donne sui pedali in Libano è una festa
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 12:36:01 pm
ESTERI

MEDIO ORIENTE, UN DIARIO IN BICI 1) LA PARTENZA

Una corsa di pace, ma scortate dall'esercito

Trecento donne sui pedali in Libano è una festa

di CECILIA GENTILE

 
BEIRUT - Dai boschi di cedri all'odore pungente della macchia mediterranea. Dalla montagna al mare in 40 chilometri di splendida pedalata con 250 donne di 39 nazioni diverse. Anche questo è il Libano. Anche questa è “Follow the woman”, la manifestazione che si è aperta ieri a Beirut, arrivata alla sua quarta edizione che invita le donne di tutto il mondo a pedalare attraverso i paesi del Medio Oriente per condividere un'esperienza di pace.

L'ideatrice e la promotrice è una donna statunitense, Detta Regan, che ha portato con sé anche le due figlie. Intorno a lei, un gruppetto di volontarie che ogni anno cercano sponsor e contatti con i territori attraversati per rendere visibile e fruttuosa la loro iniziativa.

Quest'anno si parte dal Libano, per passare in Giordania e in Siria e terminare il tour nei Territori occupati della Cisgiordania. Le donne che partecipano vengono dalla Palestina, dall'Iran, dalla Turchia, dal Marocco, dall'Estonia, dalla Francia, la Danimarca, la Spagna, il Canada, e per i giorni prossimi è atteso anche un gruppo di donne israeliane. Le italiane sono in 20, due da Roma, il grosso da Padova, due dalla provincia di Siena, le altre da Venezia e Treviso.

Dopo i discorsi ufficiali al Palazzo dell'Unesco, la carovana parte da Bakleen, Mount Lebanon, 900 metri sul livello del mare, sale e scende per i tornanti di un paesaggio che d'inverno è coperto di neve ed ora è un'esplosione di verde. Si passa per Ain-Bal, Ghariefi, Hasrout, Aanout, Daraxa, Sheim. In ogni paese la gente saluta, scatta foto con il cellulare, accoglie la comitiva con danze, distribuzione di fiori, dolci locali e narghilè. E' una festa.

Ma a proteggere il corteo ci sono i mitra dell'esercito libanese, le camionette, le moto. Uno scontro armato potrebbe scoppiare all'improvviso, la gente lo sa. “Il paese è paralizzato”, dicono gli organizzatori locali del Pyo, il Progressive Youth Organization, un'emanazione del partito al governo, “ma libero e con una sua agenda indipendente”, ripetono i leader. E' paralizzato perché da una parte c'è la coalizione di governo, dall'altra gli Hezbollah, uno stato nello stato. Due universi paralleli che non riescono a comporsi. E' per questo che da tre anni, in Libano, si rinviano le elezioni del presidente. E in mezzo a tutto questo le donne e la bicicletta, mezzo umile, povero, senza difese, quasi ridicolo nella complessità e nella drammaticità di questi territori. Ma le donne pedalano...
(1-continua)

(4 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Sì al parto dolce, ecco la via anti-cesareo
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 12:37:41 pm
Pro e contro

Dai corsi alle ostetriche agli interventi assistenziali.

Il ginecologo: ma nessuna donna sopporta più un travaglio lungo

Sì al parto dolce, ecco la via anti-cesareo

L’istituto Superiore di Sanità studia nuove regole per diminuire le nascite in sala operatoria.

Il record italiano

 
ROMA - Se il bambino si presentava di piedi non c’era problema. L’ostetrica eseguiva con sapienza manovre esterne sul pancione materno e lo accompagnava nella posizione giusta, pronto a tuffarsi di testa verso la vita dopo nove mesi di gravidanza. «Bisognava conoscere bene l’anatomia - racconta Delia, oggi in pensione, che ha fatto rigirare decine di neonati -. Innanzitutto capire da quale parte si trovava il dorso e poi utilizzare lo spazio addominale come palestra dove il piccolo potesse fare la mezza capriola. Nessun dolore per la donna. E che soddisfazione quando l’esercizio riusciva». Oggi il rivolgimento del feto podalico è una pratica quasi del tutto dimenticata.

LINEE-GUIDA - E andrebbe assolutamente ripristinata secondo gli epidemiologi dell’Istituto Superiore di Sanità, al lavoro sulle prime linee guida nazionali «per la promozione dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo». La scomparsa del rivolgimento viene indicata come una delle cause del continuo aumento di parti chirurgici. In Italia il parto cesareo è passato dall’11% delle nascite totali negli anni ’80 al 38% del 2005, mentre la soglia stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è del 10-15%. Macroscopiche differenze tra le Regioni: 23% a Bolzano, 60% in Campania. Coordina lo studio Alfonso Mele, responsabile del programma Linee Guida dell’Iss, con Serena Donati e Giovanni Baglio. Tra l’altro saranno previsti corsi di formazioni specifici per ricondurre le ostetriche alla vecchia arte. Si comincia da una considerazione. Non ci sono evidenze che il maggiore ricorso ai cesarei sia associato a fattori di rischio di mamma e bambino. Alla base del fenomeno c’è invece un comportamento non appropriato degli operatori dei centri maternità generato da carenze strutturali e organizzativi e ad aspetti culturali.

NORME E CULTURA - Difende la categoria Maria Vicario, presidente della Federazione dei collegi delle ostetriche, proprio nella Giornata internazionale delle ostetriche, che si celebra oggi: «Il rivolgimento fa parte del programma dei nostri corsi ma lo pratichiamo solo con simulazioni. Io in carriera l’ho eseguito solo un paio di volte. E’ caduto in disuso. Inoltre non fa parte delle prestazione a noi consentite, elencate nella legge del novembre del 2007. La percentuale di bambini podalici è bassa, l’1-2% dei nati. Non è così che argineremo l’eccesso di cesarei». Ha qualche dubbio Domenico Arduini, ginecologo, università di Tor Vergata: «Il rischio non vale la candela. Sono manovre che possono essere pericolose per mamma e figlio e e non sempre trovano un’indicazione. Il feto deve pesare meno di 3 chili». Secondo Arduini per restituire più in generale al momento del parto la sua naturalezza sottraendolo alla medicalizzazione occorrerebbe cambiare la cultura di operatori e mamme: «Oggi nessuna vuole affrontare l’idea che un travaglio duri oltre le otto ore e invece può essere molto più lungo. Inoltre nella classe medica e tra i ginecologi è diffuso il timore risarcitorio. Preferiamo evitare ogni rischio. E il cesareo si offre come la strada più sicura in caso di podalico». E sempre in tema di parti, è sempre aperto il dibattito sulle nascite in casa, come ai tempi della nonna. Scelta romantica, ancora suggestiva. L’1% dei bambini liberano il primo vagito sul lettone di casa, contro il 2% della Gran Bretagna e il 30% dell’Olanda. Era normale fino agli anni Cinquanta e Sessanta. L’offerta di centri maternità più comodi e attrezzati ha fatto quasi del tutto dimenticare il percorso domiciliare. Molto dipende dal tipo di assistenza su cui si può contare. Alcune Regioni sono bene organizzate, non tutte prevedono il rimborso completo. I ginecologi sono contrari per ragioni di sicurezza. Negli Usa c’è una terza alternativa. L’Abc, alternative birth center. La stanza della puerpera viene trasformata in un piccolo ospedale.

Margherita De Bac
04 maggio 2008(ultima modifica: 05 maggio 2008)

da corriere.it


Titolo: La Carfagna: "La legge 194 resta"
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:17:40 pm
POLITICA

Le reazioni del mondo della politica al discorso di Benedetto XVI

Pannella: presto grande manifestazione in difesa della normativa sull'aborto

Maggioranza in imbarazzo e divisa

La Carfagna: "La legge 194 resta"

di CARMELO LOPAPA

 
ROMA - Al battesimo del fuoco della prima uscita del Pontefice sul più caldo dei temi etici, quello dell'aborto, la reazione tiepida e imbarazzata del governo Berlusconi appena insediato finisce con lo spaccare la maggioranza. Deluse forse le aspettative delle gerarchie cattoliche, ma soprattutto quelle dell'ala teocon del Pdl che strattona i ministri competenti (Carfagna in testa) e li invita a prendere una posizione più decisa contro la 194 e più in linea con la Santa Sede. Quasi a replicare uno schema di contrapposizione che ha contraddistinto la vita della precedente maggioranza sulle questioni di bio-politica.

La verità è che il premier, come ha già dettato in campagna elettorale, non vuole farsi trascinare sulle barricate di una battaglia sui valori e ha imposto una reazione al monito di Benedetto XVI a dir poco cauta.
Un'ora dopo la riflessione del Papa sulla legge sull'aborto definita una "ferita", a trent'anni dalla sua approvazione, l'unico commento da Palazzo Chigi viene affidato al ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna. "Il problema non è discutere la 194 - spiega - ma applicare la cultura della vita che in questi trent'anni, come dice giustamente il Papa, è stata svilita. Serve una normativa a favore della famiglia che incentivi le nascite e a favore delle donne affinché rinuncino ad abortire". Ha ragione il Pontefice, insomma, ma la legge non si tocca.

Un passaggio tanto chiaro da far insorgere nella stessa maggioranza chi la pensa in maniera diversa. A cominciare da Alessandra Mussolini che, rimasta fuori dall'esecutivo, si rivolge piccata alla ministra: "Aborto e maternità debbono entrare subito nell'agenda politica poiché sono emergenze sociali da affrontare immediatamente. Il richiamo del Santo Padre non può cadere nel vuoto". E il vice presidente della Camera Maurizio Lupi, vicino a Cl, a rincarare: "Il Papa ha posto un problema reale, la politica deve assumersi le sue responsabilità".

Molto più articolato il ragionamento di Eugenia Roccella, nel giorno in cui viene designata sottosegretaria alle Politiche sociali con delega proprio ai temi etici. L'ex portavoce del Family day, eletta nelle file del Pdl, invita a non stupirsi per le parole del Pontefice in linea con "il magistero della Chiesa, che è sempre stato quello: l'aborto è l'interruzione di una vita umana". Detto questo, la sottosegretaria auspica un "tagliando" per la 194, "che non comporta la sostituzione dell'auto, ma un semplice controllo: un eventuale intervento andrebbe fatto laddove la legge è stata disattesa se non addirittura violata". Molto più intransigente si preannuncia la strategia sulla pillola abortiva Ru486. "È incompatibile con la 194, che invece permette l'aborto solo in strutture ospedaliere. Ha già fatto 16 vittime - scandisce la Roccella - sfuggite a ogni controllo istituzionale e passate sotto silenzio. Occorrono indagini scientifiche serie, quindi, va disciplinata la prescrizione, adesso affidata ai protocolli regionali. Noi punteremo a valorizzare la maternità ponendo rigorosi vincoli all'eugenetica. E la legge 40, confermata da un referendum, non si tocca".

Sul fronte opposto, fresca di incarico, si colloca Vittoria Franco, senatrice Pd e ministro ombra per le Pari opportunità. Come anche l'ex ministro Livia Turco, sottolinea come "la 194 è una legge che ha funzionato, dimezzando in questi 30 anni gli aborti in Italia e non va cambiata ma applicata in tutte le sue parti". Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato, invita "colleghe e colleghi che vogliono metterla in discussione ad attenersi alla legislazione italiana".

Marco Pannella annuncia entro giugno "una grande manifestazione a sostegno della legge sull'aborto" e intanto definisce le "dichiarazioni quotidiane di questo Papa un'offesa contro lo Stato democratico: una bestemmia contro la verità". Affondo tanto pesante da far insorgere il vicepresidente Udc della Camera, Rocco Buttiglione, per il quale "la violenza dell'attacco di Pannella contro il Papa prelude ad una nuova forma di totalitarismo del pensiero".

(13 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Livia Turco. Legge 194, la forza dei numeri
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:34:52 pm
Legge 194, la forza dei numeri

Livia Turco


L’aborto è un dramma e uno scacco. Mai un diritto. Il giudizio più duro contro l’aborto lo hanno pronunciato e lo pronunciano le donne. È il tribunale della loro coscienza a esprimere il verdetto più inflessibile. Anche perché esso non scaturisce dalla gelida elencazione di princìpi o dall’astratta predicazione di valori, ma da quel grembo materno che ha corpo e spirito. Carne ed anima. È da quel grembo materno che scaturisce la capacità di accogliere un figlio. Solo quel grembo materno che desidera un figlio ma non è in grado di accoglierlo conosce il dolore della rinuncia, della costrizione, della impossibilità. Sa quanto sia duro dire: «Non ti accolgo».

Quel grembo materno merita rispetto. Sempre. Perché è il luogo dell’incontro tra l’io della madre e il tu del figlio. È il luogo di nascita di quella specialissima relazione madre-figlio: la sola che può accogliere la vita umana. Luogo fisico, psichico, morale. Si sconfigge l’aborto solo riconoscendo, sostenendo e promuovendo la capacità di accoglienza della donna, della coppia e della società. Non si sconfigge l’aborto senza e contro le donne. Ovvero, continuando a considerarle bisognose di tutela morale in quanto incapaci di esercitare una scelta responsabile.

Amareggiano le parole del Papa contro la legge 194, perché di fatto disconoscono il mistero e la moralità del grembo materno. Accusare la 194, dopo 30 anni di applicazione, di non aver cancellato l’aborto, significa non solo attaccare una legge ma disconoscere il grande cammino che le donne italiane hanno compiuto per liberarsi dalla necessità dell’aborto. Un cammino che ha prodotto una cultura più attenta e responsabile verso i figli, verso la vita umana, verso gli altri. Attaccare la legge e non nominare la drastica riduzione del ricorso all’aborto significa non voler ammettere ciò che la realtà dice: solo la legalizzazione e il riconoscimento del principio morale della scelta possono comportare la riduzione del ricorso all’aborto. Lasciamo parlare i dati: nel 2007 sono state effettuate 127.038 Ivg (interruzione volontaria di gravidanza), con un decremento del 3% rispetto al dato definitivo del 2006 (131.018 casi) e un decremento del 45,9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto numero di Ivg (234.801 casi). Il tasso di abortività, l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’Ivg, nel 2007 si è attestato al 9,1 per mille, con un decremento dello 0,3 per mille rispetto al 2006 (9,4 per mille) e un decremento del 47,1% rispetto al 1982 (dal 17,2 al 9,1 per mille).

Questi dati dicono che la legge 194 è efficace, saggia e lungimirante, proprio perché contiene in sé il punto di equilibrio tra la tutela del nascituro e la tutela della salute della donna. Perché fa leva sulla responsabilità delle donne, delle coppie e sulla scienza e coscienza medica.

Bisogna applicare la legge in tutte le sue parti per prevenire l’aborto. Attraverso il potenziamento dei consultori, l’educazione dei giovani, il sostegno alle maternità difficili facendo si che nessuna donna rinunci ad un figlio per ragioni economiche e sociali. Bisogna prevenire l’aborto terapeutico attraverso un accurato percorso della diagnosi prenatale prevedendo tutto il sostegno psicologico e sociale per le donne e le coppie che stanno per accogliere figli portatori di disabilità. Bisogna che le donne che scelgono di abortire possano vivere questa dolorosa esperienza in un contesto di dignità, rispetto e piena tutela della loro salute.

Su questi temi molte azioni sono state attivate dal Governo Prodi, molte si sono interrotte. Bisogna insistere per una piena e corretta applicazione della 194 e impegnarsi per costruire una società accogliente nei confronti della maternità e della paternità. Occorre una politica “forte” a sostegno della famiglia che consenta alle donne di conciliare il lavoro e la famiglia e solleciti gli uomini ad assumersi le loro responsabilità verso i figli, partecipando al lavoro di cura.

Le dure parole del Papa contro la legge 194 pongono una questione più di fondo: fino a quando nel nostro Paese sui temi etici ci sarà belligeranza, guerra fredda, scontro, è questa la strada per affermare i valori da tutti condivisi come della vita umana e della famiglia? Credo proprio di no. Lo dico ricordando anche la fatica e gli insuccessi della precedente legislatura. C’è bisogno di un cambio di passo e di approccio sui temi etici. Un cambio di passo all’insegna della pacatezza, del rispetto, del reciproco riconoscimento della ricerca delle soluzioni condivise. È disponibile il centrodestra a promuovere questo cambio di passo?

Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 8.36   
© l'Unità.


Titolo: Dacia Maraini. La faccia perbene dei giovani torturatori
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2008, 12:09:44 am
La faccia perbene dei giovani torturatori


È difficile perfino raccontarle certe storie, tanto sono efferate e gratuite. Dimostrano una tale mancanza di sentimento da risultare poco credibili. Una ragazzina dalla faccia triste che frequenta la scuola di una piccola città siciliana, Niscemi. Dei compagni di scuola, giovanissimi amici con cui usciva. Tutto nella norma. Lorena si innamora di uno di loro. Ma il giovanottello preferisce tenersi sui bordi di un erotismo vizioso e sadico.

Un giorno la ragazza scopre di essere incinta. E invece di rivolgersi ai genitori, o alle amiche, affronta con coraggio i suoi amorosi—carnefici. Si apparta con loro per dichiarare «sono incinta di uno di voi». Ma non sa di chi.

Quando Filumena Marturano dice a Domenico Soriano che uno dei figli è suo ma non gli spiega quale, l’uomo si vergogna e capisce di avere agito male. Filumena la coraggiosa sa che, pur di salvare suo figlio, Domenico accetterà gli altri. De Filippo pensava di descrivere il massimo dell’egoismo maschile. Non gli veniva neanche in mente che il guappo Soriano potesse strangolare Filumena e gettarla in una roggia.

Invece a Niscemi, quando Lorena afferma che non sa di chi sia quel figlio che vorrebbe nascere, i tre amici si rivoltano contro di lei come se fosse la peggiore delle nemiche. La picchiano, la legano, la seviziano, la strangolano e poi la gettano in un pozzo. Questo è successo il 30 aprile scorso e nessuno, nella buona tradizione omertosa siciliana, ha visto né sentito niente.

Come mai gli amici del bar tacevano? Per solidarietà? Ma perché tutti provano solidarietà verso i ragazzi e non verso la ragazza? E le amiche di Lorena? Le compagne di scuole? Anche loro solidali coi maschi?

Ma tanta gratuità, perché? Tanta furia, come? In realtà non c’è niente di gratuito. Quando non si capiscono le ragioni di un comportamento vuol dire che non siamo capaci di scendere in profondità. C’è in questo delitto una connotazione culturale che ci sfugge, qualcosa di difficile da interpretare. Sembrerebbe un odio che affonda le radici in zone oscure e taciute del tessuto connettivo del paese. Potrebbe trattarsi dell’antico odio verso la femmina della specie? L’odio verso una diversità sentita come sfuggente e pericolosa? Verso la Eva che ha suggerito ad Adamo di mangiare la mela proibita? Assomiglia anche però stranamente al risentimento che i nazisti provavano nei riguardi degli ebrei. Per i loro occhi accecati dall’acredine il corpo di una ragazza si trasformava nel portatore di una immagine: quella di una razza nemica, da annientare. Ma qui, ciò che inquieta è la rapida mutazione: il modo in cui dei bravi ragazzi si trasformano in furenti macellai.

Da dove viene la paura verso un sesso esposto alla rapina? Difficile dire se siano più devastanti nella loro influenza le antiche abitudini mentali di un paese misogino, oppure se sia l’influenza di quegli stupidi modelli televisivi che si basano sulla esaltazione del più furbo, del più cinico, del più forte, del più ricco. Negando una volta per tutte, in mezzo ai lustrini e alle baldorie, le ragioni dei più deboli, dei più esposti, dei più fiduciosi.

La faccia dagli occhi confidenti della giovanissima Lorena ci guarda oggi dai giornali come chiedendosi sorpresa cosa le sia successo. La sua mente di ragazzina innocente non poteva prevedere la macelleria. Non poteva prevedere la trasformazione di tre giovani, magari un poco perversi, ma certamente bravi figli di papà, in assassini e torturatori.

Per quella faccia, per le tante facce di ragazze fiduciose e vogliose di vivere che vengono continuamente e con brutalità messe a tacere, abbiamo il dovere di riflettere sulla diffusione della violenza che sta diventando nella testa dei più giovani una norma di comportamento.

Dacia Maraini
15 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Orgasmo: che cosa si accende e che cosa si «spegne» nel cervello
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 11:21:03 am
NEUROLOGIA

Orgasmo: che cosa si accende e che cosa si «spegne» nel cervello

Nelle donne è necessario che alcune aree siano «messe a tacere» perchè sia raggiunto il piacere

 
Cosa succede nel nostro organismo nel momento in cui viene raggiunto l'orgasmo? La rivista Scientific American approfondisce l'argomento andando a investigare quelle che sono le radici neurologiche del piacere sessuale, ovvero l'insieme dei segnali e delle attività delle varie aree del cervello che aiutano «a perdere la testa» e determinano il raggiungimento del climax.

ADDIO INIBIZIONI – Tra le ricerche citate dalla rivista vi è quella condotta nel 2006 su un campione di donne dall'università Groningen, che ha permesso di scoprire che mentre durante la fase di eccitazione si verifica l'attivazione dei neuroni di alcune aree del cervello, nel momento del massimo piacere femminile i neuroni di alcune porzioni della materia grigia si disattivano, diventano muti.

UN AIUTO DAL CERVELLO – Una delle aree in questione è quella della corteccia orbito-frontale laterale sinistra, preposta alla gestione dell'autocontrollo: la diminuita attività starebbe quindi a indicare che il nostro cervello in un certo senso agevola il raggiungimento dell'orgasmo facendo perdere le inibizioni. Analogo rallentamento avviene nella corteccia prefrontale dorsomediale, dove si ritiene nasca il pensiero morale: in tal caso la pigrizia dei neuroni corrisponde a una sospensione della capacità di giudizio e di riflessione. E ancora, attività neuronale ridotta anche nell'amigdala del cervello delle donne, che coinvolta nelle emozioni e nella paura: perché è necessario sgomberare il campo da timori e ansia se si vuole che le donne raggiungano l'orgasmo. Tutto più semplice per gli uomini, invece, la cui attività neuronale pare non necessiti di essere messa a riposo per agevolare il piacere, e nemmeno smette di rispondere vivacemente agli stimoli sensoriali. Come a significare che, paradossalmente, per avere un orgasmo le donne devono sopprimere le emozioni, mentre il sesso forte se la cava bene comunque.

Alessandra Carboni
16 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Maria Antonietta Farina Coscioni. Legge 194, trent’anni dopo
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 01:05:15 am
Legge 194, trent’anni dopo

Maria Antonietta Farina Coscioni


In piazza San Pietro piena di fedeli convenuti per ascoltare il pontefice di allora, Paolo VI, alcuni striscioni del Partito Radicale: «Più pillola, meno aborti», si legge. Ecco: è lì, in quelle ingiallite fotografie di oltre quarant’anni fa (era il 1967), la risposta di quanti oggi vogliono modificare in senso più restrittivo la legge 194, che ieri ha compiuto trent’anni, e invocano una pretestuosa moratoria dell’aborto che paragonano alla pena di morte. Più anticoncezionali, più informazione, era e continua ad essere la parola d’ordine dei radicali; che certo, sono oggi come ieri contro l’aborto: quello clandestino, di massa e di classe cui facevano ricorso centinaia di migliaia di donne, costrette nella clandestinità: le povere facendo ricorso a “mammane” e “fattucchiere” e spesso ne venivano massacrate; mentre le donne ricche potevano fare ricorso ai “cucchiai d’oro”, o andando all’estero.

È questa la realtà che tanti sedicenti difensori della vita pervicacemente ignorano, vogliono ignorare, occultano: che grazie a una legge - che non è quella voluta dai radicali, ma che comunque evita alle donne di essere perseguite penalmente - si è, letteralmente, salvata la vita a centinaia di migliaia di donne; e il numero degli aborti da allora è comunque sensibilmente diminuito.

Quella legge, è bene ricordarlo, non è frutto di un caso. Nel 1975 per ordine della procura di Firenze, su “delazione” del settimanale fascista Candido, vennero arrestati per aborto e procurato aborto Emma Bonino, Adele Faccio, l’allora segretario radicale Gianfranco Spadaccia, il dottor Giorgio Conciani. Sull’ondata di quegli arresti si raccolsero le firme per un referendum abrogativo delle norme del codice penale che punivano l’aborto; Loris Fortuna presentò un testo di legge; centinaia di donne e di uomini, come era già accaduto in Francia e in Germania, si autodenunciarono per aborto e procurato aborto; alla fine si riuscì ad approvare una legge: non è la legge che avremmo voluto, ma almeno evita alla donna che già affronta una prova comunque dolorosa, il trauma della persecuzione giudiziaria; e il referendum che clericali e conservatori promossero per abrogare la legge venne respinto al mittente a larga maggioranza. Sono dati questi di cui non si deve smarrire la memoria, e lo si dice a ragion veduta: che accade in questi giorni di leggere tante “ricostruzioni” di quel che fu e di quel che accadde, che sono insieme avvilenti e umoristiche: dal Cisa che diventa inspiegabilmente «Centro Italiano Sterilizzazione Aborto» e si omette significativamente che la I stava invece per «Informazione»; alla sistematica omissione (anche solo per citazione) del ruolo svolto dai radicali in quegli anni.

Anche oggi ci si assicura che la legge 194 “non verrà modificata”; e tuttavia ogni giorno il Vaticano incita e sprona in senso opposto; in decine di ospedali e in intere regioni si tollera che i medici possano boicottarla facendo ricorso all’obiezione di coscienza; e contestualmente si vorrebbe impedire e si boicotta la pillola del giorno dopo, gli anticoncezionali, il principio stesso dell’autodeterminazione della donna.

Occorre reagire a questa offensiva clericale e oggettivamente reazionaria. Anche per questo, come radicali e associazione Luca Coscioni ci siamo impegnati ad allestire decine di tavoli di informazione sessuale: saranno presenti medici che prescriveranno la ricetta per la pillola del giorno dopo a chiunque ne farà richiesta.

Da Gorizia a Palermo, da domani e per tutto il finesettimana, i tavoli saranno presenti nelle università, nelle scuole e nelle piazze della penisola. Il messaggio che intendiamo diffondere è questo: il reale strumento antiabortista non è l’obiezione, praticata da un numero di medici sempre maggiore, ma è la contraccezione. Ed è proprio per incrementare la disponibilità dei contraccettivi che con gli studenti dell’Associazione Luca Coscioni, oltre a offrire i preservativi ai tavoli, raccoglieremo le firme per la commercializzazione della pillola del giorno dopo come farmaco da banco, per l’abolizione dell’obbligo della ricetta, come avviene negli altri paesi europei e negli Stati Uniti. Perché la ricetta “preventiva” diventi lo strumento per la difesa del diritto a servirsi del contraccettivo di emergenza, senza incappare negli obiettori di coscienza.

Pubblicato il: 23.05.08
Modificato il: 23.05.08 alle ore 14.57   
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Titolo: Alla scuola licenza di giustizia
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 12:19:47 pm
28/5/2008
 
Alla scuola licenza di giustizia
 
 
 
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Sul terreno del lessico, la nostra scuola non difetta di creatività. Mentre le riforme strutturali stagnano nelle paludi della politica, è un fiorire di neologismi, accostamenti arditi, sigle pregnanti. Da qualche anno, il destino dei nostri figli è affidato al Pof (Piano dell’offerta formativa). Anche i «debiti» sono diventati formativi, il che a ben pensarci è inquietante. Sembra quasi che le leggi di natura siano sovvertite: darwinianamente parlando sarebbero le parole a doversi adattare all’ambiente per sopravvivere, invece a quanto pare tocca a noi farci il callo.

L’ultima mutazione scolastica si chiama «patto di corresponsabilità»: lo prevede da settembre un decreto dell’ex ministro Fioroni, con una postilla di «discrezionalità concessa agli istituti», che lascerà spazio a ingegnose soluzioni. Il patto si innesta sul principio che «prevenire è meglio che combattere», ma anche sulla triste ineluttabilità dei fenomeni di vandalismo. Ebbene, di che cosa si tratta?

Di un documento che si farà firmare all’inizio del prossimo anno scolastico ai genitori, impegnandoli a risarcire i danni eventualmente - il condizionale è scaramantico - commessi dai loro pargoli. Eventualmente, anche quando non si sia individuato un responsabile. Eventualmente, anche nel caso di scolaretti maggiorenni. Ogni scuola preparerà un suo regolamento, ma le linee guida sono più o meno queste: banchi graffitati? Allagamenti? Muri imbrattati? Mano al portafoglio. Di mamma e papà.

Il provvedimento si configura come una vigorosa presa di posizione. Suggerisce, anche se molto vagamente, una certa idea di rigore. Ma merita qualche riflessione, a partire dal piano strettamente lessicale. Il concetto di «corresponsabilità» è paradossale: dice il contrario di quel che indica. La responsabilità è l’assunzione di una consapevolezza individuale nei confronti degli altri. Non ammette condivisione. Rendendo «corresponsabili» i genitori, di fatto si de-responsabilizza chi di dovere. E non è soltanto una questione di termini.

Da ormai molti anni, infatti, la scuola si pone come educatrice a tutto tondo delle nuove generazioni. Non impartisce soltanto un bagaglio di conoscenze, è diventata custode di una formazione globale. Il che fa comodo a tutti: ai genitori sempre più impegnati, distratti, insicuri. Al sistema - quello scolastico nel suo insieme, senza allusione alla competenza individuale degli insegnanti - sempre più impreparato sul piano dei contenuti. Il decreto su questa nuova «corresponsabilità» stabilisce invece una brusca inversione di rotta. Un po’ come chiamare alla lavagna lo studente in letargo all’ultimo banco d’angolo, che tutto si aspettava fuorché di venire interrogato. Date le circostanze, è lecito presumere che molti genitori chiedano interdetti: «Ma come, non toccava alla scuola educare mio/a figlio/a?». Sbagliatissimo, ma giustificato dalla piega che le cose hanno preso in questi anni.

La ragione principale per cui questa misura sembra inadeguata tocca però un altro aspetto. Per quanti adolescenti talmente vandali da devastare la propria scuola, le finanze di famiglia saranno un deterrente? Chi arriva a tanto non si fa scoraggiare da così poco. Non sarebbe invece male trasformare la corresponsabilità della classe adulta - scuola e genitori - in una responsabilità a misura di quell’altra, che sta sui banchi. Più che far firmare l’impegno a sborsare ci vorrebbe, da parte dei genitori, quello a dare carta bianca alla scuola: un mese a pulire i gabinetti per ogni tentato vandalismo. Sospensioni a lungo termine e lavori manuali socialmente utili in caso di devastazioni. Lasciare alla scuola licenza di giustizia sarebbe una misura preventiva più efficace. Mettendo bene in chiaro - e per iscritto - questo mandato: perché ogni volta che dalla scuola arriva un tiepido segnale di severità (che sia un votaccio o una nota disciplinare) subito si levano gli scellerati scudi che sono ormai il comodo emblema della genitorialità a scuola: «Povero il mio bambino/a! Ora lo/a difendo io!».

elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS La morte come la vita ha le sue leggi sacre
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2008, 11:28:10 am
30/5/2008
 
La morte come la vita ha le sue leggi sacre
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Vincenza c'è riuscita. Perché l'ultimo viaggio l'ha fatto a fari spenti, e nel silenzio degli astanti. Welby no, lui è rimasto intrappolato fra le carte bollate. Troppo scalpore sul suo caso, troppi appelli, troppa televisione. Non sta bene parlare di morte ad alta voce: dopotutto la morte è l'ultimo tabù della nostra società desacralizzata. Insomma Welby aveva dato scandalo, e lo scandalo ha prolungato le sue sofferenze. Eppure la morte non è scandalo, è solo la fine ineluttabile. Così c'è scritto nel libro della natura, e non possiamo farci niente. In quel libro c'è anche scritto che non spetta a noi decidere il tempo in cui veniamo al mondo, però ciascuno ha la facoltà di stabilire il tempo della propria morte. E anche su questo la società, la politica, il diritto sono a mani nude. Non a caso il tentato suicidio non viene punito dalla legge. Non a caso il rifiuto delle cure è un diritto garantito dalla Costituzione.

Nella vicenda di Vincenza si riflette dunque un principio di giustizia, di quella giustizia naturale evocata per lo più a sproposito dalle gerarchie vaticane. E d'altronde - diceva Montanelli - se abbiamo un diritto alla vita, allora abbiamo anche un diritto alla morte. Poi, certo, le leggi possono frapporvi vincoli e divieti. Ma possono farlo per i deboli, per chi non ha più muscoli o coscienza, per chi come Vincenza soffre di sclerosi laterale amiotrofica. Possono stabilire che soltanto i sani hanno diritto a non soffrire. Tuttavia la giustizia è più forte di qualsiasi paradosso incartato in una legge, e trova quasi sempre un giudice, un infermiere, un medico che se ne fa portavoce. Nel 2002 è accaduto all'ingegner Forzatti, che aveva staccato il respiratore da cui la moglie traeva un'esistenza artificiale: assolto. Nel 2003, in Francia, è successo per il caso di Marie Humbert, madre d'un ragazzo tetraplegico, cieco e muto, ma soprattutto ben deciso a morire: assolta anche lei, nonostante avesse propinato al figlio un barbiturico letale. Adesso è stato il turno di Vincenza, attraverso un giudice di Modena, e per mezzo di un'interpretazione innovativa della legge n. 6 del 2004.

Non è qui importante interrogarsi se quella legge esprima un mandato chiaro, se chi l'ha scritta avesse pensato d'applicarla anche a Vincenza. Probabilmente no, altrimenti l'avrebbero fermata. Come hanno fermato, durante la legislatura scorsa, il progetto sul testamento biologico, dopo 49 audizioni in Parlamento e un dibattito fluviale sulla carta stampata. Ma sta di fatto che l'istituto dell'amministratore di sostegno venne a suo tempo concepito anche in soccorso dei malati terminali. E sta di fatto inoltre che fra le nostre 20 mila leggi si trova sempre una ciambella cui s'aggrappa l'ingiustizia, ma qualche volta pure la giustizia.

micheleainis@tin.it
 


Titolo: La Spd salvata dalle donne
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 04:08:48 pm
La Spd salvata dalle donne

Paolo Soldini


Andrea ha 37 anni e una storia di sinistra doc alle spalle. Gesine, a 65 anni, potrebbe essere sua madre, e viene dalla cultura del circolo di Seeheimer, celebre pensatoio della destra socialdemocratica. Non potrebbero essere più diverse, politicamente, le due stelle che da un po’ hanno cominciato a brillare nel cielo nero-pece della Spd insieme con un’altra Andrea, cinquantenne, cui ad aprile nell’Assia riuscì il colpaccio di riportare un partito scoraggiato a un passo dal potere. Gesine e le due Andrea: pare proprio che il destino del più antico e più potente (anche se un po’ malconcio) partito della sinistra europea sia nelle mani delle donne.

La figura salvifica, molto «tedesca» e molto «socialista», del «Hoffnungsträger», ciò che furono Schumacher, Brandt, Schröder, oggi va declinata al femminile plurale: portatrici di speranze. Almeno per l’avvilito popolo socialdemocratico.

La prima Andrea di cognome fa Nahles ed è vicepresidente del partito. È cresciuta negli Jusos, l’organizzazione giovanile da sempre schierata a sinistra. È arrivata ai vertici della Spd con una strategia di sfondamento che gli osservatori paragonano a quella condotta da Angela Merkel nei ranghi della Cdu: lotta senza quartiere al machismo politico e rinnovamento di contenuti e di stile. L’attuale cancelliera se la dovette vedere con Kohl, che prima la coccolava poi, quando capì che stava crescendo troppo, le mise tra le ruote tutti i bastoni possibili. Nahles se l’è dovuta vedere con Schröder e con la sua longa manus Franz Müntefering. Proprio Müntefering è stato il primo a rimetterci le penne: quando, sicuro di vincere, l’allora presidente della Spd nell’ottobre del 2005 propose il suo fedelissimo Kajo Wasserhövel alla segreteria generale, fu Andrea ad opporsi a quello che appariva come un atto di arroganza politica e lo fece tanto efficacemente che il praesidium, invece di Kajo, elesse lei. Müntefering si dimise, Andrea Nahles rinunciò alla carica ma da allora divenne il punto di riferimento di tutti i rinnovatori del partito. Se ne è accorto il debole Kurt Beck, che prese il posto di Müntefering e che Nahles, con una determinazione che ha sfiorato la perfidia, tiene sotto il tiro della propria popolarità nella base e - cosa in Germania molto importante - tra i lavoratori iscritti alla potentissima Ig-Metall.

È stato proprio contro Beck che la prima Andrea ha vinto la battaglia che chiama in causa la seconda donna della triade delle rinnovatrici: Gesine Schwan. Nel quadro della grosse Koalition, Beck aveva stretto con la cancelliera un patto secondo il quale la Spd non avrebbe presentato un proprio candidato alla presidenza della Repubblica che scade l’anno prossimo e alla quale sarebbe stato rieletto Köhler. Ma ancorché politicamente agli antipodi nella Spd, Nahles e Schwan hanno stretto anche loro un patto, forti della circostanza che la seconda, co-fondatrice del circolo di Seeheimer, rispettatissima politologa e ricercatrice di scienze sociali, presidente della prestigiosa università europea di Francoforte, è molto popolare tra i grandi elettori del capo dello Stato e già nel 2004 mancò contro Köhler per pochi voti.

La scelta di candidare la socialdemocratica più in grado di assicurarsi voti a destra, imposta dalla sinistra della Spd con l’accordo dei Verdi e quello (sottobanco) della Linke, la sinistra-sinistra di Bisky e Lafontaine, ha fatto infuriare la cancelliera e ha impresso una bella scossa all’edificio, già assai traballante, della grosse Koalition. Il che poi, è almeno lecito sospettarlo, non dispiace affatto alla nostra Andrea. La quale, per il futuro della politica tedesca, ha in testa scenari diversi dalla continuazione di quel matrimonio forzoso tra elefanti che è l’alleanza tra la Spd, la Cdu e la Csu .

E qui entra in scena la seconda Andrea di questa storia. Ypsilanti nella campagna elettorale che qualche mese fa le ha consegnato lo strepitoso successo elettorale nell’Assia aveva assicurato l’opinione pubblica moderata, e soprattutto la destra del suo proprio partito, che non avrebbe cercato, dopo il voto, l’alleanza con la Linke. Poiché però in base alla composizione della nuova Dieta l’unica combinazione di governo prevedeva almeno un’intesa con i deputati di Bisky e Lafontaine, Andrea Ypsilanti aveva provato a rimangiarsi, almeno parzialmente, la parola data. Di fronte al no di un esponente, uno solo, della direzione regionale la vincitrice delle elezioni, molto correttamente, ha rinunciato. Ma il tema che per mesi e mesi era rimasto sepolto sotto i tabù è uscito, comunque, allo scoperto: la Spd nei sondaggi è molto indietro alla Cdu-Csu, ma, se vuole, ha di fronte a sé una maggioranza alternativa, purché ai Verdi aggiunga anche la Linke. La formula rosso-rosso-verde è già praticata a livello locale a Berlino (che è un Land) sotto la guida del borgomastro Klaus Wowereit, il quale non a caso è indicato, come le due Andrea, tra i riformatori della Spd nel cui futuro può affacciarsi la stanza dei bottoni della cancelleria.

Il fatto è che, come amava dire Brandt, in Germania esiste una maggioranza a sinistra del centro. Un orientamento del complesso dell’opinione tedesca che pesa sulla Spd e la sta costringendo, non solo per reggere alla concorrenza della Linke e alle inquietudini dei sindacati, a una virata a sinistra rispetto al programma di revisione del welfare propugnato da Schröder sotto il nome di Agenda 2010 che ha già preso corpo nella ridiscussione delle misure di sussidio e dell’età pensionabile, mentre comincia, e si annuncia infuocato, un nuovo scontro sulla politica fiscale. Con la cancelliera da una parte e con un gruppo dirigente socialdemocratico caratterizzato da una forte presenza femminile dall’altra parte, il confronto sarà molto attento alle ragioni delle donne.

Pubblicato il: 31.05.08
Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.17   
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Titolo: Elena Stancanelli. Girotondo dell’orrore
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:40:47 pm
Girotondo dell’orrore

Elena Stancanelli


La vicenda dell’italiano che stupra la ragazzina di quattordici anni marocchina ci colpisce non tanto per il fatto in sé, ma perché i ruoli sono ribaltati rispetto a quella che ci stiamo abituando a credere debba essere la norma. L’uomo nero è bianco e la vittima non sono io, o mia sorella, o la figlia di un deputato leghista. La vittima è una ragazzina cresciuta tra persone che le avranno insegnato cose diverse da quelle che impariamo e insegniamo noi nelle nostre famiglie. Probabilmente. O forse questa ragazzina è identica alle sue coetanee e compagne di classe, prega lo stesso dio e veste gli stessi jeans a vita bassa e le stesse canottiere.

Si fa le canne e tiene in camera il poster di Vasco Rossi o dei ballerini di Amici.

Non lo sappiamo, e non ci sembra nemmeno importante, oggi. Perché si tratta di una ragazzina di quattordici anni che un uomo, un mostro, ha portato in una casa e ha violentato, mettendola incinta. Per noi, giustamente, che porti il velo o no, vale quanto che si chiami Giulia o Federica. Nessuno si sognerebbe mai di pensare che, in uno dei due casi, la violenza sarebbe stata più dolorosa o più sopportabile. Un uomo di trent’anni che stupra una ragazzina, comunque questa ragazzina si chiami o si vesta, commette lo stesso reato e procura lo stesso immendicabile dolore nella vittima. Nessuno, nemmeno un idiota, potrebbe affermare il contrario.

Perché facendolo, giudicando un reato e le sue conseguenze in base alla religione, al colore della pelle e al modo in cui veste o mangia la vittima o il carnefice, produciamo uno slittamento che, piano piano, diventa mostruoso e immendicabile quanto la violenza stessa: cancelliamo il reato. Non esiste più la violenza sessuale di un uomo su una donna, una ragazzina, ma un ipnotico affastellarsi di attenuanti o aggravanti, giochi di prestigio per abili avvocati o politici senza scrupoli. Le chiacchiere si accumulano, i commenti, le tirate per la giacchetta da una parte all’altra. Ma al centro, immobile e nuda, sanguinante, rimane quella donna, quella ragazzina. Io, mia sorella, la figlia del deputato leghista.

Non ce lo dobbiamo dimenticare. Perché la cosa più complicata, nel caso della violenza sulle donne, non è mai stato trovare il colpevole, ma non dimenticare mai che esiste una colpevolezza. Non dimenticare che la violenza non confina con niente, non è la conseguenza di qualcosa e non somiglia a nulla, tantomeno all’amore. La violenza è il marcio che sbuca da noi quando la vita ci costringe dentro spazi troppo stretti, e non ci consente niente.

Non è facile. Ci sono voluti molti anni prima che le donne riuscissero a ottenere una legge che interpretasse lo stupro come una violenza vera e non morale. Che imparassero a denunciarlo, a sopportare l’orrore dello scherno, a scriverne e a parlarne. È quindi intollerabile che xenofobia politici dissennati e stupidità senza aggettivi ci riportino in tempi nei quali si voleva far credere che le donne andassero difese dalle aggressioni dei barbari, dei Sabini. In questo modo evitando di dover controllare cosa succedeva nelle nostre case, tra padri e figlie, nei posti di lavoro. Rumeno violenta italiana. Rumeno violenta rumena. Italiano violenta marocchina... Per quanto vogliamo declinare questo girotondo dell’orrore prima di riuscire a dire che si tratta della violenza di un uomo su una donna, e come tale è intollerabile?

Pubblicato il: 06.06.08
Modificato il: 06.06.08 alle ore 12.12   
© l'Unità.


Titolo: Onu, il Consiglio di Sicurezza: lo stupro è come arma di guerra
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:55:53 pm
ESTERI

I Quindici hanno approvato all'unanimità la risoluzione che prevede azioni repressive contro i responsabili delle violenze contro le donne

Onu, il Consiglio di Sicurezza: lo stupro è come arma di guerra

La soddisfazione di Human Rights Watch: "E' un atto storico"

Rice preoccupata per il voto in Zimbabwe: "Elezioni non libere"

 

NEW YORK - Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condanna, nei termini più forti, l'uso dello stupro come arma di guerra, minacciando azioni repressive contro i responsabili delle violenze contro le donne. I Quindici, raccogliendo la proposta degli Stati Uniti, hanno approvato all'unanimità la risoluzione 1820, sponsorizzata da oltre 30 paesi tra cui l'Italia. I lavori del Consiglio sono stati presieduti dal segretario di Stato Usa Condoleezza Rice.

Il testo, minacciando indirettamente di portare i colpevoli di fronte alla Corte penale internazionale de L'Aja (Cpi), chiede "a tutte le parti coinvolte nei conflitti armati la cessazione completa e immediata della violenza sessuale contro i civili, con effetto immediato".

La risoluzione, definita dall'organizzazione non governativa Human Rights Watch un "atto storico", chiede al segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon di preparare un rapporto (che verrà pubblicato entro dodici mesi dall'approvazione) per individuare "i conflitti armati dove la violenza sessuale è stata usata ampiamente o sistematicamente contro i civili".

A margine delle discussioni sulla risoluzione contro gli stupri in guerra, la Rice aveva partecipato anche ad una riunione informale sulla situazione in Zimbabwe, dove è stata espressa profonda preoccupazione per il prossimo ballottaggio presidenziale del 27 giugno. "Con le sue azioni il regime del presidente Robert Mugabe ha abbandonato ogni pretesa che le elezioni del 27 giugno potranno procedere in maniera equa e libera", aveva detto il segretario di Stato Usa.

Il Belgio ha chiesto che il Consiglio di Sicurezza si riunisca sullo Zimbabwe nei prossimi giorni. Ma l'ambasciatore Usa all'Onu Zalmay Khalilzad, in qualità di presidente di turno dei Quindici, ha detto che il Consiglio è diviso sulla richiesta del dibattito.

(20 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: Maurizio Chierici. La nostra voce per Ingrid
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 11:44:53 pm
La nostra voce per Ingrid

Maurizio Chierici


Da sei anni e chissà quanti giorni alle 5 di ogni mattina la madre di Ingrid Betancourt parla per mezz’ora alla figlia attraverso una radio diversa da ogni altra: accoglie le voci di padri, mogli e dei prigionieri delle Farc. Raccontano piccole cose della vita normale. Gli amici che salutano. Come va la scuola. Notizie tristi quando non è possibile tacere, ma Ingrid non ha saputo dalla madre che il padre era morto poco dopo il sequestro. Yolanda Pulecio de Betancourt aveva supplicato le Farc di liberarla per il funerale. Silenzio. Qualche capo Farc deve averla informata chissà come, chissà quando. Le radio che parlano a chi non c’è si sono accese mesi dopo: chiacchiere che provano a consolare la solitudine di ostaggi alla deriva nella prigione verde. Lettere senza risposta. Il silenzio è una delle torture. Dopo 4 anni Ingrid finalmente riappare. Le sue pagine hanno attraversato ogni continente (non è ritornello d’occasione) ammirato per il coraggio di una donna che cerca la pace a mani nude. Lo strazio di una creatura solare ridotta a fantasma è la commozione che ha accompagnato l’immagine di un’Ingrid che sembra rassegnata, invece non lo è. La determinazione resiste anche se nelle pieghe del messaggio non nasconde lo strazio della lontananza.

Le si è sciolto il cuore ascoltando la voce dei suoi ragazzi più soli nel temporale dell’adolescenza. Li scopre consapevoli e maturi. Quel dolore che fa crescere in fretta.

Sono quattro giorni che Yolanda Pulecio de Betancourt racconta alla figlia la novità. «Un giornale italiano ti ha proposto per il Nobel. All’appello dell’Unità, giornale fondato da Gramsci, rispondono migliaia di persone. Non solo dall’ Italia: Spagna, Europa perfino dall’Amazzonia. Forse la tua vita sta cambiando…». Forse Ingrid ascolta; forse i carcerieri glielo nascondono impauriti dall’attenzione che trascende i giochi delle diplomazie e la volgarità di chi si affida autisticamente alla violenza. E il silenzio continua. Voci di voci rassicurano: non sta bene ma è viva. Nessuno sopporterebbe una risposta così nei corridoi di un ospedale, eppure la madre, la sorella e i figli della Betancourt non hanno scelta mentre i carcerieri lasciano filtrare le informazioni goccia a goccia, furbizia nera del tenere aperti i giochi del io ti do, tu mi dai. Usano come scudo innocenti dalle mani legate. Anche se la pioggia quotidiana delle notizie oscura la memoria, appena si riparla della Betancourt torna l’indignazione. Messaggi, telefonate.

La regione Toscana sta per annunciare un comitato di premi Nobel per concretizzare la proposta dell’Unità. Perché il Nobel per la Pace non è una medaglia alla vanità ma un viatico per liberare a chi non si arrende al tornaconto. Proposta che raccoglie la reazione di protagonisti consapevoli che la distrazione di tutti può spegnere le voci non distratte. Sarebbe viva senza il Nobel per la Pace Aung San Suu Ky, prigioniera nella sua casa in Birmania, anima della democrazia che non si è spenta e spaventa i militari consolando la speranza alla gente? E Rigoberta Menchu e Perez Esquivel? Ogni giorno centinaia di lettori e non lettori firmano l’appello. Potranno i carcerieri resistere alla pressione che si allarga? Lo sapremo. Qualcosa - strana coincidenza - improvvisamente comincia a muoversi.

Fra le adesioni tante domande, una ricorrente: come mai la proposta al Nobel arriva da un giornale italiano dopo sei anni di prigionia e quattro di silenzio ? Ingrid è un po’ francese e un po’ colombiana, allora perché al silenzio Farc si aggiunge la pigrizia di intellettuali e politici che la conoscono bene?

Da tempo sfogliavo le notizie dell’America Latina sperando di incontrare l’appello che ogni lettore ha subito colto non solo per il simbolo- Ingrid ma per isolare la crudeltà dei rapimenti e riscattare altri rapiti. Niente. Gli amici che frequentavano casa Betancourt, avenue Foch, Parigi anni 70, si chiamavano Gabriel Garcia Marquez o il Botero delle donne grasse. Ingrid ne ascoltava i racconti seduta al pianoforte. Gabriel Betancourt, il padre, era ambasciatore della Colombia all’Unesco dopo aver fatto il ministro dell’educazione. Nei gironi diplomatici di Parigi spuntava Pablo Neruda. Un giorno Ingrid bambina gli confessa: anch’io scrivo poesie. E ogni volta che Neruda si affacciava nel salotto Betancourt la cercava con gli occhi: dov’è la mia collega? Attorno a Gabo, Botero, Neruda il mondo latino saliva le scale di avenue Foch. Il tempo passa. La memoria tradisce. Hanno dimenticato che Ingrid è tornata in Colombia per fare una «politica» decente dopo l’assassinio di Galan, candidato alla presidenza con l’impegno da lei ripreso e allargato. Tanti colombiani l’hanno subito abbracciata. Bogotà non è solo la città della coca e dei colpi di mano. Accanto alla disperazione, l’attenzione di una borghesia coltivata che non misura la vita nel denaro. Capitale raffinata, caffè di «tertullas» dove gli avventori arrivano con poesie da leggere agli amici i quali devotamente ascoltano con nelle tasche versi e abbandoni da declamare subito dopo. Paese di scrittori affascinanti, amore per la letteratura che l’Europa sta perdendo. Eppure, silenzio. Paura della politica armata di Uribe, degli agguati Farc, del pericolo del mettersi nella vetrina-bersaglio dei narcos, dei paramilitari o della diffidenza dei mille latifondi che governano il paese. Chissà.

L’ambiguità si allarga all’intero continente. Tanto per ricordare gi scrittori del mito: Vargas Llosa non si espone per il Nobel degli altri quando da anni insegue il sogno dell’incoronazione. Carlos Fuentes sostiene di non credere, ormai, all’impegno sociale degli intellettuali: preferisce incensare chi vive nell’incenso. La prefazione alla biografia di Gustavo Cisneros, magnate che fa concorrenza a Murdoc nelle due americhe, fa capire come non abbia tempo di pensare alle Ingrid incatenate. Da Isabelle Allende alle scrittrici latine che ricamano i sentimenti con mani di fata, nessun segno d’attenzione. Troppo impegnate a rimbalzare da una fiera letteraria all’altra sventolando le bandiere della democrazia e della libertà. Piccolo mondo che si crede autosufficiente e orgogliosamente soddisfatto. È il silenzio di Garcia Marquez a suscitare inquietudine: narratore libero e solitario, possibile non abbia trovato il coraggio? Forse la stanchezza per la malattia che lo sfinisce. Per non parlare dei politici: muovono le pedine senza alzare gli occhi dal recinto sotto controllo. Mancanza di immaginazione o le cautele che il governare un paese esige quando la prigione si trova in un altro paese. Solo Chavez ha provato.

Ecco perché noi giornalisti ci siamo decisi ad affidare la liberazione di Ingrid alla volontà di chi ha buona volontà. Un giornale italiano sposa la causa con l’entusiasmo che è mancato nelle anticamere dei poteri lontani. Ma non è facile far capire il dramma di questa donna senza voce mentre le previsioni economiche disegnano una Colombia felice. Governo stabile, democrazia sicura, liberismo scatenato, mano d’opera che costa niente, guerriglia sotto controllo e lontana dalle città. L’altro ieri nell’incontro col presidente colombiano Uribe anche Miguel Angel Moratinos, ministro degli esteri di Zapatero, conferma l’ottimismo: «Ogni volta che torno in Colombia trovo un paese più prospero, più sicuro, più dinamico». Grande come Francia, Spagna e Portogallo, 42 milioni di abitanti seduti su miniere di platino e smeraldi, esporta petrolio ed é seconda solo al Brasile nel caffè, e bistecche e rose che volano ogni mattina negli Stati Uniti. Per i numeri un paradiso senza fame e senza miseria. Allora perché Ingrid rischia la vita pretendendo la giustizia sociale e la fine di una corruzione che impolvera di coca ogni scrivania? La verità è amara. Il 78 per cento dei colombiani scappa dalle campagne, baracche che stringono le città. Paura delle guerriglie della sinistra radicale e dei paramilitari armati dai 500 o mille grandi proprietari alleati al governo Uribe.

E le città diventano un inferno. Lo racconta Garcia Marquez in « Cronaca di un sequestro»: a Bogotà vengono rapite più di 80 persone al giorno. Rilasciate in poche ore dopo il pagamento, o svanite per anni. Ma sono i desplazados la catastrofe nascosta. Il governo minimizza, ma l’alto commissariato Acnur, agenzia delle Nazioni Unite, fa sapere che è il paese con più profughi interni al mondo: quasi 4 milioni accampati nelle favelas dove la violenza è scuola di sopravvivenza.. Un milione di contadini lasciano le regioni dove si combatte per attraversare (clandestinamente) le frontiere di Venezuela, Panama, Costa Rica. Disastro che minaccia il futuro: tre quarti dei senza casa, senza scuola, senza lavoro hanno meno di 18 anni.

I presidente Uribe distribuisce promesse con voce rotonda, ma è il cardine del sistema miseria. Ingrid era una mina vagante: contestava gli intrecci politica e paramilitari che allargano la corruzione; affrontava l’idiozia di una guerriglia da 40 anni convinta di risolvere l’ingiustizia sparando. Con la presidenza Uribe sono svanite le speranze di una soluzione umanitaria. Ha vinto le elezioni con Ingrid fuori gioco da poche settimane. Militarizza il paese, armi ai contadini. Cambia la costituzione e strappa un secondo mandato con la compiacenza della corte di suprema da lui appena insediata. Sta preparando la rielezione eterna, ma scivola sulle denunce dei paramilitari e dei re dei narcos. Trenta suoi deputati in galera, altri quaranta sotto processo, ministri che saltano, familiari scoperti con le mani nella marmellata. Debolissimo. Se Ingrid esce dalla foresta la sua voce può dar forza a chi pretende una vita quasi normale. Ecco perché la prigione non si apre. Il fantasma del Nobel imbarazza Uribe come le Farc. Vedremo cosa risponde.

Rispondono per lui giornali e Tv. Li controlla attraverso proprietari amici e incursioni poliziesche. Ogni anno in Colombia vengono uccisi più cronisti che in Iraq. Giornalisti che non fanno le veline. El Tiempo è il solo quotidiano. In ogni governo uno dei proprietari è sempre stato ministro. Adesso sono due, cugini Santos vice presidente e ministro della difesa. Anche i magistrati devono stare attenti. La Colombia non fa eccezione nella tradizione latina. L’ Europa comincia dall’ Italia. Ecco perché fra le lettere arrivate all’Unità da lontano, poche righe di Humberto Ak’abal, grande poeta Maya, vive in Guatemala dove l’angoscia non cambia. Ak’abal è poeta molto amato dai poeti.

Stanco, con la morte ormai vicina, Mario Luzi l’ aveva voluto presentarlo a Firenze. Non dimenticate la mia firma, si raccomanda. «La nostra America da molti anni è ferita nella sua dignità. Quanto dolore, quante sofferenze, quanta gente ha offerto il proprio sangue per cercare nuovi orizzonti. Quante voci soffocate nella nostra storia; quante persone imbavagliate per imporre il silenzio. Ingrid Betancourt è una delle vittime, simbolo delle vittime. Ecco perché sono convinto che meriti il Nobel. L’appoggio gridando la parola pace».
mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 23.06.08
Modificato il: 23.06.08 alle ore 9.31   
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Titolo: Emma Bonino. «Sono innamorata e non rinuncio al Quirinale»
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 04:38:53 pm
L'INTERVISTA A Emma Bonino

«Sono innamorata e non rinuncio al Quirinale»

L'amicizia con Pannella: «Non abbiamo mai avuto complicazioni di tipo sentimentale o sessuale»

 

ROMA - «A sessant'anni sono innamorata. Lui non è un politico e non è italiano». Lo afferma Emma Bonino, vice presidente del Senato, in una intervista a 'Diva e donna' mercoledì in edicola in cui racconta la sua vita, il figlio mancato, l'amicizia con Pannella: «Marco è uno che a volte mi dà sui nervi», dice la senatrice del suo antico compagno di lotte dei Radicali.

MARCO - «Non sono mai stata innamorata di lui. E neanche lui di me. Per nostra fortuna non abbiamo mai avuto complicazioni di tipo sentimentale o sessuale. Ci siamo sempre voluti però all'interno di un rapporto di amicizia profonda che abbiamo coltivato e anche molto costruito. Spesso anzi, ci siamo imposti di 'volerci'. Lui a volte mi dà sui nervi quando mi ripete per la terza volta la stessa cosa. Di me non sopporta che io sia pragmatica, terra-terra».

QUIRINALE - Ricordando lo slogan 'Emma for president' e un sondaggio del 1999 che nel gradimento degli italiani la vedeva davanti a Carlo Azeglio Ciampi se la elezione diretta al Quirinale fosse stata possibile, la Bonino rivela di non considerare tramontato quel sogno di salire un giorno al Colle: «Per fare il presidente della Repubblica in Italia bisogna avere 80 anni. Io ne ho appena sessanta e dunque ho vent'anni di tentativi davanti. E poi sono cocciuta».


24 giugno 2008



Titolo: BONINO: IO FIDANZATA? UNA BUFALA, TEST SUGLI STEREOTIPI
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 05:08:46 pm
2008-06-25 12:14

BONINO: IO FIDANZATA? UNA BUFALA, TEST SUGLI STEREOTIPI


ROMA - "Si tratta di una bufala, dovuta ad un dato di irritazione, oltre che da una riflessione che faccio da tempo sugli stereotipi al femminile". La vicepresidente del Senato Emma Bonino rivela a Radio Radicale la burla rifilata al settimanale "Diva e Donna" su un suo fidanzato straniero, rilanciata da diversi giornali che hanno scritto articoli sull'argomento.

 "Questo giornale - riferisce Emma Bonino - mi aveva chiesto una intervista alla vigilia del vertice Fao sui temi della nutrizione, dell'energia, della povertà. Mi sono puntualmente preparata su temi che seguo da tempo ed ho scritto un articolo. Il vertice è passato sotto silenzio anche da noi, perché assorbito dalla polemica sulla presenza di Ahmadinejad. Ho mandato questo testo, e a quel punto mi hanno chiesto una fotografia in casa. Ho accettato, anche se non lo faccio mai, e puntuale è arrivata la giornalista, e con lei le due domande inesorabili: come concilia la vita personale con la politica? A cosa ha dovuto rinunciare? Qual è il suo rapporto con Pannella? Arrivata a questa inesorabile domanda mi sono detta: o mi invento una lite con Pannella o mi invento un fidanzato".

"Mi sembrava - spiega Emma Bonino - la riproposizione tipica di uno stereotipo. E vedo che su questo oggi i quotidiani scrivono, importanti firme imbastiscono ragionamenti sociologici, fanno grandi ricerche d'archivio, mi telefonano". "E' un bel test sul giornalismo italiano, credo" commenta la vicepresidente del Senato dopo il successo della "bufala". 

da ansa.it


Titolo: Melanie: «Il Nobel a mia madre Ingrid omaggio a tutti gli ostaggi civili»
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 05:44:54 pm
Melanie: «Il Nobel a mia madre Ingrid omaggio a tutti gli ostaggi civili»

Francesco Sangermano


«Che meraviglia! Grazie. Grazie, davvero. Non sapete quanto è importante tutto questo». Melanie Delloye Betancourt si apre in un raro sorriso mentre sfoglia le copie de l’Unità in cui campeggia in prima pagina l’appello “Un Nobel per la libertà”. Da sei anni e 110 giorni, era il 23 febbraio 2002, la sua vita è cambiata. E da allora, prima di tutto, lei è la figlia di Ingrid Betancourt. 22 anni, studentessa in sociologia a Parigi, riceverà stasera a Firenze il Premio Galileo destinato a sua madre «per lo straordinario impegno civile e la coraggiosa resistenza». Con quegli occhi grandi e neri, i capelli scuri e lisci sulle spalle la somiglianza con la madre è quasi impressionante.

Melanie, "l’Unità" ha lanciato la campagna per il Nobel a sua madre e sono arrivate adesioni da tutto il mondo. Che effetto le fa?
«È una cosa molto, molto emozionante. Questa lotta va avanti da tanti anni, le cose sono lente ed è facile dimenticare che mia mamma ed altri ostaggi sono lì. In molti preferiscono rimanere indifferenti. Questa iniziativa è più che importante per far capire che è l’ora di dire basta. Che adesso bisogna fare di tutto perché gli ostaggi tornino a casa. La verità è che sono tutti arrivati al punto che non possono più resistere e questa foto di mia madre (indica la prima pagina de l’Unità, Ndr) lo mostra chiaramente. Voglio veramente ringraziare l’Unità per questa iniziativa perché non è solo bella ma anche molto coraggiosa».

Pensa che sua madre meriti il premio Nobel?
«Mia mamma, prima di essere rapita, ha cercato di far cambiare le cose in Colombia combattendo contro la corruzione e per favorire la pace e il dialogo. Ora, nonostante tutti questi anni nella giungla, continua a pensare prima agli altri che a se stessa. E allora sì, per tutto quello che ha dimostrato prima e in questa situazione di difficoltà penso che meriti il Nobel. Anche perché quel premio è un simbolo e darlo a lei significherebbe darlo a tutti gli ostaggi che hanno sofferto per anni una ingiustizia più che terribile».

Quale è stato l’ultimo contatto che ha avuto con lei?
«A dicembre ci ha scritto una lettera incredibile. Una lettera per noi e per tutta la Colombia che dimostra la sua forza, la sua lucidità e la sua generosità. Fa capire che dimenticare è la cosa più terribile. E noi invece dimentichiamo nella vita di tutti i giorni quanto bello sia il privilegio di essere liberi».

E lei ha più avuto modo di comunicarle qualcosa?
«C’è un programma radio che si chiama “Le voci dal sequestro” che va in onda la domenica da mezzanotte alle sei del mattino e un altro dal lunedì al venerdì dalle 5 alle 6 di mattina. Possiamo usarli per mandare messaggi ai sequestrati. È l’unico modo che abbiamo per comunicare».

Sua madre può ascoltare questi messaggi?
«Sì, ce lo hanno detto gli ostaggi liberati e lo scriveva lei nella lettera. Ci diceva che è l’unica cosa che la fa rimanere in vita e le dà forza. Noi facciamo di tutto per aiutarla a resistere. È difficile immaginare veramente quello che stanno vivendo. Lì si può diventare pazzi. E la radio è l’unico contatto che hanno con la realtà che non sia giungla, armi e guerriglia».

Come è cambiata la sua vita dal giorno del rapimento?
«È cambiato tutto. Manca l’equilibrio, la sicurezza, c’è sempre una paura costante. Non penso a questo tutto il giorno, perché bisogna continuare a vivere. Ma dentro c’è sempre qualcosa che pesa e che è più che doloroso. E mi basta camminare per la strada perché qualcosa me la faccia tornare in mente. All’inizio non pensavo che questa storia sarebbe stata così lunga. Ma non possiamo perdere la speranza e smettere di lottare. Noi siamo liberi, loro no. Quello che vive mia mamma è un inferno».

Pensa di portare avanti le battaglie di sua madre?
«Non possiamo rimanere indifferenti a quello che succede in Colombia. Voglio aiutare il nostro Paese a trovare il cammino della pace e della libertà per tutti gli ostaggi. Questa guerra è orribile e bisogna trovare presto una soluzione. Però quello che voglio ora più di tutto è che mia madre torni. Per lei, per continuare la sua lotta. Quando tornerà sarà bellissimo. Non sarà la stessa madre e io non sarò la stessa figlia perché ci hanno tolto troppi anni. Ma a quel punto lavoreremo insieme. E io la aiuterò».

Cosa pensa delle Farc?
«Quaranta anni fa avevano un ideale. Oggi non si può accettare il fatto che abbiano ostaggi civili. Pretendono che siano prigionieri di guerra, ma i civili non hanno un’uniforme addosso. Non possono continuare a giocare con le vite umane. Se vogliono un riconoscimento internazionale ed hanno ancora un ideale della loro lotta lo devono dimostrare. C’è tanta attenzione su di loro, l’America Latina sta cambiando, la sinistra è più presente e se loro vogliono un futuro politico devono capire che serve fare un gesto di grande umanità. La liberazione di mia madre e degli altri civili sarebbe un gesto molto forte per tutto il mondo».

Il governo colombiano ha qualche responsabilità in tutta questa vicenda?
«Si, perché non capisco come il nostro presidente Uribe, che si dice così vicino ai suoi uomini e ai suoi soldati, li lasci morire lentamente da più di dieci anni in questa giungla. Loro hanno messo l’uniforme per combattere in nome dello Stato e quindi anche il governo colombiano deve riconoscere la sua responsabilità e fare in modo che tutti quelli che stanno nella giungla tornino a casa. È complicato, ma non così come le Farc o il governo colombiano vogliono far credere».

Cosa potrebbero fare Europa e Usa?
«In Europa le Farc sono nella lista dei terroristi. Serve continuare a fare pressione su di loro facendogli capire che se vogliono avere un riconoscimento e una credibilità politica devono liberare gli ostaggi. Quanto agli Usa, anche loro hanno tre ostaggi nella giungla da 6 anni. Spero che capiscano che il dialogo è necessario».

Se potesse mandare un messaggio a sua madre attraverso "l’Unità" cosa le direbbe?
«Che è la donna piu incredibile del mondo. E che è un grande privilegio averla come madre».

Pubblicato il: 25.06.08
Modificato il: 25.06.08 alle ore 9.20   
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Titolo: Michelle Hunziker: così le ho aiutate
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:51:07 pm
La show girl: stalking e stupri, 300 email al giorno

«Un anno con le donne violentate e umiliate. Fino a non dormire più»

Michelle Hunziker: così le ho aiutate

 
 
MILANO — La Michelle che non ti aspetti parla di «vite tormentate », di «donne che hanno bisogno di uscire dal silenzio», di violenze, mobbing, soprusi, solidarietà. E «vabbé, se ne faranno una ragione quelli che pensano ame solo come donna-immagine ». La Hunziker versione no-gossip ricorda i primi tempi della Fondazione «Doppia Difesa», centro di aiuto alle donne voluto e messo in piedi assieme a Giulia Bongiorno, un anno fa. «Lavoravo tutto il giorno. La sera facevo Striscia e quando finivo mi appiccicavo al computer a leggere le storie delle nostre donne. Ogni volta che aprivo un file entravo in una vita segnata. Cose pazzesche. Poi di notte facevo molta fatica a dormire perché cercavo una via d’uscita per quelle donne. Ti viene l’angoscia, credimi. Non ti abitui mai, ci stai male. A un certo punto non ce l’ho più fatta. Non ho più letto nulla di quelle storie prima di dormire. Ho capito che a continuare così sarei andata in depressione ». Con il tempo Michelle ha imparato a dosare emotività e reazioni. Ha incontrato molte delle «sue» donne, si è così appassionata al tema da diventare un po’ avvocato, un po’ psicologa. «È stata dura», riflette oggi, «ma chemeraviglia poi, quando capisci che i tuoi sforzi non sono stati vani...».

Come quella volta che una ventenne decise di parlare di sé. Solo con Michelle, solo grazie a Michelle. «All’inizio era come se le parole non trovassero la via per uscire. Poi si è sbloccata e perme è stato un momento di felicità. Il suo è il racconto di un’infanzia e di un’adolescenza negata, distrutta. Dal giorno della prima comunione fino ai 18 anni è stata stuprata, umiliata, usata dai suoi zii, a turno. In alcuni periodi è successo ogni santo giorno. Quando l’ha detto a sua madre si è sentita rispondere che una denuncia avrebbe rovinato la famiglia. È stato il colpo più grave. È diventata autolesionista, ha cercato di uccidersi. Oggi vive sola, lontana dall’orrore del passato. Ecco, sentire di aver aiutato una persona così mi fa stare bene».

A Doppia Difesa arrivano dalle 200 alle 300 e-mail al giorno: scrivono donne violentate, discriminate, umiliate, perseguitate da mariti, spasimanti, fidanzati, private del diritto di vedere i figli, angosciate dal mobbing. Di tutto di più. Si fa un primo screening, si verifica l’attendibilità di storie e persone e poi si interviene, con civilisti, penalisti, psicologi, analisti, con le case-rifugio dove ospitare chi è in pericolo. «Se il caso è molto urgente prendiamo il primo volo e raggiungiamo chi ci chiede aiuto», dice Michelle. Le storie raccolte dalla Fondazione sono ormaimigliaia, «molte così assurde, drammatiche, paradossali che non ci si può credere » valuta Michelle. Per esempio la signora che ha presentato 82 denunce contro la persecuzione del marito: «Tutto documentato. Non si è mai risolto nulla. Soltanto ora, dopo il nostro intervento, c’è un procedimento in corso contro di lui». Sullo stalking la bionda di Striscia è preparata per esperienza personale: da anni ci sono ammiratori (in tutto 5) che la tormentano, uno l’ha minacciata di morte e lei dai microfoni di Striscia gli ha detto in diretta: «Vado dalla polizia». Però, poi, dice: «Per favore non dite che sono una vittima. Io reagisco sempre, denuncio sempre. E non mi lamento perché mi posso permettere una guardia del corpo per me e Aurora, mia figlia. Mi chiedo: e chi non può farlo? A volte riceviamo appelli disperati e a me sembra di vedere le scene. Una ragazza ci ha chiesto una mano perché il suo ex fidanzato entrava in casa quando lei non c’era, le tagliuzzava i vestiti e poi li ripiegava. Roba da film horror. Potete immaginare una vita con quest’ansia addosso? ».

Accorata, Michelle, mentre racconta delle sue donne. Dice che lo sa, tutti hanno pensato che in quest’avventura lei cimettesse solo l’immagine. «E invece no. Ci metto energia, tempo, emozioni. E ci metto anche la faccia. Come fanno alcune delle nostre donne che hanno deciso di raccontare in video la loro esperienza. Non so se alla fine ne uscirà un documentario o qualcos’altro. So che il loro coraggio aiuterà le altre a uscire dal silenzio. So che se tutto questo servirà a salvare anche una donna soltanto ne sarà valsa la pena».

Giusi Fasano
26 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Slavenka Drakulic*. Quell’omicidio chiamato stupro
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 06:25:21 pm
Quell’omicidio chiamato stupro

Slavenka Drakulic*


Ricordo con chiarezza la prima vittima di stupro che ho avuto la ventura di conoscere. Era l’autunno del 1992 e mi trovavo in una cittadina non lontana da Zagabria. La donna era una musulmana di Kozarac in Bosnia. Dopo alcuni mesi trascorsi in un campo di prigionia, era arrivata a Zagabria con un gruppo di rifugiati. Selma (non è il suo vero nome) aveva circa 35 anni, capelli castani corti e occhi di un azzurro intenso.

Mi raccontò la sua storia con un filo di voce quasi bisbigliando. Si trovava a casa con i suoi due figli e sua madre quando un gruppo di paramilitari serbi fece irruzione nel cortile. Dissero che cercavano armi, ma a casa di Selma non c’erano armi. In realtà era ben altro quello che volevano.

Con una espressione feroce sul viso, un uomo la afferrò e la spinse nella stanza da letto. Poi gli altri lo raggiunsero. «Poi me lo hanno fatto».

Con queste semplici parole e con lo sguardo basso e fisso sulle mani che tormentava nervosamente, Selma mi ha parlato della sua tragedia. «Per molto tempo dopo quel fatto non sono riuscita a guardare in faccia i miei figli... Non facevo che lavarmi, ma continuavo a sentire addosso il loro odore. Immagini, me lo hanno fatto sul mio letto coniugale», mi ha detto.

Colsi una inflessione di disperazione nelle sue parole. Non piangeva o, quanto meno, non piangeva più. Ma si vergognava e la vergogna non l’abbandonava. Doveva conviverci così come doveva conviverci suo marito.

Il 20 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che classifica lo stupro un’arma di guerra. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno saluto questa decisione come un fatto storico, ma non è una riparazione giuridica. Decine di migliaia di vittime delle violenze sessuali in Bosnia non si sono viste ancora riconoscere lo status giuridico di vittime di guerra. Mentre lavoravo al mio libro «They Would Never Hurt a Fly» (NdT, Non farebbero mai del male ad una mosca) sui criminali di guerra dei balcani sotto processo a L’Aja dinanzi al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, mi sono imbattuta nel “caso Foca”. Nel 1992 Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic, tre serbi della città bosniaca di Foca, misero in prigione alcune giovani musulmane, le torturarono, le ridussero in una condizione di schiavitù sessuale e le violentarono. Eppure quegli uomini non riuscivano a capire per quale ragione venivano processati.

Uno di loro si difese dicendo: «ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista aveva salvato loro la vita. Stupro? Ma che reato può mai essere in confronto all’omicidio?

Questo caso è importante perché il 22 febbraio 2001, Florence Mumbal, giudice del Tribunale Penale Internazionale proveniente dallo Zambia, li giudicò colpevoli. I tre serbi sono stati i primi uomini nella storia del diritto europeo ad essere condannati per crimini contro l’umanità - tortura, riduzione in schiavitù, offesa alla dignità umana e stupri di massa di donne musulmane bosniache.

Questa sentenza riconosceva che la violenza sessuale è un’arma estremamente efficace per le operazioni di pulizia etnica. Non solo copre di vergogna le donne violentate, ma umilia i loro uomini che non sono in grado di proteggerle. La violenza sessuale distrugge l’intera comunità in quanto sul vittime rimane il marchio - mai dimenticato, mai perdonato.

Nel corso del processo contro gli imputati del caso Foca ci fu una testimone, madre di una bambina di 12 anni fatta prigioniera da Radomir Kovac che la violentò e la vendette a un soldato montenegrino per 100 euro. La ragazza non è stata mai più ritrovata. La madre si era presentata in tribunale per guardare in faccia l’aguzzino di sua figlia e per testimoniare contro di lui. Ma quando si alzò in piedi dinanzi alla Corte non riuscì a dire nemmeno una parola. Dalle sue labbra uscì solamente un suono simile all’insopportabile ululato di un cane ferito a morte. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sullo stupro certo non farà tornare a casa la figlia di questa povera donna. Ma è, non di meno, un avvenimento storico perché, finalmente, la violenza sessuale viene classificata come un’arma e può essere punita. Un uomo non potrà più difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna, ma l’aveva “solamente” violentata. Oggi sappiamo, così come lo sapevamo prima che questa risoluzione fosse approvata, che lo stupro è una sorta di lento, differito omicidio.

Slavenka Drakulic collabora con la rivista «The Nation» ed è una scrittrice che vive in Croazia. Il suo ultimo libro, uscito negli Stati Uniti, si intitola «They Would Never Hurt a Fly: War Criminal on Trial in The Hague» (Penguin).

© 2008, The Nation
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.19   
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Titolo: La Guzzanti: per il Pd noi 4 gatti?
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2008, 06:36:26 pm
LA LETTERA

La Guzzanti: per il Pd noi 4 gatti?

Ricordo che loro scalavano banche


Caro direttore,
sull'aereo al ritorno da un viaggio di un mese per un lavoro sulla satira nel mondo, ho preso l'Espresso per aggiornarmi un po'. Meno male che avevo la cintura di sicurezza perché rischiavo di cadere dalla sedia! La notizia è scioccante. L'articolo di apertura dice che Berlusconi ha mostrato il suo vero volto: non un grande statista ma un uomo che pensa solo a fare leggi per sé! Ha ingannato l'opposizione con straordinaria abilità! La sua performance è stata talmente geniale e inaspettata (sorrideva! Lui che non ha mai sorriso!), che ha ingannato perfino Veltroni ! Appena atterrata vengo a sapere della manifestazione dell' 8 luglio. I commenti che sento e che leggo in proposito sono sempre gli stessi. La gente non arriva alla quarta settimana questi sono i problemi, non le intercettazioni, non la giustizia, non la difesa della vecchia obsoleta Costituzione, non la difesa dei giornalisti che sono una casta e che se non scendono in piazza loro non si capisce perché dovremmo scendere in piazza noi, non la difesa dei magistrati che sono un'altra casta. Shenderovich, satirista russo, lavorava ad un programma con il 50% di share, è stata una delle prime vittime di Putin.

Sono anni che può esprimersi solo in una radio dissidente e la gente che ha votato Putin continua a fermarlo per chiedergli: come mai non ti si vede più in tv? Shenderovich osserva acutamente che la sua gente non associa la libertà al benessere. Guardano l'Occidente e vorrebbero quello stile di vita. Non capiscono che questo stile di vita è stato raggiunto grazie alla libertà. E votano Putin in massa. Tutti proviamo fastidio a risentire la parola girotondi, proviamo fastidio al nome di Di Pietro, al nome Veltroni, Fava e ormai anche Vendola. Sarebbe meglio che ci fossero dei politici che ci convincono di più ma non ci sono. Nell'attesa dell'arrivo del messia una manifestazione è stata convocata l'8 luglio e bisogna andarci. Il leader plebiscitario Veltroni dice che si tratta dei soliti quattro gatti. Su Veltroni non c'è altro da aggiungere al commento di Altan: - Si manifesta in autunno. - A che ora? La ragione per cui non si arriva alla quarta settimana è che tutti i settori della nostra società, compresi tutti quelli che dovrebbero svolgere attività di controllo, sono corrotti. La ragione per cui stiamo male e staremo peggio è che siamo governati da ladri. È grazie alle intercettazioni che sono state fermate le scalate alle banche da parte di Berlusconi, della Lega e del Pd, grazie alle intercettazioni e soprattutto grazie al fatto che siano state rese pubbliche a mezzo stampa Fazio è stato costretto a dimettersi e ora ci troviamo con Draghi che è onesto e capace. La violazione della privacy è già punita dalla legge, Anna Falchi ha avuto giustizia. Gli italiani continuano ad essere truffati dalle banche, dai partiti, dall'ultimo arrivato come Fiorani che con in tasca decine di milioni di euro rubati alle vecchiette che poi votano Berlusconi, ci saluta dai canali Mediaset, sempre educativi, ballando a torso nudo a casa di Lele Mora.

Sabina Guzzanti
03 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Maria Laura Rodotà. Dalla parte di Mara. Smettiamo di insultarla
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:44:31 am
Dalla parte di Mara

Colpe non sue

Smettiamo di insultarla


Carfagna come Lewinsky? Carfagna troppo intercettata (si dice)? Carfagna deve dimettersi? Mah. Ieri tutti i mali del Paese parevano riconducibili a Mara Carfagna. Sospettata non di corruzione, non di associazione mafiosa, non di aver pagato testimoni ecc.; ma di aver fatto conversazioni arrischiate al telefono con l'attuale premier.

Il premier l'ha nominata ministro delle Pari opportunità. Nel ruolo non ha molti fans, dicono i sondaggi, neanche tra gli etero. Tra i gay va peggio, non patrocina iniziative, ha ritirato i fondi per una ricerca sull'omofobia, sforna opinioni discutibili. Probabilmente è un ministro sbagliato al posto sbagliato. Secondo i critici del governo Berlusconi, non l'unico. Ma è un'ex ragazza tv, le sue foto osé sono ovunque, la si può sfottere, la si può insultare. Lo ha fatto tra gli altri Massimo Donadi dell'Idv, che dipietreggia senza il talento del leader: «E se Bill Clinton avesse fatto ministro Monica Lewinsky?».

Risate, anzi no. «Il dirimente tra pubblico e privato nel caso di un capo di governo è molto labile», ha dipietrato Donadi. E' vero. Ma è labile anche il «dirimente» tra il fare una battaglia politica e l'offendere una donna, stavolta. Perché, se usciranno le intercettazioni, e anche se ne uscisse un Berlusca poco prestante (ma no), lui farà la figura del simpatico mascalzone. E se ha aiutato qualche ragazza ambiziosa, vabbé, si sa che capita. Non sarà mica lui a doversi dimettere, non in Italia. In caso dovrà andare via Carfagna. Anche se, in plausibile sintesi, Carfagna, come altri ministri ed esponenti Pdl, ha dato molta retta al premier e ha poi colto un'opportunità professionale. E Berlusconi è com'è. Un italiano vero; ha un debole per ragazze e bagatelle. Ma se insorgono difficoltà (una moglie, un processo) non si dispera se il pubblico ludibrio cade sulla ragazza. Anzi: la ragazza/e, in questa fase delicata tra norma bloccaprocessi e processo Mills, potrebbe servire a lui da diversione mediatica. Magari non voluta, certo seguitissima.

Fornisce attenuanti, poi: se, come ha titolato Libero, per Berlusconi , rispetto al resto è un guaio veniale. Così, come in un varietà di epoca Fininvest, si distrae lo spettatore da uno show malmesso puntando sulle grazie della soubrette. Ma la colpa non è della soubrette; né della ministra. Smettiamo di insultarla; pensiamo cosa fanno tanti uomini ambiziosi, per compiacere un potente, in genere restando vestiti (in genere, di peggio).

Maria Laura Rodotà


04 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: CHIARA SARACENO La leva del reddito in mano alle donne
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 05:04:58 pm
5/7/2008
 
La leva del reddito in mano alle donne
 
 
 
 
CHIARA SARACENO
 
L’aumento del costo della vita e la crisi legata alla vicenda dei mutui colpiscono un po’ dappertutto i redditi delle famiglie, non solo in Italia. Ma i dati appena pubblicati dall’Ocse nell’Economic Outlook del 2008 segnalano che le famiglie italiane hanno meno risorse che altrove per far fronte all’erosione del loro reddito, per tre motivi principali.

In primo luogo sia il tasso di occupazione che soprattutto quello di attività femminile nella fascia di età 25-54 anni sono tra i più bassi nei paesi sviluppati: rispettivamente il 59,6% e il 64,1%. In Francia le cifre sono rispettivamente il 76,4% e l’82,6%, in Germania il 73,6% e l’80,3%, in Spagna 65,7% e 72,7%. Più che la disoccupazione femminile, è l’assenza dal mercato del lavoro ad essere problematica. Solo Turchia, Grecia, Messico e Corea presentano tassi di attività femminile per questa fascia di età così bassi. Significa che in molte famiglie non è presa neppure in considerazione, per vincoli culturali, ma anche organizzativi e di mancanza di servizi, la possibilità di aumentare il numero dei percettori di reddito.

È un fenomeno particolarmente forte tra le persone e le famiglie a bassa istruzione e nel Mezzogiorno, ovvero tra i gruppi sociali maggiormente vulnerabili alle scosse economiche. È, inoltre, un fenomeno che sembra tornato ad aumentare negli ultimi anni e che si nasconde sotto l’apparente dato positivo della diminuzione della disoccupazione, che perciò, specie nel caso delle donne, e specie nel Mezzogiorno, non dovrebbe essere preso come l’indicatore più significativo di tensioni sul mercato del lavoro. Non va, per altro, trascurato che le donne che lavorano pagano un prezzo, non solo in termini, spesso, di doppio carico di lavoro, pagato e non, ma anche perché il loro lavoro è pagato meno di quello degli uomini, tanto più quanto più le donne sono istruite. L’istruzione sembra infatti avere un effetto contraddittorio per le donne: è il passaporto per entrare e rimanere nel mercato del lavoro; ma amplia il grado di disuguaglianza retributiva. È un fenomeno presente anche negli altri paesi, ma che in Italia sembra particolarmente accentuato. In secondo luogo, i salari per ora lavorata sono più bassi della media OCSE (solo alcuni paesi dell’ex blocco comunista hanno redditi inferiori). Ciò spiega perché, nonostante in media chi lavora in Italia lo faccia per più ore che in altri paesi (di nuovo, solo i paesi dell’ex blocco comunista e il Messico hanno orari più lunghi), i salari medi italiani siano più bassi, anche in termini di potere d’acquisto. Ci sarà un problema di produttività, come si è detto in questi mesi, ma certo non di orari di lavoro più corti, come pure si è detto in questi mesi.

Infine, circa un quarto di giovani (una quota raggiunta solo da Grecia e Corea), di figli cioè, risulta stabilmente inattivo nei cinque anni che seguono la fine della scuola, rimanendo quindi a carico della famiglia. Si tratta in maggioranza di donne, ma non solo. A questi si aggiungono coloro che hanno un lavoro precario e/o part time, e quindi continuano ad essere parzialmente dipendenti economicamente. Questi tre dati segnalano che per sostenere il reddito delle famiglie non è la leva fiscale - per altro, secondo gli ultimi annunci di Tremonti, rimandata a tempi migliori - lo strumento principale. Occorre aumentare i salari reali e occorre aumentare il numero di occupati, con l’effetto per altro positivo di aumentare la base imponibile. Soprattutto occorre sostenere l’offerta di lavoro femminile, riducendo i tassi d’inattività. Per far questo occorre evitare di creare disincentivi (come avverrebbe se si introducesse il quoziente famigliare) e investire in servizi, oltre che in istruzione e infrastrutture locali. Prima che qualcuno lamenti che ciò costa, ricordo che ormai è stato da molti dimostrato che l’aumento di occupazione femminile non aumenta solo la base imponibile, ma anche la domanda di lavoro, creando un indotto da far invidia alla Fiat dei tempi d’oro.
 
da lastampa.it


Titolo: "Anfibi e diplomazia sono una donna Ogm"
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 05:06:30 pm
5/7/2008 (7:22) - PERSONAGGIO - MARINA CATENA DA BRUXELLES AL FRONTE DEL LIBANO

"Anfibi e diplomazia sono una donna Ogm"
 
La prima italiana tenente racconta le sue missioni: «Ho dovuto marciare con 30 chili in spalla e dividere il bagno con dieci persone»

GIORDANO STABILE


La ragazza coi capelli lunghi al vento, in tailleur e con una cartellina in mano, lo sguardo rivolto a Bernard Kouchner e Kofi Annan che camminano davanti a lei all’aeroporto di Pristina, è la stessa con il basco e la tuta mimetica tra i soldati Onu in Libano. E stanno anche facendo lo stesso lavoro. In queste due foto di Marina Catena, tenente della Riserva selezionata dell’Esercito italiano e funzionario del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, è riassunta una delle sfide più difficili affrontate dalla comunità internazionale negli ultimi due decenni: le missioni di pace, la ricostruzione degli «Stati falliti» distrutti dalle guerre civili. Guerre asimmetriche che non si possono chiamare guerre, soldati che si devono inventare sul campo una professione che ancora non esiste, diplomatici costretti a confrontarsi con le durezze della realtà lontani dalle stanze ovattate delle riunioni. In più, una sfida affrontata da una donna, in un mondo di uomini.

«Sono un ogm - scherza il tenente Catena, nata a Ortona nel 1968 -, metà soldato, metà diplomatica. Ma credo che l’esperimento sia riuscito. Avevo in mente la carriera militare fin da ragazza, fin da quando per trovare ispirazione per un tema sull’eroismo ero andata al cimitero canadese di Ortona, 1600 ragazzi morti per liberarci dai nazisti. Ma allora era semplicemente proibita, per le donne». Una laurea in Scienze politiche alla Luiss di Roma, un primo lavoro come hostess per Air France («mi vedevo comunque in una dimensione senza frontiere»), poi uno stage alla Commissione europea a Bruxelles e l’incontro con Bernard Kouchner, attuale ministro degli Esteri francese, «l’inventore del concetto di ingerenza umanitaria». Alla fine però Marina Catena ce l’ha fatta, ha scommesso sul tempo e ha vinto: è stata tra le prime «ufficialesse» dell’Esercito italiano. Tra le prime a scontrarsi con i riti e le assurdità della vita militare: lucidare gli anfibi, rifare il «cubo» (il letto) con precisione geometrica, «pompare», fare a gara di piegamenti sulle braccia. Tutto raccontato, con divertimento, nel suo ultimo libro, «Una donna per soldato» (Bur), e ampiamente ripagato dalla sua prima missione da tenente, in Libano, come «country advisor», in pratica un consigliere politico nell’intricato puzzle politico nel Paese dei Cedri. Ricordate quel film con Demi Moore? A un certo punto il comandante si rivolge al soldato Jane e le dice: «Vuole che la tratti come i suoi colleghi uomini? Bene, ma non sono sicuro che le piacerà».

Vita dura. Jogging con gli implacabili e inossidabili paracadutisti della Folgore, briefing estenuanti, «in cui ho imparato a spiegare in mezz’ora come funziona il sistema politico libanese a trenta ufficiali coreani. Ho perso dieci chili, mi sono abituata a condividere il bagno con le altre commilitone, a marciare sotto il sole con trenta chili di equipaggiamento». Ma soprattutto ha imparato ad amare i libanesi. «È un amore ricambiato, si sentono simili a noi, idealizzano il nostro Paese. È un popolo coraggioso, che si rialza ogni volta». E le donne libanesi? «Si sono innamorate subito dei nostri soldati e li hanno eletti i più belli di Unifil. Sognano di sposarsene uno, non sanno che i contatti sono proibiti. Ma c’è una cosa forse più importante. Vedere noi donne soldato, donne ufficiali che danno ordini agli uomini. È una vera e propria scossa culturale». Sempre positiva? «Le missioni di peacekeeping mettono in contatto due mondi diversi: ma non è uno scontro di civiltà, credo che sia uno scambio fertile, una contaminazione». A Tibnin, in Libano, le soldatesse erano riunite in una squadra speciale, il Team Delta, che aveva proprio il compito di dialogare con la popolazione femminile. «Abbiamo scoperto che, al di là delle apparenze e dell’abbigliamento, anche le donne sciite, nel Sud, non sono così sottomesse. Credo nei cambiamenti. In Kosovo abbiamo ottenuto che un terzo delle parlamentari fossero donne».

Il ricavato di «Una donna per soldato» sarà devoluto proprio all’orfanotrofio femminile di Tibnin. «Credo che se fossi un giovane oggi e leggessi questo libro, correrei ad arruolarmi - conclude il tenente Catena -. Quando sei in missione, in questi posti, ti senti sfiorato dalla storia. E nel tuo piccolo, contribuisci anche a farla».

da lastampa.it


Titolo: Un Panorama agghiacciante
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2008, 09:28:10 pm
Un Panorama agghiacciante

Dijana Pavlovic


«Ho rubato un orologio / e l’ho messo sotto le costole / per far sì che il mio petto non sia vuoto / per far sì che dentro non ci passi il vento. / Lo puoi sentire proprio bene come batte sotto la camicia / se pensi che sia il cuore ti sbagli. / Io il cuore ce l’ho in gola da quando sono nata».

È una poesia di un poeta serbo, Miroslav Antic. Avere il cuore in gola è lo stato d’animo di tutti i bambini Rom che vivono in Italia e che non rubano. Ma ci sono altri bambini che stanno male in questo Paese. Due esempi.

Palermo: mi racconta un’amica che lavora in una Fondazione antimafia che per una recita in una scuola di Palermo hanno proposto un tema sulla mafia, ma è stato rifiutato, allora hanno fatto un sondaggio tra i ragazzi su che cosa volevano rappresentare. Risultato: tutti i ragazzi, nessun escluso, volevano mettere in scena una rapina in banca e uccidere i poliziotti.

Napoli: le maestre delle scuole di Ponticelli hanno proposto ai bambini un tema su quello che è accaduto nei campi Rom. Risultato: nei temi e nei disegni si inneggia al rogo dei campi a cui molti di loro addirittura hanno partecipato.

Di chi sono figli questi bambini? Non solo dei loro genitori naturali, ma anche di Maroni e della “cultura” delle sue camice verdi che percorrono questo Paese in ronde minacciose. E sono anche figli di chi, sull’ultimo numero di Panorama, criminalizza un intero popolo con la foto di un bambino rom e il titolo: «Nati per rubare». Ricorda il passato e riviste come «La difesa della razza».

La politica di Maroni, condannata dalla comunità internazionale, dalla chiesa e dall’associazionismo, ha bisogno dell’appoggio della comunicazione. E allora ecco che scoppia il caso dei bambini “nati per rubare”, proprio nel momento giusto.

Tante volte negli ultimi anni mi sono sentita impotente quando ho incontrato situazioni di abuso nei confronti dei minori rom e le ho denunciate alla polizia e agli assistenti sociali. Ho combattuto per un anno perché un bambino venisse tolto ai genitori e messo in un ambiente protetto perchè subiva violenze in famiglia. Mi è stato sempre risposto che i bambini rom non vengono presi nelle comunità perché tanto scappano sempre, per loro non c’è niente da fare.

E poi ci sono esempi eclatanti che sono sfuggiti a Panorama: per esempio a Rho dei bambini rom hanno telefonato al Telefono Azzurro perché i loro genitori li volevano costringere a elemosinare. Qualcuno si è occupato di questo caso e ha cercato di capire le ragioni di questo gesto? Nessuno, perché pubblicizzare un esempio di consapevolezza frutto di una situazione positiva di un campo regolare, nel quale i bambini vanno a scuola, contrasta con il pregiudizio razzista e con la necessità di sostenere una politica che crea un’emergenza inesistente per nascondere i problemi ben più seri e profondi di un paese in crisi.

Io vengo da un Paese devastato da guerre civili, bombardamenti, dittature e libertà negate - di infamie ne ho viste tante! Ma speculare in questo modo sui bambini è qualcosa di più di un’infamia, è un crimine morale.

Nessun bambino è nato per essere ladro, mafioso o assassino. Bisognerebbe proteggerli tutti, dai loro genitori e da questa politica barbara che non si fa scrupoli di usarli per interessi di bottega e fare in modo che nessuno di loro abbia il cuore in gola: né quelli di Palermo, né quelli di Napoli, né quelli Rom, né nessun altro.

dijana.pavlovic@fastwebnet.it



Pubblicato il: 06.07.08
Modificato il: 06.07.08 alle ore 10.00   
© l'Unità.


Titolo: Eluana, tra diritto e medicina
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:18:31 pm
Eluana, tra diritto e medicina

Carlo Alberto Defanti*


È stata resa pubblica mercoledì l’attesissima sentenza della Corte di Appello di Milano sul caso di Eluana Englaro. La sentenza è stata all’altezza della sfida che il caso pone da anni al diritto del nostro Paese. Infatti la Corte di Appello ha accolto le due raccomandazioni formulate dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2007 e ha concluso da un lato che, sulla scorta degli atti, è possibile affermare che lo stato vegetativo in cui versa Eluana è irreversibile (in parole povere, che ella è e resterà in futuro completamente priva di coscienza), e dall’altro che la volontà presumibile di Eluana è conforme alla ricostruzione che il padre e tutore Beppino ne ha fatto sin dalla sua prima istanza di sospensione delle cure. In particolare è stato dato grande rilievo alle testimonianze concordi rese alla Corte dalle amiche di Eluana.

Le due sentenze hanno un carattere profondamente innovativo perché affermano due principii fondamentali: il primo è che nessun trattamento medico è giustificato in assenza del consenso informato del paziente, consenso che può essere reso direttamente o - in caso di impossibilità - ricostruito a posteriori attraverso le testimonianze delle persone a lui vicine, dall’altro che il diritto all’autodeterminazione prevale sul diritto alla vita quando essi si trovino in conflitto tra loro. Questo per l’aspetto giuridico, ma che dire sotto il profilo medico? In parole semplici, Eluana ha subito, nel lontano gennaio 1992, un gravissimo trauma che ha comportato la distruzione di gran parte del suo cervello e in particolare delle aree corticali che sostengono la coscienza. In altri tempi il processo del morire, iniziato dal trauma, si sarebbe concluso in poche ore, ma non fu così perché, trasportata in ospedale in stato di coma, ella fu sottoposta alle misure di rianimazione nella speranza che un recupero almeno parziale fosse possibile. Ovviamente ella non poté acconsentire a queste manovre, che furono intraprese certamente in buona fede e nel suo supposto interesse. Va detto che fin da allora il padre fece presente che ella non le avrebbe volute nelle condizioni in cui si trovava, ma non trovò ascolto.

Che cosa accadde? Il processo del morire fu arrestato, ma purtroppo non si manifestò alcun recupero e da allora la giovane visse, sino ad oggi, completamente priva di coscienza, grazie all’alimentazione artificiale. Ora finalmente, grazie alla sentenza, la volontà di Eluana sarà rispettata e il processo del morire, congelato per così dire sedici anni fa, si concluderà. In quanto tempo?

L’esperienza internazionale dice che sono necessarie pressappoco due settimane, durante le quali Eluana non sarà abbandonata, ma anzi accudita con cure ancor più attente, volte a salvaguardare la sua dignità negli ultimi giorni di vita. La Corte si spinge fino a raccomandare che Eluana sia accolta in una struttura per malati terminali, cioè in un hospice, e anche a me questa raccomandazione sembra opportuna. Così avrà fine questa vicenda, che ha segnato in maniera indelebile il dibattito bioetica italiano.

Primario neurologo emerito Ospedale Niguarda, Milano

Pubblicato il: 11.07.08
Modificato il: 11.07.08 alle ore 13.21   
© l'Unità.


Titolo: Sabina Guzzanti. «Critico chi voglio. E la gente applaude»
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:43:35 pm
La lettera / sabina guzzanti

«Critico chi voglio. E la gente applaude»


Caro Direttore, per tutti quelli scioccati dalla stampa di questi giorni, voglio rassicurare: non siete impazziti e non sono nemmeno impazziti i giornali. La questione è molto semplice, questo sistema fradicio e corrotto vede nell'eliminazione del dissenso l'unica possibilità di salvezza. Scrive Filippo Ceccarelli su Repubblica in relazione al mio intervento a piazza Navona: «Nulla del genere si era mai visto e ascoltato a memoria di osservatore». Questa cosa, Ceccarelli, si chiama libertà. Non hai mai visto una persona che chiama le cose col suo nome, anche quelle di cui tutti convengono sia assolutamente vietato parlare, come l'ingerenza inaccettabile del Vaticano nella vita politica del Paese e nelle vite private dei cittadini italiani. Caro Ceccarelli, hai fatto un'esperienza straordinaria. Col tempo apprezzerai la fortuna di esserti trovato lì l'8 luglio.

Quello che hanno visto i presenti e gli utenti di internet è una piazza ricolma di gente, che è stata in piedi per tre ore ad ascoltare e ad applaudire entusiasta. Gli interventi più criticati dai media sono quelli che hanno avuto indiscutibilmente più successo. Nel mio intervento, al contrario di quello che tanti bugiardoni hanno scritto, gli applausi più forti sono stati sulle critiche alla politica del Vaticano e le frasi più forti fra quelle sono state applaudite ancora di più. Questa manifestazione è stata il giorno dopo descritta come un fallimento, un errore, un autogol. Stampa e tv hanno tirato fuori il manganello e con i mezzi della diffamazione, della menzogna e dell'insulto stanno cercando di scoraggiare chi ha partecipato, a continuare. Alcune ovvie piccole verità: — A sinistra si lamentano del fallimento della manifestazione quando l'unico elemento di insuccesso è costituito dai loro stessi interventi. Se non avessero parlato in tanti di insuccesso a dispetto dei fatti, la manifestazione sarebbe stata percepita per quello che è stata: un successone. — Berlusconi e i suoi sono furiosi per quanto è accaduto e il sondaggio che direbbe che Berlusconi ci ha guadagnato lo ha visto solo Berlusconi.

Quello che dice potrebbe non essere vero. — L'intenzione di espellere Di Pietro era già evidente da parte del Pd e non è per me e Grillo che i due si sono separati. Pare che Veltroni gli preferisca Casini. Non è una battuta. — Le parlamentari che hanno difeso la Carfagna sostenendo che io in quanto donna non posso attaccare un'altra donna, insultando me sono cadute in contraddizione. — Pari opportunità e Carfagna sono due concetti incompatibili come Previti e giustizia. — È falso che non si possa criticare il presidente della Repubblica. Si può e ci sono buone ragioni per farlo ad esempio impugnando il parere dei cento costituzionalisti sul Lodo Alfano. — È falso che non si possa criticare e attaccare il Papa. Si può e ci sono buone ragioni per farlo. Ho letto un po' dappertutto che il Papa sarebbe una figura super partes. Super partes non è uno che si schiera con tutte le sue forze su ogni tema, dalla scuola ai candidati alle elezioni, alla moda e alla cucina, con interventi spesso molto al di sotto delle parti, cosa su cui anche la Littizzetto, esimia collega, ha efficacemente ironizzato. — La reazione furibonda di tutto il mondo politico alle parole di alcuni liberi pensatori, dimostra che gli interventi fatti sono stati importanti ed efficaci. La repressione dei media rivela la debolezza politica di una classe dirigente che in entrambi i poli è nata a tavolino. Gli unici elementi che hanno una oggettiva radice popolare e sono rappresentati in Parlamento allo stato attuale, sono Lega e Di Pietro.

E crescono. Berlusconi e Pd calano vertiginosamente. — C'è un partito finto, il Pd, nato senza idee, tranne quella di fondere due partiti per ingrandirsi con lo stesso criterio con cui si accorpano le banche per essere più forti. Questo partito votato controvoglia dalla maggioranza dei suoi elettori si è rivelato fin dai primi passi un soggetto politico artificiale, che somiglia più a un «corpo diplomatico» che altro. Molti dei vip che lo hanno sostenuto ora sono colti da attacchi isterici constatando che non sta in piedi. Dall'altra parte ci sono delle idee che vogliono essere rappresentate e discusse. Idee davvero alternative a quelle del centrodestra. La qual cosa, nel momento in cui si cerca di costruire un'alternativa, ha la sua porca importanza e fa sì che queste idee vengano considerate oggettivamente interessanti dall'opinione pubblica. Per quanto riguarda l'annosa questione: «Può un comico fare politica?», si tratta anche qui di una domanda che non esiste in natura. È ovvio e tutti sanno che chiunque parli a un pubblico fa politica. È ovvio che la politica in una democrazia la fanno tutti. Ma la vera domanda che si pone è: può un comico ottenere molto più consenso politico di un politico? Può il discorso di un comico essere molto più politico di quello di un politico? I fatti dicono di sì e tocca abbozzare. Potete anche continuare a menare le mani, ma sarebbe meglio fare uno sforzo di comprensione. D'altra parte parlo per me ma credo anche a nome degli altri, le nostre idee sono lì e si possono usare gratuitamente. Approfittatene.

Sabina Guzzanti
11 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Si impicca, fu stuprata sei anni fa
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 09:09:13 am
12/7/2008
 
Si impicca, fu stuprata sei anni fa
 
 
 
 
 
GIOVANNA ZUCCONI
 
Ogni stupratore è sempre un assassino. Se anche la sua vittima continua a respirare, per anni o per decenni, ne avrà comunque uccisa la vitalità più intima. Lei sarà morta, pur vivendo.

Dopo Federica, e in fin dei conti allo stesso modo sia pure molto più lentamente, hanno ucciso Valentina. Ieri, a Torino. Aveva ventinove anni, stava per laurearsi in psicologia. È stata una viva-morta per sei anni, da quando un gruppo di sciagurati l’ha violentata. Ieri ha deciso di diventare una morta-morta, e si è uccisa. È una storia orribilmente dolorosa, anche solo da raccontare. Dice, la storia di Federica, che non è vero che il tempo guarisce e lenisce, né che ogni ferita prima o poi si cicatrizza: guariscono appunto le ferite, non la morte, neppure quella morte travestita di segreto e di vergogna che è lo stupro. Federica è stata strangolata, Valentina si è tolta il respiro in solitudine con una corda, e il suo strangolamento è durato sei interminabili anni.

Occorre forzarsi a immaginare quello che è disumano anche solo immaginare. Una catena di sofferenza che corre e correrà attraverso gli anni, le persone, le generazioni, con il tempo che la moltiplica anziché, come è comodo e pietoso credere, attutirla.

C’era, dunque, una ragazza di Casale Monferrato, con un padre pittore, una mamma, una sorella minore, un futuro normale. Sei anni fa, a Milano, lo stupro ad opera di quello che è fin troppo clemente chiamare «branco». Costringiamoci, per una volta, a figurarci di quei momenti il suo terrore, il dolore: a sentirlo nel nostro, di corpo, per quanto (troppo poco) sia possibile provare a condividere l’esperienza di un’altra persona.

Intorno a Valentina scatta la rete degli affetti, c’è una depressione e viene curata, c’è il tentativo di ricominciare altrove e viene comprata una casa, a Torino. In quella casa, ieri mattina, l’hanno trovata i suoi genitori. Ogni genitore sa che l’unico pensiero davvero impensabile è quello della morte di un figlio: e più ancora quello del suicidio di un figlio. Ogni genitore si concede di immaginarla e di immaginarlo, per esorcizzarli: minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sempre, in un esercizio perenne di allarme e di sollievo. Ma soltanto la madre e il padre di Valentina possono sapere come hanno resistito, in questi sei anni, all’ansia per una figlia tanto infragilita dalla brutalità. Avranno anche sperato, certo: negli psicofarmaci perché smorzassero, nel silenzio per cancellare lo stigma, e nella scelta degli studi di psicologia come reperimento di strumenti per aiutare se stessa e in futuro anche altri sofferenti.

Quel futuro non ci sarà, non per Valentina. Né si può chiamare «futuro» quello che toccherà ai suoi genitori, a loro volta vivi-morti per gli anni o i decenni durante i quali sopravvivranno a se stessi e alla loro bambina. Non è sempre vero che il tempo cura: il tempo trasmette il dolore, di corpo in corpo, di vita in vita. Qualche giorno fa, in un’intervista televisiva, la sorella di Rosaria Lopez, stuprata e uccisa al Circeo più di trent’anni fa, raccontava di essere fuggita da Roma, e di non avere mai smesso di piangere. E la sua ferita è diventata la ferita di sua figlia, perché non ha mai trovato le parole per raccontarle l’orrore di famiglia, e le ha riversato addosso un’apprensione mortifera.

Quegli stupratori che in una notte milanese hanno ucciso una ragazza, con una tortura durata sei anni, sappiano che fra anni e decenni continueranno a far soffrire i suoi genitori, sua sorella, i figli e le figlie non ancora nati di sua sorella, chissà quanti parenti e amici: tutti loro vittime. La violenza contagia, ed è ancora più odiosa se la si fa passare per il maschio sfogo di pochi attimi. Ora che è troppo tardi, se c’è una preghiera che ci sentiamo di rivolgere a un’eventuale entità misericordiosa, è che le vittime collaterali di questo crimine scoprano, almeno loro, che il tempo può cicatrizzare, e la vita essere vissuta da vivi.

da lastampa.it


Titolo: Eluana
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2008, 11:05:33 am
14/7/2008
 
Eluana
 
 
 
 
 
GUIDO CERONETTI
 
Sedici anni di trionfo scientifico: il coma protratto, l’alimentazione forzata, la coscienza sommersa - ma fino a che punto, e se davvero totalmente, chi può saperlo? - e c’è voluto un tribunale misericordioso per liberare quella sventurata ragazza Eluana da una così spietata galera. Ma sarà inevitabile il colpo di grazia clinico per scamparla da una pena ulteriore, piccola martire: la macchina che ci abbandona, come un arto amputato non lascia mai del tutto la presa, e in quel funesto vuoto subentrerebbero sintomi di lunga agonia... Che cosa stanno facendo degli esseri umani?

Che cosa stiamo facendo agli esseri umani?

E a questo punto, immancabile, si mette in moto l’ammonizione vaticana.

Colpe gravi: eutanasia, omicidio, soppressione di una vita... E qui, come sempre, le vie della semplice umanità e quelle della sofistica disumanità paludata di religioso (e perfino di conformità ai decreti divini) conoscono soltanto la Divergenza. Fai bene, padre carnale (non celeste, non Padre Santo) a dar retta alla voce imperiosamente muta di tua figlia, graziata finalmente da giudici compassionevoli, e a rigettare quell’altra, che in nome di una non-vita tecnologica di quel poco di materia assopita che resta di lei, ammonisce, si agita, ricatta moralmente, gelandoci il sangue da luoghi inferi e anticristici.
(La stessa voce che aveva negato all’ancor più infelice Welby la gentilezza estrema di un richiesto funerale in chiesa - memorabile infamia).

L’eterno contrasto tra la superiore legge della pietà di Antigone e il decreto arrogante e cieco di Creonte.

Pace a te, povera bambina addormentata, un fiore alle tue tempie.
 
da lastampa.it


Titolo: Si moltiplicano le occasioni turistiche per gruppi di ragazze
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 05:30:40 pm
CRONACA

Si moltiplicano le occasioni turistiche per gruppi di ragazze

Tante scelgono di partire con le amiche. E non sono single

In vacanza con le amiche Il successo dei viaggi "solo donne"

Non solo la notte. Anche il giorno viene vissuto in chiave femminile

"Finalmente siamo libere, nessuno che ti dica cosa fare"

 

dal nostro inviato JENNER MELETTI


RIMINI - Ballano da sole, le ragazze, sulla sabbia del Turquoise. In due file, come se giocassero a ruba bandiera, cinque da una parte, cinque dall'altra. Poi in cerchio. Ballano e ridono, sono ragazze felici. Hanno discusso un po', perché Manu voleva fermarsi a cento metri da qui, in piazzale Fellini, dove c'è la rassegna del Cartoon club, cartoni animati da tutto il mondo. Una bella tentazione. "Dai, fermiamoci a guardare i Simpson". "Manu, siamo venute a Rimini per fare baracca. Bart ce lo vediamo anche a casa". Ridono e ballano, le ragazze in vacanza. È l'una della notte, il pezzo di lungomare che va dal Grand Hotel al porto è tutto un tum tum di note sparate dai dj degli street bar. Non c'è più bisogno di salire sui colli, per bere e ballare. Sulla spiaggia ci sono queste discoteche all'aperto dove non c'è biglietto d'ingresso. Se vuoi stordirti un po', con 8 euro prendi un Mojito. Se vuoi arrivare all'alba, tiri avanti con le lattine di Red Bull, 5 euro. "Premetto che non sono gay - grida un presentatore - ma amo questo dj".

Sono tante, in riviera, le ragazze e le donne in vacanza da sole. A essere 'diverse' sono le coppie. I lui e lei che passeggiano tenendosi per mano (lei con la rosa comprata dal pakistano) non arrivano più da Bergamo o da Modena ma da Mosca, Praga, Budapest. Ci sono donne sole, coppie di donne, gruppetti di tre o quattro e vere e proprie compagnie. Le ragazze che ballano al Turquoise arrivano da Treviso. "Tre giorni tutti per noi e proprio qui sta il bello. Non hai orari, non hai il ragazzo che ti dice adesso facciamo questo e adesso facciamo quello e adesso smettila di bere e adesso andiamo a letto che è tardi". Manu ha vent'anni, Giorgi (in compagnia i nomi non hanno più il finale) uno in più. "Il mio Save fa quello che gli pare. Va con gli amici a cena e in vacanza in Marocco, sta via quattro giorni per il raduno degli alpini, insomma è maschio e fa come tutti gli altri. Adesso lo facciamo anche noi. Io non so se mi sposo. Certo, non voglio fare la vita da moglie ancora prima di andare davanti a un prete".

Pina colada, Caipirinha, Coca cola, Margarita, bottiglietta di acqua naturale "Sono tre anni che ci facciamo almeno una vacanza assieme, finalmente libere da tutto. L´anno scorso siamo state a Barcellona". Nell´altro street bar, il Coconuts, ci sono i ballerini su un cubo e i divani come in un privè di discoteca. Un altro cubo è riservato ai clienti, e c'è chi a una certa età cerca di digerire il fritto misto dondolandosi alla ricerca del ritmo perduto. Anche qui, sul lungomare, bottiglia di birra o vodka in mano, ci sono i 'Gordo' alla ricerca di qualche preda. "Ma se stai in compagnia delle altre - dice Manu - non hai problemi. I rischi ci sono sempre e allora, anche quando sei qui in baracca, bisogna usare la testa".

È iniziato nel 2000, il boom delle donne sole in vacanza, e non si è mai interrotto. E allora c´è chi ha fiutato l´affare e si è attrezzato, offrendo guide per viaggi al femminile, spiagge riservate e anche hotel per la sosta delle nuove viandanti. "Le ragazze viaggiano e vivono assieme - dice Asterio Savelli, docente di sociologia del turismo nell´Alma Mater bolognese - perché così si sentono dentro a una bolla di protezione. Fra loro c´è un 'idem sentire' che crea sicurezza. Stanno bene anche perché viene meno quella tensione che si genera ogni volta che maschi e femmine si incontrano. Certo, non c´è chiusura verso l´altro sesso. Ma la donna si sente meglio se può affrontare questo confronto partendo da una base di sicurezza, quella bolla ambientale che può costruire solo assieme alle sue amiche. La vacanza è una micro società in viaggio. I maschi sono sempre partiti in gruppo per andare a vivere esperienze e avventure in terre lontane. La novità è che a viaggiare oggi sono anche le donne".

Viale Vespucci non è più la strada dei vitelloni, che si sedevano nei bar e caffè all´aperto, aspettavano il passaggio di qualche ragazza (tedesche e svedesi, le più ambite) e si accodavano come in processione. Adesso anche al Mucho Macho ragazze e giovanotti stanno divisi come fossero in classi separate. Proprio di fronte, il mitico dancing Embassy è chiuso e quasi diroccato. Qui cantava Silvio Berlusconi (ma c´erano anche Mina e Fred Buscaglione). Erano i tempi di "Signorina, permette questo ballo?". Adesso sono le ragazze che (alle 2 della notte) si alzano dalle poltroncine in vimini del Mucho Macho e vanno ad abbordare i ragazzi. "Dove si può mangiare una buona pizza?".

Ragazze che non sono padrone soltanto della notte. Già al mattino si stendono sui lettini della 'spiaggia rosa', bagno riservato alle donne sulla spiaggia di Riccione. Tanto di cartelli con 'Ingresso vietato agli uomini', lettini, sdraio, ombrelloni tutti colorati di rosa. A inventare questa spiaggia solo per donne (ma a Trieste il bagno Lanterna divide con un muro i maschi dalle femmine già dai tempi dell´imperatore Francesco Giuseppe) è comunque un uomo, Fausto Ravaglia, bagnino 'da sempre'. "Qui le donne hanno un pezzo di spiaggia tutto per loro e lo spazio per parlare, ascoltare musica, farsi belle con massaggi, saune e parrucchiere e soprattutto per restare sole". Su una lavagna, i messaggi di chi è stato qui. "Da Mantova con furore", hanno scritto Ede, Cry, Fede, Ila, Cinzia. "Arrivano compagnie di ragazze che stanno qui tre giorni, per l´addio al nubilato. Tre giorni di festa al riparo da occhi indiscreti e soprattutto senza uomini.
Tre giorni di festa al riparo da occhi indiscreti e soprattutto senza uomini. Dicono che stanno molto bene".

Il 'divertimentificio' della Riviera romagnola è ormai un ricordo. "Secondo me - dice Piero Leoni, docente di sociologia del turismo - è addirittura archeologia. Rimini scoprì lo sballo, la trasgressione, la droga quando, causa l´eutrofizzazione, si scordò di avere il mare. Oggi la riviera propone atmosfere più sicure che facilitano l´incontro. Non a caso è una meta scelta dalle donne che, secondo il primo report 2007 dello studio Ambrosetti, da sole o in compagnia di altre donne, rappresentano il nuovo trend del turismo contemporaneo. Con la 'notte rosa' la settimana scorsa abbiamo accolto in riviera centinaia di migliaia di donne. Fino all´alba ci sono stati spettacoli, balli, fuochi di artificio e non c´è stato nessun incidente. La nuova alba è stata accolta con un concerto del pianista Ludovico Einaudi. Dieci anni fa, all´alba, arrivavano in spiaggia ragazze e giovani stravolti dalla notte in discoteca".

"Le donne vanno in vacanza da sole - dice Andrea Macchiavelli, docente di economia del turismo nell´ateneo di Bergamo - perché grazie alla parità e all´emancipazione possono comportarsi come gli uomini. Anche per loro la vacanza deve essere una ricerca di diversità rispetto alla vita normale. C´è chi cerca sballo e trasgressione, c´è chi passa una settimana in monastero. L´importante è cambiare vita e cercare relazioni, precarie ma con il segno della novità".

Proprio ieri, a Santarcangelo di Romagna, è stata inaugurata la 'guest house' l´Albero, piccolo albergo "con un´attenzione particolare per le donne". Patrizia Garuti, la giovane proprietaria, tenta questa avventura dopo avere girato mezzo mondo. "Nessuno chiede a un uomo che si presenta solo in un albergo o in un ristorante dove sia sua moglie. A una donna sì - dice - Se viaggi da sola ti senti osservata, sei vista con curiosità, devi stare attenta. Quante bugie ho raccontato. Dovevo partire con il mio fidanzato ma si è ammalato. Mio marito ha perso l´aereo, arriverà domani. Ecco, io voglio che nella mia 'guest house', la casa dell´ospite, la donna che arriva sola o in compagnia non si senta sotto osservazione o inquisita. Voglio fare sentire a casa chi a casa non è. Si può venire a Santarcangelo per turismo, per lavoro, per fare un corso di teatro. Non farò nessuna domanda. Dirò solo che qui ci sono i letti, la cucina, il computer, una piccola biblioteca. Se pensano di stare bene, la porta è aperta e i prezzi sono modesti". Marcela Serrano ha scritto 'L´albergo delle donne tristi', ambientato in un´isola del Cile dove le donne in crisi cercano di ricomporre i frammenti della propria esistenza. "Io vorrei che il mio piccolo hotel, pian piano, diventasse 'L´albergo delle donne felici'".

(15 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: "Io, come Eluana, vi prego di tacere"
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 09:38:09 am
18/7/2008 - LETTERA
 
"Io, come Eluana, vi prego di tacere"
 
 
 
MARINA GARAVENTA
 
Caro Direttore,
sono Marina Garaventa, ho 48 anni e sono, più o meno, nella stessa situazione in cui era Piergiorgio Welby: come lui, ho il cervello che funziona benissimo, diversamente da lui, posso ancora usare le mani e la mimica facciale.

Come ho seguito il caso Welby, esprimendo la mia opinione, ho seguito il caso, ben più grave del mio, di Eluana Englaro e mi sono «rallegrata» della sentenza che ne sanciva la conclusione, sperando che nessuno si permettesse di intromettersi in un caso così delicato e personale. Non avevo la benché minima intenzione di dire o scrivere alcunché fino all’altra mattina alle 7 quando, ascoltando i primi notiziari, ho sentito tante «cazzate» che mi sono decisa a dire la mia. Io sono abituata a esprimere opinioni, dare giudizi e consigli solo su cose che conosco bene e che ho vissuto personalmente e mi piacerebbe tanto che tutti si regolassero così, evitando di aprire la bocca per dare aria a sentenze basate su mere teorie filosofiche e moral-religiose.

Con queste parole mi riferisco, in particolare, alle recenti «sortite» di alcuni personaggi noti che, in un delirio di onnipotenza, dicono la loro, scrivono lettere patetiche e organizzano raccolte pubbliche di bottiglie d'acqua: le bottiglie, a Eluana, non servono perché sia l'acqua sia la nauseabonda pappa che la tiene in vita e che anch'io ho provato per mesi, le arriva attraverso un sondino. Bando quindi ai simbolismi di pessimo gusto di Giuliano Ferrara, stimato giornalista, e al paternalismo di Celentano, mio cantante preferito. In quanto al mio esimio concittadino, il Cardinal Bagnasco, sarebbe cosa buona e giusta che, prima di esprimersi su quest'argomento, avesse la bontà di spiegarci perché a Welby è stata negata la messa e, invece, il «benefattore» della Magliana, Renatino De Pedis, è sepolto in una nota chiesa romana.

A questo punto, però, siccome neppure a me piace fare della teoria, propongo a questi signori di prendersi un anno sabbatico e offrirlo a Eluana: passare con lei giorni e notti, lavarla, curarle le piaghe, nutrirla, farla evacuare, urinare, girarla nel letto, accarezzarla, parlarle nell'attesa di una risposta che non verrà mai. Sono disponibile anche a mettermi a disposizione per quest'esperimento ma, devo avvisare tutti che, per loro sfortuna, io sono sicuramente meno docile di Eluana e se qualcuno, chiunque sia, venisse per insegnarmi a vivere, lo manderei, senza esitazione, «affanc...».

A sostegno di quanto detto finora, aggiungo che, nonostante io non possa più camminare, parlare, mangiare, scopare e quant'altro, amo questa schifezza di esistenza che mi è rimasta e mai ho avuto il desiderio di staccare la spina del respiratore che mi tiene in vita. Nonostante tutte le mie limitazioni, io ho una vita intensissima: scrivo su alcuni giornali locali, tengo un blog (www.laprincipessasulpisello.splinder.com), ho un'intensa vita di relazione e, in questo periodo, sto promovendo un mio libro che narra di questa mia splendida avventura. («La vera storia della principessa sul pisello», Editore De Ferrari , Genova).

Sicuramente qualcuno penserà che voglio farmi pubblicità e, in un certo senso, è vero: io voglio, per quanto posso, dar voce a tutti quelli che sono nella mia condizione e non sanno o non possono dire la loro.
Parliamoci chiaro: i malati come me, come Welby ed Eluana, sono già morti! Sono morti il giorno in cui il loro corpo ha «deciso» di smettere di funzionare e hanno ricevuto dalla tecnologia, che io ringrazio sentitamente, l'abbuono, il regalo di un prolungamento dell'esistenza. Ma come tutti i regali, anche questo vuol essere contraccambiato con merce altrettanto preziosa: una sofferenza fisica e morale che solo una grande forza di volontà può sopportare. Nel momento in cui il gioco non vale più la candela il paziente deve poter decidere quando e come staccare la spina. Lo Stato deve garantire la miglior vita possibile a questi malati, tramite assistenza, supporti tecnologici e contributi ma non può arrogarsi il diritto di decidere della loro vita sulla base di astratti principi etici, molto validi per chi sta col culo su un bel salotto, ma che diventano assai stucchevoli quando si sta nel piscio. Eluana non può più decidere ma chi le è stato vicino, nella gioia e nella sofferenza, chi l'ha conosciuta e amata non può dunque decidere per lei, mentre possono farlo persone che, fino a ieri, non sapevano neppure che esistesse?

Io sono pronta a chiedere umilmente perdono se questi signori mi diranno che, nella loro vita, si son trovati in situazioni come la mia o come quella di Eluana e delle nostre famiglie ma, francamente, non credo che la mia ammenda sarà necessaria. Per chiarire meglio la mia situazione rinvio al link di un video: http://video.google.it/videoplay?docid=-8906265010478046915
Concludo ringraziandola e sperando che voglia dare voce anche a me che parlo con cognizione di causa e non per fare della filosofia.

da lastampa.it


Titolo: Linda Lanzillotta Non si può parlare di riforme con chi non riconosce l´unità..
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 11:23:36 pm
Linda Lanzillotta: «Non si può parlare di riforme con chi non riconosce l´unità nazionale»

Eduardo Di Blasi


«Il quadro politico è molto cambiato. Il numero fatto da Bossi rivela un´idea di Stato che non è quella che noi possiamo condividere». Prima di entrare nel merito del disegno di legge Calderoli sul federalismo fiscale, l´onorevole Linda Lanzillotta, ministro degli Affari regionali nel passato governo Prodi, centra un punto politico: «Il federalismo fiscale noi lo vediamo come un sistema che dia sia al Nord che al Sud l´opportunità di crescere e di costruire il proprio modello di sviluppo e di competitività. Ovviamente imponendo al Sud la sfida dell´efficienza. Se però, invece, si parte da un´idea di rottura dell´unità nazionale, di cui non si riconoscono i simboli, come quello dell´inno o della Capitale, è chiaro che il confronto sul merito della riforma non è nemmeno avviabile».

Le riforme devono partire da una base condivisa...

«Il federalismo fiscale è un pezzo di un quadro di riforme istituzionali più ampio nel quale c´è la riforma del bicameralismo perfetto e l´introduzione del Senato federale. Se non c´è un´intesa sui fondamentali che sono il quadro di riferimento dentro cui il federalismo fiscale deve inserirsi, è difficile discutere di soluzioni tecniche».

Volendo entrare nel merito della proposta Calderoli?
«Mi sembra che Calderoli abbia definitivamente abbandonato il "modello lombardo". Vale a dire un sistema che determina le risorse che rimangono sul territorio a prescindere da quello che Regioni e enti locali debbono fare. Io ritengo, al contrario, che il volume delle risorse deve corrispondere al costo delle funzioni che quel livello istituzionale deve esercitare e gestire. Perché se queste risorse sono sovradimensionate è chiaro che non ce ne saranno nè per le altre regioni nè per le funzioni proprie dello Stato».

Lo Stato deciderà sui servizi essenziali: sanità, assistenza e istruzione...
«Noi diciamo anche il trasporto pubblico come "diritto alla mobilità"».

Apprezzate anche altro del disegno Calderoli?
«Il superamento del concetto della "spesa storica". Questa è la grande sfida del Mezzogiorno. Entro un determinato termine che la legge poi stabilirà in 3, 5 o 7 anni, questo costo dovrà corrispondere ai cosiddetti "costi standard" calcolati sulle prestazioni dei sistemi più efficienti. Si dovrà valutare la media dei costi, ma anche la media dei consumi. Ricordo che negli anni della giunta Storace nel Lazio si faceva una tac ogni 5 abitanti, quanto la media nazionale era molto più alta. Invece si rimborseranno i consumi sanitari che rientrano negli standard medi. Questo porterà complessivamente il sistema ad essere più efficiente. E quindi renderà il federalismo anche sostenibile sul piano fiscale. Perché se non facciamo un´operazione di razionalizzazione della spesa, il federalismo inevitabilmente comporterà un aumento della spesa e quindi della pressione fiscale. Da questo punto di vista è assolutamente in contrasto con questa impostazione l´ennesimo rifiuto di non fare la liberalizzazione dei servizi pubblici locali che è una forma per ridurre i costi e aumentarne la qualità».

Questa è una sua battaglia da anni...
«Sì, ma non è una battaglia ideologica. È una battaglia che sta tutta dentro l´attuazione del Titolo V che richiede per non far esplodere i costi che ogni livello istituzionale gestisca le proprie funzioni in modo efficiente e utilizzando una delle leve che sono nel Titolo V: la sussidiarietà. E la sussidiarietà non è solo quella verticale dallo Stato al Comune e alle istituzioni più vicine al territorio. Ma far fare all´economia e ai soggetti sociali, tutto quello che possono fare e che non necessariamente deve essere esclusiva dello Stato».

I sindaci lamentano che nella bozza Calderoli il loro ruolo scompare...
«È un sistema "regionecentrico", cioè tutto focalizzato sul ruolo della Regione che poi fa la perequazione tra i Comuni. Questo non lo condividiamo».

Dal punto di vista tecnico la bozza le sembra ricevibile?
«Naturalmente non mi è chiara la struttura, vale a dire la tipologia delle imposte, cioè quali sono i tributi. E, soprattutto, quali sono le prestazioni di cui viene garantito il finanziamento integrale in tutto il territorio nazionale, perché questo è un punto decisivo. Rappresenta la parità di diritti per tutti i cittadini ovunque essi abitino a prescindere dalla ricchezza dei territori».

D´altro canto essendo questa l´aria che tira sarà difficile sedersi a un tavolo con la Lega...
«Il problema è avere una visione condivisa dello Stato. Se questi valori vengono stracciati dal leader della Lega e ministro per le Riforme e per il federalismo, perché ricordo che Calderoli opera per supplenza ma il ministro titolare è Bossi, è difficile sedersi a un tavolo. Vorrei sapere gli altri partiti della maggioranza e dal Presidente del Consiglio quale idea dello Stato hanno».

Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 13.07   
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Titolo: L’orrore delle donne di Srebrenica
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2008, 10:46:28 pm
L’orrore delle donne di Srebrenica

Nuccio Ciconte


Finalmente l’Onu si salva l’anima e canta vittoria, sperando di far calare un velo pietoso sulla storia di Srebrenica e della guerra nei Balcani. L’arresto di Radovan Karadzic, dice il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, è «un momento storico per le sue vittime, che hanno aspettato tredici anni che fosse portato davanti alla giustizia». Chissà cosa ne pensano di queste parole Sceila, Azra, Alida, Mukelefa. Tutte donne di Srebrenica. Di altre non so più i nomi ma ne ricordo i volti devastati dal dolore, gli occhi persi, sprofondati nell’orrore. Giovani mogli appena diventate vedove, madri che hanno visto sgozzare i propri figli. Ragazze violentate e derise, stuprate perché di etnia e credo religioso diverso da quello degli aguzzini. La più grande e infame strage nel cuore dell’Europa dopo la Seconda guerra Mondiale. Una macelleria a cielo aperto: quasi ottomila morti, decine di migliaia di profughi. Non un fulmine a ciel sereno. Un massacro annunciato che la comunità internazionale (l’Onu, l’Europa, gli Usa, la Russia) non ha voluto o saputo evitare. Era luglio anche allora. Metà luglio del 1995. Srebrenica, che l’Onu aveva dichiarato «zona protetta», è messa a ferro e fuoco dalle truppe del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic. Radovan Karadzic, dal suo quartier generale di Pale (sulle alture di Sarajevo), segue in presa diretta tutte le fasi dell’assalto. È una partita scontata, il risultato è uno solo: la disfatta dei musulmani-bosniaci.

La popolazione di Srebrenica è stremata da anni di assedio, isolata e scarsamente armata. I resistenti sono spazzati via in poche ore. I Caschi Blu dell’Onu, che avrebbero dovuto proteggere la popolazione civile, hanno un solo obiettivo: salvare la propria pelle; molti si dileguano, altri si rinchiudono nelle caserme. Una pagina nera per l’Onu, una vergogna per i Caschi Blu olandesi. Chi sfugge al massacro vaga per giorni nelle campagne, nei boschi. Si cammina per ore, sotto un sole impietoso, senza cibo né acqua. Migliaia di profughi si trascinano dietro anziani e bambini. Gli uomini sono pochi. È una moltitudine fatta di donne, di ragazzini. Per tutti la meta è Tuzla, nel Nord della Bosnia, città controllata dalle truppe del governo di Sarajevo. È lì che l’Onu installa una tendopoli.


* * *

Srebrenica è chiusa alla stampa. Karadzic e Mladic non vogliono giornalisti tra i piedi, men che meno telecamere. Forse sperano, s’illudono, di poter in qualche modo nascondere o attutire l’impatto internazionale di quell’orrore. Da anni il mondo assiste impotente alla pulizia etnica nei Balcani. I due leader di Pale si muovono pressoché indisturbati grazie alla protezione del governo di Belgrado. Allora, perché non sperare di farla franca anche in questo caso? Il sodalizio con Slobodan Milosevic è molto forte. Anzi, c’è chi giura che i due macellai dei Balcani sarebbero solo dei burattini nelle mani dell’uomo che guida la Serbia. L’assalto di Srebrenica ha avuto la luce verde di Belgrado? Difficile dirlo. Il massacro nell’enclave musulmana, «zona protetta» dell’Onu, segna il punto più alto della strategia militare di Karadzic e Mladic, l’esibizione della massima potenza di fuoco e di efferatezza, ma anche l’inizio della loro sconfitta. Milosevic, da abile giocatore sul tavolo della diplomazia internazionale, capisce che è arrivato il momento di scaricare i due ingombranti alleati. L’occasione arriva pochi mesi dopo, il 21 novembre del ’95. Alla conferenza di Dayton l’uomo forte di Belgrado si traveste da agnello: scarica i «ribelli» serbi, si siede al tavolo dove si decide la spartizione dei Balcani, si offre all’occidente come uomo di dialogo, uomo di pace. «Time» gli dedica la copertina come uomo dell’anno: poi si sa come andò a finire con la guerra nel Kosovo. Questa però è un’altra storia.

* * *

Rileggo gli appunti di allora, per rinfrescare la memoria. È il 17 luglio, fa caldo e l’umidità toglie il respiro. I primi profughi li incontro lungo la strada, a dieci chilometri da Tuzla. C’è Sceila, venticinque anni, zigomi alti, occhi neri come la pece. Tiene in braccio una bambina, la stringe forte al petto, dondola i lunghi capelli corvini, canta sottovoce una nenia per la «piccola che dorme». Intorno, altre donne le dicono qualcosa, ma lei scuote la testa e riprende a cantare. Qualcuna la strattona forte per un braccio, ma lei sempre sullo stesso tono continua a cantare. Sceila, ci spiegano, è da due giorni che tiene attaccata a sé la sua unica figlia: la bambina, già malata, è morta durante la fuga di Srebrenica, ma lei rifiuta la realtà, si rifugia in un mondo tutto suo dove la piccola dorme tra le sue braccia.

* * *

La tendopoli di Tuzla accoglie i primi profughi, i funzionari delle Nazioni Unite e alcune organizzazioni non governative, lavorano allo stremo: una cucina da campo sforna i primi pasti caldi, centinaia di bottiglie di acqua passano di mano in mano. È una goccia nel deserto. Non c’è cibo né acqua sufficiente per sfamare gli oltre seimila disgraziati che affollano quest’aria scelta come campo, un’area assurdamente recintata in tutta fretta con il filo spinato. Un lager umanitario. Le tende sono bianche e blu. Come i colori dell’Onu. I colori della vergogna come senti dire da molti profughi. Come dargli torto? Da giorni si sapeva che le truppe di Madlic avrebbero sferrato l’attacco a Srebrenica: l’Onu non solo non ha fatto nulla per impedirlo, ma neanche si è data da fare in tempo per soccorrere quest’umanità in fuga. C’è rabbia, rancore, odio. Tutti vedono nei Caschi Blu i migliori alleati dei serbi, dei cetnici massacratori. Le testimonianze dei profughi sembrano le sceneggiature di film dell’orrore. Storie di violenza indicibile, ma qui non c’è finzione. Sono le donne a parlare, a raccontare al mondo quel che hanno visto, quello che hanno subito. Gli uomini sono pochissimi e anziani. Le agenzia di stampa internazionale dicono che almeno quattromila uomini sono in fuga da Srebrenica, vagano nei boschi per sfuggire alla truppe serbo-bosniache. «Non è vero - sentiamo ripetere più volte - abbiamo visto uccidere i nostri mariti, sgozzare i nostri figli. Morti, sono tutti morti». Solo molto tempo dopo il modo saprà che avevano ragione loro.

* * *

Alì non ha ancora compiuto quattro anni. Da quattro giorni non parla, rifiuta il cibo, beve solo un po’ di acqua. La sua storia me la racconta Azra Salchic, una vicina di casa. È lei che lo ha portato in salvo fino a Tuzla. La sua mente è devastata, dice la donna indicando gli occhi del bambino: «Ha visto cose mostruose, che la mente umana, seppur di un bambino, non può dimenticare». Alì era con la madre e i due fratelli, di 15 e 17 anni, quando nella loro casa sono arrivati i miliziani di Karazdic. Chiedevano oro, volevano soldi. Arraffano quel poco che trovano poi afferrano il ragazzo più grande lo trascinano davanti casa e lo sgozzano davanti a tutti. «Ridevano facendo roteare in aria il coltello rosso di sangue, dicevano alla donna: bevi il sangue di tuo figlio, solo così puoi salvare gli altri due». Il racconto di Azra si interrompe più volte. Tutt’intorno è radunata una piccola folla che ascolta in silenzio. Si sente solo il singhiozzo senza lacrime di alcune anziane donne. Alì è rimasto solo: anche la madre e l’altro suo fratello sono stati uccisi davanti ai suoi occhi.

* * *

La mia interprete è una giovane croata. Nazionalista tosta, detesta i musulmani più che i serbi. In macchina da Spalato a Tuzla, durante il lungo viaggio discutiamo e a volte litighiamo. L’odio etnico ha messo radici profonde. Mi spiega che i musulmani sono bugiardi per natura, mentono sempre, inventano stupri, a Sarajevo compiono stragi e poi accusano di volta in volta i serbi o i croati. Eppure nella tendopoli di Tuzla la sua sicurezza vacilla. Più volte non riesce a tradurre, s’interrompe, piange. S’immedesima nelle donne che ha davanti, prova lo stesso dolore, si scusa mentre il suo viso è solcato dalle lacrime.

* * *

Srebrenica del luglio 1995 è sinonimo di gente ammazzata, di cadaveri accatastati nelle fosse comuni. Ma non solo. C’è un altro capitolo odioso legato indissolubilmente alla logica della pulizia etnica e che riguarda lo stupro di centinaia di donne. Giovanissime ma anche donne più avanti negli anni umiliate, violentate perché bosniache, perché musulmane. Quante? Impossibile dirlo. Non ci sono cifre ufficiali attendibili. A Tuzla da una tenda all’altra i racconti degli stupri volano di bocca in bocca. Racconti agghiaccianti. Ci dicono delle "corriere dello stupro". Quei pullman che portavano lontano da Srebrenica centinaia di profughe. Pullman militari. Gli uomini di Karazdic vi facevano salire le donne, le portavano via dalla città distrutta e le abbandonavano a qualche decina di chilometri di distanza in mezzo alla campagna. Ma il trasporto era salatissimo. No le sopravvissute non dovevano spendere soldi per pare il biglietto. Il costo della corsa era uno solo: il loro corpo; violentate più volte magari dagli stessi aguzzini che avevano da poco massacrato i loro mariti, i figli, i fratelli, i genitori. Un orrore nell’orrore.

Pubblicato il: 23.07.08
Modificato il: 23.07.08 alle ore 8.13   
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Titolo: «Vi racconto mia figlia Eluana e il nostro patto»
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:19:12 am
«Vi racconto mia figlia Eluana e il nostro patto»

Beppino Englaro *


Vi parlerò di Eluana. Questo ho fatto, con le mie limitate capacità, per oltre sedici anni infernali: vi ho voluto parlare di lei. Questo potrà servire a capire nel profondo cosa la Corte d’Appello di Milano ha reso possibile, il 9 Luglio 2008, con la sua pronuncia, se qualcuno vorrà farsene un’idea precisa e consapevole. È evidente che chi non abbia conosciuto Eluana possa non comprendere il suo desiderio e possa non comprendere la mia ferma volontà di procedere verso la liberazione da tutto quello che lei avvertiva come una violenza: la continua profanazione del suo corpo patita per mani altrui, in una condizione di totale inconsapevolezza, impossibilitata ad esprimersi, a compiere un qualunque movimento volontario, incapace di avvertire la presenza del mondo e di se stessa. Questo è il contrario del suo modo di vivere, del suo stile di vita, che emanava da tutto quanto faceva: dai modi di atteggiarsi, di fare, dal suo stesso essere. Questo è quanto ha esplicitato anche nelle due concretissime occasioni in cui si è parlato della eventualità che poi le è capitata.

Questo è quanto è stato giustamente riconosciuto dalla Corte d’Appello di Milano che ha seguito, nel caso di Eluana, i criteri fissati dalla sentenza n. 21748 della Corte di Cassazione, che rendono lecita la sospensione del trattamento vitale in caso di stato vegetativo permanente: l’irreversibilità della condizione - "prolungatasi per un lasso di tempo straordinario" come ha scritto la Corte d’Appello - e la presunta volontà di Eluana, che era proprio quella riferita dal tutore e confermata senza esitazioni, dopo un attento e scrupoloso supplemento d’indagine, dal Curatore Speciale avvocato Franca Alessio.Ciò che ho più apprezzato di questo provvedimento è stato lo sforzo di comprendere Eluana per quello che era: una giovane informata e consapevole, con idee e principi personali pieni di valore, almeno per lei. Ho apprezzato la tutela delle scelte personali che la Magistratura ha messo in atto pronunciandosi, il rispetto per l’autodeterminazione, l’altissimo valore riservato alla persona che Eluana aveva manifestato di essere prima dell’incidente e alle sue riflessioni individuali. Come ho affermato in questi giorni, c’è da essere fieri di una Corte così. Su tale pronunciamento sono state avanzate obiezioni, remore che, come padre attento, come uomo umile, sento in profondità non riguardare il caso specifico, unico al momento, di mia figlia Eluana. La sua natura indomita la rendeva testarda, contraria alle imposizioni, straordinariamente consapevole ed era inoltre libera, libera di virtù congenita, libera come natura propria.

Con lei, fatta così, io avevo fatto un patto e l’ho rispettato. Ho rispettato e onorato la parola che avevo dato a mia figlia. Non ho tradito la sua fiducia e non potevo fare altrimenti. Non me lo sarei mai perdonato. Se Eluana non voleva intrusioni di sorta nella sua vita - non parliamo poi nel suo corpo! - fossero anche di carattere "terapeutico", se non voleva vivere una vita contrassegnata dalla mancanza della possibilità di vivere, gliene possiamo fare una colpa? La dobbiamo obbligare a subire oltraggi - credo che anche le terapie e gli atti di cura, se indesiderati, si trasformano in aggressioni ingiustificate alla propria integrità fisica - e a vivere inconsapevole ancora per tanti anni perché altri più di lei sanno cosa avrebbe dovuto desiderare? Non è un segreto che il mio pensiero personale coincide con quello manifestato da mia figlia. Forse per questo ho compreso, giustificato e protetto la sua volontà dal principio, senza mai alcun dubbio. Siamo stati condannati dalla stessa insopprimibile inclinazione alla libertà.

Ma se anche non avessi condiviso il suo giudizio sul valore da attribuire alla vita e alla morte, come avrei potuto, da padre, rassegnarmi nel vedere la sorte volgere proprio verso ciò che - i genitori, le sue amiche, le insegnanti lo sapevano - Eluana aborriva? Non è stato facile per me dover ripetere un numero spropositato di volte cosa diceva Eluana e chi era Eluana, prodigarmi nel chiarire che io davo solo voce a lei che non poteva più esprimersi. Se avesse potuto parlare ve l’avrebbe spiegato da sé. Eluana era per noi una perla rara, un inedito inebriante di indipendenza, autonomia e buonumore, caparbia e pestifera. Se non accettava compromessi quando non veniva trattata da persona libera e responsabile delle proprie scelte di coscienza, potevo io ignorare la sua natura? Fare finta che non mi fosse capitata in sorte una purosangue della libertà? Le molte persone che hanno conosciuto mia figlia hanno realmente compreso che con questo pronunciamento si stava compiendo la sua volontà. Veglierò su di lei e ne avrò cura come non ho mai smesso di fare da trentasette anni a questa parte, fino alla fine della sua vita, che continuerà nella nostra e nell’altrui memoria. Il sentimento assoluto che ho provato per lei dal nostro primo incontro non le verrà mai meno. Ho perso mia figlia già sedici anni fa, adesso le permetterò quello che hanno interrotto in passato, quello che hanno ostinatamente impedito, ad oggi, per seimilatrentasei giorni: morire per non continuare a subire un’indebita invasione del suo corpo e per non vivere una vita che aveva manifestato reputare indegna di lei.
*Padre di Eluana, socio della Consulta di Bioetica (Sezione di Milano)

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.54   
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Titolo: Due bimbe rom, un sabato di luglio
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 11:11:49 pm
Due bimbe rom, un sabato di luglio

Rosetta Loy


Vorrei parlare della fotografia di due coppie di piedi e di un uomo e una donna seduti un poco defilati sullo sfondo. Veniamo da un secolo, il Novecento, che ci ha abituato a cercare nel particolare la chiave per accedere alla verità nascosta sotto ineccepibili apparenze. Il primo a insegnarcelo è stato forse lo svizzero Morellini che riuscì a scoprire molti falsi in pittura attraverso l’analisi di particolari insignificanti: l’unghia di un mignolo, un ciuffo di capelli, l’ala di un fringuello. Il disegno di una pantofola. Ma ce l’hanno insegnato anche Conan Doyle e Sherlock Holmes sempre con la lente di ingrandimento a cercare quello che sfugge a occhio nudo.

La fotografia di cui voglio parlare è stata scattata una mattina di sole sulla spiaggia di Torrevegata vicino a Napoli, un sabato di luglio. La prima cosa che colpisce in questa fotografia sono quattro piedi che fuoriescono da due teli da spiaggia, uno verdolino e l’altro a disegni bianchi e blu. Quattro piedi divaricati. Forti. Ma anche morbidi, con ancora delle rotondità infantili. Piedi con la pianta rivolta al sole. Accanto un giovanotto in shorts blu e maglietta bianca ha il cellulare all’orecchio, probabilmente sollecita qualcuno a portare via i due corpi distesi sotto i teli. Ma lui è marginale alla foto. Centrali sono i piedi e la coppia in secondo piano, sullo sfondo. Sono un uomo e una donna seduti sulla sabbia a ridosso di una bassa scogliera formata da alcuni massi e ciottoli levigati dal mare. La donna tiene le mani intrecciate mollemente intorno alle ginocchia , è in costume da bagno e ha un cappellino in testa, appare graziosa e rilassata, la grossa borsa da spiaggia azzurra a distanza di braccio. Accanto a lei è seduto l’uomo con le gambe appena più allungate e un cappellino probabilmente celeste.

Questa fotografia in apparenza anonima e casuale assume a un tratto un significato agghiacciante. Accorpa in sé, involontariamente, non solo la storia di due morti per annegamento in un sabato di sole sulla spiaggia di Torregaveta ma ci svela nei suoi particolari meno appariscenti una realtà spaventosa, qualcosa che non vorremmo mai avere visto e mai vedere: Noi. Una realtà al limite della nausea. E non sono i corpi delle due bambine coperti dai teli da spiaggia, due teli trovati al momento per velare pudicamente la morte, ma i loro piedi che i teli non arrivano a coprire, ancora infantili ma anche densi, piedi che vanno, abituati a camminare. Eppure sempre e ancora piedi di bambini che si offrono allo sguardo in primo piano come se non fosse poi così importante nasconderli per coprire l’inguardabile della morte. Ma l’obbiettivo che li inquadra cattura sullo sfondo qualcosa che non ha niente a che vedere con quei piedi : la coppia venuta a trascorrere una meritata giornata di mare e sole, l’acqua e i panini, la frutta lavata al fresco nel borsone accanto. Una coppia che ci rappresenta in maniera da manuale; e così adesso quei piedi gridano, urlano, pesano come piombo. Quattro ragazzine venute a vendere tartarughe e braccialettini ai bagnanti del weekend di luglio. Sporche e impacchettate in vestiti lunghi, stracciosi, che subito le identificano come le infime degli infimi. Tredici, quattordici, dodici, undici anni. Ragazzine che a un tratto non ne possono più di quel caldo insopportabile e entrano in mare. Prima i piedi e i cavalloni che si sciolgono sulle gambe in un apoteosi di schiuma, e subito si ritraggono in un risucchio. Il resto si sa, ancora qualche passo e a un tratto un cavallone più alto degli altri gli si schianta addosso mentre il risucchio si tira appresso le gambe, quei vestiti che le imprigionano come corde, i piedi scivolano sul fondo loro annaspano per tenersi a ritte, vanno giù, poi ritornano su, poi ancora giù, qualcuno a un certo punto se ne accorge. Due le salvano, per le due più piccole è invece troppo tardi.

Ma lo scompiglio creato dalla tragica fine del loro goffo bagno si placa in fretta, noi abbiamo ripreso a goderci la nostra meritata giornata di vacanza, accanto la grossa borsa con i vari generi di conforto. Fra poco faremo un tuffo, magari stando un poco più attenti. Se non fosse per la visione di quei piedi così spaventosamente simili, identici a quando avevamo dodici o tredici anni, gli alluci e le piante appena rigonfie, le caviglie ancora morbide. Dei piedi che ci raccontano di come il nostro cuore sia diventato un sasso, la nostra testa una calcolatrice dotata di una mirabolante serie di tasti. La nostra anima? chissà dove . Questo ci dicono quei piedi e la serena coppia sullo sfondo.

Pubblicato il: 27.07.08
Modificato il: 27.07.08 alle ore 14.39   
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Titolo: Sudafrica, studenti costretti a fare sesso da donne mature
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2008, 06:11:13 pm
Inchiesta in 1.200 scuole: il fenomeno finora era stato solo sospettato

Sudafrica, studenti costretti a fare sesso da donne mature

Preoccupazione dei medici: i ragazzi violentati hanno un rischio più alto di contrarre l'Aids



LONDRA - Due studenti sudafricani su cinque dicono di essere stati costretti a fare sesso. Lo sostiene uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BioMed Central's International Journal for Equity in Health, che ha svelato una situazione endemica nelle scuole del Sud Africa. Il più delle volte l'abuso sui ragazzi è stato compiuto da donne mature. «Lo studio dimostra che l'abuso sessuale sui ragazzi ritenuto solo sospetto sino ad ora - dichiarano Neil Andersson e Ari Ho-Foster del Centre for tropical Disease Research di Johannesburg - è reale». I risultati sottolineano la necessità di sollecitare gli sforzi per impedire la violenza sessuale in Sud Africa.

RISCHIO AIDS - Un altro problema è che la violenza sessuale sta oscurando un'altro male del vecchio continente: l'AIDS. «Aumenta la relazione tra abusi sessuali e HIV - spiegano i ricercatori - i ragazzi violentati hanno un rischio più alto di aver contratto la malattia». L'indagine è stata condotta in 1.200 scuole in tutto il Paese. Sono stati intervistati 127mila ragazzi tra i 10 ed i 19 anni. Ai giovani è stato chiesto se fossero mai stati violentati, e se si da chi. Il 44 per cento dei 18enni ha confessato di essere stato costretto ad avere un rapporto sessuale. Un terzo è stato abusato da uomini, il 41 per cento da donne e il 27 per cento da entrambi. L'abuso da parte dei maschi è risultato più comune nelle zone rurali del Paese, mentre le donne «agiscono» principalmente nelle città».


da corriere.it/salute


Titolo: Lasciamo Eluana al giudice
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2008, 06:25:28 pm
29/7/2008
 
Lasciamo Eluana al giudice
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
C’è un altro fronte di guerra tra politica e giustizia. Un fronte silenzioso, senza il rumor di sciabole che ha accompagnato il lodo Alfano; ma questa volta è in gioco la sopravvivenza stessa dell’esercito nemico. Oggi l’aula del Senato deciderà se aprire un conflitto tra poteri contro la Cassazione, dopo la sentenza che nell’ottobre scorso autorizzò lo stop all’alimentazione per Eluana Englaro, in coma ormai da sedici anni; e tutto lascia credere che quest’iniziativa senza precedenti otterrà il proprio battesimo ufficiale. Perché l’iniziativa è stata caldeggiata dal presidente del Senato, nonché dal presidente del Consiglio. Perché la commissione Affari costituzionali ha già acceso il verde del semaforo, accusando i giudici d’essersi sostituiti al Parlamento. E perché infine soffia un vento da resa dei conti, la voglia di mettere un cerotto in bocca alla «bocca della legge», come a suo tempo Montesquieu definiva il potere giudiziario.

Il caso Eluana, d’altronde, non è che l’ultimo grano del rosario. In maggio un giudice di Modena rese una decisione analoga nei confronti di Vincenza, attraverso un’interpretazione innovativa della legge n. 6 del 2004. Qualche anno prima, nel 2002, un altro collegio giudicante assolse l’ingegner Forzatti, che aveva staccato il respiratore da cui la moglie traeva un’esistenza artificiale. Allora come oggi, il nostro diritto nazionale non ospitava una regola sull’eutanasia, né sul testamento biologico. Se è per questo, non vi si rintraccia neppure una regola sull’uso di droghe per fini religiosi; ma due settimane fa la Cassazione ha assolto un rasta sorpreso con un etto di marijuana in tasca. E ovviamente la politica non l’ha presa bene: «Qualcuno fermi i giudici», ha detto il capogruppo Pdl in Senato.

Ecco, dal Senato sta adesso per scoccare l’altolà. Un conflitto dinanzi alla Consulta è un po’ come una sfida a duello, benché nella fattispecie l’arma prescelta sia del tutto impropria. In primo luogo la sentenza della Cassazione non è definitiva, e quindi non è idonea a innescare un conflitto tra poteri. In secondo luogo il Senato non detiene il monopolio della funzione legislativa, perché quest’ultima viene esercitata «collettivamente» da ambedue le Camere, a norma della Costituzione. In terzo luogo non si può certo trasformare la Consulta nell’ennesimo grado di giudizio, impugnando qualunque decisione su cui la maggioranza di turno sia discorde. Ma dopotutto queste sono tecnicalità, argomenti per gli addetti ai lavori.

La vera posta in gioco tocca il ruolo dei giudici nell’officina del diritto. Il centrodestra li vorrebbe nudi e proni, e almeno in questo è recidivo: durante la sua precedente esperienza di governo provò a castigare come illecito disciplinare ogni sentenza in contrasto con «la lettera e la volontà della legge». Magari non tutti i senatori ne saranno consapevoli, però oggi il loro voto rispolvera il Référé législatif, un istituto in auge nel secolo dei lumi. Perché a quell’epoca dinanzi a un’oscurità legislativa, oppure dinanzi a un vuoto del diritto, i giudici dovevano appellarsi direttamente al Parlamento, sospendendo la propria decisione.

Sennonché al giro di boa del secolo, nel 1804, entrò in vigore il Code Napoléon, che introdusse l’obbligo di rendere giustizia in ogni caso sottoposto alla magistratura. Questo principio è ancora valido e rappresenta la prima forma di tutela per i cittadini. Tant’è che le preleggi al codice civile contemplano l’ipotesi in cui manchi una precisa regola del caso; ma stabiliscono che il caso sia comunque deciso sull’onda di regole analoghe o dei principi generali.

Esattamente quanto ha poi fatto la Cassazione per i rasta o per Eluana, applicando rispettivamente il principio costituzionale della libertà di religione o quello di disporre della nostra stessa vita. No, non tocca al Senato la toga che hanno indosso i magistrati. Né del resto il Senato potrà mai far indossare ai magistrati una divisa da poliziotto, da esecutore inerte della legge. Ogni giudice è innanzitutto giudice d’un caso della vita, e nessun caso è uguale agli altri. Lasciamo perciò Eluana al proprio giudice, e così sia.

micheleainis@tin.it
 
da lastampa.it


Titolo: Quando la maternità diventa un boomerang
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 08:59:55 am
Quando la maternità diventa un boomerang

Adele Cambria


Le leggi che, in Europa, tutelano la maternità (non così negli Stati Uniti) sono un boomerang per il successo professionale delle donne, come ha dichiarato, creando scandalo, Nicole Brewer, responsabile della Commissione per le pari opportunità della Gran Bretagna? Forse la mia “antica” testimonianza al riguardo, potrà contribuire al discorso. E dunque: la prima gravidanza, nel remoto 1959, non mi creò nessun problema sul luogo di lavoro. Anzi, diventai giornalista professionista nella redazione del quotidiano il Giorno, ideato, fondato e diretto, a Milano, da Gaetano Baldacci, mentre ero incinta di quattro mesi e tutti lo sapevano. Semmai il problema fu che mi obbligarono, all’inizio del settimo mese, a smettere di lavorare, anche se stavo benissimo; ma la legge di tutela della maternità, mi spiegarono, lo esigeva. Così, un po’ malinconica, col mio pancione, trascorsi luglio e agosto sulla Riviera Ligure, a Nervi, guardando con invidia le mie coetanee che ballavano sulla già mitica «Rotonda sul mare», o andando a sentire i Platter’s in concerto («Only You»), ed arrabbiandomi un po’ perché non potevo scriverne. Ero, lo ammetto, molto attaccata al mio ruolo di cronista di costume - ma piangevo quando mi chiamavano “cronista mondana” - e le due o tre estati precedenti le avevo passate facendo chilometri sulle spiagge più alla moda o più popolari d’Italia, alla ricerca de «La Bella del Giorno», un concorso promozionale bandito dal mio quotidiano, in tutti i sensi modernizzatore rispetto alla seriosità dei quotidiani politici nazionali.

Nessun problema, dunque, per la prima gravidanza, i problemi semmai vennero dopo la nascita del bambino: non ebbi fortuna con le bambinaie, (che potevo permettermi), e la mia furia emancipatoria mi aveva ricondotto al giornale dopo 40 giorni. Non ero affatto una precaria, il posto di lavoro era garantito dalla legge a tutela della maternità, avrei potuto restare a casa anche un anno, ma una firma “giovane” e “femminile” (già allora ragionavo in questi termini) non sarebbe sparita per sempre? (Sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1963 il bellissimo libro di Natalia Ginzsburg, «Le piccole virtù», in cui lei racconta che, mescolando il semolino col pomodoro per preparare la pappa ai figli, piangeva pensando che non avrebbe scritto mai più . Ma lei era una scrittrice, ed io una cronista!).

La soluzione - e per tutta la vita ne avrei avuto rimorso - fu quella di “deportare” il bambino da Milano a Reggio Calabria, dove mia madre l’avrebbe accudito per un anno. Intanto mi ero dimessa da il Giorno per solidarietà con Gaetano Baldacci, fatto fuori dall’accoppiata Segni/Malagodi, e mi ero trasferita a Roma, a Paese Sera. Era un giornale “povero”. «Noi non possiamo pagarla come nei giornali borghesi», mi aveva annunciato l’editore Terenzi, ed io: «Non importa, ma vorrei fare la cronista asessuata!» (Per dire che volevo uscire dalla gabbia dorata della cronaca mondana). Perciò, quando scoprii di aspettare un secondo figlio, sentii, ad intuito, che era meglio non dirlo, almeno nei primi mesi. Così, accudita dall’autista de L’Ora di Palermo, spaventatissimo dalle mie nausee, feci la traversata della Sicilia in macchina fino a Testa dell’Acqua, per intervistare un ergastolano liberato dopo trent’anni con l’ottima ragione che suo fratello - per il cui assassinio era stato condannato all’ergastolo - era vivo.

Furono due anni felici, quelli a Paese Sera, ebbi il secondo figlio senza che nessuno mi dicesse che ero obbligata a prendere il congedo preventivo di maternità, e tornai al giornale anche questa volta dopo 40 giorni. Ma fui invitata a dimettermi... Le ragioni c’erano tutte: il 27 ottobre 1962 era caduto, per un incidente tuttora misterioso, l’aereo di Enrico Mattei, e il Presidente dell’Eni era l’unico manager che desse la pubblicità anche a un quotidiano di sinistra, e, negli stessi giorni, il Paese Sera di Roma era stato “raddoppiato” da un analogo quotidiano del pomeriggio a Milano. Il mio direttore, Fausto Coen, mi disse che sarebbero stati costretti a fare 80 licenziamenti: «Lei ha avuto un bambino da poco - mi suggerì - potrà goderselo per un po’, ed è così brava che qualunque giornale borghese la assumerà...». Non gli dissi - non osai - che preferivo comunque stare a Paese Sera, e lui aggiunse la stoccata finale: «Io non posso licenziarla perché lei ha appena avuto un bambino ma, se non si dimette, saremo costretti a licenziare un padre di famiglia...».

Mi dimisi, ma senza risentimenti per il mio bravissimo Direttore, non era colpa sua, era colpa dell’aereo, era colpa di un mondo - cominciavo a capirlo - in cui l’emancipazione della donna consisteva, nel migliore dei casi, soltanto in una emarginazione collettivamente taciuta.

I giornali borghesi almeno erano più espliciti... Ne ebbi la prova qualche mese dopo, quando Alba De Cespedes mi introdusse come collaboratrice a la Stampa di Torino, dove lei, la grande scrittrice che aveva fatto la Resistenza, dirigeva «La pagina della donna». Non avevo un contratto ma lavoravo moltissimo, pubblicando anche 25, 26 articoli al mese, in tutte le pagine del quotidiano torinese (escluse quelle politiche e quelle sportive). Ero invitata anche, una volta al mese, alle riunioni col mitico Direttore, Giulio De Benedetti; ed ero anche l’unica, oltre a lui, a stare seduta, in quanto donna. Tutti gli altri, anche il povero Casalegno e lo storico Paolo Serini, in piedi. Un giorno - probabilmente perché Michele Tito, il capo della redazione romana, gli aveva trasmesso le mie richieste di regolarizzazione - Giulio De Benedetti mi si rivolse direttamente con queste parole: «Signora Cambria, lei ci tiene all’indipendenza del giornale su cui scrive?». «Certo che ci tengo!», risposi. «Allora deve capire: lei è giovane, è sposata, ha già due bambini... E se ne fa un altro, sarebbe a carico dell’azienda, che per questa ragione perderebbe un po’ della sua indipendenza...».

Pubblicato il: 01.08.08
Modificato il: 01.08.08 alle ore 11.33   
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Titolo: Maurizio Chierici. L’altra metà del Sud America
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 07:46:38 pm
L’altra metà del Sud America

Maurizio Chierici


Nei 30 Paesi industrializzati le cattedre delle università sono cattedre al femminile: 74 per cento medicina e salute, 63 per cento scienze sociali e politiche, 59 scienze sperimentali. Percentuale che si abbassa in matematica e scende al 27 in ingegneria. Se l’insegnamento è la fabbrica del futuro, il presente resta nelle mani degli uomini. In politica, soprattutto, con l’eccezione delle donne ministro nella Spagna di Zapatero e della Germania della signora Angela Merkel. Dall’altra parte del mare le cose cominciano ad andare meglio ma col sospetto di una finzione. Storia e cronaca dell’America Latina raccontano un continente maschile; machismo violento, populismo decisionista di protagonisti imbalsamati nelle uniformi militari. Anche il doppio petto degli affari costringe alla miseria duecento milioni di uomini e donne che non riescono a diventare persone.

Ma le regole del potere invecchiano e la disattenzione degli anni di Bush cambia la scena. Mutazione rosa che vede tre signore protagoniste della politica. Due presidenti eletti senza gli intrighi dell’altra America com’era successo per la Moscoso di Panama e Violeta Chamorro in Nicaragua. Quegli anni novanta, un secolo fa. Invece Michelle Bachelet e Cristina Fermandez Kirchner sono state scelte da chi ne ascoltava i programmi e poi votava, sperando che le donne cambiassero il mondo. Non passionarie dal rimbombo retorico. Signore garbate in tailleur. Escono dai salotti delle cento famiglie da sempre protagoniste in Cile e Argentina. Un’ora di ginnastica al mattino, e via in ufficio: palazzo della Moneda (dove è morto Salvador Allende), Casa Rosada nella quale si aggira il fantasma di Peron ma anche di Videla e dei generali P2 che hanno sepolto una generazione di ragazzi argentini. Il passato sembra chiuso anche se Michelle e Cristina (nate nel ‘51) vengono da quel passato. Michelle torturata perché figlia di un generale d’aviazione fedele ad Allende. Il suo cuore si è arreso ai ferri dei carcerieri. Per ricominciare la vita, Michelle ha fatto il giro del mondo: profuga in Australia e Germania Est. Torna appena Pinochet declina.

Fa politica coi socialisti, diventa ministro della difesa in gonnella nel continente dei generali. Un po’ delle alte uniformi che l’avevano perseguitata sono costrette a giurarle fedeltà: fedeltà al ministro, fedeltà al capo dello Stato. Insomma, il Cile volta pagina senza ripulire gli angoli sporchi dell’alta borghesia. Tre anni dopo il trionfo, chi ha votato Bachelet si chiede se davvero è cambiato qualcosa o se le tragiche disuguaglianze sociali formalizzate dalla dittatura per conto degli impresari che continuano a far ballare i politici, sono solo un brutto ricordo. Se davvero la fatica del vivere della gente qualsiasi si è addolcita nelle nuove regole di un paese prospero, management che incanta Wall Street e i giapponesi. Purtroppo la Bachelet, come ogni altro presidente uomo della democrazia ritrovata, é prigioniera di interessi che non consentono di trasformare l’infelicità nella speranza.

La vecchia rete lega le mani di una transizione ormai più lunga della dittatura. Patricia Verdugo, giornalista e scrittrice che ha sfidato i militari ed è stata emarginata fino all’ultimo respiro da un establishement che non intende ridiscutere un solo privilegio; la Verdugo, raccontava nei libri e nelle chiacchiere con noi amici quando andavamo a trovarla per capire l’immobilità della società più moderna dell’America Latina; raccontava che ogni legge o progetto deve essere approvato dai grandi interessi prima di arrivare sui banchi del parlamento. Ammorbidita la volgarità di Pinochet, la sostanza non cambia.

Scuole sempre più private. Prosperano le università Cattoliche, di gran moda l’università delle Ande, Opus Dei, e poi laiche e massoniche (portacenere e tshirt con triangoli e compassi). La classe dirigente che coltiva ambizioni può studiare solo lì. Difficile far carriera se la laurea è pubblica. E dalla laurea si scende ai licei: il privato garantisce il futuro negato alle scuole di stato. Ma bisogna pagare e col 36 per cento della popolazione che tira la cinghia malgrado il trionfo di esportazioni e affari, chi paga sono sempre gli stessi. E le poltrone e i privilegi passano di padre in figlio. Ecco le rivolte dei “pinguini”, bianco e nero delle divise degli studenti. Cariche di polizia, ragazzi in galera o bastonati. Sindacati in allarme perché i conti non tornano.

Spariscono i letti dagli ospedali pubblici; si allungano i letti nelle cliniche private. E la povera Bachelet che con la laurea in medicina aveva governato la sanità, rincorre promesse che non può esaudire. Ogni sera radio e Tv dalle proprietà immutabili, e ogni mattina tutti i giornali (meno La Nacion la cui distribuzione non raggiunge la periferia di Santiago) la tengono d’occhio, buone maniere cilene subito dimenticate appena la signora presidente si avvicina troppo alla gente. E la popolarità si assottiglia. E la perplessità si allarga. Bachelet che sostituisce 9 ministri; Bachelet alla cui spalle si affaccia chi ne prenderà il posto a fine mandato: Soledad Alvear, sinistra della democrazia cristiana, l’altra donna della Concertazione socialisti-Dc. Con un passato da ministro degli esteri viene annunciata da un partito i cui contorni si sono spesso confusi con i soliti interessi. Il carattere di una signora che non si arrende dovrà fare gli stessi conti della Bachelet perché i registi ombra del paese non hanno cambiato nome. Non ci sta Gonzalo Meza Allende, figlio di Isabel (presidente della Camera dei deputati), nipote di Salvador Allende. Alla vigilia del voto che dovrà scegliere in ottobre il sindaco di Santiago e tutti i sindaci del Paese, annuncia un libro nel quale critica il modello cileno. Racconta la delusione davanti al governo Bachelet, delusione dei governi di prima e dei governi che verranno: «Bisogna cambiare questo tipo di democrazia altrimenti non cambia mai niente». Tant’è che Jaqueline, figlia piccola di Pinochet, si candida a sindaco della capitale.

Di là dalle Ande la popolarità di Cristina Kirchener è precipitata al venti per cento dieci mesi dopo il plebiscito dell’elezione al primo turno. Rispuntano le voci polemiche sulla candidatura a capo del governo decisa senza primarie, impiccio ritenuto inutile: l’ha scelta il marito-presidente che si è privato di altri quattro anni di Casa Rosada per riorganizzare a sinistra il partito dell’eterno Peron suscitando il sospetto di essere un presidente ombra. Cristina è simpatica, sorriso garbato e voglia di rendere civile il paese del grano, della carne e della soia, ma dove nel Chaco si muore di fame (non è un modo di dire) mentre le esportazioni volano verso il mondo che può. Cristina rimedia all’ingiustizia imponendo vere imposte alle holding agricole mai tanto prospere. Comincia il braccio di ferro nelle piazze. Blocchi stradali lunghi tre mesi. Adunate di descamisados contrastano la marcia delle impellicciate che rabbrividiscono nell’inverno australe. Paralizzano il paese, sgretolano il governo appena nato. La signora Kirchner non si arrende: «deciderà il Parlamento» dove la coalizione non ha problema di numeri. All’improvviso li ha: Julio Cleto Cobos, presidente del senato e vice presidente della repubblica, transfuga dal partito radicale, rompe la coalizione e vota a favore degli agrari. «Perché non è con le tasse che si risolvono i problemi sociali». Frana il governo, sostituzione di ministri. La signora presidente si arrende mentre tamburi a festa rimbombano nei quartieri eleganti di Buenos Aires e la quattro anime degli agricoltori si riuniscono in un comunicato: «La nostra lotta contro le imposte ha rafforzato il Paese che diventerà più ricco». Più ricco per chi? Mentre il 70 per cento delle tasse raccolte da Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone é pagato da persone fisiche e il 27 per cento dalle società, in Argentina e Brasile la percentuale si rovescia: 35 per cento dai redditi individuali, il 65 dalle aziende che poi scaricano le tasse sui consumatori. Storie dell’altro mondo, ma anche storie italiane. Soldi in fuga verso paradisi fiscali o villoni nella sabbia di Miami. Ingiustizia che alimenta le inquietudini. Ogni dieci anni scoppiano e ogni dieci anni qualcosa minaccia la convivenza e apre ipotesi pericolose: da Peron alla dittatura militare, da Menem allo sbando dell’economia, adesso tasse ed esportazioni. Il dubbio resta: di sicuro in Argentina comanda un Kirchner, ma Kirchner marito o Kirchner moglie? Il machismo non rappresenta solo la malinconia di ieri. Le signore presidenti vengono spesso usate come bella copertina di un potere che non si rassegna.

Della terza donna che accende il continente latino abbiamo parlato tanto. Il ritorno di Ingrid Betancourt sta aprendo attese e appetiti. Nelle vacanze all’Avana, Gabriel Garcia Marquez confida a Mauricio Vincente del Pais: «Il suo ritorno è l’inizio di qualcosa. Non so cosa. Tutti le stanno addosso per sfruttarne l’immagine con l’egoismo di chi vuole scalare, rafforzare, allungare le proprio fortune»: Uribe e Sarkozy. Gabo conosce Ingrid da quand’era bambina. Ma sa poco della donna ex candidata alla presidenza contro Uribe. Ha sfogliato il suo libro - «La rage au coeur», in italiano «Forse mi uccideranno domani» - ma non si è misurato con la passione di un’intellettuale che voleva trasformare la politica colombiana col radicalismo respirato a Parigi. Appena libera è volata in Francia e non è più tornata a Bogotà. Nessuno sa cosa potrà decidere quando, smaltita l’euforia della libertà, psicologicamente riemergerà dal limbo di sei anni di niente. Il Nobel per la pace (che l’Unità ha proposto aggregando altri Nobel, intellettuali, migliaia di persone) può trasformarla in ambasciatrice universale dei diritti umani. Sa cosa vuol dire prigionia e tortura, umiliazioni e lo sfinimento del cuore. La polemica imprudente è sempre stata la sua arma migliore. Ma l’imprudenza é ormai indispensabile perché non esistono solo le Farc e i loro prigionieri, i massacri di Darfur, Iraq, Iran, Cecenia. Non sono solo Cina e Birmania a tener sotto chiave milioni di incolpevoli e Guantanamo non è l’ultimo gioiello dell’eredità Bush. La prigione galleggiante del vice ammiraglio David Brewer - gigantesca nave d’assalto anfibio USNS-Stockam - è l’inferno delle torture appena rivelate ma ancora nascoste nella base Usa Diego Garcia, isola inglese dell’oceano Indiano. Scioglilingua dei misteri. Ad Ingrid Betancourt non basterà una vita per scoprire e cancellare il prontuario di queste barbarie. Se è rimasta l’Ingrid di prima non si darà pace e tante cose potrebbero cambiare. C’è chi spera che in autunno riprenda l’aereo per l’America Latina. La melma colombiana (narcos e corruzione paramilitare) soffoca la politica e se la Betancourt tornerà alla politica non accetterà ombre in doppiopetto alle spalle. Il suo coraggio può diventare l’esempio liberatore per chi é paralizzato da paura e poteri che soffocano. Sono in tanti ad aspettare una donna così. In fondo, illudersi non costa niente.

mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 04.08.08
Modificato il: 04.08.08 alle ore 11.34   
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Titolo: Elena Stancanelli. Stuprare una Donna
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 11:01:24 pm
Stuprare una Donna

Elena Stancanelli


Ci sono crimini noiosi. Talmente noiosi che non hai neanche voglia di leggerti tutto l’articolo. Leggi il titolo e volti pagina. Tra questi, il più noioso è lo stupro. Una giovane donna è stata violentata per una settimana dall’uomo che le aveva offerto lavoro come colf. Un’altra? Non c’è neanche la possibilità di una bella foto. Le donne violentate non si mettono sui giornali. Che faccia avrà questa colf non lo sapremo mai. Di solito gli articoli sugli stupri i giornali li presentano con una ragazza rannicchiata a terra, la testa nascosta dentro le braccia intrecciate sulle ginocchia. Le gambe nude, la maglietta strappata sulle spalle. Sempre la stessa. Chissà chi è quella donna, la vittima per antonomasia.

Un’attrice? La figlia del fotografo che si è prestata a patto di non essere riconoscibile? Il fotogramma di un film degli anni settanta? Chiunque sia quella ragazza rannicchiata, rappresenta in maniera perfetta la maschera senza volto di un orrorifico carnevale, che ci sfila sotto gli occhi ogni giorno.
Ecco a voi lo stupro. Che può essere di due tipi: secco (l’uomo sconosciuto che si getta sulla sconosciuta) o subdolo (l’amico, il conoscente che approfitta di un varco e poi non si ferma più, ignorando il rifiuto). E basta. Che noia. Cambia la location, può cambiare il numero di partecipanti, cambia soprattutto la percentuale di efferatezza. Ma la dinamica è sempre la stessa, da migliaia di anni. Niente a che vedere con l’omicidio, la rapina, l’epica della truffa. Per stuprare una donna, non serve neanche un piano. E quasi sempre non c’è premeditazione.

Lo stupro ha a che fare col sesso? Non mi sembra. Si tratta di rabbia. Stuprano uomini senza donne, ma stuprano anche ragazzini giovani e belli, adulti che hanno già scopato ogni corpo possibile. Stuprano uomini di tutte le razze e di ogni età, stuprano i nostri padri e i nostri fratelli. Non serve neanche un’arma per stuprare una donna. Basta la rabbia.

Ma la rabbia non può essere estirpata. Una dose di rabbia e rancore è endemica tra uomini e donne. La questione è quindi come dirigere quella rabbia in una zona dove possa essere disinnescata, dove non diventi violenza. Nonostante si sbraiti il contrario per alimentare l’isteria sulla sicurezza, in Italia da qualche anno sono diminuiti i delitti e sono diminuiti persino i furti. La criminalità recede ovunque. Tranne che sul corpo delle donne. Il numero degli stupri non cala. Perché? È vero: culture diverse si danno battaglia dentro i nostri confini. L’immigrazione, imponente e repentina, ci costringe a ribadire ogni singola conquista, specie nei rapporti tra maschi e femmine. Ma a che tipo di cultura arcaica ed esecrabile dovrebbe ispirarsi una frase come questa: era ubriaca, voi che aveste fatto al posto nostro? Pronunciata da una banda di ragazzini decerebrati alla polizia, dopo esser stati colti a violentare una coetanea. Io credo che sia la nostra. Che i conti ce li dobbiamo fare tra di noi. Non è strano che non sappiamo amarci, se non sappiamo concederci reciprocamente le stesse debolezze di coscienza, alcool droghe o innamoramenti fatali. Come possiamo far bene l’amore se non sappiamo usare la violenza, metterla in campo e poi giocarci? Siamo noi che non abbiamo ancora imparato a concederci le stesse opportunità e gli stessi diritti, per poi, dentro questo spazio di serenità, poter tornare a essere maschi e femmine.

L’altro giorno ho visto su Italia 1 il concorso per Miss Maglietta Bagnata. Nella prova clou le ragazze dovevano saltare sul tappeto elastico, con la maglietta bagnata, per mostrare consistenza e autenticità delle tette. Uno spettacolo talmente degradante da indurre alla commozione. Come i cuccioli di cane abbandonati sul Raccordo. Ma il punto non è abolire Miss Maglietta Bagnata, o le Veline, o il presidente del Consiglio che deve ricorrere alle sue doti di playboy per convincere la presidente finlandese. Il punto è creare quello spazio di serenità. Là dentro, possiamo poi permetterci qualunque imbecillità.

Purtroppo gli esseri umani sono tanti e non vogliono affatto l’uno il bene dell’altro, ma il proprio. Al massimo siamo in grado di preservare il branco, di non attaccare il fratello. Lo stupro è un crimine dell’uomo contro la donna, nonostante qualche folcloristico esempio contrario. Per arginarlo, perché la sua incidenza prenda la stessa china discendente degli altri crimini commessi in Italia, serve che le donne siano più forti. Che abbiano maggiore rappresentanza politica, e rimettano in pari la bilancia. Non c’è un’altra soluzione. Pari oppurtunità e pari diritti non possono essere ricontrattati ogni volta. Solo allora, quando avremo pari rappresentanza al Governo e nei ruoli chiave della società, e qualcuna di noi inventerà Mister Membro d’Oro (dove gli uomini salteranno su un tappeto elastico, con le mutande bagnate, per mostrare consistenza e autenticità), solo allora, temo, gli stupri inizieranno a diminuire.

Pubblicato il: 19.08.08
Modificato il: 19.08.08 alle ore 8.22   
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Titolo: 50 volte donna
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 06:41:13 pm
50 volte donna

di Sabina Minardi


Hanno già dato. Al lavoro, al marito, ai figli. E a cinquant'anni si riprendono la vita. Ripartendo dal sesso: finalmente giocoso, senza complicazioni emotive. Perché le catastrofi sentimentali sono alle spalle. E la nuova parola d'ordine è: vogliamo tutto  A 30 anni si prendono le misure e il futuro è un bungee-jumping: tra storie al capolinea o amori ai nastri di partenza, lavori da conquistare,maternità da assolvere. A 40 anni si corre sempre: dietro un progetto, dietro i figli, dietro un genitore, dietro un rimpianto. Il sesso? Una sosta refrigerante durante il viaggio. E il piacere dell'eros? Di allegre acrobazie non trattenute dai doveri, senza il pathos di fedeltà tradite e gelosie in agguato?

La vita (sessuale) ricomincia a 50 anni: l'età perfetta per la passione femminile. Donne che tornano alla carica, come mogli o amanti desiderate non solo dai coetanei ma anche da uomini più giovani di loro. Femmine indipendenti, che ripartono da fantasie in stand-by. Seducenti come Sharon Stone; spavalde e ironiche come Samantha-Kim Cattrall; modelli di energia anche per le più giovani, come Madonna; pronte a sovvertire forma ed esistenza, in nome dell'amore: come Cecilia, ex signora Sarkozy.

Avanguardie di un fenomeno limitato alla cerchia delle ricche e famose? Nient'affatto. La novità è proprio qui: dietro l'exploit erotico non c'è solo un'élite di fortunate. La rivoluzione dell'età di mezzo ha i volti e i corpi delle donne moderne: mamme con figli sufficientemente grandi da non destare più troppe preoccupazioni, professioniste affermate o comunque libere dal rampantismo di inizio carriera, casalinghe con hobby forti o impegni nel sociale, ex mogli che hanno avuto la capacità di rialzarsi dopo un abbandono, e di ricostruirsi una vita. A raccontare queste donne nuove, provocatorie nel loro stile di vita, e senza punti di riferimento nel passato, è la ricerca 'Donne a 50 anni e Sentimenti', condotta dal Gfk Eurisko per l'Osservatorio Differently del brand della bellezza Lancaster. L'indagine è stata svolta su un campione di 700 donne italiane tra i 46 e i 59 anni. "Dopo il femminismo è il momento di una nuova femminilità", esordisce la psicologa Irene Bozzi, che ha seguito i lavori della ricerca: "Le protagoniste sono le stesse: le donne che hanno condotto le battaglie degli ultimi trent'anni, e che ora stanno recuperando un'identità nuova. Facendo così da apripista a un modo inedito di intendere la menopausa: non più come la fine della sessualità e l'inizio dell'uscita di scena, anche estetica, ma il tempo di una nuova libertà: reso ancora più piacevole dall'assenza di timori di gravidanze. E dalla consapevolezza di essere ancora molto attraenti".


Le rughe non fanno più paura. Per le cinquantenni intervistate sono le malattie la fonte d'ansia (per il 70 per cento), ma non quelle connesse con l'ingresso in menopausa (3 per cento). La paura di invecchiare porta brividi solo al 6 per cento, e neppure lo spauracchio della solitudine turba una percentuale troppo alta (il 17 per cento). Il resto lo fanno palestre, spa, chirurgia estetica, trucchi del vestiario, ma soprattutto una sana alimentazione, uno stile di vita più attento e consapevole che in passato. La conseguenza è che una donna su due dice di sentirsi seducente, e lo è davvero. Pronta a rimettersi in gioco. "Il glamour non è un vezzo, ma una conquista", nota Alessandra Graziottin, direttore del Centro di Ginecologia dell'Ospedale San Raffaele Resnati di Milano: "Queste donne non abdicano al fascino e alla seduzione. L'alfabeto della loro autonomia deriva dalle loro madri, l'incoraggiamento del talento dai padri: le cinquantenni di oggi si distinguono per una migliore qualità dell'invecchiamento".

E dal momento che serenità e sicurezza aggiungono fascino, ad accompagnarle, in casi neppure rari, sono uomini molto più giovani: "Succede molto spesso", conferma Bozzi: "Come i maschi cinquantenni volgono lo sguardo verso le più giovani, a conferma della loro virilità, e non resistono alla tentazione di esibirla, le nuove cinquantenni svelano un'inclinazione verso gli uomini più giovani. Anche senza sbandierarla".

Non che stiano sempre a far sesso: la fotografia che emerge dalla ricerca mostra una generazione che al primo posto mette l'amore (per il 94 per cento). "Amarsi, alla mia età, significa rimanere con il mio compagno, appagata dal cammino che abbiamo fatto insieme", risponde una larga maggioranza. Ma è la stessa vita di coppia a cambiare, vissuta con la stessa intensità e passione dei 20 anni (per il 58 per cento); con una consapevolezza maggiore di quando ne avevano 30 (per l'80 per cento). E in forme decisamente più libere (l'82 per cento). Più esplicitamente, alla domanda se le donne cinquantenni tradiscono il loro partner, tre donne su 10 dicono di sì. Un dato persino prudente, se confrontato con un'altra ricerca condotta dall'Istituto di studi psicologici transdisciplinari di Roma, e riferito dall'Osservatorio Differently: una cinquantenne su due sarebbe 'fedifraga'. Di certo, la confessione della scappatella è assai più tipica in questa fascia di età che tra le trentenni.

"I 50 anni sono lo spartiacque tra la menopausa e la parte fertile della vita. Psicologicamente, non è un caso che una fase così rivoluzionaria si apra proprio in quel momento", dice il sessuologo Emmanuele A. Jannini, coordinatore del primo corso di laurea in Sessuologia all'Università dell'Aquila: "Dal punto di vista sociale, una cinquantenne di oggi non ha niente a che vedere col passato: è obiettivamente la trentenne di qualche generazione fa. Lo specchio le rimanda l'immagine di una donna giovane, capace di entusiasmi e sex appeal. Questa donna in passaggio, che deve fare i conti con il dato biologico della menopausa, ha una reazione di libertà: gli ormoni la privano di una certa parte di femminilità, e lei reagisce risottolineando la femminilità. Ecco perché credo che le cinquantenni siano un potente polo d'attrazione per maschi più giovani, con motivazioni diverse: c'è chi ricerca una sessualità meno aggressiva, chi è attratto dalle dolcezze di una donna che è passata dalla maternità, chi si sente più svincolato dagli impegni e dalle aspettative di una coetanea. Per questo sono convinto che queste donne tradiscano davvero più delle trentenni o delle quarantenni: quando si è giovani la fedeltà pesa molto nella costituzione della coppia. A 50 anni, invece, si può ripartire. Esattamente come molti maschi".

La parità arriva a 50 anni? Ad allargare la fotografia sulla versione contemporanea della mezza età, e a confermarla, è anche un'inchiesta sulla sessualità dei francesi, da poco realizzata dall'Institut national de la santé et de la recherche médicale e dall'Institut national d'études démographiques. Una mappatura dei comportamenti sessuali ricavata dalle risposte di 12 mila persone, dove tra età della prima volta scesa a 17 anni e numero di partner in aumento per tutti, le nuove abitudini delle cinquantenni si fanno ben notare: comprano sex toys, fanno incetta di lingerie sexy, usano Internet come teatrino degli incontri, o per raccontarsi e condividere questa seconda vita, come Sophie Bramly, 48 anni, ex responsabile Internet di Universal Music, oggi attiva sulla Rete con SecondSexe.com, evidente omaggio a Simone de Beauvoir. "Le mie pazienti di 50-60 anni rivendicano con forza una sessualità gratificante", osserva Gérard Salama, che ha pubblicato 'Confidences d'un gynécologue' (Plon): "Se quella di coppia non funziona più, la cercano fuori".

Che fine fa allora l'istinto sentimentale, destinato in faccende di sesso a marcare l'ultima differenza tra uomo e donna? Resta: ma in forma di scenario dal quale la sessualità femminile non sa prescindere. Romanticismo concordato, parole e gesti rassicuranti ed illusori, come quinte per il tempo di un rapporto o poco più. Il resto è la libertà di sperimentare. Senza timori: per la prima volta, l'Osservatorio Differently sottolinea, senza soggezioni verso le più giovani. "L'intraprendenza delle donne dai 45 anni in più, estremamente libere nei confronti del sesso, è uno dei dati che mi hanno colpito di più", racconta Alberto D'Onofrio, regista di Erotika italiana, una produzione di 12 documentari in onda su Cult (e presentati all'interno del Roma Fiction Fest) dedicati all'erotismo degli italiani: "Ho raccontato l'esperienza di due coppie di 45-50 anni, di Roma e di Torino, che si incontrano per passare un weekend insieme: sono le donne a guidare il gioco.

E le cinquantenni sono le più coinvolte da situazioni estreme: spesso per riaccendere la passione con il marito. Come si vede in una puntata dedicata alle gang bang, sesso tra una donna e almeno cinque uomini, con il marito, non partecipe, presente. Il sesso è un indicatore di fenomeni culturali: in questa fascia di età io riscontro anche il più alto numero di donne che hanno rapporti con gigolò: una delle mie intervistate, una 45enne di Torino con un importante incarico nell'editoria, ne ha chiamato uno dopo una lite con i colleghi. Costa sui 500 euro uscire con un uomo, ma è un fenomeno sempre più vistoso: perché si vuole eros senza destabilizzazioni emotive; perché si vuole far ingelosire qualcuno. Oppure per farsi vedere in compagnia di un uomo".

E mentre la cronaca segnala la presenza di un sospetto numero di 'jardineiros', sudamericani col fisico e l'abbronzatura giusta, assunti come domestici ma ad altro servizio di ricche signore in Canton Ticino, la sociologa Régine Lemoine-Dhartois, autrice del libro 'Un age nommé désir. Féminité et maturité' (Albin Michel), avverte: "Vigiliamo, o saremo vittime di un altro diktat: quello del piacere obbligatorio". Età della parità, d'accordo. Purché a ognuno il suo spensierato nirvana.

(21 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Un campus per la "decrescita felice"
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2008, 12:01:45 pm
Un campus per la "decrescita felice"


Giovanna Nigi



Maurizio Pallante del Movimento decrescita felice «Ce n'è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l'avidità di ciascuno». Una frase di Ghandi che ben riassume la tragedia che ci troviamo a vivere, la cui consapevolezza, fino a qualche anno fa ristretta a una cerchia ridottissima di economisti, accademici e scienziati, si va ogni giorno di più allargando, anche grazie a iniziative come quella del Parco Regionale dei Monti Lucretili - "Sarà per amore o non sarà?" -, consigli su come agire il cambiamento dati dai massimi esperti italiani della decrescita e messi in pratica in un campus-laboratorio fino a domenica 31 agosto. Il cambiamento è inevitabile, grazie alla fine del petrolio e alla drammatica erosione dei beni comuni, come acqua, aria e terra. Bisogna imparare a fronteggiarlo, non come un nemico o un triste ritorno al passato, ma come un'occasione da non perdere per acquisire nuovi occhi, occhi felici, come la decrescita che viene proposta in lavori di gruppo, escursioni guidate, laboratori pratici.

Da decolonizzare, come sottolinea Peter Berg, c'è anche e soprattutto il nostro immaginario: «La nostra generazione è stata allevata con un mito che, nell'ultimo secolo, ha fondato l'immaginario sociale: il mito della crescita». Questa credenza, cui è connessa l'idea di uno sviluppo illimitato, ha portato con sé le parole d'ordine della massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti fino a consegnarci all'attuale religione del mercato globale. Eppure, di fronte alla percezione crescente dei limiti sociali ed ecologici dello sviluppo, del degrado indotto dai processi di mercificazione della vita, della crescente conflittualità internazionale attorno alle risorse fondamentali, oggi comincia a farsi strada l'idea che per imboccare sentieri veramente alternativi sia necessario proprio rimettere in discussione il mito fondativo. Almeno questa è la scommessa dei bio-campeggiatori. «È possibile oggi decolonizzare il nostro immaginario e provare a pensare una società non improntata a uno sviluppo fine a se stesso. Il rifiuto di indicazioni chiare su come fronteggiare la crisi planetaria è deludente e pericoloso» dicono gli organizzatori degli incontri. Del resto battaglie per l'uso e l'approvvigionamento di energia, limitazioni sull'acqua e altre risorse essenziali, carenza di cibo e aumento della popolazione sono già diventati la base di guerre che mettono a repentaglio approcci ragionevoli, contribuendo a squilibri ecologici sempre più vasti.

«Non si può aspettare oltre per invertire una rotta che ci porta verso la distruzione sicura e imparare a vivere integrandoci con il resto degli abitanti, vegetali o animali di questo pianeta», è allora il punto di partenza dell'esperimento del bio campus. Insomma, la sostenibilità ecologica non può continuare a essere vista come un lusso che possono permettersi solo le nazioni più ricche. Deve trasformarsi in un imperativo universale e anche un automatismo civile. «È un obiettivo essenziale per ogni società umana senza distinzioni di livello economico, localizzazione geografica o cultura», sui Monti Lucretili ne sono convinti.
Certo, imparare a trovare soluzioni a livello dell'intera biosfera può essere una meta troppo lontana da raggiungere per molte persone. Però almeno si può iniziare a capire come diventare ecocompatibili con il sistema di vita locale n el proprio luogo di residenza. Si tratta di obiettivi comprensibili e realistici, anche piccoli sforzi locali possono fare moltissimo a livello planetario.

«Due terzi delle risorse mondiali sono state sperperate, e l'ecosistema planetario non riesce più a metabolizzare le ingiurie che quotidianamente gli vengono fatte», dice il profesor Marco De Riu, uno dei relatori degli incontri. «Oggi che la razza umana vive al di sopra delle proprie possibilità, è tempo di tirare le somme, e il bilancio è drammaticamente in rosso: in anni recenti il flusso delle acque dei fiumi si è drasticamente ridotto, molti si seccano prima di arrivare agli oceani, abbiamo perso il 90% dei predatori degli oceani, il 12% delle specie degli uccelli, il 25% dei mammiferi, il 30% anfibi e la tendenza è in crescita, grazie anche al cambiamento del clima a cui non tutte le specie riescono ad adattarsi. La maggior parte degli eventi nazionali e internazionali dei quali siamo stati testimoni può essere direttamente ricondotta a cause le cui radici sono ecologiche.

Le giornate di Orvinio, dove sono previsti, fra gli altri, oltre all'intervento di Marco De Riu, quelli di Paolo Cacciari, Maurizio Pallante, autore del libro "La decrescita felice" e Raffaele Salinari, vogliono essere un punto di riferimento per conoscere le risposte pratiche - «e gioiose»- di chi ha già fatto scelte di vita diverse e vuole comunicarle a chi avverte il grande disagio di vivere questo tempo ma non sa che cosa fare materialmente per non sentirsi complice della comune follia distruttiva. La natura - dicono al laboratorio itinerante della decrescita, organizzatore dell'evento - non può essere solo un lusso da godere nei week end. Perché non si può mangiare il denaro. Né si può bere il petrolio.


Campodecrescita@gnail.it per informazioni 3382144489


Pubblicato il: 27.08.08
Modificato il: 27.08.08 alle ore 17.46   
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Titolo: Beppino Englaro. Il dolore oltre il dolore
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2008, 11:33:59 pm
Il dolore oltre il dolore


Beppino Englaro


C’è una tragedia nella tragedia che pochi capiscono. C'è una tragedia umana che, malgrado tutto, un senso ancora ce l'ha. E c'è una tragedia artificiale tutta dentro quella umana, cui è difficile dare un senso.

La tragedia umana cui la mia famiglia è stata sottoposta è quella che la sorte ci ha riservato il 18 gennaio 1992: un incidente stradale ad una figlia di ventuno anni è una disgrazia che capita alle famiglie sfortunate. È l'imprevedibile di cui è costellata l'esistenza dagli inizi del tempo, a cui siamo abituati perché contrappasso della stessa possibilità del vivere: accettare che accadano cose sulle quali non è possibile per l'uomo avere un controllo, un governo, che non è possibile prevedere né impedire. Mia figlia uscì da questo incidente in coma profondo, intubata, la testa piena delle lesioni subite, fogliolina muta a brandelli, malamente attaccata all’albero della vita.

Ci dissero di attendere le prime quarantotto ore, poi altre quarantotto, poi ancora. Noi genitori eravamo del tutto sgomenti per quello che vedevamo accadere, ma fin qui ci sembrava di vivere nell'umana consuetudine, cui fa la sua parte vischiosa e drammatica anche il dolore - quello che fa piangere nei corridoi degli ospedali, quello che ti lascia un senso di precarietà così acuto da avvertirlo sotto lo sterno, una vertigine da perdere il fiato, da perdere il senno.

La tragedia maestra, sfidando la legge dell'umana sopportazione e lasciandoci di stucco perché credevamo di essere già sul fondo della disperazione possibile, doveva ancora arrivare. Mia figlia, in piena salute, aveva avuto modo di vedere nel caso di un amico che cosa adesso le volevano fare, lo aveva visto con i suoi occhi ed aveva intuito che la strada intrapresa dalla medicina d'urgenza era piena di pericoli, o meglio ne sfiorava uno solo, ma profondo come un burrone.

Quando si interviene con i soccorsi e si salvano le persone dalla morte non va sempre bene. È questa una realtà di fatto quasi sconosciuta. I medici possono impedire il decesso ma creare un danno che è ben peggiore. Ben peggiore se viene sbarrata la porta di uscita, se non si può scegliere per la dipartita. Lo stato vegetativo permanente - SVP, è proprio ciò a cui mi riferisco. La sopravvivenza obbligatoria ad oltranza è poi la sua punta nauseabonda d'eccellenza.

Mi spiego: se i medici intervengono e grazie al loro soccorso qualcuno non muore ma entra in SVP, attualmente, non ne può più uscire. Anche se si era espresso in passato dicendo che non avrebbe voluto stare in vita senza accorgersene, con le mani altrui che violano ogni intimità, ogni distanza fra la sfera personale, il proprio corpo, e il resto del mondo, non ne può più uscire.

Mi accorsi con incredulità che i medici con cui parlavo e la gente tutta intorno, avevano un punto di vista antitetico al mio, avevano valori opposti ai nostri; guardando lo stesso punto vedevamo cose diverse. Eccola, la vera tragedia: la civiltà a cui appartenevo, in quel preciso momento storico, aveva fatto valere per tutti dei valori nei quali Eluana, sua madre Saturna ed io non ci riconoscevamo e non ci riconosciamo. Essa difendeva, con i suoi ordinamenti giuridici e deontologici, il dovere di far sopravvivere gli individui in SVP contro la loro volontà per rendere omaggio alla vita, a questo bene personalissimo. Che lo SVP sia eretto, come ora accade, a paradigma della difesa del valore della vita umana, che sia fatto strumento per innalzare osanna verso supposte divinità, mi sembra una follia. Che esso incarni lo stato dell'arte della medicina d'urgenza, dopo un prodigioso acceleratissimo sviluppo, anche.

«Ti strappiamo alla morte, non sei con i vermi», ho dovuto anche sentirmi dire dai medici «non ti basta»? No, non mi basta è la mia risposta. Non riesco a concepire che questa cultura del «non morto encefalico» (così mi fu definita questa condizione in cui non sei più come le altre persone e non sei in stato di morte cerebrale) si faccia chiamare «cultura della vita». E mi sconvolge la tenacia con cui vogliono difendere questa conquista dell'invasività tecnologica che, ai miei occhi, è un macroscopico fallimento e miete vittime in modo inaudito, come le guerre. Mi sembra di scorgere quello che è accaduto: la morale medica e religiosa dominante, nel nostro Paese e nella nostra politica, non è stata in grado di stare al passo dell'evoluzione medica e si è limitata a stazionare in quella che era la scelta consona per il secolo scorso, quando l'80% delle persone non moriva, come avviene adesso, nei letti ferrosi degli ospedali.

La tragedia nella tragedia è che Eluana sopravvive finora per il volere di alcune persone che si sono messe tra lei ed i fatti tutti suoi, tra lei ed il suo desiderio di essere lasciata morire senza prima sostare nel corridoio vuoto dello SVP. Mai e poi mai può essere dato ad alcune persone il potere di creare queste cose e ad altre il potere di imporle.

È di una violenza inaudita non poter rifiutare l'offerta terapeutica. Eluana, Saturna ed io sapevamo come evitarlo, avevamo ben presenti i problemi della rianimazione ad oltranza e lo sbocco possibile nello SVP. Tutto era stato chiarito. I nostri pensieri convergevano verso un'unica opinione: è preferibile rinunciare a questa insensata possibilità di sopravvivenza.

Vorrei fosse sempre chiaro che noi, al contrario di altri, non esprimiamo giudizi su chi nutre fermamente un'opinione diversa dalla nostra. Per la libertà che difendiamo, rispettiamo il desiderio di chiunque riguardo a se stesso. E nonostante gli scontri e le batoste ricevute non abbiamo mai smesso di cercare il dialogo, il confronto, perché sentiamo la nostra posizione umanamente e razionalmente sostenibile è sempre più condivisa.

Ho notato, con amarezza, che le persone restie ai condizionamenti - delle quali Eluana era una evidente esemplare - vengono mal tollerate dalla nostra società perché, reclamando l'esercizio delle loro libertà fondamentali, sovvertono l'ordine prestabilito, e questo infastidisce e spaventa. Non si coglie che essi sono una ricchezza per la collettività, uno sprone al pensare da sé, un contributo al pacifico e prezioso fermento civile. Forse si teme il contagio che la libertà, come l'allegria, sanno muovere tra le persone dalle sensibilità affini.

Con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 16 ottobre 2007 e con il decreto della Corte d'appello del 9 Luglio 2008, è iniziata la controtendenza: da randagio che abbaiavo alla luna son passato ad araldo di un diritto sentito da molti (diritto che, non dimentichiamolo, in alcuni paesi è stato riconosciuto trent'anni fa!). La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né «al posto» di Eluana. Nei fatti sono dovuti trascorrere 5750 giorni, 15 anni e 9 mesi, per poter intravedere la possibilità di decidere «con» Eluana, la stessa che ho osato rivendicare dal lontano gennaio 1992.

Ho sempre dato per scontato che la possibilità di rifiutare la sopravvivenza in SVP dovesse rientrare tra le nostre libertà ed i nostri diritti fondamentali. Credo che le Corti non tarderanno a ribadirlo nonostante l'ultimo ricorso della Procura della Repubblica della Corte d'Appello di Milano.

*Socio della Consulta di bioetica

Pubblicato il: 30.08.08
Modificato il: 30.08.08 alle ore 14.02   
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Titolo: NAOMI WOLF Com'è sensuale quel velo
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 04:34:26 pm
10/9/2008
 
Com'è sensuale quel velo
 
 
NAOMI WOLF
 
Una donna vestita di nero fino alle caviglie, con la testa coperta da un foulard o dal chador, passeggia per una via dell’Europa o del Nord America, circondata da altre donne in top, minigonna o pantaloncini. Passa sotto enormi cartelloni sui quali altre donne vanno in estasi sessuale, saltellano con addosso solo biancheria intima o si stiracchiano languidamente, quasi completamente nude. Potrebbe esserci qualcosa di più appropriato di queste immagini per rappresentare il disagio dell’Occidente verso i costumi sociali dell’Islam, e viceversa?

Le battaglie ideologiche vengono spesso combattute con i corpi delle donne, e l’islamofobia occidentale non fa eccezione. Quando la Francia ha bandito i foulard dalle scuole, ha usato la hijab come emblema dei valori occidentali in senso lato, compreso un appropriato status delle donne. Quando gli americani si preparavano all’invasione dell’Afghanistan, i taleban furono demonizzati perché negavano alle donne i cosmetici e le tinture per capelli; quando i taleban furono rovesciati, i giornalisti occidentali sottolineavano spesso che le donne si erano tolte il velo.

Ma noi in Occidente non stiamo forse fraintendendo radicalmente i costumi sessuali musulmani, in particolare il senso del velo o del chador? Non siamo forse ciechi di fronte ai nostri marcatori di oppressione e di controllo delle donne?

L’Occidente interpreta il velo come repressione delle donne e soppressione della loro sessualità. Ma quando, viaggiando nei Paesi musulmani, sono stata invitata a partecipare a incontri con sole donne all’interno di case musulmane, ho imparato che l’atteggiamento musulmano verso l’aspetto e la sessualità femminile non ha le sue radici nella repressione, ma in un forte senso del pubblico rispetto al privato, di ciò che si deve a Dio e ciò che si deve al proprio marito. Non è che l’Islam sopprima la sessualità, è che ha un fortissimo senso di come vada incanalata in modo appropriato: verso il matrimonio, verso i legami che sorreggono la vita familiare, verso l’attaccamento che protegge la casa.

Fuori dei muri delle tipiche case musulmane che ho visitate in Marocco, in Giordania, in Egitto, tutto era modestia e decoro. Dentro però le donne erano interessate al fascino, alla seduzione e al piacere come qualunque altra donna al mondo.

A casa, nel contesto dell’intimità maritale, c’era abbondanza di biancheria sexy e di creme per la pelle. I video dei matrimoni che mi sono stati mostrati, con la danza sensuale che la sposa impara come parte di ciò che la rende una magnifica moglie, e che offre con orgoglio al suo sposo, suggeriva che la sensualità non è estranea alle donne musulmane. Piuttosto, piacere e sessualità, sia negli uomini sia nelle donne, non devono essere mostrati in maniera promiscua - e potenzialmente distruttiva - agli occhi di tutti.

Molte delle donne musulmane con cui ho parlato non si sentivano affatto asservite dal chador o dal velo. Al contrario, si sentivano liberate da quello che avevano sperimentato come lo sguardo occidentale intrusivo, oggettivante, bassamente sessuale. Molte mi dicevano: «Quando indosso abiti occidentali, gli uomini mi fissano, fanno di me una donna oggetto, oppure mi trovo a confrontarmi con le modelle sulle riviste, un livello difficile da raggiungere, e ancora più difficile a mano a mano che passano gli anni, per tacere di quanto sia faticoso essere continuamente in mostra. Quando ho il velo o il chador, la gente si mette in rapporto con me come individuo, non come oggetto. Mi sento rispettata». Il pensiero femminista non è molto lontano da ciò.

Questa liberazione l’ho sperimentata anch’io. Un giorno in Marocco ho messo un shalwar kameez e un velo per andare al bazar. Una parte del calore che ho trovato era probabilmente dovuto alla novità di vedere una donna occidentale vestita così, ma mentre giravo per il mercato - la curva del seno coperta, la forma delle gambe oscurata, i lunghi capelli che non svolazzavano intorno al viso - ha provato un insolito senso di calma e serenità. Mi sono sentita, in un certo modo, libera.

Le donne musulmane non sono sole. La tradizione cristiana occidentale dipinge tutta la sessualità, anche quella coniugale, come peccaminosa, mentre l’islam e il giudaismo non hanno mai avuto quello stesso tipo di separazione spirito-corpo. In queste culture la sessualità incanalata nel matrimonio e nella famiglia è vista come fonte di grande benedizione approvata da Dio.

Questo spiega perché sia le donne musulmane sia le ebree ortodosse non solo descrivono il senso di liberazione offerto dai loro abiti modesti e dai capelli coperti, ma esprimono anche, nella loro vita coniugale, livelli più alti di gioia sensuale di quanto non sia usuale in Occidente. Quando la sessualità è tenuta privata e diretta su strade considerate sacre - e quando il marito non vede sua moglie (o altre donne) mezza nuda tutto il giorno - quando il velo o chador cadono nella sacralità della casa, si possono sperimentare grande potenza e intensità.

Tra i giovani uomini sani dell’Occidente, cresciuti nella pornografia e nelle immagini sexy a ogni angolo di strada, la scarsa libido è quasi un’epidemia. È facile invece immaginare il potere della sessualità in una cultura più pudica, le esperienze positive che le donne - e gli uomini - possono avere in culture dove la sessualità è gestita in modo più tradizionale.
Non intendo condannare le leader femminili del mondo musulmano che considerano il velo come un mezzo per controllare le donne. La possibilità di scegliere è tutto. Ma gli occidentali dovrebbero riconoscere che quando una donna in Francia o in Gran Bretagna sceglie il velo, non è necessariamente un segno della sua repressione. E, cosa più importante, quando tu scegli la tua minigonna e il tuo top - in una cultura occidentale nella quale le donne non sono così libere di invecchiare e di ignorare i negozi del lusso in Madison Avenue, e non sono sempre rispettate come madri, come lavoratrici e come esseri spirituali - vale la pena pensare in modo più sfumato a che cosa sia davvero la libertà femminile.

Copyright Project Syndicate, 2008


da lastampa.it


Titolo: Englaro eroe e vittima della giustizia
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 02:35:36 pm
11/9/2008
 
Englaro eroe e vittima della giustizia
 
 
MICHELE AINIS
 

Se il ministro Alfano insedierà una commissione di riforma per la giustizia riformata, a presiederla dovrebbe chiamare Beppino Englaro. Non tanto per la sua competenza sulle questioni etiche: materia per santi o per scienziati, e in Italia almeno i primi sono una falange. Quanto per la sua esperienza di labirinti giudiziari, dopo 11 anni trascorsi saltabeccando da un tribunale all’altro. Eluana, la figlia, è in stato vegetativo permanente dal 18 gennaio 1992. Nel ‘97 il padre s’è infilato per la prima volta in un’aula di giustizia, ottenendone la nomina a tutore. Lo scopo? Ricevere l’autorità legale per restituire alla morte quel corpo ridotto a uno zombie. Avrebbe potuto risolvere la faccenda all’italiana, portandosi Eluana a casa e «dimenticando» d’iniettarle la soluzione nutritiva. Nessuno avrebbe detto nulla, nessuno avrebbe mai saputo nulla. Avrebbe potuto scegliere un gesto di rottura, chiamando un anestesista al capezzale di famiglia, un altro Mario Riccio per un’altra Welby. Tanto a cose fatte nessun tribunale ti condanna. Ma lui no, non ha mai pensato di deragliare dai binari del diritto. Impartendoci una lezione: saranno pure fallaci e provvisorie le certezze che dispensa la giustizia umana, ma non ne abbiamo altre.

Sennonché la vicenda processuale di Beppino Englaro riflette come uno specchio deformante tutti i guai della giustizia italiana. Tre procedimenti autonomi, con un rimbalzo fra Lecco e Milano. Pattuglie d’avvocati. Due distinte - e opposte - decisioni della Corte d’appello di Milano, anche perché rese da due sezioni differenti. Altre due distinte - e nuovamente opposte - pronunzie della Cassazione, in attesa della terza. La nomina di un curatore speciale (l’avvocato Franca Alessio), dato che il papà come tutore non è abbastanza olimpico nelle proprie volizioni. Perizie, testimonianze (le amiche di Eluana), interrogatori come in un film di Perry Mason. Infine un decreto di 62 pagine, che autorizza il buon Beppino a interrompere il trattamento di sostegno, purché in un hospice e sotto vigilanza medica.

Fine della giostra? Macché. Il decreto della Corte d’appello di Milano reca la data del 25 giugno, ed è immediatamente esecutivo; ma sta di fatto che dopo oltre due mesi il suo destinatario non riesce a dargli esecuzione. L’ultimo in ordine di tempo è il «niet» della Regione Lombardia, che ha chiuso a chiave le proprie strutture sanitarie. Quel decreto giudiziario - ha detto il presidente Formigoni - viola le leggi, il codice deontologico dei medici, ma soprattutto offende «la mia personale convinzione». D’altronde se la giustizia è un’opinione, come negare la libertà d’opinione alla politica? E infatti da Toscana e Lazio, Regioni a maggioranza di sinistra, giungono profferte per accogliere Eluana. Mentre il Parlamento, dove la maggioranza pende a destra, spara un conflitto d’attribuzioni senza precedenti contro il verdetto della magistratura.

Deciderà perciò la Corte Costituzionale, trasformata in un improprio quarto grado di giudizio. Ma deciderà la stessa Corte d’appello di Milano, cui proprio ieri la Procura generale ha domandato di sospendere l’efficacia del decreto. E deciderà altresì la Cassazione, chiamata ancora in causa dal pg: e tre. Del resto ci sarà pure una ragione se nel 2006 i ricorsi civili pendenti in Cassazione hanno sforato il muro dei 100 mila. Se a quest’ultimo piano dell’apparato giudiziario - sulla carta aperto al pubblico solo in circostanze eccezionali - lavorano 350 magistrati, contro i 123 della Corte tedesca. Se in Italia gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono quasi 40 mila, in Francia meno d’un migliaio.

Scriveva Voltaire nel 1764: «Se a Parigi ci fossero 25 camere di giudici, ci sarebbero 25 giurisprudenze diverse». I 25 giudici di Eluana, nonché i 25 politici che baruffano coi primi, stanno lì a dargli ragione. Nel frattempo alla giustizia non ci crede più nessuno, tanto si sa che una sentenza non è mai una cosa seria. Ma almeno c’è rimasto lui, Beppino Englaro, a prenderla sul serio.

michele.ainis@uniroma3.it 


da lastampa.t


Titolo: ELENA LOEWENTHAL Il figlio preferito
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 12:21:45 pm
15/9/2008
 
Il figlio preferito
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Tu vuoi più bene a lei/lui che a me!»: quale madre, esemplare o distratta, devota o sciagurata, non si è mai sentita rinfacciare da un figlio/a di preferirne biecamente un altro/a? Che scatti con rabbia o con ironia, la filiale provocazione lascia il tempo che trova: di solito si prende con un sorriso, una indulgente alzata di spalle. Almeno fino a ieri è stato così, a ogni latitudine e censo; ma non è detto che domani non sia tutto un altro giorno, al proposito.

www.Netmums.com, infatti, un sito Internet inglese che si occupa dei problemi connessi con l’allevamento dei figli, ha appena pubblicato un sondaggio alquanto interessante. Donde risulta che l’amore materno non è per niente uniformemente spalmato sulla prole plurale. Anzi: una mamma su sei, in una ricca campionatura composta da più di mille fattrici, ha ammesso di preferire un figlio all’altro. Ma, dato ancor più interessante, solo una su tre ha dichiarato con inequivocabile fermezza di non fare distinzioni affettive. Come a dire che la zona grigia, quel vasto e inafferrabile cono d’ombra che avvolge due buoni terzi dell’universo materno (almeno quello qui sondato), è delimitata dall’omertà e dal sospetto. Dal sapere e far finta di non sapere o non voler ammettere. Che i figli sì, si preferiscono. Anche se è magari l’ultima cosa che si sarebbe disposte ad ammettere sotto tortura.

Perché in un mondo come il nostro che ha scardinato certezze e luoghi comuni, che ha spazzato via come vecchia polvere i tabù più radicati, ce n’è ancora uno che tiene: l’intoccabilità dell’amor materno. O meglio, le aspettative che il mondo intero ripone in quel sentimento. Là dove ovunque vige il pressappoco, sull’amor materno si è rimasti esigenti. Rigorosi. Oltranzisti. L’amor materno è sconfinato, generoso, inestinguibile. In altre parole: perfetto. Non è soltanto immensamente buono, deve anche dimostrarsi assolutamente equo. Come se la giustizia ce l’avessimo incisa nel Dna, noi mamme. Come se mettere al mondo un figlio significasse ritrovarsi con la toga addosso. Fra le innumerevoli fatiche del mestiere di madre, l’esercizio di una sommaria magistratura è forse la più improba: hai sempre occhi e orecchie e corti d’appello puntati addosso.

E allora, invece di metter le mani avanti (comunque son mamme d’Oltremanica… mica come noi), diciamolo una volta per tutte: anche le mamme preferiscono. Qualche volta. Ogni tanto. In casi speciali. Per ragioni obiettive - fra un figlio scriteriato, sfaticato, debosciato e uno modello, ad esempio. Per altre ragioni, annidate nel subconscio (ebbene sì, ce l’abbiamo anche noi mamme). Là dove magari ammicca quel tanto di narcisismo che basta per contemplare il figlio/a che più ci somiglia, rispetto a quello/a che ha preso tutti i (molti) difetti di papà. O i suoi (pochi) pregi. Forse, di fronte a quest’ultimo totem che crolla miseramente al primo sondaggio che passa, non resta che ammettere l’evidenza. Sarà triste e scomoda, questa evidenza che proprio come tutto il resto a questo mondo nemmeno l’amore materno è perfetto. Ma che sollievo, poterlo finalmente dire.

Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
 
da lastampa.it


Titolo: Alessandra Bocchetti: Se le donne ci sono
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:43:08 pm
Se le donne ci sono


Alessandra Bocchetti


«Nell’inverno del nostro scontento…» (generale) si parla molto di donne. E il succo dei discorsi è, nella stragrande maggioranza dei casi, che le donne non vanno bene, e che non si possono proprio sopportare. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo veramente, che sarebbe un vero sollievo e farebbe una grande chiarezza. Questo a leggere i molti articoli di commento sui nostri giornali, quasi ma non tutti a firma maschile, sulle ministre, sulle candidate e sulle ex candidate alla Casa Bianca, sulle donne al governo nel mondo o semplicemente le donne che fanno qualcosa che vada al di là della parte che l’immaginario patriarcale occidentale (ancora quello) le abbia assegnato. Male se sono incinte, se hanno figli, se non li hanno, se sono belle, se sono brutte, se sono buone, cattive, pacifiste, guerrafondaie, giovani, vecchie, malvestite, benvestite, tacchi a spillo, mocassini, allegre, tristi, di destra, di sinistra. Male, male, male. Tutto per negare il semplice fatto che le donne semplicemente «sono».

Verità fattuale "le donne sono" e quindi sono in tanti modi differenti. C’è chi ama la caccia e chi no, chi è per l’aborto e chi è contro, e così via. Essere donna non è una virtù, è semplicemente essere donna. E questo sembrerebbe una cosa dura da accettare. Ma ancora più dura quando si passa dall’essere all’ "esserci". Allora apriti cielo. Che fanno? Si candidano alla Casa Bianca?, dirigono giornali? Comandano i generali? Ma cosa è carnevale? con il servo in carrozza e il padrone in cassetta?

Nel femminismo, di onorata memoria, che oggi viene ricordato e raccontato così male, le donne avevano capito che per essere libere dovevano non essere più schiave delle loro virtù, ma essere padrone delle loro virtù, che significava il passaggio dal privato al pubblico, passaggio ahimè avvenuto imperfettamente. Passaggio imperfetto, debole, solo così si riesce a spiegare come mai in un paese che ha avuto il femminismo più politico del mondo, le donne si ritrovano in una condizione così misera sia materiale, sia simbolica. Nel nostro paese, nonostante la legge, ancora una donna è pagata meno di un uomo per lo stesso lavoro, la prostituzione impazza, e un canale pubblico, cioè pagato da tutti noi, dedica ben tre prime serate all’elezione miss Italia. Per limitarci a tre punti, ma l’elenco potrebbe essere sterminato. Che dire poi dei dibattiti assolutamente medievali che in questi anni si sono scambiati a proposito del corpo delle donne, dei suoi embrioni, delle sue tube, dei suoi desideri impropri ecc. a cui ha partecipato anche una sinistra compiacente, incerta, confusa, ambigua, complessata. E molti a dire ma le donne non dicono niente? ma le femministe dove stanno? Perfino Giuliano Amato che non è certo stato una amico del femminismo, di fronte a tanta indecenza si è ritrovato a dire «Quando c’era il femminismo questo non si sarebbe potuto vedere né sentire».

Ma il femminismo è stato un movimento e come tale ha avuto fine, un movimento vero non è mai eterno, è una scarica di energia, che produce pensiero nuovo, pensiero che va raccolto e tradotto per un cambiamento non solo delle coscienze ma anche dell’assetto del paese delle sue scelte, delle sue priorità, della visione di un futuro. E non sto parlando solo della "condizione delle donne", sto parlando della condizione di tutti. Un paese dove, nel tentativo impossibile di far quadrare il bilancio, si taglia sulla sanità, sui servizi, sulla scuola, sulla formazione, sulla ricerca è un paese dove le donne non esistono politicamente. Passaggio imperfetto.

È sempre incongruo andare a ricercare le colpe nella storia, tuttavia sarà possibile fare almeno un’analisi per capire parte delle ragioni della situazione in cui ci troviamo. Per prime le donne stesse, noi. È sempre meglio guardare dove avremmo potuto fare meglio. Per anni una parte di noi ha predicato quella che chiamo "l’aristocrazia del nulla" , cioè stare alla larga dalla politica istituzionale, grande successo se una donna usciva da un partito, congratulazioni se usciva dal sindacato e un premio speciale a chi assicurava che non ci avrebbe mai più messo piede.Tanta energia e intelligenza poi si sono investite nella ricerca di un Dio possibile anche per noi donne, ritenendo che per un soggetto non ci possa essere fondamento senza trascendenza. Tutto legittimo. Poi tante energie sono andate invece in un dialogo impossibile con una sinistra sorda e monolitica. Diciamoci la verità la sinistra che ha sempre sostenuto di "voler dare la parola alle donne" in verità si è ben guardata dal farlo e le donne, d’altra parte, si sono ben guardate dal prendersela. Eppure bisognerebbe ricordare che, in tante occasioni, la Sinistra non sarebbe stata veramente Sinistra senza le donne . Ne ricordo solo una: senza la pressione delle donne mai il Partito Comunista si sarebbe impegnato nella battaglia per la legge sull’aborto, lo fece obtorto collo, assolutamente costretto dalla forza delle sue donne, alleate in quella occasione - e fu una straordinaria occasione - con le donne del Movimento.

In quanto a misoginia i governi di sinistra sono stati a questo proposito esemplari. Alle pochissime donne sempre ministeri senza portafoglio, tranne poche eccezioni. O addirittura per loro i ministeri si inventavano, il capolavoro assoluto fu l’invenzione del Ministero della Famiglia che toccò alla povera Rosy Bindi a cui sarebbe spettato ben altro. Come, anni prima, Anna Finocchiaro piazzata in quell’altra bella invenzione che fu il Ministero delle Pari Opportunità. E come dimenticare, alle ultime elezioni amministrative romane, quel palco a Piazza del Popolo con Veltroni che presentava il candidato sindaco e il candidato alla Provincia e sul palco una sola donna su una sedia a rotelle. Piangere? Ridere? Una cosa è certa però: le donne si potrebbero sottrarre, non nel senso dell’"aristocrazia del nulla", ma nel senso dell’obiezione politica. Per esempio, le Ministre dell’ultimo governo Prodi, nel momento in cui - e ci deve essere senz’altro stato - si sono rese conto del piattino che era stato loro servito, tutte senza portafoglio tranne una, perché non hanno fatto un passo indietro? Perché non hanno detto «il Governo ve lo fate da soli», ben sapendo che un Governo ormai per "decenza internazionale" non si può più presentare senza donne?

Mi si potrebbe rispondere perché a quel tempo c’erano ben altre gatte da pelare. E proprio così arriviamo al nostro principale difetto, al re dei difetti: non considerarsi mai una priorità, non per se stesse ma per il proprio paese, incapaci di radicarsi nel pensiero di una verità tanto semplice, ma tanto semplice che dovrebbe essere superfluo nominarla: un paese di uomini e di donne non può essere governato da soli uomini, non per un astratto senso di giustizia, ma semplicemente perché funzioni meglio, perché sia più equilibrato. Non è vero che gli uomini e le donne sono complementari, si sono necessari per vivere insieme.

Devo dire la verità, da un po’ di tempo a questa parte vivo con la sensazione che questo paese abbia perso l’anima e che siamo tutti soli, orribile sensazione, ma se c’è qualcosa della scena pubblica che ancora mi commuove, che mi dà forza, che mi dà piacere, ma anche infinita rabbia delle volte, è guardare le donne che cercano di fare il loro meglio là dove hanno scelto di stare. Quindi coraggio e buon lavoro a tutte.

Forse perché sono proprio incorreggibile.

* filosofa, teorica del femminismo



Pubblicato il: 18.09.08
Modificato il: 18.09.08 alle ore 8.50   
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Titolo: Sessualità, moda, tecnologia 'Cosa può fare una donna islamica?'
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 12:04:16 am
Donne e ragazze musulmane pongono domande e si danno risposte sul forum di un sito internet in italiano gestito da un giovane genovese convertito

Sessualità, moda, tecnologia 'Cosa può fare una donna islamica?'

Sì ai tacchi purché non "la camminata non diventi ondeggiante"

Sì anche al rossetto, ma chattare tra ragazzi e ragazze può essere sconveniente


di STEFANIA CULURGIONI


Le scarpe coi tacchi? "Una musulmana le può indossare. Basta che il tacco non sia troppo alto, sennò la camminata diventa ondeggiante e questo non sarebbe dignitoso". E i pantaloni? Li può mettere una donna? "Sì, basta che siano larghi e che non lascino intravedere le forme. Anzi, a volte vanno pure meglio del vestito lungo, che magari si sposta e lascia scoperte le caviglie". E le infradito? E lo smalto? E msn "per comunicare col mio ragazzo? E' lecito oppure è proibito"? Amore, sessualità, moda. E il tentativo di coniugarli con i precetti della religione.

Si chiama "Discussioni sull'islam" il forum che, lanciato un anno fa sul web, sta diventando un punto di riferimento per le donne musulmane italiane (o meglio italofone, visto che molte scrivono anche dall'estero). Studentesse e lavoratrici, donne sposate, fidanzate con un credente oppure single, già musulmane oppure fresche d'islam. Donne, insomma, che vogliono sapere come si fa, nel ventunesimo secolo, ad essere perfettamente praticanti e pienamente donne. Come si può continuare ad essere trendy senza però commettere peccato.

Lanciato un anno fa da uno studente genovese di 23 anni convertito all'islam (si chiama Umar Andrea Lazzaro, è anche titolare di un blog antiamericanista e per le sue posizioni radicali è stato più volte contestato all'interno di altri forum, non musulmani), il sito è una raccolta di pensieri, domande e risposte sulla religione e su come farla combaciare con la vita di tutti i giorni.
Più di 400 gli utenti, oltre 7mila i messaggi arrivati dall'apertura ad oggi, trenta i macro argomenti su cui chi si registra può intervenire e lasciare il suo post. Tra questi, appunto, la sezione dedicata alle donne: "Islam al femminile". E' dentro quelle pagine che, dal giugno dell'anno scorso, tante ragazze esternano i loro dubbi. Chiedono e si danno consigli facendo riferimento al Corano e cercando risposte nei siti di esperti accreditati che hanno interpretato le sacre scritture.

I topic più gettonati? "Vero", utente senior, ha chiesto dove poteva trovare parrucchiere per le donne che, anche durante il taglio, non possono mostrare i capelli a un uomo che, eventualmente entrasse nel negozio. Parrucchieri dotati di paraventi o "chiusi" al sesso maschile? "Sicuramente non ci sono strutture islamiche specifiche che offrano tali servizi - le ha risposto "Pensosa", la moderatrice - tuttavia puoi sempre cercare delle sorelle esperte nel campo". Oppure, le dice qualcun'altra, chiedere alla parrucchiere di non far entrare uomini mentre ti fai la piega.

"L'importante, infatti, è che orecchie, collo e capelli non vengano esposti ad estranei dell'altro sesso - chiarisce l'amministratore - oppure, secondo le interpretazioni più restrittive, di fronte a donne non musulmane".

Maria, che abita a Bologna, chiede invece dove si possono trovare negozi che vendono l'abbigliamento adatto. Dino vuole sapere se le donne possono indossare le infradito ("sì, purché il piede non sia nudo - fa sapere Talib - perché le uniche parti che una donna può tenere scoperte sono il viso e le mani"). Justroby si vuole mettere lo smalto, ma non è sicura che si possa fare ("Lo puoi fare - è la risposta - ma come ogni altro trucco e abbigliamento, non lo possono vedere gli estranei ma solo tuo marito. E comunque, lo devi togliere per le abluzioni").

Mouslima è una studentessa e dice che vorrebbe tanto indossare il velo a scuola ma ha paura delle battutine dei compagni, e teme di non riuscire ad affrontare le lezioni di educazione fisica. E poi c'è Ucaoe che, da Varese, chiede se secondo i precetti dell'Islam si può usare msn: "un ragazzo e una ragazza che abitano lontani, si vedono una volta alla settimana e vogliono sposarsi, possono usare msn per comunicare?".

Una domanda cruciale, di questi tempi, e anche insidiosa su cui il forum, per un attimo, ha oscillato. "Non credo ci siano problemi - le ha risposto Ummah - basta che sia usato in maniera costruttiva.. Ma le vostre famiglie lo sanno?". La drizzata è arrivata però dall'amministratore, con tanto di link a "sapienti" in lingua inglese a confermare le sue risposte: "L'utilizzo di msn, come di qualsiasi altro mezzo elettronico, la chat eccetera, tra estranei di sesso diverso è proibito - dice - ma capisco quanto sia difficile tra fidanzati. Sarebbe meglio allora utilizzare il telefono con lo scopo di conoscervi un po' ma senza esagerare nella durata, e mantenendo sempre una comunicazione modesta ed halal (cioé "che sta dentro le regole"; ndr). Premessa di tutto ciò: i genitori devono saperlo, ed il ragazzo aver fatto la proposta di matrimonio".

La domanda, però, nasce spontanea: e il forum? "Questo spazio - ha spiegato Andrea Lazzaro - grazie a Dio e al suo permesso è diventato il forum islamico in italiano più frequentato e visitato". Un modo, insomma, per diffondere la cultura islamica. Ma non è anch'esso un mezzo elettronico che fa comunicare estranei di sesso diverso?

(20 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: IRENE PIVETTI Il femminismo riparte dal rossetto
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:20:44 am
22/9/2008
 
Il femminismo riparte dal rossetto
 
IRENE PIVETTI
 
Complimenti a Giovanna Zucconi per il suo divertente articolo sul rossetto (La Stampa di giovedì), che è tutt’altro che frivolo. Ha colto il punto: la politica, e più ancora il potere, si gioca sui simboli. Da sempre è così, ma oggi che abbiamo media veloci, che trasmettono l’informazione quasi allo stato grezzo, prima che sia razionalizzata, riordinata e resa digeribile dai «narratori» dei leader, il valore evocativo dirompente dei simboli appare con la massima evidenza. Il consigliere del principe, lo spin doctor, può infatti agire sull’impostazione di una campagna, sulla preparazione di un candidato, ma l’ufficio stampa spesso non riesce a filtrare in uscita la battuta, la frase, il concetto, che ci arriva così in tutta la sua sgangherata naturalezza, affascinante o repellente, senza mediazione. E le parole evocano, prima di esprimere.

Una strategia emotiva come quella di Obama sceglie consapevolmente il rischio del pre-razionale, del sogno e dello spettro, e pensa anzi di avvantaggiarsene suggerendo con Barak possibilità di riscatto non solo razziale, ma sociale, culturale, epocale, totale, abolendo ogni discriminazione eccetera. Ma se scendi a queste profondità viscerali l’impatto con le donne può essere molto pericoloso, e non basta essere esponente di una minoranza (i neri) per godere delle simpatie femminili, in quanto gruppo sociale svantaggiato. È sbagliato, perché le donne non si vedono così. Odiano fare la lagna. Non vogliono essere compatite. Non sono, e non si sentono, minoranza. E nella maggior parte dei casi non vogliono più nemmeno fare la guerra al mondo. Esistono, si apprezzano, si aspettano di essere apprezzate. E agiscono, senza particolari imbarazzi (dopo che hai pulito il sedere di qualcuno per i primi due anni e mezzo della sua vita, non ti fa più impressione niente).

Però il loro universo simbolico è molto ricco, a volte complesso, e trattarle «con naturalezza», specie pubblicamente, in fin dei conti non si può, o almeno finora non ci è riuscito nessuno. Perché come niente fai una gaffe, che è poi un’offesa con goffaggine, e allora tanto vale una bella comunicazione razionale, piatta e prevedibile, a base di sostegni familiari, diritto al lavoro, rispetto dell’ambiente e tempi della città. Roba vecchia che funziona sempre. Ma Obama no, e via col maiale, e oggi con le soap opera che, se non si ricorda, si chiamano così perché all’origine andavano in onda all’ora in cui le casalinghe usano i detersivi per le pulizie di casa - non proprio quindi un simbolo di empowerment.

Da qui l’importanza del rossetto: azzeccatissima sintesi (e per di più portatile) di femminilità, maternità, potere, libertà, interazione sociale. Lo mettono anche le donne che non si truccano. E poi è un bel colore, o gamma di colori, che evoca calore, vitalità, forza, vita primigenia, dal fuoco al sangue. L’universo simbolico della gamma del rosso è sterminato, e non c’è bisogno che chi alza il lipstick se ne renda conto: proprio perché è un simbolo, è soprattutto subconscio e implicito, e tuttavia agisce.

Insomma, c’è di che trarre molti spunti interessanti per la riflessione, oggi sempre più necessaria, su che cosa sia, o possa essere, un vero nuovo femminismo.
 
da lastampa.it


Titolo: Nel Mali le «donne del karité», storia di una battaglia (vincente) al femminile
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 10:20:27 pm
Progetto di cesvi e just italia

Nel Mali le «donne del karité», storia di una battaglia (vincente) al femminile

Corsi di formazione e attrezzature per rendere più dignitoso il lavoro nella comunità del distretto di Kati


MILANO - Burro di karité. Si chiama così la speranza di un gruppo di donne del Mali, e precisamente del distretto di Kati, nel Koulikoro.
Il loro lavoro si scontra ogni giorno con l'arretratezza dei mezzi e delle tecnologie che non permette di valorizzare quella che è diventata una risorsa fondamentale per il Paese: il burro di karité appunto, un ingrediente di uso comune in cosmetologia, noto per le sue proprietà emollienti, protettive, idratanti e antiossidanti. Sono loro, le donne di Kati (soprannominate «donne di karitè») le destinatarie di un progetto di Cesvi, organizzazione umanitaria di Bergamo, e Just Italia, azienda veronese di cosmetici e prodotti naturali. Obiettivo: sostenere il lavoro e i diritti delle donne maliane attraverso percorsi di formazione, costruzione di opere, acquisto di attrezzature e materiali per un valore di 40mila euro.


«UN PICCOLO MIRACOLO» - Ad oggi nel Mali le donne raccolgono le noci a mano, ad una ad una; l’estrazione della farina e del burro avviene con sistemi rudimentali e faticosi. Il progetto punta a dar loro una formazione professionale, costruendo anche un magazzino centrale e 15 piattaforme di essiccazione, fornendo attrezzature per la lavorazione e conservazione del burro di karité: dai barili ai teli di plastica fino alla pesa e ai contenitori necessari per lo stoccaggio. Quella del karité è una storia di donne che fanno squadra, che lavorano con altre donne lottando per una migliore qualità della vita. «Il progetto è partito anche grazie alla determinazione delle donne che producono il karité - spiega Agata Romeo, responsabile Cesvi del progetto -. Le donne stesse mi hanno spiegato quale fosse la sfida: si tratta di migliorare la qualità del burro e di venderlo affinché anche le donne possano contribuire al sostentamento economico di tutta la famiglia. Donne che hanno un reddito: una specie di rivoluzione se si pensa al ruolo cui esse sono confinate nella cultura Bambara (l’etnia di maggioranza in questa parte del Mali). È una rivoluzione anche per gli uomini che consentono questa attività e che ultimamente la appoggiano esplicitamente. Quello che si sta producendo in questi villaggi è un piccolo miracolo».




25 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Le orfane del mare di Malta
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 11:44:02 pm
Le orfane del mare di Malta

Giovanni Maria Bellu


Di Destiny e Victoria - come le hanno battezzate i medici maltesi - non si conosce l’età. Secondo suor Stefania Caruana, la orsolina che si è presa cura di loro nell’orfanotrofio di Sliema, Destiny ha circa due anni e Victoria sei mesi. Ma è solo un’ipotesi, una stima. D’altra parte, non si sa nemmeno - benché alcuni indizi lo rendano probabile - se siano sorelle. Né in quale paese siano venute al mondo.

L’unica certezza è che, quando dovrà essere compilato un loro documento d’identità, si potrà certificare senza tema di smentita che entrambe sono nate il 9 settembre alle ore 15,25 in mezzo al mare, a settanta miglia dalla costa meridionale di Malta. Il loro liquido amniotico è stato il Mediterraneo. La donna che le ha generate - la madre naturale, probabilmente - è morta dopo un travaglio dolorosissimo tra le onde, alla fine di uno dei tanti naufragi dei boat people africani.

A raccontare tutto questo non è un referto medico ma un rapporto della polizia maltese. Erano appunto le ore 15,25 dello scorso 9 settembre quando l’equipaggio della motovedetta P-52, che da qualche minuto ne seguiva gli spostamenti, vide un barcone carico di migranti capovolgersi nel mare. Tutti indossavano il salvagente e, uno dopo l’altro, furono issati a bordo. Erano in discrete condizioni fisiche a eccezione di due bambine e di una donna. Fu chiesto l’intervento di uno degli elicotteri impegnati nel pattugliamento delle coste. Ma, quando arrivò, la donna era morta. Le bambine, invece, respiravano ancora e furono trasportate immediatamente al “Mater Day Hospital”.

La relazione della polizia, pur senza descriverlo, racconta in modo nitido il travaglio della sconosciuta: le mani strette attorno ai corpi delle due bambine, la forza sovrumana che le consente di fare in modo che le piccole bocche non vengano sommerse dall’acqua mentre lei viene colpita dalle onde che le spezzano il respiro. Se il suo dio le ha concesso la grazia di capire di aver compiuto la sua missione, forse la morte l’ha presa con la dolcezza del sonno. Nessuno dei ventotto superstiti è stato in grado di dire qualcosa sull’unica vittima del naufragio. Nessuno ne ha rivendicato la parentela. La donna che il 9 settembre ha generato Destiny e Victoria - e che con tutta probabilità le aveva partorite in un villaggio eritreo o tra le rovine di Mogadiscio - era partita sola. Accade spesso. Molto probabilmente in Libia c’è un uomo che ancora non ne conosce la sorte e che attende una sua telefonata.

Se quell’uomo, non ricevendo il messaggio convenuto, deciderà che non vale più la pena di partire per l’Europa (o se deciderà di partire e non avrà la fortuna di venire a conoscenza della storia delle due orfane del mare approdate a Malta), Destiny e Victoria saranno messe in stato di adozione. Un esame del Dna accerterà se tutt’e due le volte - la prima sulla terra, la seconda nel mare - sono state partorite dalla stessa donna. Poi, se saranno riconosciute come sorelle, cresceranno assieme e saranno cittadine europee. Anche la sconosciuta avrebbe potuto diventarlo. Se, come tutto fa pensare, veniva dalla Somalia o dall’Eritrea, cioè da paesi dove non è possibile esercitare i diritti democratici, e spesso non è possibile nemmeno esercitare quelli umani, avrebbe avuto diritto all’asilo politico. In astratto, dunque, avrebbe potuto presentarsi a un posto di frontiera e, semplicemente, chiedere di entrare. Ma questo, nella Fortezza Europa di oggi, è un sogno. Bello come quello che, speriamo, ha accompagnato la mamma di Destiny e Victoria negli ultimi minuti della sua vita.

Pubblicato il: 26.09.08
Modificato il: 26.09.08 alle ore 8.47   
© l'Unità.


Titolo: Uccisa la poliziotta delle donne. Era la più famosa di tutto l'Afghanistan
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:01:16 pm
ESTERI
   
Un gruppo di taliban ha fatto fuoco davanti a casa sua. Ferito gravemente un figlio

Dirigeva il Dipartimento per i reati sessuali nella terra del fondamentalismo religioso

Kandahar, uccisa la poliziotta delle donne "Era la più famosa di tutto l'Afghanistan"

Malalai Kakar, la poliziotta uccisa in Afghanistan



KANDAHAR - Era la prima donna divenuta poliziotto a Kandahar dopo la caduta dei taliban. L'hanno uccisa stamane, davanti alla porta di casa. Stava andando a lavorare. E' rimasto ferito gravemente anche uno dei suoi figli. Malalai Kakar era la poliziotta più famosa dell'Afghanistan, un simbolo del riscatto femminile nella terra che fu culla del movimento fondamentalista religioso. Aveva rinunciato a portare il burqa due anni fa e i taliban l'avevano minacciata più volte.

Ma lei non aveva mai chinato la testa: "Era una donna molto coraggiosa", dicono adesso i suoi colleghi. Dirigeva il dipartimento reati contro le donne nella roccaforte dei taliban e sapeva di essere nel mirino dei fondamentalisti. "Girava sempre con la pistola - racconta un agente del suo dipartimento - e sempre insieme a un uomo della sua famiglia".

Ma stamane non le è servito essere armata. Le hanno sparato alla testa ed è morta sul colpo. Aveva quarant'anni ed era madre di sei figli. Suo padre e suo fratello erano poliziotti come lei. Nelle forze dell'ordine era entrata già alla fine degli anni Ottanta, ma poi l'ascesa dei taliban l'aveva costretta a fuggire. Era rientrata alla caduta del loro regime nel 2001 e aveva assunto il comando del Dipartimento con il grado di capitano.

I taliban hanno lanciato una vera e propria guerriglia mortale da quando la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti li ha cacciati dal potere. Malgrado la presenza di 70mila soldati delle forze multinazionali, da due anni le violenze sono aumentate di intensità. Negli ultimi sei mesi i fondamentalisti hanno ucciso 720 agenti. Prima di Malalai Kakar, un'altra donna poliziotto è stata assassinata in Afghanistan nel giugno scorso. Anche allora, la polizia locale di Herat aveva accusato dell'omicidio i taliban.

da repubblica.it


Titolo: Meryl, 59 anni e ancora al top "Noi donne ormai siamo al potere"
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:11:21 pm
SPETTACOLI & CULTURA   

Ovazione per la Streep, a Roma per presentare il musical "Mamma mia!" di cui è protagonista.

E in cui canta e balla meglio di tante colleghe giovani

Viva Meryl, 59 anni e ancora al top "Noi donne ormai siamo al potere"

La diva: "Prima mi lamentavo che per noi attrici c'erano pochi ruoli ora invece le cose sono cambiate".

Poi il suo ricordo del grande Paul Newman

di CLAUDIA MORGOGLIONE

 

ROMA - Se c'è una persona che incarna - con tutta la forza del suo talento inarrivabile, della sua personalità prorompente - l'idea stessa del potere femminile hollywoodiano, capace di rendere vero il luogo comune delle donne per cui la vita comincia a 50 anni, ebbene, questa persona è Meryl Streep. In Italia per presentare il musical Mamma mia! di cui è protagonista, e in cui canta e balla, dando una pista, per inciso, alle colleghe più giovani e più canonicamente belle di lei che vediamo di solito sul grande schermo. "Alcuni anni fa pensavo che i ruoli per le attrici fossero pochi e modesti - confessa - ma oggi le cose sono cambiate. Nell'industria cinematografica come nel resto del mondo, dove ci sono molti capi di Stato e primi ministri donne".

A Hollywood, in particolare, ci sono - aggiunge - molte più personalità femminili ai vertici, che hanno voce in capitolo nelle scelte produttive, che dirigono film o che scrivono sceneggiature di successo". E la dimostrazione trionfante che le cose stanno davvero così è proprio il film per cui è venuta a Roma: tratto da un musical di successo planetario costruito attorno alle canzoni degli Abba, è frutto della bravura e dell'intuito commerciale di una serie di signore dello showbiz. La produttrice Judy Cramer, la sceneggiatrice Catherine Johnson e la regista Phillyda Lloyd: a loro si devono sia la pellicola, sia la piéce teatrale che l'ha ispirata. La storia è ambientata su un'isola greca: una ragazza alla vigilia del matrimonio (Amanda Seyfried) invia tre lettere a tre possibili padri mai conosciuti (Pierce Brosnan, Stellan Skarsgard e Colin Firth) di nascosto della madre (Meryl Streep)...

E su grande schermo, a dare un incredibile valore aggiunto a questa storia semplice e leggera, è ovviamente lei, Meryl. Accolta dai cronisti italiani, che la attendono in un salone del lussuoso hotel St. Regis, con una ovazione, con applausi durati diversi minuti. Un omaggio sia alla sua carriera, ai due Oscar, alle tante interpretazioni memorabili; ma anche alle qualità canore e ballerine, al ritmo e alla verve che sfoggia in Mamma mia!. Anche se, come cantante, l'avevamo già potuta ammirare in Cartoline dall'inferno di Mike Nichols e in Radio America di Robert Altman.

E anche dal vivo, la Streep non delude: intelligente, disponibile, spiritosa, autoironica. Cinquantanove anni portati benissimo, e senza quelle facce deturpate dai troppi lifting a cui il mondo dello spettacolo ci ha abituati. La parola d'ordine, davanti a chi le fa notare il suo ruolo di monumento del cinema contemporaneo, è sdrammatizzare: "Una famiglia - racconta - rimette tutto nella giusta prospettiva. I miei quattro figli sono i primi a dirmi cosa non va, da una battuta detta male, ai miei vestiti, a una barzelletta che racconto e non fa ridere. A volte mi accorgo che le giovani attrici sono un po' intimidite da me sul set, ma appena vedono che anch'io, come tutti, a volte dimentico le battute, capiscono che sono umana".

E quanto alla sua forma, dimostrata anche sullo schermo nel film (dal 3 ottobre nelle nostre sale), spiega che a mantenerla giovane sono "le gioie che mi danno famiglia e carriera. A volte, sento gli anni passare e, a fine giornata, c'è magari qualche dolorino alle ginocchia, ma come molte donne della mia età, ho ancora molte energie e cose da dare". Insomma: alla soglia dei sessant'anni, l'attrice non ha alcuna intenzione di mollare, di fare la pensionata di lusso. Anche perché, come hanno dimostrato i suoi ultimi ruoli (questo in Mamma mia!, ma anche Il Diavolo veste Prada) possiede un talento brillante che in gioventù i registi hanno sfruttato poco.

Dunque, donna è bello a tutte le età. Da qui la bacchettata, ma sempre col sorriso sulle labbra, ad Al Pacino e Robert De Niro: "Con Bob abbiamo lavorato varie volte e con Al solo più recentemente, in Angels of America. Sono per me due amici e due grandi attori, forse un po' machisti: diciamo della 'vecchia scuola'".

E poi, alla vigilia delle elezioni americane, l'inevitabile passaggio sulle sue preferenze politiche: "Voterò Obama, senza dubbio. Sarah Palin non la conosco, come la maggior parte degli americani, anche se penso di sapere perché è nel posto che occupa... ma non commento".

TROVACINEMA: Obama reinventa l'America di ARIANNA FINOS

Infine, inevitabile, il ricordo della leggenda Paul Newman, venuto a mancare proprio mentre lei era a Roma. "Ci mancherà tanto - dice la Streep, il tono commosso - ha avuto una vita straordinaria: con una famiglia come la sua, le sue instancabili campagne progressiste, le sue campagne benefiche".

Insomma: un grande, e non solo sullo schermo.

(28 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Sarah Palin nuova "dea della caccia"
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2008, 01:52:18 pm
RICORDA Ann Oakley, la mitica tiratrice del west che fece parte del circo di Buffalo Bill

Sarah Palin nuova "dea della caccia"

E le donne Usa ora la imitano

Da quando la governatrice è apparsa con il fucile e un alce abbattuto, molte americane si danno a questo sport



WASHINGTON – Diana dea della caccia: questo, secondo il Wall Street Journal, è il nuovo ruolo di Sarah Palin, la candidata repubblicana alla vicepresidenza. Da quando la governatrice dell'Alaska è apparsa in fotografia con accanto un alce abbattuto, un mucchio di donne americane si sono date a questo sport. Il loro numero sta aumentando, scrive il giornale, mentre quello numero dei cacciatori maschi sta diminuendo. La Palin è diventata il loro modello, la reincarnazione di Ann Oakley, la mitica tiratrice del west che a cavallo del Novecento fece parte del circo di Buffalo Bill e a cui Hollywood dedicò il film «Anna prendi il fucile». L'«effetto Palin» si era già fatto sentire nella moda – sempre più donne corrono a comprare i suoi occhiali, le sue scarpe ecc. –, ma sembra forte soprattutto nella caccia. Spettacoli televisivi come «La cacciatrice americana» non parlano che di lei, e siti internet come Women-hunters.com sollecitano la popolazione femminile a imitarla.

«PIÙ BRAVA DEGLI UOMINI» - Gli animalisti detestano la governatrice, che ha avallato la caccia ai lupi e agli orsi con gli elicotteri in Alaska. Ma per parecchie donne la Palin è il simbolo della parità dei sessi anche nello sport. «È più brava di molti uomini - dichiara Linda Burch, una cacciatrice di orsi del Minnesota - ed è sexy. È la prova che per cacciare non occorre essere vichinghe». Per l’industria della caccia la candidatura di Sarah Palin a vicepresidente è un colpo di fortuna: metaforicamente, è già la sua pin up, la sua ragazza copertina. L’industria si concentrò sulla popolazione femminile cinque anni fa, quando vide declinare il numero dei cacciatori maschi. Adesso produce armi apposite e «abiti da uccidere in più di una maniera», come dice la sua pubblicità, ossia da sedurre gli uomini. Attualmente, vi sono 1 milione e 200 mila cacciatrici. La più celebre è Brenda Valentine, a cui è dedicata una trasmissione radio, «La first lady della caccia»: la Valentine ha già detto che la Palin è la sua erede, «sta facendo più proseliti di quanti noi sognassimo».

«COLPIRÀ IL BERSAGLIO» - Stando al Wall Street Journal, la governatrice dell’Alaska è la cacciatrice tipo americana. Da un sondaggio nel Texas, riferisce il giornale, l’82% delle nostre Diane vive in città e il 79 per cento ha una laurea o un diploma, esattamente come lei. Inoltre, al pari di lei, sono in maggioranza madri di famiglia e conservatrici in politica. Ma a differenza degli uomini, non avvertono rivalità e sono romantiche, anche se uccidono la selvaggina a sangue freddo: amano cacciare in gruppo, cantare in coro, addirittura recitare poesie. E sono provette tiratrici. Sarah Palin, sostiene la Valentine, non farebbe lo sbaglio del vicepresidente Cheney, che sparando alle quaglie ferì gravemente un compagno. Alla vigilia del suo dibattito in tv con il candidato democratico alla vicepresidenza Joe Biden, le cacciatrici sono certe che la Palin «colpirà il bersaglio». L’America lo è un po’ di meno: se perdesse malamente il confronto a causa della sua ignoranza di politica estera ed economica, il suo compagno di corsa John McCain sarebbe nei guai.

Ennio Caretto
01 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: CASSAZIONE RIBADISCE: LECITO RIFIUTARE CURE
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2008, 01:55:46 pm
2008-10-01 20:15

CASSAZIONE RIBADISCE: LECITO RIFIUTARE CURE


ROMA - La Cassazione torna sul diritto alla libertà di cura del paziente ribadendo - come già avvenuto nel caso di Eluana Englaro e in quello più recente relativo a un testimone di Geova - che, tramite il consenso informato, il malato può scegliere "tra le diverse possibilità di trattamento medico", compresa quella di "rifiutare la terapia e decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale".

Occasione di questa ennesima sottolineatura è un caso abbastanza leggero di colpa medica, quello di una dottoressa condannata per avere raddoppiato, senza un preventivo check-up, la dose di un farmaco dimagrante prescritto a una ragazzina obesa provocandole delle emicranie. Affrontando questa vicenda gli 'ermellini' hanno trovato il modo, parlando del consenso informato, di ricordare che la relazione medico-malato deve essere improntata alla "libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario".

Gli ermellini aggiungono che, in questo modo, si rispetta il "diritto del singolo alla salute", tutelato dall'articolo 32 della Costituzione che vieta i trattamenti sanitari non obbligatori. Dopo questo 'preambolo' di carattere generale - con la sentenza 37077 della Quarta sezione penale - i supremi giudici hanno dichiarato prescritta la condanna per lesioni colpose inflitta alla dottoressa Donatella M. che, comunque, dovrà risarcire a Veronica R., nel frattempo divenuta maggiorenne, i danni patiti per il superdosaggio di 'Topamax', il medicinale anoressizzante con il quale contrastava il suo disturbo alimentare di origine psichica.

Sia l'adolescente - dodicenne all'epoca della terapia dimagrante - che i suoi familiari erano informati sulla cura (un po' meno sui dosaggi ma la circostanza non è stata ritenuta significativa ai fini del venir meno del consenso), intrapresa nel 1999 su suggerimento della dottoressa, e la responsabilità del camice bianco è stata individuata nell' omesso check-up delle condizioni della paziente che lamentava mal di testa. Per telefono la dottoressa raccomandò di raddoppiare la razione di topiramato provocando l'inasprimento delle emicranie che cessarono con la sospensione del farmaco. I precedenti verdetti di condanna sono stati emessi dal Tribunale di Pistoia e dalla Corte di Appello di Firenze.
 
da ansa.it


Titolo: I «sex toys» piacciono a una milanese su due
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 09:08:43 am
Indagine dell'Associazione italiana di sessuologia e psicologia applicata

I «sex toys» piacciono a una milanese su due

Sondaggio sui giocattoli erotici: il 50% delle intervistate li ha osservati o provati.

L'esperto: «Interessante valenza terapeutica» 

 
MILANO - Il 20% delle donne milanesi ha sperimentato, almeno una volta, i «sex toys», i giocattoli erotici finora relegati nelle bacheche dei negozi «a luci rosse». E un altro 30% riferisce di averli quantomeno osservati con attenzione. E' il risultato di un'indagine condotta dall'Aispa (Associazione italiana di sessuologia e psicologia applicata) nel capoluogo lombardo; la ricerca, condotta su 200 cittadine milanesi attraverso un questionario anonimo, sarà presentata venerdì all'ospedale San Carlo di Milano durante il convegno Aispa «L'intimità ritrovata: le cure del sesso tra psiche e soma». Secondo l'indagine, l'esperienza dei «sex toys» è condivisa quasi sempre con il partner, che li propone per primo in almeno il 60% dei casi. Il 70% delle intervistate si dichiara soddisfatta.

«VALENZA TERAPEUTICA» - «È un dato su cui riflettere, per le potenzialità che questi oggetti offrono una volta affrancati dall'alone di perversione che ancora li avvolge», commenta Roberto Bernorio, ginecologo e psicoterapeuta ideatore dell'inchiesta. Secondo l'esperto, i sex toys possono avere «una interessante valenza terapeutica, oltre che ricreativa e relazionale, perché danno corpo alle fantasie e possono migliorare il piacere individuale e di coppia».

Negli Stati Uniti alcuni di questi giocattloli erotici sono addirittura riconosciuti come presidi medici dall'agenzia regolatoria Food and Drug Administration (Fda), mentre da noi c'è ancora una certa resistenza: «forse con troppa superficialità sono giudicati giocattoli innaturali e onanistici, relegati alle bacheche dei sexy shop - commenta Bernorio - ma la richiesta aumenta».

02 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Due donne Berlusconi all'università. - (dilagano ndr)
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 05:58:54 pm
Il convegno organizzato alla BOCCONi

Due donne Berlusconi all'università

Veronica e la figlia Barbara a lezione di etica

 
 
MILANO - La moglie del presidente del Consiglio, Veronica Lario, si è presentata a sorpresa all'università Bocconi di Milano, per il convegno sull'efficacia e la valenza dell'etica nei sistemi economici e nella conduzione d'impresa, organizzata dalla Onlus Milano Young, di cui è vice presidente la figlia Barbara. In tailleur-pantalone grigio, la signora Berlusconi, arrivata cinque minuti dopo l'inizio del convegno, si è seduta in seconda fila accanto alla figlia Barbara, anch'essa in completo manageriale, per poi ascoltare con attenzione le relazioni dei vari invitati, tra cui l'ad di Mondadori Maurizio Costa.

I TEMI DEL CONVEGNO - «Mi sembra un tema bello perché proposto da giovani - è stato il primo commento della first lady - Oggi sono emerse proposte interessanti che devono entrare nella morale di tutti noi, riflessioni che dovremmo compiere tutti i giorni». «Sono affascinanti questioni poste da un punto di vista filosofico», ha aggiunto subito dopo.

Un tema oltretutto quanto mai attuale ma che, ha assicurato Barbara, presente in qualità di vicepresidente di Milano Young (il presidente è Geronimo La Russa, figlio del ministro della Difesa, Ignazio) «non c’entra con gli ultimi avvenimenti, non sono stati questi eventi che hanno fatto sì che scegliessimo di trattare questo tema. La prima volta che ne abbiamo parlato è stato a febbraio scorso perché avevo assistito ad un corso di lezioni del professor Giudo Rossi che mia aveva interessato moltissimo». Per Barbara organizzare il simposio non deve essere stato troppo complicato. Uno dei partecipanti è il suo relatore di tesi, il professor Mordacci. Per quanto riguarda Costa ha giocato in casa. Il tema poi le sta particolarmente a cuore visti gli studi e il ruolo.

«MIO PADRE MI HA INSEGNATO IL RISPETTO PER GLI ALTRI» - Per Barbara l’etica è prima di tutto «l’insieme dei valori morali, quelli che un individuo si costruisce vivendo, sono soprattutto quelli che gli impartisce la famiglia, la scuola e la società in generale». Ovvia a questo punto la domanda: cosa ti ha insegnato tuo padre? «Il più importante insegnamento da parte di mio padre è il rispetto altrui e il non ledere quelle che sono le libertà altrui - ha detto - Da mia madre ne ho avuti talmente tanti che sarebbe difficile elencarli». La moglie del presidente del Consiglio ha invece ribadito l’importanza della famiglia e della donna in una formazione etica forte. «Penso che una formazione etica avvenga proprio nel quotidiano dove l’educazione richiede costanza tutti i giorni - ha spiegato la moglie del premier - Non credo però che manchi la morale nella vita sociale italiana». Forse in questo momento il problema per molti italiani sono le difficoltà economiche. «Queste difficoltà - ha riconosciuto la signora Lario - si sentono e si toccano con mano».


02 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Donne straniere: soprattutto colf ma sognano di migliorare
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 06:05:39 pm
03/10/2008 (8:28) -

PROVINCIA - UNO STUDIO PROMOSSO DALLA CONSIGLIERA DI PARITA' RITRAE LE IMMIGRATE

Donne straniere: soprattutto colf ma sognano di migliorare

Faticano a veder riconosciute le loro qualifiche professionali e i titoli di studio, sono esposte alla precarietà e spesso costrette ad accettare qualsiasi tipo di occupazione


TORINO

Sono perlopiù impiegate in lavori di cura di famiglie e anziani, dunque come badanti, anche se vorrebbero accedere ad altre professioni, ma fanno fatica a veder riconosciute le loro qualifiche professionali e i titoli di studio.
Faticano a conciliare tempi di vita e di lavoro e sono particolarmente esposte alla precarietà lavorativa, fattore che le vede spesso costrette ad accettare qualsiasi tipo di occupazione. È la fotografia delle donne straniere che lavorano in provincia di Torino che emerge dalla ricerca «I Lavori delle donne» promossa dalla Consigliera di Parità provinciale, Laura Cima, in collaborazione con l’Assessorato al Lavoro della Provincia di Torino

«La ricerca - ha sottolineato Laura Cima - ci pone di fronte alla necessità di individuare nuove soluzioni che aiutino le lavoratrici migranti a risolvere i problemi di conciliazione, che sono alla base di molte discriminazioni Il supporto fondamentale che offrono alle lavoratrici italiane nelle cosiddette attività di cura, aumenta la loro ’fragilità»’.

«Le sfumature emerse sono moltissime - aggiunge Franca Balsamo, presidente del Cirsde che ha curato l’attività - dalla voglia di queste donne di formarsi per migliorare la posizione lavorativa, alle delusioni che spesso seguono i percorsi formativi rispetto alle possibilità d’impiego, al timore di perdere il lavoro, alla difficoltà nell’acquisire autonomia, aspetto che implica la dipendenza dal marito, anche in casi di violenza. Le donne migranti - conclude - vivono anche molte difficoltà nella gestione di famiglia e lavoro, e nello spostarsi da un luogo all’altro. Per le residenti al di fuori dell’area metropolitana, in particolare, la minor disponibilità di servizi di trasporto e la mancanza di mezzi propri (spesso non hanno la patente di guida) è vincolante».

da lastampa.it


Titolo: SESSO: ANCHE PER UNA SERA LEI LO VUOLE INTELLIGENTE
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 12:34:27 am
2008-10-04 17:15

SESSO: ANCHE PER UNA SERA LEI LO VUOLE INTELLIGENTE


 ROMA - L'uomo ideale non esiste ma a lei la bellezza non basta. Per essere attratta da un uomo anche per la storia di una sera, la donna ha bisogno di trovarsi di fronte a una persona intelligente. Infatti uno studio dello psicologo evoluzionista Mark Prokosch della Elon University in Nord Carolina, svela qualcosa di inatteso: anche quando deve scegliere un uomo per una sera, lei si lascia attrarre dall'intelligenza oltre che dalla bellezza.

Finora invece l'ipotesi più accreditata era che la donna cercasse in un uomo il 'cervello' solo per relazioni di lunga durata e con la prospettiva di metter su famiglia, e che invece per flirt senza futuro si facesse guidare unicamente dall'attrazione fisica.

L'uomo dal canto suo è molto meno cerebrale e molto più ormonale: uno studio recente condotto da Leander van der Meij dell'Università olandese di Groningen e pubblicato sulla rivista Hormones and Behaviour ha evidenziato infatti che su di lui domina la "dittatura del testosterone", cioé la libido maschile sale comunque, insieme coi livelli dell'ormone, in presenza di una donna, bella o brutta che sia.

Nello studio di Prokosch pubblicato sulla rivista Evolution and Human Behavior, è stato l'uomo invece a fare da 'cavia': un gruppo di maschi si è cimentato in una serie di test di atleticità (come il lancio e la presa al volo di un frisbee) e cognitivi, e le loro performance, accompagnate da una presentazione di sé, sono state immortalate con una videocamera. Poi a un gruppo di donne gli psicologi hanno chiesto in prima battuta di guardare i video e giudicare quali uomini trovassero più attraenti e intelligenti e creativi.

E' emerso che le donne hanno fiuto sull'intelligenza maschile, riuscivano cioé a valutare l'intelligenza della persona vista in video in modo molto aderente alla realtà, e cioé all'esito dei test cognitivi cui gli uomini erano stati sottoposti. Poi alle donne è stato chiesto di dire quali tra gli uomini in video avrebbe scelto per una 'storiella' o per una relazione seria. Poste di fronte alla scelta di potenziali partner per storie serie e durature o per semplici flirt di una sera, le donne hanno sempre giudicato più attraenti e gli uomini che apparivano più intelligenti.

 "La bellezza conta certo parecchio per la scelta di un uomo per storia di una sera - ha spiegato all'Ansa Prokosch - ma contrariamente a quanto prevedevamo conta anche l'intelligenza. Infatti abbiamo scoperto che sia l'intelligenza oggettiva (secondo le misurazioni fatte coi test), sia quella percepita, fanno predire il grado di appeal che avrà un uomo su una donna anche se l'obiettivo di lei è solo una 'storiella'".

Anche la creatività, ha continuato Prokosch, ha il suo valore sulla scala dell'attrazione maschile, ma è una dota che interessa meno di bellezza e intelligenza. Evolutivamente ha senso che lei cerchi un uomo intelligente per una storia "seria", con prospettive di metter su famiglia, perché ciò le garantisce un uomo premuroso e capace a fianco e in più una "miniera genetica" per trasmettere tratti vantaggiosi ai figli; eppure, ha concluso Prokosch, a lei non basta la bellezza neppure per una storia lunga una notte. 

da ansa.it


Titolo: PIERANGELO SAPEGNO. Il supermarket delle corna
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 10:55:48 am
5/10/2008 (7:16)


Il supermarket delle corna

Ashleymadison.com è un social network per persone sposate. Per registrarti devi inviare una foto

PIERANGELO SAPEGNO


Ha chiesto subito una foto. Questi americani non hanno mai tempo da perdere. Nella sua, ha una felpa indosso, labbra rosse e piene, un volto senza trucco. Bellezza di provincia, un piccolo uovo di Pasqua, con sopra un groviglio di capelli bruni e cotonati. Nella scheda c’è scritto: 42 anni, ispanica, segno dei pesci, pelle bianca, altezza 1,68, peso 61 chili. «Relazione a breve termine». A me andrebbe benissimo. Per iscrivermi ad ashleymadison.com, il sito dei coniugi infedeli, ho pagato 49 dollari. Le ho mandato la mia foto migliore, che sorridevo al vento: non mi sembrava di fare una brutta figura. Il giorno dopo mi ha risposto così: «Quando vieni a Pennington devi chiamarmi a questo numero:... Niente weekend. Ti puoi fermare? Sarebbe perfetto mercoledì». Pennington è nel New Jersey. Un viaggio da niente. E Destaelsix in realtà si chiama Carol, e non ho ancora capito se fa come me, un po’ per finta e un po’ per lavoro, o se proprio non vuole perdere tempo, come consiglia questo social network dedicato a persone sposate alla ricerca di rapporti extraconiugali: «La vita è breve, trovati un amante».

Carol ha un impiego in una clinica. Le ho mandato una lunga mail di vaneggiamenti, per chiederle poi se fa il medico o l’infermiera. Mi ha risposto con due righe: «Sì, il medico. In questi giorni ho un mucchio di lavoro». Non rompere. Cristo, mica tutti fanno i giornalisti. L’ultimo affiliato Mi sono iscritto al sito da dieci giorni. La pubblicità dice che garantisce «un adulterio sicuro». Massima riservatezza e la possibilità di incontrare solo partner già sposati, per non mettere a rischio il matrimonio. Il primo choc arriva subito: il mio numero di iscrizione è 2.567.619, quello dell’ultimo degli affiliati. In sette anni di vita, Ashley Madison ha già raccolto più di due milioni e mezzo di infedeli via Internet. Che siamo diventati un popolo di traditori, lo evidenziano anche tutti i sondaggi. Uno a Milano dice che sei donne su 10 ammettono di aver tradito il partner. Se pensate che secondo una ricerca francese dell’Inserm, l’istituto nazionale della Sanità, appena 30 anni fa una signora sposata confessava di aver avuto nemmeno due compagni di letto in tutta la sua vita (1,9 in media: mezze corna a testa), è facile rendersi conto di come sia quasi epocale questo cambiamento. Oggi le donne più giovani ammettono 5 relazioni profonde oltre a quelle del matrimonio. Negli Anni Cinquanta due donne su tre dichiaravano di sposarsi con il primo partner sessuale, oggi solo una su dieci, come gli uomini. Lo psichiatra Alberto Caputo sostiene che l’uomo è un «monogamo seriale, che ricerca altre femmine per aumentare la quantità della prole», e la femmina una «opportunistica poliandrica, in quanto mira alla qualità del partner per assicurare il miglior corredo genetico alla discendenza». Lui e lei tradirebbero insomma per motivi biologici, «per rimescolare le carte dell’evoluzione e garantire un futuro alla nostra specie».

La cosa strana è che Internet avrebbe giocato un ruolo molto importante in questa sorta di mutamento sociale. In Australia, due ricerche parallele dell’università di tecnologia Swinburne di Melbourne sostengono che il web sia diventato ormai «una minaccia sempre più grave per i matrimoni». Nello studio pubblicato dall’Australian Journal of Emerging Technologies and Society, le psicologhe Elizabeth Hardie e Simone Buzwell hanno appurato che il 13% dei tradimenti erano nati attraverso relazioni su Internet, tutte di persone sposate. E una tesi di dottorato di Heather Underwood della stessa università ha invece studiato 200 casi per dimostrare come questa tendenza sia in continua crescita, e come i rapporti sentimentali online diventino sempre meno virtuali e sempre più fisici. Parità ritrovata Internet a parte, alla fine, secondo l’Ined, l’Istituto nazionale di studi demografici di Parigi, il dato certo è che solo il 34 per cento delle donne dichiarano di rimanere fedeli a un solo uomo. La cosa incredibile è che è lo stesso, identico numero degli uomini, con una differenza sostanziale però, che nel 1970 le signore morigerate erano esattamente il doppio, il 68 per cento, nel 1950 più del 90, mentre noi maschi non ci siamo mai mossi da lì: uno su tre ha continuato a fare il bellimbusto e a confessarlo. E’ la donna che sta cambiando il mondo, prima di Internet? Anche su questa spinta dev’essere nato Ashley Madison, il sito dei tradimenti sicuri. Puoi scegliere che tipo di infedeltà vuoi: con una donna sposata, con una single, con un altro uomo... Dopo l’iscrizione, ti chiedono un profilo. «Vuoi qualcosa a breve termine? A lungo termine? Vuoi una relazione virtuale? Qualcosa che ti ecciti? Sei indeciso?». Un supermarket. Siamo entrati per chattare, davanti a una sfilza infinita di persone. Abbiamo cercato quelle con le foto. Una di Houston, Texas, che si chiama Sussy. Le ho mandato un messaggio, dopo aver spulciato la griglia di frasi preconfezionate. «Seleziona: cosa veramente mi ha interessato di te? La tua maturità? Che sei sofisticata? La tua foto?». Le domande La tua foto, ok. Vado oltre: «Ti piace il sesso orale come a me? Il tuo didietro? Il tuo appetito sessuale? Perché sei frustrata come lo sono io?». Riguardo la foto: dallo scollo della camicetta spuntavano, senza un certo timore, le mezzelune del seno, e il sorriso malizioso faceva anche capire quanto valesse la pena pagare un biglietto per andare a vederle. Ma non me la sono sentita di prometterle chissà quali volgarità. Le ho mandato una e-mail soft. Mi ha risposto raccontando la sua vita, che è sposata per modo di dire e che ha venduto il bar, completo di licenza, a una catena di lavanderia automatica, che secondo lei lava ben altro che le mutande sudicie di Houston. Allora ho scritto a Molly, che aveva lasciato in buca questo messaggio: «Dove sei mio bel Romeo?». Mi ha chiesto una foto. La solita. Poi l’età. «Al massimo voglio 35 anni», dice. Troppo tardi. I miei sono già andati. Ho cercato qualcosa di hard. Una signora inglese, Jenny, che vive a Seattle. Come no, dietro casa. Chiedeva pure le misure: «Ti piace farlo mentre gli altri ti guardano?». Se non scappa da ridere. Solo che Jenny è un po’ complicata, perché non era il marito quello che doveva guardare. Nella sua foto era fasciata in un paio di jeans, con una canottiera che sembrava dipinta addosso. Ah, meglio la Carol. Poche parole, ma buona. Le ho scritto uno sproloquio. Mi ha risposto con una cosa che non ho capito. Me l’ha tradotta un’amica. Diceva: «Sei scemo o ci fai?».

da lastampa.it









5/10/2008 (7:16)


Il supermarket delle corna

Ashleymadison.com è un social network per persone sposate. Per registrarti devi inviare una foto

PIERANGELO SAPEGNO


Ha chiesto subito una foto. Questi americani non hanno mai tempo da perdere. Nella sua, ha una felpa indosso, labbra rosse e piene, un volto senza trucco. Bellezza di provincia, un piccolo uovo di Pasqua, con sopra un groviglio di capelli bruni e cotonati. Nella scheda c’è scritto: 42 anni, ispanica, segno dei pesci, pelle bianca, altezza 1,68, peso 61 chili. «Relazione a breve termine». A me andrebbe benissimo. Per iscrivermi ad ashleymadison.com, il sito dei coniugi infedeli, ho pagato 49 dollari. Le ho mandato la mia foto migliore, che sorridevo al vento: non mi sembrava di fare una brutta figura. Il giorno dopo mi ha risposto così: «Quando vieni a Pennington devi chiamarmi a questo numero:... Niente weekend. Ti puoi fermare? Sarebbe perfetto mercoledì». Pennington è nel New Jersey. Un viaggio da niente. E Destaelsix in realtà si chiama Carol, e non ho ancora capito se fa come me, un po’ per finta e un po’ per lavoro, o se proprio non vuole perdere tempo, come consiglia questo social network dedicato a persone sposate alla ricerca di rapporti extraconiugali: «La vita è breve, trovati un amante».

Carol ha un impiego in una clinica. Le ho mandato una lunga mail di vaneggiamenti, per chiederle poi se fa il medico o l’infermiera. Mi ha risposto con due righe: «Sì, il medico. In questi giorni ho un mucchio di lavoro». Non rompere. Cristo, mica tutti fanno i giornalisti. L’ultimo affiliato Mi sono iscritto al sito da dieci giorni. La pubblicità dice che garantisce «un adulterio sicuro». Massima riservatezza e la possibilità di incontrare solo partner già sposati, per non mettere a rischio il matrimonio. Il primo choc arriva subito: il mio numero di iscrizione è 2.567.619, quello dell’ultimo degli affiliati. In sette anni di vita, Ashley Madison ha già raccolto più di due milioni e mezzo di infedeli via Internet. Che siamo diventati un popolo di traditori, lo evidenziano anche tutti i sondaggi. Uno a Milano dice che sei donne su 10 ammettono di aver tradito il partner. Se pensate che secondo una ricerca francese dell’Inserm, l’istituto nazionale della Sanità, appena 30 anni fa una signora sposata confessava di aver avuto nemmeno due compagni di letto in tutta la sua vita (1,9 in media: mezze corna a testa), è facile rendersi conto di come sia quasi epocale questo cambiamento. Oggi le donne più giovani ammettono 5 relazioni profonde oltre a quelle del matrimonio. Negli Anni Cinquanta due donne su tre dichiaravano di sposarsi con il primo partner sessuale, oggi solo una su dieci, come gli uomini. Lo psichiatra Alberto Caputo sostiene che l’uomo è un «monogamo seriale, che ricerca altre femmine per aumentare la quantità della prole», e la femmina una «opportunistica poliandrica, in quanto mira alla qualità del partner per assicurare il miglior corredo genetico alla discendenza». Lui e lei tradirebbero insomma per motivi biologici, «per rimescolare le carte dell’evoluzione e garantire un futuro alla nostra specie».

La cosa strana è che Internet avrebbe giocato un ruolo molto importante in questa sorta di mutamento sociale. In Australia, due ricerche parallele dell’università di tecnologia Swinburne di Melbourne sostengono che il web sia diventato ormai «una minaccia sempre più grave per i matrimoni». Nello studio pubblicato dall’Australian Journal of Emerging Technologies and Society, le psicologhe Elizabeth Hardie e Simone Buzwell hanno appurato che il 13% dei tradimenti erano nati attraverso relazioni su Internet, tutte di persone sposate. E una tesi di dottorato di Heather Underwood della stessa università ha invece studiato 200 casi per dimostrare come questa tendenza sia in continua crescita, e come i rapporti sentimentali online diventino sempre meno virtuali e sempre più fisici. Parità ritrovata Internet a parte, alla fine, secondo l’Ined, l’Istituto nazionale di studi demografici di Parigi, il dato certo è che solo il 34 per cento delle donne dichiarano di rimanere fedeli a un solo uomo. La cosa incredibile è che è lo stesso, identico numero degli uomini, con una differenza sostanziale però, che nel 1970 le signore morigerate erano esattamente il doppio, il 68 per cento, nel 1950 più del 90, mentre noi maschi non ci siamo mai mossi da lì: uno su tre ha continuato a fare il bellimbusto e a confessarlo. E’ la donna che sta cambiando il mondo, prima di Internet? Anche su questa spinta dev’essere nato Ashley Madison, il sito dei tradimenti sicuri. Puoi scegliere che tipo di infedeltà vuoi: con una donna sposata, con una single, con un altro uomo... Dopo l’iscrizione, ti chiedono un profilo. «Vuoi qualcosa a breve termine? A lungo termine? Vuoi una relazione virtuale? Qualcosa che ti ecciti? Sei indeciso?». Un supermarket. Siamo entrati per chattare, davanti a una sfilza infinita di persone. Abbiamo cercato quelle con le foto. Una di Houston, Texas, che si chiama Sussy. Le ho mandato un messaggio, dopo aver spulciato la griglia di frasi preconfezionate. «Seleziona: cosa veramente mi ha interessato di te? La tua maturità? Che sei sofisticata? La tua foto?». Le domande La tua foto, ok. Vado oltre: «Ti piace il sesso orale come a me? Il tuo didietro? Il tuo appetito sessuale? Perché sei frustrata come lo sono io?». Riguardo la foto: dallo scollo della camicetta spuntavano, senza un certo timore, le mezzelune del seno, e il sorriso malizioso faceva anche capire quanto valesse la pena pagare un biglietto per andare a vederle. Ma non me la sono sentita di prometterle chissà quali volgarità. Le ho mandato una e-mail soft. Mi ha risposto raccontando la sua vita, che è sposata per modo di dire e che ha venduto il bar, completo di licenza, a una catena di lavanderia automatica, che secondo lei lava ben altro che le mutande sudicie di Houston. Allora ho scritto a Molly, che aveva lasciato in buca questo messaggio: «Dove sei mio bel Romeo?». Mi ha chiesto una foto. La solita. Poi l’età. «Al massimo voglio 35 anni», dice. Troppo tardi. I miei sono già andati. Ho cercato qualcosa di hard. Una signora inglese, Jenny, che vive a Seattle. Come no, dietro casa. Chiedeva pure le misure: «Ti piace farlo mentre gli altri ti guardano?». Se non scappa da ridere. Solo che Jenny è un po’ complicata, perché non era il marito quello che doveva guardare. Nella sua foto era fasciata in un paio di jeans, con una canottiera che sembrava dipinta addosso. Ah, meglio la Carol. Poche parole, ma buona. Le ho scritto uno sproloquio. Mi ha risposto con una cosa che non ho capito. Me l’ha tradotta un’amica. Diceva: «Sei scemo o ci fai?».

da lastampa.it


Titolo: Gabriel Bertinetto. Jamila e Jamila, due donne afghane contro la piovra talebana
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 04:56:32 pm
Jamila e Jamila, due donne afghane contro la piovra talebana


Gabriel Bertinetto


In comune hanno il nome, Jamila, e una volontà di ferro. Non le piegano i pericoli, le minacce, la sorte toccata alle amiche più care, colpite a morte perché facevano esattamente le cose che loro due continueranno a fare. Jamila Barzai vive a Kandahar e fa la poliziotta. Jamila Mujahed a Kabul e dirige una radio ed un’associazione che portano lo stesso nome: «Voce delle donne afghane».

La Jamila di Kandahar lavorava nella squadra capitana da Malalai Kakar, l’intrepida protettrice delle casalinghe afghane vessate dai mariti-padroni, assassinata una settimana fa da sicari talebani. Le vittime delle violenze domestiche maschili avevano trovato nella capitana di polizia Malalai una paladina dei loro diritti. A lei potevano rivolgersi senza timore che il caso venisse insabbiato, come spesso accade ancora nell’Afghanistan politicamente liberato dall’oppressione integralista, ma culturalmente e socialmente sempre schiavo.

Jamila Barzai proseguirà l’opera dell’amata dirigente scomparsa. Non ripeterà ciò che fece sotto il regime teocratico. Anche allora lavorava nella polizia femminile. Ma un giorno nello stadio di Kabul, sotto gli occhi di migliaia di persone accorse a vedere l’infame spettacolo, una povera donna colpevole di adulterio venne lapidata in esecuzione della sentenza di un tribunale religioso. «Conoscevo quella persona, non dimenticherò mai il modo in cui morì. Quella volta mi sentii del tutto impotente. Non avrei mai potuto cambiare le cose. Mi licenziai». Rovesciato Omar insieme ai suoi mullah, Barzai ha indossato di nuovo la divisa. E non se la toglierà più. «È importante -dice- che le donne cerchino di arrivare in posizioni di potere, per impedire che certe cose avvengano ancora. Lo so, è pericoloso, ma non possiamo permettere di tornare a quell’epoca».

Un’uguale determinazione trapela dalla voce della Jamila di Kabul, raggiunta al telefono nella capitale afghana: «Certo, la tentazione di lasciare perdere tutto è sempre in agguato. Ma sento troppo le mie responsabilità. Se non abbiamo la forza di sacrificarci ora, la realtà non cambierà mai in meglio. E quindi penso proprio che combatterò fino alla fine». Nonostante le intimidazioni che costantemente riceve per posta e le telefonate minatorie. Non è mancato il vigliacco più vigliacco di altri. Quello che le ha prospettato il rischio di una vendetta trasversale sui figli. Ma sono stati proprio loro a sostenerla in quei momenti terribili, a convincerla di non mollare.

I nostalgici dell’oscurantismo civile e morale che per cinque anni con i talebani era diventato legge dello Stato, non sopportano che la radio di Jamila parli alle famiglie afghane, spiegando quali siano i diritti dei cittadini e delle donne in particolare. L’emittente ha un bacino potenziale di cinque milioni di utenti a Kabul e in cinque province contigue. «Facciamo fatica a coprire le spese, perché gli introiti pubblicitari sono scarsi. In parte pesa l’incertezza economica generale, in parte le ditte non si rivolgono a noi per paura di attirarsi le attenzioni ostili dei gruppi estremisti, anche se non lo ammettono apertamente. Ci sono ad esempio aziende che importanto cosmetici da India, Cina, Iran. Ma non li reclamizzano attraverso di noi sostenendo che la radio viene ascoltata anche in provincia, dove la mentalità generale è refrattaria all’idea che le donne usino prodotti di bellezza». È stata proprio la mancanza di inserzioni a pagamento a costringere Jamila Mujahed quest’anno a chiudere «Malalai», l’unica rivista specificamente rivolta ad un pubblico femminile.

Nel 2008 sono aumentate le aggressioni alle donne, e peggiorate le condizioni di sicurezza in tutto il Paese. Cresce il numero delle famiglie che lasciano il Paese o progettano di farlo. «Basta vedere le code per i visti alle ambasciate dei Paesi europei, degli Usa, ma anche dell’Iran o dell’India. Non sono solo le persone istruite o benestanti ad emigrare per timore che Karzai non regga. Molti vogliono partire perché manca lavoro, aumenta la povertà». La situazione è così deteriorata che lei, Jamila Mujahed, la giornalista che il 13 novembre 2001 annunciò con gioia dai microfoni dell’emittente di Stato la cacciata dei tiranni, ora guarda con favore al piano di Karzai per un negoziato con i talebani. «È un passo positivo, anche se per ora non s’è avviato nulla di concreto. Portare i loro dirigenti meno retrivi all’interno dell’amministrazione servirebbe a garantire quella sicurezza che ora manca. Loro stessi potrebbero fermare gli elementi più turbolenti. Certo dovrebbero impegnarsi a rispettare i diritti costituzionali, compresi quelli che riguardano le donne. Altrimenti l’operazione fallirebbe, e significherebbe solo un salto indietro ai tempi bui».

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.36   
© l'Unità.


Titolo: Dal film alla realtà: donne mature alla ricerca di sesso a pagamento
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2008, 06:34:48 pm
"Cliente" racconta la storia di una borghese di mezza età alla ricerca continua di gigolò

Dal film alla realtà: donne mature alla ricerca di sesso a pagamento

Anche in Italia si sta diffondendo l'offerta di giovani accompagnatori, soprattutto su Internet

 
 
PARIGI - Sono passati quasi 30 anni dall'uscita di "American Gigolo", pellicola che lanciò Richard Gere nello star-system hollywoodiano e che per primo raccontò apertamente la storia di signore alla ricerca di sesso a pagamento. A distanza di tre decenni "l'accompagnatore di donne" è ormai un mestiere consolidato in tutto l'Occidente e sta vivendo un vero e proprio boom in Francia. Proprio in questi giorni sta riscuotendo un grande successo nelle sale cinematografiche francesi "Cliente", storia di una borghese di mezza età che combatte la solitudine e la noia del quotidiano frequentando abitualmente giovani e prestanti gigolò d'Oltrealpe

INTERNET E SESSO - La pellicola, adattamento dell'omonimo successo letterario di Josiane Balasko (ha venduto solo in Francia circa 200.000 copie), è stata apprezzata dai francesi perché narra le emozioni e le sensazioni vissute da tante donne mature transalpine: Judith la protagonista del film, interpretata da Nathalie Baye, una delle attrici francesi più famose, è infatti una signora di 51 anni che ha un ottimo lavoro in televisione, ma ha alle spalle il fallimento del suo matrimonio e una vita ormai priva di affetti. Il suo unico passatempo è fare sesso a pagamento con uomini molto più giovani di lei. Judith scoprirà il mondo dei gigolò grazie a internet e si legherà morbosamente a Marco di cui diventerà una cliente fissa: quest'ultimo è sposato con una parrucchiera e vende il suo corpo per pagarsi il mutuo e offrire una dignitosa vita alla sua famiglia allargata

LE DIFFICOLTA’ DELLE DONNE MATURE - La scrittrice Balasko, che ha anche diretto il film, ha spiegato alla stampa francese di aver voluto raccontare una storia diversa da quelle stile "Pretty Woman", la celebre favola cinematografica in cui un ricco uomo d'affari, anche in questo caso interpretato da Richard Gere, s'innamora della dolce e sensuale prostituta Julia Roberts: «La prostituzione è di solito considerata qualcosa che interessa solo agli uomini» sostiene la scrittrice. «Io invece voglio mostrare quanto sia comune oggi in Francia il fenomeno delle donne-clienti alla ricerca di giovani accompagnatori». Secondo la Balasko la maggior parte delle donne che cerca sesso a pagamento ha un’eta’ tra i 40 e i 60 anni. Quasi tutte con un divorzio alle spalle, hanno grandi difficoltà a costruire nuovi rapporti sentimentali: «A differenza degli uomini, tante donne non possono ricostrure facilmente la loro vita e sicuramente non possono avere altri figli. Hanno un’unica alternativa: darsi allo shopping sfrenato o iniziare un'anomala relazione sentimentale».

I GIGOLO’ IN ITALIA - Il recente boom di donne alla ricerca di prestanti gigolò non è solo un fenomeno transalpino. Basta collegarsi a Internet e si scopriranno numerosi siti italiani che propongono accompagnatori per signore di tutte le età. UIno di questi presenta le foto di decine di accompagnatori e i loro numeri di cellulare. Tra questi vi è Andrea, un muscoloso trentottenne, che dichiara di essere un "ex attore e modello nazionale" e si definisce "un riservato e raffinato avventuriero". Nel suo annuncio afferma che vive in un paese dell’Italia settentrionale, ma è disposto a raggiungere ovunque le sue clienti. Inoltre è «disponibile anche come spogliarellista integrale per feste private». Secondo un recente studio condotto dall'associazione Donne e qualità della vita, coordinato dalla sessuloga Serenella Salomoni su un campione di 1500 donne, una su quattro ha pensato almeno una volta di pagare un uomo per avere un rapporto fisico e due su dieci (quasi il 20% delle intervistate) ha realmente pagato un accompagnatore per ottenere una prestazione sessuale. Infine nei sogni delle italiane i veri gigolò non sono nè gli attori di Hollywood nè i più famosi calciatori nostrani: la ricerca conferma che i più desiderati sono i vip della tv per i quali una su tre delle donne intervistate sarebbe pronta a sborsare fino a 5000 euro per una calda notte d'amore.

Francesco Tortora
05 ottobre 2008(ultima modifica: 06 ottobre 2008)

da corriere.it


Titolo: Elena Castagni. Sedotte e ascoltate dal gigolò che paghiamo: boom su internet..
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 04:33:50 pm
«Sedotte e ascoltate dal gigolò che paghiamo»: boom su internet di donne in cerca di avventure

 
di Elena Castagni


ROMA (7 ottobre) - Antonella aveva 55 anni, un ottimo lavoro come pr e una famiglia di quelle che fanno invidia ai più: marito affettuoso, due figli grandi - 26 e 23 anni - e un giro di amicizie che non lasciavano scoperto neanche un buco di solitudine. Poi è successo che Antonella è andata a Cuba, ha incontrato un ragazzo dell’età di suo figlio, un ballerino assai aitante, e con lui ha intrecciato una relazione. Credeva fosse facile da gestire, lui, un uomo in vendita. Lei poteva andare e tornare, prendere il sole dei Caraibi e la nebbia di Milano, la passione e gli affetti. Ma non è andata così. Il ballerino cubano costava sempre di più, Antonella si è indebitata per farlo venire in Italia, si è separata dal marito, non vede più gli amici. Oggi l’uomo in vendita è ancora più caro: ha una compagna giovane e attraente e per passare una sera con la donna d’età chiede un prezzo assai salato.

E’ andata meglio a Cristina, cinquantenne di Torino, lei almeno il gigolò lo ha trovato in Italia, a quattro ore di treno da casa. Da diciotto anni, una volta al mese attraversa la Pianura Padana per cedere a una notte in laguna. Marito e figli non sanno niente, non ha di che vergognarsi ai loro occhi, le lettere d’amore al gigolò le scrive di nascosto, e non teme che la corrispondenza venga intercettata: lei sta attenta, lui non risponde mai. Uomini in vendita, donne che comprano una serata di chiacchiere, a volte di tenerezza, altre di amore.
 
Un fenomeno che cresce anche nel nostro paese, di pari passo con l’emancipazione femminile, ma che dell’emancipazione proprio non fa parte. Un’idea sul successo degli uomini in vendita la fornisce uno studio dell’associazione Donne e qualità della vita: su 1500 donne, una su quattro ha pensato almeno una volta di pagare un uomo per avere un rapporto fisico e due su dieci sono passate ai fatti. Più dettagliato il racconto dell’organizzatore del sito “gigolò.it”, un portale nato lo scorso giugno e che al momento raccoglie 120 iscritti, tutti tra i 30 e i 45 anni, bellocci, molto curati e “visitati” da 500 persone al giorno, con punte di 700 il lunedì e il martedì, quando le signore tornano al lavoro, e dall’ufficio non corrono il rischio di essere intercettate da marito e figli. All’interno del sito, una foto che mostra l’avvenenza, un autoritratto - qualche frase che descrive personalità sempre molto sensibili e disposte ad ascoltare - poi un numero di telefono. Secondo l’organizzatore le telefonate sono molte, ma all’appuntamento arriva solo una risicata percentuale. Comunque anche il gigolò meno gettonato riesce a farsi una serata abbastanza spesso. E per serata non si intende per forza un rapporto sessuale, ma quanto la signora in questione chiede, che può andare da un semplice aperitivo, a una notte intera con tanto di sfoghi sulle amarezze della vita perché il pagare consente anche questo.

Il prezzo va da un minimo di 250 euro a un massimo che varia a seconda delle situazioni, ma una cinquantenne che richiede uno spostamento da parte del gigolò non se la cava con meno di 800 euro. E le clienti non mancano. Spiega Emmanuele Jannini, sessuologo, che i gigolò hanno successo perché riproducono la nascita di una relazione: parlano, ascoltano, seducono. «Le donne non hanno bisogno di pagare un uomo per una notte di sesso: se vogliono riescono ad averla a qualunque età, purché scelgano una persona che abbia le loro stesse caratteristiche sociali e culturali. No, le donne pagano un gigolò perché vogliono sentirsi sedotte. Non a caso questi ragazzi sono colti, sanno ascoltare, hanno una spiccata sensibilità, altrimenti come farebbero a sopportare situazioni drammatiche, donne che si rivolgono a loro per rispondere a un affronto subito, a un fallimento matrimoniale, a un tradimento che le ha ferite in profondità». Eppure parlando con i diretti interessati, le donne che pagano sono signore sicure di sè, con parecchi soldi e voglia di compagnia.
 
Un esempio per tutte: Nadia, una cinquantenne di Torino, un’imprenditrice single che il mese scorso si è voluta regalare una crociera in Grecia in compagnia di un ragazzo di 38 anni. Il tutto le è costato il viaggio per due più cinquemila euro per il gigolò. E probabilmente pagare così tanto non le ha procurato fastidio, anzi, se ha ragione Jannini, dovrebbe averle dato piacere perché, dice il sessuologo, «c’è il fascino del pagare, che è un simulacro, una rappresentazione del potere di per sé eccitante». Il gigolò del viaggio è uno dei più gettonati del sito. Si chiama Andrea, vive a Venezia. Un passato da modello e da spogliarellista, un livello culturale non indifferente, nozioni universitarie di psicologia, la passione per la lirica, un corpo muscoloso meticolosamente curato - manicure e parrucchiere per signora ogni due settimane.

Dice di vestirsi in modo originale: jeans, camicie «assolutamente senza cravatta», giacche belle, scarpe che non costano mai meno di 250 euro e «rigorosamente poco usate». Questo uomo dal linguaggio appropriato, leggermente strafottente, si vende da dieci anni, ha un suo “tabellino prezzi” che facilmente sale sopra gli 800 euro «se una donna è negli anta, noiosa o arrogante». Dice di «premiare le giovani, quelle al primo stipendio che vogliono il gigolò solo per un’esperienza di sesso senza complicazioni». Andrea racconta la sua vita ostentando grande compiacimento, la carica di accenti estetici quasi fosse un remake di “American gigolò”, tutta vita tra gli alberghi di lusso di Venezia, da cui si allontana a notte fonda «perché io con una donna ci esco, ci parlo, ci faccio l’amore, ma non ci dormo, a meno che non paghi anche per quello». Ma se si scava si scopre che dietro l’uomo in vendita c’è un movente fatto di solitudine e paura. «Il gigolò è convinto di fare un mestiere sociale - spiega la psicologa clinica Maria Malucelli - e lo sceglie assecondando, anche se non consapevolmente, un vizio patologico per cui depriva il comportamento sessuale dell’aspetto emotivo e sentimentale.

E’ un circolo vizioso: si priva del lato affettivo e nella sua mente trasforma l’amore fisico in un servizio a vantaggio degli altri, non crede mai di fare del male alle donne che incontra per lavoro. Non a caso cura particolarmente tutte le fasi del corteggiamento, è un adulatore, è molto gratificante per la donna che lo paga, o almeno crede di esserlo. In realtà sta solo creando un adattamento al fatto di non saper vivere una straziante debolezza affettiva». Ma sul servizio sociale di un gigolò ci sarebbe molto da ridire. Ne sa qualcosa Ambra, una ragazza intelligente, non brutta ma piena di complessi tanto da essere arrivata a 28 anni senza avere rapporti completi. Voleva, a ragione, trovare un ragazzo con cui valesse la pena stare. Solo che quelli che incontrava, spaventati dalla sua castità, scappavano a gambe levate. E’ allora che Ambra ha deciso di contattare un gigolò. All’inizio è stata una gran festa, si è sentita una donna libera, ma l’illusione è durata poco: oggi Ambra ha 35 anni, non ha ancora trovato un ragazzo disposto a stare con lei e si sente triste e confusa. La cura dell’uomo in vendita forse funziona solo nei film.

da ilmessaggero.it


Titolo: Il sesso non c'entra, ecco perché gli uomini tradiscono
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 06:13:41 pm
7/10/2008 - Società
 
Il sesso non c'entra, ecco perché gli uomini tradiscono
 
 
Un nuovo studio Usa rivela le cause del tradimento: quasi il 92% sostiene che i problemi in camera da letto non costituiscono il motivo principale
 
 
Il sesso non è la prima causa del tradimento da parte degli uomini. Lo rivela uno studio condotto da Gary Newman, consigliere matrimoniale e studioso statunitense. Newman per scrivere il suo ultimo libro “La verità sul tradimento” ha raccolto centinaia di pareri di uomini e mariti, fedeli e non. Ebbene, il 92% degli uomini che tradiscono hanno rivelato che il sesso non è il motivo principale.

Quali allora le ragioni? “Molti uomini hanno detto di non sentirsi abbastanza apprezzati dalle mogli – spiega Gary durante lo show di Oprah Winfrey di cui è ospite – E’ stata la mancanza di attenzioni a spingerli a tradire.

Gli uomini, al contrario di quello che può sembrare, sono esseri molto emotivi e sensibili”. “Il fatto di non sentirsi apprezzati li rende insicuri – continua – e li spinge a cercare un’altra donna che possa garantire loro le giuste attenzioni. Gli uomini appaiono forti e potenti, ma dentro sono insicuri tanto quanto le donne. Gli uomini hanno una mentalità vincente e bisogna farli sentire vincenti”. Newman conclude la sua analisi rivolgendosi direttamente alle donne: “Non abbiate paura di lodare il vostro partner, fatelo sentire apprezzato per ciò che fa. D’altra parte se ci sposiamo è perché vogliamo tutti la stessa cosa. E poi più diamo, più riceviamo”.

Lo studio rivela che solo il 7% degli infedeli ha confessato alle mogli il proprio tradimento di libera iniziativa, mentre il 55% ha negato di avere un’altra relazione pur dopo essere stato messo a dura prova.
 
da lastampa.it


Titolo: Ingrid Betancourt La nostra voce per gli ultimi
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2008, 05:49:49 pm
La nostra voce per gli ultimi

Ingrid Betancourt


Tre mesi fa guardavo cosa faceva il Parlamento Europeo dal fondo della foresta amazzonica, e la mia grande aspirazione era che altre persone, tante persone, potessero parlare in questo Parlamento a nostro nome mentre noi eravamo prigionieri della follia degli uni e dell’abbandono degli altri. So bene che avete pensato a me in questi anni difficili. Ho un ricordo preciso del vostro impegno accanto alle nostre famiglie quando il mondo non si interessava al destino degli ostaggi colombiani e che parlarne poteva suscitare chissà quali sospetti. Ascoltavo nella giungla la radio che trasmetteva i dettagli di una seduta che si svolgeva in questa sala. Non avevo immagini, solo le parole dei giornalisti. Da questa sala, grazie a voi, e al vostro rifiuto alla rassegnazione, mi è arrivato il primo aiuto. Siete stati voi, più di cinque anni fa, a farmi capire di non essere sola.

Se sono riuscita a mantenere la speranza in questi anni e se sono riuscita a riavvicinarmi alla vita, se sono riuscita a portare la mia croce giorno dopo giorno, è perché sapevo di esistere nei vostri cuori. Pensavo: possono cancellarmi fisicamente, ma nei vostri pensieri il mio nome e il mio volto respingevano l’oblio.

Ecco perché quando ho rimesso piede nel mondo della libertà, dal primo momento ho pensato di venire in questa casa che sento mia. Devo dirvi che tutto ciò che avete detto o fatto non è stato mai vano. Le vostre parole mi hanno liberato molto prima di tornare fisicamente nel nostro e vostro mondo.

Grazie. Grazie a ciascun parlamentare. Grazie di aver aperto il cuore ad un dramma così lontano dai vostri impegni. Ecco perché ho pensato alla creazione di uno status per le vittime del terrorismo. Ho parlato alle Nazioni Unite della necessità di dare spazio alle speranze dei familiari delle vittime pensando all’esempio che voi avete dato. Il Parlamento europeo è diventato la piattaforma che ha permesso a tutti di conoscere le barbarie che abbiamo subito e che mantengono ancora nel dolore oltre tremila compatrioti. Le parole qui pronunciate, parole che hanno sostenuto la mia liberazione e la liberazione di alcuni miei compagni, sono alla base della necessità di intervenire nel rispetto della vita di tutti gli ostaggi e di tutti i guerriglieri. Assenza di violenza frutto del vostro impegno. Voglio rendere omaggio alle migliaia di «freedom fighters» mobilitati in ogni Paese per ottenere il nostro ritorno. Questi combattenti della libertà hanno organizzato, ogni giorno, per più di sei anni, manifestazioni per non far affogare nell’indifferenza il nostro dramma. Sono e siamo liberi, ma la loro lotta continua per chi non lo è. Ecco perché abbiamo bisogno del vostro sostegno, delle vostre porte aperte, della vostra disponibilità spirituale e del vostro tempo. Più di ogni altra cosa abbiamo bisogno della vostra parola. Perché la sola arma nella quale dobbiamo credere è la forza della parola.

Voi sapete che la parola ha un’importanza estrema. È con la parola che tutti noi possiamo combattere l’odio e la violenza. Sono sicura che chissà quante volte avete avvertito la frustrazione di non potere «fare» quando il «dire» sembra sciogliersi nell’aria. Penso che in alcuni momenti vi siate dispiaciuti, per esempio, di non far parte del potere esecutivo dei vostri paesi o dei vertici dell’Unione, dove vengono prese le decisioni, dove si firmano gli assegni, là dove si decidono le cose. In un mondo materialista nel quale ciò che non si vede non esiste, è la frustrazione che avvilisce tutti. Ma il Parlamento è il tempio della parola che libera. Qui comincia la presa di coscienza di una società. Qui si esprimono le urgenze dei nostri popoli. Se i poteri esecutivi cominciano ad “agire” è perché qualcuno di voi si è alzato e ha parlato. Immagino lo sappiate bene come io lo so: ogni volta che uno di voi parla in questo recinto, l’infamia si riduce.

Le parole hanno una presa forte sul mondo reale. Sartre l’aveva capito fin dall’infanzia. Fraçoise Dolto l’ha espresso meravigliosamente quando dice che l’essere umano è un essere di parole, e che la parola sogna, guarisce, fa nascere ma può anche fare ammalare ed uccidere.

Ho scoperto, per esempio, che quando ero prigioniera mia figlia si è nutrita del serbatoio di parole con le quali avevo impastato, senza darmi pensiero, la nostra vita. Non potevo immaginare il potere che queste parole potevano esercitare su di lei. Oggi ricorda ancora una lettera della quale mi ero dimenticata: l’avevo scritta per i suoi quindici anni. Mi ha detto di aver riletto la lettera ad ogni compleanno mentre ero lontana. Ed ogni anno quando era un po’ cambiata dall’anno prima, scopriva qualcosa di nuovo nelle stesse parole, le sentiva più vicine alla persona che stava diventando e a ciò che cominciava a vivere. Mio Dio, se l’avessi saputo! Con quale impegno d’amore e di certezze avrei accompagnato il suo cammino. Oggi penso a noi, a voi, a me. Se prendiamo coscienza della giusta dimensione dell’effetto delle nostre parole, forse oseremo di più, saremmo più rigorosi nelle nostre riflessioni per alleviare la sofferenza di chi ha bisogno del nostro impegno. (...)

Quand’ero prigioniera mi è capitato di ascoltare Raul Reyes, portavoce delle Farc: parlava a mio nome. L’ho sentito dire alla radio: «Ingrid dice questo», oppure «Ingrid pensa questo». Mi avviliva constatare che dopo avermi rapita, non solo la guerriglia mi aveva spogliata del mio destino, ma usurpava la mia voce. Con la coscienza della voce ritrovata mi rivolgo a voi per dire come il mondo ha bisogno delle parole dell’Europa. In società dove l’inquietudine diventa sempre più pressante e la paura del domani allarga il rischio del chiudersi in noi stessi, è il momento di aprirsi e allungare la mano con generosità per cambiare questo mondo.

La società dei consumi nella quale viviamo, non ci rende felici. Il tasso di suicidi, consumo di droga, violenze sociali sono sintomi di una sregolatezza globale; il riscaldamento del pianeta e il suo corteo di catastrofi naturali ci dicono che la terra si è ammalata per nostra irresponsabilità e nostro egoismo. Qual è il rapporto con la sofferenza delle vittime delle barbarie del mondo? Credo sia profondo. Mentre ero prigioniera ho avuto la possibilità di studiare il comportamento sociale dei miei rapitori. I guerriglieri che ci sorvegliavano avevano più o meno l’età dei miei ragazzi. I più giovani 11, 12, 13 anni; i più vecchi 20 o 25. La maggior parte di loro - direi il 95 per cento - prima di essere reclutati dalle Farc erano raccoglitori di foglie di coca. Dall’alba al tramonto sempre al lavoro per trasformare le foglie in paté di coca, base della cocaina. Giovani contadini di regioni marginali ma che, grazie alla televisione satellitare, sono a corrente di ciò che succede nel mondo. Come i nostri ragazzi, bombardati di informazioni; come i nostri ragazzi sognano I-pod, PlaYstation, Dvd. Universo a loro inaccessibile. Pur essendo pagati meglio dei contadini tradizionali possono appena permettersi l’essenziale. Si ritrovano frustrati, incapaci di provvedere alle necessità di una famiglia, inseguiti dalle forze dell’ordine, vittime della corruzione e della violenza occasionale di ufficiali deviati, sottomessi agli abusi dei malfattori che regnano nella regione. Finiscono per disperdere i pochi pesos della paga nell’alcool dei bar di fortuna nei posti dove si nascondono.

Quando la guerriglia li recluta i ragazzi sono convinti di aver risolto ogni problema. Vengono nutriti, vestiti e alloggiati a vita, e la sensazione di aver una carriera aperta sperando di scalare le gerarchie. Col fucile in mano hanno acquisito uno status di rispettabilità. In quel mondo di miseria, essere guerrigliero diventa una specie di riscatto sociale. Ma hanno perso ogni libertà. Non potranno, fino alla fine della vita, lasciare le Farc, né rivedere le famiglie. Diventano, senza rendersene conto, schiavi di una organizzazione che non dovranno mai lasciare, carne di cannone di una guerra assurda.

I quindicimila giovani, larga base delle truppe Farc, non sarebbero dove sono se la nostra società avesse loro aperto vere prospettive e non il sopravvivere come capita. Non sarebbero là se nella nostra società i valori non si fossero rovesciati e se la sete del possedere non fosse determinante per saziare la sete dell’essere.

Abbiamo il diritto di continuare a costruire una società dalla quale la maggioranza è esclusa? Possiamo insistere nell’occuparci solo della nostra felicità quando questa felicità è la maledizione degli altri? Così come il cibo che gettiamo non sazia la fame di chi ha fame. E se noi cercassimo modelli di nutrizione razionali per permettere ad altri di godere dei benefici della modernità?

Sono convinta che la difesa dei diritti dell’uomo passi per la trasformazione del costume e delle nostre abitudini. Dobbiamo essere coscienti della pressione che questo modo di vivere esercita su coloro che non ne hanno accesso…..Dobbiamo cominciare a riconoscere agli altri il diritto a desiderare ciò che noi desideriamo.

E poi c’è il nostro cuore. Siamo tutti capaci di essere migliori, ma sotto la pressione del gruppo siamo anche disposti al peggio. Non sono sicura che tutti possano premunirsi contro la possibilità di diventare crudeli. Quando osservavo i carcerieri, mi chiedevo sempre se potevo essere in grado di trasformarmi come loro. Era evidente che, per la maggior parte, vivevano in preda a una tensione creata dagli ordini e dalle esigenze del gruppo. Chi ci può proteggere da questo? Chi ci può garantire dalla violazione dei diritti dell’uomo all’interno di noi stessi e nel mondo? La migliore possibilità possiamo trovarla nella spiritualità e nei principi etici. Ma è con la nostra parola che dobbiamo batterci; è la parola la più straordinaria delle spade. Ecco perché non mi stanco di ripetere che il dialogo è indispensabile per spegnere le guerre nel mondo. Per questa guerra, sia in Colombia o nel Darfur, in Zimbabwe o in Congo o in Somalia, la soluzione resta la stessa: parlare, riconoscere i diritti degli altri ed essere ascoltati, non per avere ragione o torto, non perché sono buoni o cattivi, ma perché solo parlando possiamo salvare vite umane...

Adesso permettetemi di parlare d’amore. Sapete che dopo la mia liberazione non ho smesso di ricordare la sorte dei fratelli di prigionia trattati come bestie o pezzi di legno. Accompagnatemi là dove ancora si trovano: sotto la coperta di alberi immensi che nascondono il blu del cielo con una vegetazione chiusa come una morsa, sommersi da nuvole di insetti che impediscono il riposo, mostri che li perseguitano martoriando i corpi nel dolore.

Nell’ora in cui è possibile che ci ascoltino, orecchie incollate alla radio, le parole, le nostre parole, possono farli sentire ancora vivi. Per i loro carcerieri hanno lo status di un oggetto. Di una mercanzia, meno che bestie. Rappresentano solo una penosa fatica; diventano bersaglio dei loro impeti d’ira. Permettetemi di pronunciare davanti a voi i loro nomi. Fatemi il regalo di dedicare loro qualche minuto perché se sono in ascolto dell’appello letto in questa sala, possano rispondere presente con il cuore che accelera, in fondo alla tomba della giungla. Per qualche istante saremmo riusciti a liberarli dall’umiliazione delle catene:

AlanJara, Sigisfredo Lopez, Oscar Tulio Lizcano... (ndr: la Betancourt pronuncia 27 nomi).

Penso anche a una donna straordinaria: Aung Sang Su Khi: paga con la propria vita il diritto del suo popolo alla libertà. Ha cominciato uno sciopero della fame per farsi sentire. Lei ha più che mai bisogno della nostre parole per resistere al sacrificio. Porto nel mio cuore la croce di un altro compatriota: Guilad Shalit. La sua famiglia soffre come la mia aveva sofferto. Ha bussato ad ogni porta, smosso il cielo e la terra per ottenere la liberazione. Destini personali si mescolano ad interessi politici che li sovrastano ed è impossibile soffocarli.

Guilad Shalit, Aung San Su Khi, Luis Mendieta, Alam Jara...

I nomi che risuonano in questa sala portano le stimmate dell’infamia. Devono sapere che fino a quando non torneranno liberi, ognuno di noi si sentirà prigioniero. Vorrei che gli applausi di questa assemblea riescano a trasmettere attraverso lo spazio, il nostro amore e la nostra energia. Devono sapere che non cesseremo mai, mai, di agire fino a quando non saranno liberi.

Il testo è tratto dall’intervento tenuto ieri al Parlamento Europeo per il 60ª anniversario dei Diritti dell’uomo.


Pubblicato il: 09.10.08
Modificato il: 09.10.08 alle ore 8.36   
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Titolo: Anna Paola Concia Io, mia Madre ed Eluana
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 03:10:17 pm
Io, mia Madre ed Eluana

Anna Paola Concia *


Ho deciso di parlare delle vicende personali mie e di mia madre perché arrivano momenti nella vita in cui non riesci più a sopportare quello che viene detto intorno alla malattia, alla vita e alla morte. Soprattutto dal mondo politico. Che sentenzia e arringa su temi in cui dovrebbe usare cautela e rispetto. Quando si diventa persone pubbliche bisogna avere il coraggio di esporsi. E voglio avere questo coraggio, anche se mi costa: lo faccio perché so che mia madre ne sarebbe contenta. Avevo sedici anni quando mia madre si ammalò.

E ci fu un giorno in cui mio padre disse: «Ragazzi, vostra madre sta male e io mi devo occupare di lei. Voi dovete arrangiarvi».
Da allora la mia vita, come quella dei miei fratelli, ha avuto un percorso diverso, è cambiata. È cambiato soprattutto il mio modo di rapportarmi alla vita, e alla morte che ogni giorno faceva capolino nelle nostre esistenze.

Mia madre era gravemente malata di reni, e ha fatto la dialisi per 12 anni. Erano gli anni 80, quindi 28 anni fa: la scienza e la tecnologia avevano fatto passi avanti ma non come oggi. Più di tutto, ho in mente le tante emorragie di mia madre, i ricoveri urgenti, in cui sembrava che stesse morendo ogni volta, quell’angoscia quotidiana. Quella paura incombente della morte. Era necessario lasciare sempre un recapito, ovunque andassimo, perché allora non esistevano i cellulari. La morte di una donna così vitale e bella era qualcosa che poteva accadere ogni giorno. E noi, i suoi figli e suo marito, dovevamo saperlo, dovevamo farci i conti in ogni istante.

Io ero la più rabbiosa tra i miei fratelli. Non accettavo di vederla così sofferente, mi uccideva, mi uccideva la vita. Dodici anni con una madre agonizzante sono tanti, tantissimi. Ti cambiano la vita. Anche quando quelle macchine la martoriavano, la violentavano, lei cercava di confortarci, dicendo che andava tutto bene. Ma tante volte mi ha detto anche «non ce la faccio più», tante, troppe volte. E io quelle volte le porto con me, come un racconto della vita e della morte, come un insegnamento. Mi aiuta a vivere e ad accettare la morte. Perché ho capito che anche vedendo nei nostri cari quella sofferenza, non la conosceremo mai fino in fondo nella loro tragicità: perché le sole certezze che possiamo avere riguardano noi, e come viviamo “noi” la loro sofferenza.

Del loro calvario personale non sapremo mai tutto. E quindi non potremo mai sentenziare, ma solo ascoltare. Chi oggi sentenzia, sia laico o cattolico, non sa. Per questo dovrebbe tacere. Invito tutti quindi ad un gesto di silenzio, ad un gesto di rispetto e di pace che accompagni chi se ne vuole andare. Lei, mia madre, una notte ha detto basta, mio padre me lo ha raccontato. È morta tra le sue braccia, come era giusto che fosse. Non volevamo, ovviamente, che se ne andasse. Nessuno di noi vuole lasciare andare via quelli che amiamo.

Il nostro dolore ci pare maggiore del loro. Siamo egoisti. Per questo ci accaniamo.

Ma è un gesto di generosità e di rispetto verso la loro vita lasciarli andare, se così hanno deciso, o se irreversibilmente non hanno più il privilegio di poterlo decidere. E allora chiedo a tutti: lasciamo andare Eluana, per amore. Per generosità.

* Deputata Pd

Pubblicato il: 14.10.08
Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50   
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Titolo: Il segreto dell'istinto materno?
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 07:52:54 pm
Il segreto dell'istinto materno?

E' in un ormone che trasforma le donne in "chiocce"

 
ROMA (27 ottobre) - Quello che si chiama istinto materno potrebbe avere il suo segreto in un ormone. Sarebbe infatti questo messaggero chimico a trasmettere il segnale che rende le mamme sempre attente ai bisogni dei loro piccoli: accudirli, curarli e preoccuparsi di loro. La vasopressina agendo sul cervello induce la femmina a prendersi cura dei cuccioli. La scoperta dell'ormone di “mamma chioccia” è di Oliver Bosch, dell'Università di Regensburg in Germania.

Secondo quanto riferito sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, bloccando la vasopressina la mamma di topolini non si interessa più alle cure dei proprio piccoli col risultato che questi crescono emotivi e con difficoltà di interazione sociale. L'ormone dell'affetto materno è ampiamente documentato essere l'ossitocina, che media l'attaccamento mamma-figlio ed è importantissima anche per sviluppare fiducia nel prossimo.

Ma anche la vasopressina è importante nei rapporti sociali e affettivi, non a caso uno studio pubblicato sempre su Pnas dimostrava che i bimbi sfortunati che crescono senza mamma hanno un deficit di vasopressina. Gli esperti hanno bloccato l'azione della vasopressina nel cervello di topoline mamme e queste hanno smesso di accudire i propri piccoli riducendo anche il contatto fisico con loro. La conferma della loro scoperta viene poi da un secondo esperimento in cui i ricercatori hanno bloccato l'azione della vasopressina in mamme-topo geneticamente “settate” per avere livelli di ansia eccessivi nei confronti dei propri cuccioli: queste topoline producono troppa vasopressina e bloccando l'ormone i loro comportamenti eccessivamente premurosi e ansiosi nei confronti dei cuccioli si normalizzano.

da ilmessaggero.it



Titolo: Dominazione e sesso di gruppo in cima ai gusti erotici delle donne.
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 10:35:27 pm
Luci rosse... in rosa: Sono sempre più le donne a firmare i libri dedicati al proibito

Principe azzurro? No, meglio «schiavo»

Dominazione e sesso di gruppo in cima ai gusti erotici delle donne.

I risultati di una ricerca sulla letteratura osé


MILANO - L’eros è femmina. Vale quasi sempre, ma ancora di più in letteratura, dove il genere è prerogativa del gentil sesso, che poi a quanto pare, tanto gentile non è. Il trend era già in atto da qualche anno come dimostra la prolificità della collana Pizzo Nero, edita da Borelli, il cui claim recita «romanzi erotici per donne scritti da donne». E proprio l’editore Borelli, per Pizzo Nero, ha realizzato un’inchiesta interessante sul profilo degli acquirenti di libri erotici: sono donne al 65%, per il 63% di loro l’eroina ideale è una donna in carriera, seguita a ruota dalla spregiudicata e dalla disinibita, e se pensate che l’eroe sia il principe azzurro, ravvedetevi: è lo schiavo sessualmente sottomesso, che con un indice di gradimento del 60% batte sul campo sia l’esecutore che il romantico (misero 35%).

DOMINAZIONE E SESSO DI GRUPPO - Per quanto riguarda l’ambientazione delle fantasie erotiche va alla grande l’albergo di lusso (30%), ma non se la cavano male neanche ambulatori medici (27%) e prigioni (25%). La fantasia erotica più gettonata? Dominazione, manco a dirlo, (35%) seguita a lunga distanza dal sesso di gruppo (16%). Ma c’è un nuovo interessante risvolto che riguarda tutta una categoria di scrittrici erotiche italiane ed è la componente world wide web. Le nuove scrittrici non si nutrono di sola carta: scrivono blog, si fanno promozione su myspace o facebook, utilizzano la tecnologia come raccolta e veicolo di comunicazione, hanno avatar e state sicuri che potete trovarle in rete per molta parte del loro tempo.

COMPAGNI DI LETTO - Chi sono? Tipe toste, le signore. Hanno circa trent’anni, sono ovviamente laureate e lavorano nell’ambito della comunicazione. Si chiamano Elena Torresani, Nadiolinda, Cristiana Formetta, Caterina Cutolo, Gisy Scerman, Eliselle. Ognuna racconta l’eros, talvolta il sesso, a modo suo. L’unico comune denominatore è l’utilizzo di un nuovo mezzo per comunicarlo. Nadiolinda, che per Mondadori ha pubblicato «Se non ti piace dillo, l’amore ai tempi dell’happy hour», traccia un’indagine sociologica applicata al maschio, quasi un’antropologia alla ricerca del perfetto compagno. Di letto e non di vita, come ci tiene a precisare l’autrice, che ironicamente racconta vizì e virtù di un anno di singlelaggio selvaggio. Nadiolinda è partita da un blog, segnalato poi agli addetti ai lavori, ha un suo sito internet e, ovviamente un Myspace. «Da quando ci vivo nel web, come Nadiolinda, ho imparato che ci puoi costruire relazioni importanti e anche prendere delle cantonate colossali. Appartengo all'ultima generazione che considera il reale più del virtuale. ma che si sta arrendendo all'evidenza del fatto che la virtualità è una parte irrinunciabile della vita di tutti i giorni. Sono una zia curiosa, poco attenta alle mode e molto critica su tutto quello che vedo: mi capita di dare consigli e di non capire quello che mi viene spiegato, anche quando sono stata io a fare le domande. E sì che mi sembrava anche di aver fatto una domanda chiara... è che il web ha un linguaggio tutto suo, che un po' è suppergiovane e un po' è supperingegnere e io coi troppo giovani e con i troppo ingegneri non c'ho mai preso molto. Ecco la verità: il web è un'orizzonte e la vita virtuale rende possibili molte cose che nella vita reale non hanno mezzi né spazi. Nadiolinda non esiste. Ma a volte ho l'impressione che sia più reale di me. Nadiolinda è il mio potenziale illimitato, la mia occasione di eternità, ma è anche una stronzetta virtuale e l'ho avvertita più volte: se non ti dai una regolata, se non la pianti di flirtare dallo schermo, se non ti copri un po' e non impari cos'è la decenza... mi bastano tre click per eliminarti per sempre dalla rete!».

SUL WEB SI OSA DI PIU' - Stesso percorso per Elena Torresani , che ha da poco pubblicato il suo primo libro «L’inferno di Eros - un poema erotico» (AndreaOppureEditore), un libro nato dall’incontro in rete con la fotografa Monica Papagna. «Tra i lettori del mio blog si annidava la fotografa Monica Papagna, che un giorno mi ha contattata per chiedermi se mi andava di scrivere un pezzo erotico per il vernissage della sua mostra “Fil Rouge” presso la Marena Rooms Gallery di Torino. Ammetto che non è stato facile: l’erotismo era un genere un po’ troppo sottile per il mio stile ruspante. Alla fine però la lettura di “Danze Balcaniche” davanti ai giornalisti intervenuti per il vernissage è stato un successo, e questo ha decretato la nascita del mio primo libro “L’inferno di Eros”. Unendo gli scatti della Papagna alle mie parole, dando libero sfogo anche a linguaggi erotici un po’ più spinti e a paesaggi più goderecci (decisamente più nelle mie corde) in due mesi di notti sulla tastiera ho sfornato questa creatura, che a gennaio 2008 è stata pronta per la valutazione delle case editrici. Ovviamente, in tutto questo la rete ha avuto un ruolo fondamentale: non sarei mai arrivata a sviluppare nessun ipotetico talento né a pensare di poter pubblicare un libro. Ho sempre saputo di essere priva di qualsivoglia spirito narrativo, e solo il supporto e l’affetto dei miei amici del web mi ha spinto ad osare il passo dal blog alla carta stampata».

L'EROTISMO 2.0 - Poi c’è Cristiana Danila Formetta, l’unica scrittrice attiva anche in America. In Italia ha pubblicato per la Coniglio Editore il romanzo erotico «La vita sessuale dei camaleonti» già incluso nella prestigiosa antologia International Erotica (Robinson, London), al fianco del premio nobel Elfriede Jelinek e di J.G. Ballard.Nel 2008 ha pubblicato Necro Baby, un booklet per la PesaNerviPress con racconti di pericolose "femme fatal" che prima seducono e poi distruggono chi le avvicina. «I blog promuovono un contatto diretto tra l'autore e il lettore, e permettono di entrare in confidenza con migliaia di persone, di stringere rapporti più stretti con il pubblico in maniera più immediata di come accadeva in precedenza, con i tour letterari, ad esempio. Credo che oggi il termine "scrittura erotica" sia limitato, sarebbe più giusto parlare di Erotismo 2.0. perché con internet il sesso è oramai una questione di byte, e strumenti come blog o social network sono diventati un ottimo strumento di promozione per le proprie opere. Io per esempio sono molto attiva su My Space». Val la pena di segnalare la collaborazione allo stilosissimo blog www.cooletto.com, un blog tematico che tratta di erotismo a tutto tondo: sesso frizzante, perverso, burlesque, ma anche fetish e sadomaso, con lezioni di bondage e altri tutorial illustrati del genere.

ROMANTICISMO E SESSUALITA' - Caterina Cutolo ha pubblicato nel 2005 il suo romanzo d’esordio «Pornoromantica», una versione narrativa dei migliori post del suo blog, dove con grande ironia ed uno stile leggero e scanzonato, l’autrice fonda una vera e propria corrente di pensiero che combina l'integralismo romantico con il sesso sublime: il Pornoromanticismo, appunto. «Ho aperto il blog Pornoromantica nel giugno 2003, più che altro spinta dall'idea di avere finalmente dei lettori, cosa che mi stimolò moltissimo e da subito a sforzarmi di scrivere meglio, di catturarne l'attenzione, di spingerli a lasciarmi un'impressione, un feedback tra i commenti. L'ho intitolato Pornoromantica senza pensare in verità a dei contenuti a tema, ma solo perché mi ero appena inventata questa parola e mi divertiva e mi rappresentava in quel momento. Dopo un paio di mesi ricordo che scrissi un post diverso dagli altri, in cui raccontavo la mia scoperta della masturbazione all'età di 21 anni, dei fallimentari (e comici) tentativi prima di riuscirci, di come la mia vita sessuale sia cambiata in meglio in seguito grazie al fatto che conoscevo meglio il mio corpo e il mio piacere. La reazione dei lettori e delle lettrici fu entusiasta e partecipata, questo mi ha spinta da quel momento in poi a continuare il blog a tema, tanto più che a quel punto il titolo del blog si è rivelato assolutamente perfetto».

PADRONA E SCHIAVO - Chiudiamo la carrellata con Eliselle: ha pubblicato racconti erotici come «Altri amori» e «Tua, con tutto il corpo» antologia di racconti erotici al femminile. Dai suoi testi erotici è stato ricavato uno spettacolo teatrale, «Strettamente riservato», rappresentato in luoghi off-off di Milano dalla compagnia teatrale Attoprimo, diretta da Rocco Di Gioia. Adesso però ha fatto il grande salto, è passata dall’erotismo ai chick -lit, con il divertente «Fidanzato in affitto» (Newton Editore), la storia di una ragazza qualunque che quando perde il lavoro per mantenersi adotta uno schiavo. «Dopo un'iniziale titubanza, Cristal decide di tentare il tutto per tutto e risponde a un annuncio che sembra fare al caso suo: "Cerco disperatamente una padrona per servirla come suo schiavo... Adorazione senza limiti né remore"» si legge nella quarta di copertina.. A ben vedere, un po’ di sesso è rimasto anche qui….

Arianna Chieli
03 novembre 2008(ultima modifica: 04 novembre 2008)

da corriere.it


Titolo: Michelle, una mamma al comando. La prima First lady nera della Storia
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 12:09:23 pm
ESTERI - ELEZIONI USA 2008

Giovane, 44 anni, avvocato, due bambine ("Dovrò seguirle molto è un grande cambiamento") non si limiterà a organizzare cene

Michelle, una mamma al comando

Ma tutti sanno che lascerà il segno

La prima First lady nera della Storia, viene da un quartiere povero di Chicago

Applicherà i suoi studi e le sue competenze alla riforma sanitaria

dall'inviato ANAIS GINORI

 

CHICAGO - Qualcuno l'ha paragonata a Jacqueline Kennedy. Ma, a parte la giovane età (44 anni), c'è da scommettere che lei sarà solo se stessa.

"Mom-in-chief", mamma al comando, ha promesso. La priorità adesso è infatti sistemare Sasha e Malia nell'East Wing, il lato della Casa Bianca dove vive la famiglia presidenziale e trovare una nuova scuola a Washington. "Per loro sarà un grande cambiamento. Dovrò seguirle passo passo nei prossimi mesi" ha detto Michelle Obama. Nessuno pensa che sarà una first lady che si limiterà a organizzare ricevimenti e smaltire la corrispondenza. Michelle applicherà la sua esperienza, i suoi studi alla riforma dell'istruzione e della sanità.

"C'è così tanto da fare" si schermisce lei senza voler aggiungere altro. Ci tiene, ha sottolineato, a dare più risorse e servizi alle donne che lavorano. "Famiglia e carriera sono ancora troppo spesso in conflitto". Qualche giorno fa, in Florida, ha raccontato di quando Barack le ha annunciato che voleva correre per le presidenziali. Lei ci ha pensato un attimo e ha fatto due richieste. Primo: smettere di fumare. Secondo: sapere che la famiglia dovrà comunque mantenere una piccola quota della sua attenzione. "Gli ho risposto: Baby, possiamo sostenerti fino all'80 per cento". Una first lady che chiama "baby" suo marito. Anche questa è una rivoluzione.

Michelle "The Boss", secondo la stessa definizione del leader democratico. Insieme sono una miscela esplosiva. Freddo (lui), caldo (lei). Idee e progetti Obama, azioni e iniziative concrete Michelle. La storia parla chiaro. Ad Harvard Obama punta a dirigere la prestigiosa Law Review, Michelle si mobilita invece per aumentare le quote delle minoranze etniche.

Furba, forse più di lui. Durante le primarie, è Michelle a suggerire allo staff del marito di smettere con gli attacchi diretti ad Hillary. Se vuoi vincere, devi comportarti da vincitore: è la sua ricetta. Sempre lei a dire che Sarah Palin "è un ottimo esempio di come le donne devono affrontare tanti fronti". Sottinteso: anche nel ticket democratico c'è una donna che ha lavoro e famiglia, ed quella donna è Michelle Obama.

E' cresciuta in un bilocale del South Side, il sobborgo nero di Chicago. Suo padre sgobbava dall'alba al tramonto negli uffici delle fogne per mandare a scuola i figli, Michelle e Craig. La sua storia è il vero american dream. Da figlia dei ghetti a plurilaureato (Harvard e Princeton) avvocato d'affari. Prima di mettersi in aspettativa per la campagna elettorale, guadagnava più del marito come dirigente dell'amministrazione ospedaliera. "Sono un errore della statistica - ha detto lei qualche giorno fa - la verità è che non dovrei essere qui".

Prima First lady nera della Storia, un'altra stranezza. Dovrà stare attenta al suo lato più radicale, dicono gli esperti. A non esprimere troppo "black-pride", l'orgoglio degli afro-americani, enfatizzato nella sua tanto criticata tesi di laurea. "Per la prima volta sono fiera di essere americana", è stata la sua gaffe più pericolosa. Si è trasformato nel bersaglio preferito dei media conservatori. Non le è stato risparmiato nulla. C'è chi l'ha soprannominata "baby-mama", come fosse la tata di Via col Vento. Negli ultimi tempi ha mostrato un volto più posato e un look al naturale, "cheap and chic": vestiti comprati con cinquanta dollari nei supermercati Wall Mart o a JCrew, ormai soltanto online. "Non ho più tempo di fare shopping" ha messo in chiaro mentre la Palin svaligiava i negozi di moda con la carta di credito del partito repubblicano (spesa finale 150.000 dollari).

Michelle è una tosta, insomma. Quando Marian, la mamma di Michelle, ha conosciuto Obama nel 1989 è rimasta scettica. La parte bianca di Obama inquietava la famiglia da sempre segretata nel South Side. E comunque Michelle era stata fino ad allora una ragazza molto esigente, che liquidava gli spasimanti dopo qualche uscita. "Anche questo fidanzato passerà" pensò Marian. No, non questo. Barack Obama è stato l'unico all'altezza dei sogni di Michelle.


(5 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Energia e orgoglio nero, è lei il lato fisico dell'etereo Barack
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 12:22:28 am
6/11/2008 - LA NUOVA FIRST LADY
 
E l'impetuosa Michelle travolse Stevie Wonder
 
Energia e orgoglio nero, è lei il lato fisico dell'etereo Barack
 
 
MARIA GIULIA MINETTI
 
Il migliore amico dei miei ultimi sedici anni, il pilastro della nostra famiglia, l’amore della mia vita», l’ha chiamata suo marito nel primo discorso da Presidente, la voce spezzata dall’emozione. «Senza di lei non sarei qui». E non parlava solo del sostegno durante il periodo elettorale. L’incontro con Michelle Robinson è stato fondamentale per la carriera politica del giovane Barack. Che è partita con l’esempio del padre di lei, attivista democratico con un vasto seguito nel South Side di Chicago.

Giocata «al ribasso» per quasi tutta la campagna presidenziale del marito - i cui consiglieri s’erano spaventati per le ripercussioni della famosa frase: «È la prima volta che sono orgogliosa del mio Paese» detta dopo la prima grande vittoria di Barack alle primarie - Michelle era rientrata in pista con grande sicurezza. «Nuova del mestiere, ma non più una novizia», titolava il New York Times in un articolo alla fine di ottobre. A leggerlo si capiva che la fine del noviziato coincideva con un controllo su se stessa conquistato con tanta fermezza da ridarle la fiducia dello staff democratico. «Una volta la consideravano una forza imprevedibile, capace di dirne una di troppo - notava il giornalista Patrick Healy - adesso la considerano disciplinata, efficace nel perorare la causa del marito». Efficace soprattutto nell’affrontare e vincere, apparizione dopo apparizione, discorso dopo discorso, la sua grande sfida con gli elettori: abituarli all’idea di una First Lady con la pelle nera.

Perché il colore della pelle di Michelle era un problema «in sé», non semplicemente parte del più generale problema di fare accettare all’America bianca una presidenza «colorata». La percezione che di Barack Obama, della «negritudine» di Barack Obama hanno gli americani, è diversa da quella che hanno di sua moglie. Barack non è il discendente di una famiglia che ha conosciuto la schiavitù, suo padre era un cittadino kenyota nato libero nella sua terra. Michelle, invece, porta nell’albero genealogico il segno delle catene. E di quel segno gli americani hanno paura, e hanno paura perché è il segno della loro vergogna, del loro peccato. E da chi ha quel segno s’aspettano, pur senza confessarlo, forse neppure avendone coscienza, una vendetta, una punizione. Toccava a Michelle esorcizzare la paura.

Ma a Michelle è toccato anche il compito opposto. Michelle ha «garantito» la negritudine di suo marito presso i fratelli neri, gli ha detto: «Io sono una di voi, e pure lui lo è, per mio tramite. Se è il mio eroe, vuol dire che è anche il vostro eroe. Potete fidarvi di lui». E se il linguaggio corporeo di Obama ha un che di etereo, di «non sostanziale», quasi fosse più elfo che uomo, il linguaggio del corpo magnifico e possente di Michelle è lo stesso delle grandi, poderose cantanti di blues, delle domestiche matrone dei sobborghi neri metropolitani.

Pochi in Italia l’hanno vista, presentata da Oprah Winfrey a un gigantesco raduno, avanzare sul palco tutta vestita di bianco, falcate da atleta, un abbraccio a Stevie Wonder tanto esuberante che l’ha fatto cadere dal palco («Quella volta che Michelle ha cercato di uccidere Stevie Wonder» è il titolo del video su YouTube), pochi l’hanno vista dialogare con Whoopy Goldberg con una rispondenza di movimenti, di espressioni davvero meravigliosa.

Se Barack incarna un sogno, se guardandolo si crede davvero che volere è potere (questo significa «yes, we can»), tanto più lo incarna Michelle, che nella sua ascesa sociale ha contato solo sulla sua intelligenza, la sua forza, la sua determinazione. Adesso la domanda è: cosa farà alla Casa Bianca? Saprà tenere in equilibrio, da donna di formidabile intelligenza qual è, l’immagine tranquillizzante che s’è costruita a misura dei bianchi e l’immagine «folk» (non nel senso umiliante di Sarah Palin, che usa la parola come sinonimo di mediocrità, ma nel senso esaltante dell’orgoglio identitario), saprà, Michelle, essere la sintesi che s’è proposta di essere?

Azzarderò un pronostico: la testa sarà equilibrata, ma il cuore no. Che il cuore batta dalla parte del folk s’è visto già la sera delle elezioni vittoriose, accolte con addosso un trionfale vestito rosso e nero che è un inno al gusto della sua gente. Una bandiera, una rivendicazione, una promessa. Go, Michelle, go.
 
da lastampa.it


Titolo: Tutte donne tranne uno: lezioni erotiche sul bacio per non smettere di sperare..
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:05:28 am
Tutte donne tranne uno: lezioni erotiche sul bacio per non smettere di sperare...

 
di Laura Bogliolo


ROMA (6 novembre) - Scivolosa, tribale, assaporatrice, occasionale («sai, sono sposata da molto»), agile e morbida, smaniosa, materna («ormai bacio solo i miei figli») e adolescenziale («fan delle lunghe e interminabili pomiciate al liceo»). E tu che baciatrice sei? «Se non sai rispondere è già grave». La sessuologa Barbara Florenzano chiarisice: «Non esistono regole per il bacio perfetto». Neanche la preparazione tantraica di Stinghiana memoria o chili di mentine possono fare miracoli «se - spiega - non si riesce a stare in pace con se stessi». Intanto per tutte la regola è solo una: «Quando si bacia bisogna sequestrare il viso dell'uomo».

Avvolgenti pareti rosse, tappeti e cuscini per sdraiarsi, note diffuse su volti un po' imbarazzati e poi divertit, e libricini per prendere appunti di erotismo.

Tutte donne, tranne uno, confessioni intime sull'arte del bacio e voglia di condividere ieri alla serata inaugurale di Cahiers des femmes: Appunti di erotismo, incontri al femminile nella boutique ZouZou organizzati dalle Zouzettes Tiziana Russo, Alessandra Pucci, Chiara Moro, Elisa nardoni e Daniela Rizzo. Ieri il tema dell'incontro era il bacio. Porte aperte su Vicolo della Cancelleria verso le 22, qualche coppia si affaccia, incuriosita, ma la risposta è sempre la stessa: «Lei entra, tu no, è una serata per sole donne». Perché se nell'aria aleggiano profumi di dopobarba si spezza la spontaneità, la ricerca (infinita) della verità (quale?) sul bacio si perde tra pregiudizi, pudori, «ci sentiamo limitate e scattano, immancabili, le bugie». E invece in un'ambiente tutto rosa si riesce ad essere più sincere. Qualche esempio? Il bacio peggiore?. Quello «viscido», «troppo umido,» «violento» o con «la lingua che fluttua moscia, senza coraggio».

Lei il bacio lo vuole «eroico, ma dolce», «spudurato, ma gentile», «deciso, ma rispettoso». E intanto agli uomini non resta che lamentarsi: «Donne con troppi giudizi sul bacio - racconta la sessuologa - e troppo maestrine quando si spiega come fare». Una cosa è certa: statistiche, racconti, lettini di psicoanalisi, film, documentari (quelli sugli animali non smentiscono mai), leggende e piccole verità rimbalzano sempre lo stesso concetto: per lui il bacio potrebbe anche non esistere, per lei è un preliminare fondamentale. Sarà per questo che su Facebook spopolano gruppi sul bacio? Anche qui lei la vede diversamente da lui. Si va dal "chi ricorda il suo primo bacio?" al "101 modi per trovare il principe azzurro (senza dover baciare tutti i rospi)" al "dove sono finite le Belle addormentate da svegliare con un Bacio?".

Insomma, Adamo ed Eva condannati ad essere separati per sempre non dalla mela ma dal bacio? Paura, tanta paura. Ma poi, finalmente, la massima, quella che illumina quell'oscura delusione (fortunate se si usa il singolare) del post-baciatore-incapace. Eccola: «Né come in un frullatore, né come in un piatto di semolino». Sì, è sicuramente questa la frase da ricordare ed esclamare, con naturalezza e gentilezza, certo, come jolly salva rapporto, la prossima volta che l'uomo della tua vita ti viene sotratto dal crudele destino dell'insostenibile pesantezza (non solo d'alito) dell'incapacità di baciare.

E attenzione, perché «il bacio perfetto non significa sesso perfetto». Insomma, insegnato a lui come baciare, la strada resta in salita. Anche se tutte le ragazze dello ZouZou sentenziano: «Chi bacia male ha già perso». Sarà per questo che a Seattle c'è la Kissing School creata da Cherie Byrd che, trovato l'uomo della sua vita, scopre che non sa baciare. Che fa? Si arrende? La regola del "7 donne per ogni uomo" detta la risposta: certamente no! Ed ecco allora la scuola per coppie e anche single. Successo negli Usa per la scuola del bacio. Ma anche in Italia sono tante le coppie che vogliono consigli. Per loro, spiega la Florenzano, c'è anche l'esercizio del «un minuto al giorno di baci per una settimana» da cronometrare, senza barare, con una sveglia. «Così - spiega - si recupera l'intimità, problema molto presente in tantissime coppie».

Ma il bacio è nel Dna o è un fattore sociale?. A sostegno della prima tesi, spiega la Florenzano, il fatto che anche gli animali si baciano. Il bacio alla francese è preorgativa della scimmia bonobo, i porcospini si strofinano il naso, i piccioni intrecciano il becco, i delfini si mordicchiano. A sostegno della seconda, la regola del "paese che vai bacio che trovi". Ecco allora che i pigmei del Mozambico credono che il bacio sia un attentato all'igiene, che alcune popolazioni del Pacifico preferiscono respirare l'altro fino allo stordimento e che in alcuni villaggi dell'Indonesia gli innamorati si mordicchiano le ciglia.

Bene. La teoria è finita. Si inizia con la pratica. «Tutte senza scarpe, passeggiate lentamente e odoratevi. Se vi va baciatevi». C'è chi scappa, chi decide di provare. «E' un esercizio per entrare in contatto con se stesse, per sperimentare le difficoltà di contatto con l'altro». Perché odorare e assaporare l'altro è una cosa importante. Sembra infatti che all'orgine del bacio ci sia la volontà della donna di stabilire la bontà dei geni dell'uomo al fine della procreazione.

Tutte donne, tranne uno, a parlare dell'arte del bacio. E c'è chi suggerisce: «Tutta questa teoria dovremmo però iniziare a metterla in pratica!». Niente paura, era già tuto previsto: tutte donne, tranne uno. Ha aspettato silenziosamente per tutto il tempo ma ora il protagonista diventa lui: l'attore Luigi Cassandra che insegna i baci cinematografici e quelli sperimentali. «Qualche volontaria?». Ressa tra le presenti, ventenni e trentenni ma anche over 50. Tre vere e proprie rappresentazioni, un copione, ma poi è l'istinto a dominare. E così, ciak si gira la scena del bacio romantico di La vita è bella, quella della bella ma ai margini della società salvata dal principe azzurro di Pritty Woman e quella ardente e passionale di Eyes Wide Shut. Curiosità, applausi, tante risate. C'è anche chi si lascia travolgere davvero, chi dice di sentirsi «rinata», chi assicura: «Mai stata baciata così bene!». E poi si osa di più. E' l'ora del bacio sperimentale. Quello dato partendo dal collo, quello con la testa di lei poggiata sulle sue spalle per poi conquistare la bocca e quello improvvisato, che insegna a osare. E per chi vuole il bacio tra donne.

Mille e uno modi di baciare ieri sera allo ZouZou dove, negli incontri successivi, si parlerà di auto erotismo, fantasie e perversioni e sextrology. Ma solo una certezza: l'amore, come il bacio, è una malattia inesorabile, per di più, diceva Disraeli, contagiosa. Non resta che lasciarsi "infettare"...

da ilmessaggero.it


Titolo: Le donne: bagni pubblici più grandi in nome della parità con gli uomini
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2008, 05:42:51 pm
Dagli Usa Potty Parity, il movimento che promuove nuove leggi per raddoppiare il numero di quelli per signore.

"Basta file"

Le donne: bagni pubblici più grandi in nome della parità con gli uomini

Al Word Toilet Summit presentato anche l'orinatoio femminile


di BENEDETTA PERILLI

 LA SCENA non è nuova: da un lato c'è una fila urlante di donne impazienti, dall'altro invece un silenzioso andirivieni di uomini composti. Se, entrando in un bagno pubblico, vi siete domandati almeno una volta perché quelli degli uomini sono sempre liberi e quelli delle signore caoticamente occupati, sappiate che presto la situazione potrebbe cambiare.

Dedicato alle donne, e alle loro lunghe attese, arriva dagli Stati Uniti il movimento del Potty parity, ovvero dell'uguaglianza della tazza, là dove tazza non indica quella da tè ma la meglio nota toilette. Creato più di dieci anni fa dal professor John F. Banzhaf III, il movimento promuove l'istituzione di leggi che raddoppino il numero di bagni pubblici a disposizione delle donne.

Quello delle file nei bagni femminili infatti non è solo uno stereotipo e studi scientifici hanno addirittura determinato in numeri quanto la disparità di attesa tra uomini e donne sia marcata. Pare infatti che analizzata una situazione tipo, un concerto o una partita di calcio, l'attesa media sostenuta da una donna per potere accedere alla toilette è pari a circa 20 minuti, contro una fila di solo pochi minuti per gli uomini.

Il motivo, anch'esso teorizzato nell'ambito di uno studio scientifico, è chiaro: in media le donne impiegano circa 80 secondi all'interno del bagno, mentre agli uomini ne bastano solo 45. Tra le ragioni di questa disparità temporale gli studiosi hanno individuato, oltre alle differenze anatomiche, anche alcuni fattori comportamentali come il maggior numero di indumenti indossati dalle donne, la presenza di figli al seguito, la tendenza a specchiarsi e a sistemare trucco e capelli. Si spiegherebbe dunque così il formarsi di quelle lunghe e fastidiose code davanti alla porte contraddistinte dalla signora in gonna.

E se fino ad oggi avete invidiato i servizi igienici maschili, magari visitandoli in casi di estrema disperazione, o avete imputato il formarsi delle code ad una sorta di legge di Murphy a sfavore delle donne, ora non resta altro che sostenere il Potty parity. Se ne parla proprio oggi, 6 novembre, a Macao nell'ambito dell'ottavo World Toilet Summit, l'organizzazione globale non profit che da anni si batte per migliorare i servizi e le condizioni sanitarie dei paesi del mondo. Accanto a tematiche più serie, come la presentazione di soluzioni per due miliardi e mezzo di persone che ancora oggi vivono senza servizi igienici, la Potty parity law verrà presentata e discussa proprio dal suo padre fondatore, il professor Banzhaf.

L'urinequity, come la chiamano simpaticamente i sostenitori del professore americano, verrà analizzata sotto vari punti di vista. Primo fra tutti la struttura dei bagni. A favore degli uomini infatti non solo la natura, che permette loro di impiegare la metà del tempo di una donna, ma anche la presenza, oltre alle toilette, di orinatoi dalle dimensioni ristrette. Assegnata quindi una stessa metratura ai servizi di uomini e donne, spesso all'interno di quelli maschili sono presenti più postazioni.

Ecco dunque che la prima generazione del movimento Potty parity si batte per ottenere un numero di postazioni uguale alla somma degli orinatoi e delle toilette presenti nei bagni degli uomini. Degli ultimi mesi è invece la seconda generazione della Potty parity, chiamata anche porcelain proportionality, ovvero proporzione della porcellana, che alza la posta in gioco rispetto alla prima generazione e rivendica, al fine di accorciare la distanza di 2 a 1 nei tempi di attesa, un numero di servizi igienici destinati alle donne uguale al doppio della somma di orinatoi e toilette presenti nei bagni maschili.

Tra le altre ipotesi, sempre nell'ambito del Word Toilet Summit, verrà presentato anche l'orinatoio femminile. Il servizio, noto con il nome di urinette, aiuterebbe a ridurre, secondo alcuni sostenitori della potty parity, i tempi di attesa nei bagni femminili aumentando le postazioni.

I primi risultati della campagna promossa da Banzhaf risalgono al 2006 quando il New York City Council approvò all'unanimità il Woman's Restroom Equity Bill alzando il rapporto tra bagni pubblici femminili e maschili da 1:1 a 2:1. Esempio seguito poi da numerosi distretti americani.

In Italia il dibattito sulla "parità di tazza", anche se in tinte diverse, è fermo al 2006 quando, in seguito all'incontro nei bagni femminili di Montecitorio della portavoce di Forza Italia Elisabetta Gardini e dell'allora deputato transgender di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria, si scatenò la questione dei bagni per transessuali. La soluzione proposta fu quella del servizio unisex: bagni più grandi e senza distinzioni sessuali. Chissà cosa ne penserebbero quelli del Potty parity.


(8 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Donne in piazza contro la violenza "Difendiamo i nostri diritti"
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 11:22:42 am
A Roma il corteo organizzato dalla Rete nazionale di femministe e lesbiche

Donne in piazza contro la violenza "Difendiamo i nostri diritti"

Contestati il progetto Gelmini e il ddl Carfagna sulla prostituzione


 ROMA - In piazza "contro la violenza degli uomini". Migliaia di donne, oltre 50 mila secondo le organizzatrici, hanno partecipato oggi a Roma alla manifestazione indetta dalla Rete nazionale di femministe e lesbiche. Stando ai dati della Casa internazionale delle donne di Roma e di Bologna, ogni tre giorni in Italia una donna muore per le violenze subite da un uomo. In particolare, nel 2007 sono state uccise 126 donne: 44 dai mariti, 11 dai fidanzati o dai conviventi, nove dagli ex mariti e dagli ex fidanzati, dieci dai figli e 14 da sconosciuti. I dati si aggiungono a quelli di un'indagine Istat dello scorso anno, secondo la quale quasi sette milioni di donne sono state vittime di violenza. La maggior parte (oltre sei milioni) ha subito aggressioni dal partner.

La manifestazione, che precede la Giornata mondiale per l'eliminazione delle violenza sulle donne, il 25 novembre, è stata anche l'occasione per protestare contro il ddl sulla prostituzione a firma del ministro Carfagna ("criminalizza le prostitute e impone regole di condotta per tutte; invece siamo tutte indecorosamente libere") e contro il progetto di scuola del ministro Gelmini ("autoritario e razzista").

Il corteo è partito intorno alle 15 da piazza della Repubblica e si è diretto verso piazza Navona, attraversando le vie del centro. "Indecorose e libere contro la violenza maschile", era scritto sullo striscione alla testa. E sugli altri: "Cenerentola, Biancaneve e Barbablù c'erano una volta... e adesso non li vogliamo più", "Nella casa del 'Mulino' si nasconde l'assassino", "Ma non lo puoi usare solo per pisciare?".

Arrivate a piazza Navona, alcune manifestanti hanno parlato ai microfoni prima di improvvisare un concerto. Durante il corteo, a cui si sono aggiunti man mano gruppi di manifestanti, ha anche sfilato un furgone con una piovra gigante con dei tentacoli che riportavano scritte sulla rivendicazione dei diritti delle donne. Tra gli striscioni, anche la scritta "La violenza sulle donne ha molte facce" e, sotto, i volti di Berlusconi, del Papa e di alcuni ministri del governo.

"Siamo soddisfatte nel vedere donne che da tutta Italia sono arrivate in piazza a Roma attraverso il passaparola. Il nostro è un movimento che si inserisce nella protesta trasversale di questo paese e appoggia le contestazioni alla riforma Gelmini, che danneggia soprattutto le donne" ha commentato Monica, dell'assemblea romana di femministe e lesbiche.

Il corteo era diviso in spezzoni: femministe, lesbiche e centri antiviolenza. Gli uomini, la cui presenza fu fortemente contestata da alcune manifestanti nel corso della mobilitazione nazionale che si svolse il 27 novembre dello scorso anno, hanno sfilato in coda.

(22 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ELENA LOEWENTHAL La nuova paura di noi mamme
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 11:38:52 am
23/11/2008
 
La nuova paura di noi mamme
 
ELENA LOEWENTHAL

 
Chi, come noi, vive e conosce Rivoli da almeno trent’anni, lo chiama «il Seminario». E’ la remota memoria di quando i ragazzi di montagna venivano a studiare da religiosi in questo edificio affacciato verso il monte Musinè, all’imbocco della Val di Susa. Dove va a scuola tuo figlio? Al Seminario, è la risposta che vien fuori così senza pensarci su, anche se tuo figlio fa un liceo scientifico dal nome dell’illustre naturalista che, avendo scoperto la selezione naturale, con i preti ha ben poco a che fare.

Il Seminario è una specie di castello in miniatura, ma mica tanto: sta proprio dietro la sede del museo d’arte contemporanea e quasi ci fa a gara, per imponenza. Domina la collina e lo sguardo, persino in lontananza. E così, quando poco prima delle otto ogni mattina tuo figlio monta in sella alla sua moto e parte con un rombo quasi acido, aggressivo, ti scatta dentro la pancia una specie di preallarme. Passa un quarto d’ora durante il quale speri di non sentire nessuna sirena d'ambulanza tagliare l’aria, e poi tiri un sospiro di sollievo: adesso sarà arrivato sano e salvo a scuola.

La mattina se ne va serena, perché lo pensi al sicuro dentro quelle mura spesse. Ieri mattina il vento non era più così cattivo come il giorno avanti. L’aria era meno carica, seppure ancora elettrica e fredda. Il vento, qui a Rivoli, sulla soglia della Val di Susa, quando tira forte sembra volersi mangiare tutto. Ma ieri mattina era già un po’ stanco, e la giornata si prometteva tersa, quasi benevola.

Fin verso le undici e mezzo, quando è cominciato un caos sonoro. Sirene in successione, traffico, e poi persino quelle pale di elicottero che paiono fatte apposta per scavarti l’ansia fino in fondo allo stomaco. Chissà che cosa sarebbe successo, a noi mamme di Rivoli che mandiamo i figli a studiare al Seminario, se, poco prima di tutti questi rumori carichi di brutti presagi, avessimo sentito il boato che ha fatto tremare i loro banchi e poi quella sirena d’allarme che sino a ieri avevano conosciuto solo durante la pacchia delle esercitazioni di sicurezza (due ore buone di lezione saltate ogni volta!).

Noi, se da casa avessimo sentito quel boato e quella sirena dentro la scuola dei nostri figli, saremmo morte di paura. Eppure loro, i nostri figli, dicono che lo spavento più grande se lo sono preso fuori in cortile, incominciando a capire quel che era successo, lassù al primo piano del Seminario. E avevano ragione loro, ad aver avuto paura dopo. Una paura retroattiva che parla da dentro le viscere e si schianta contro la scena di quel controsoffitto sfondato, caduto giù come brandelli di carta da un foglio strappato. Perché quando una mamma manda suo figlio a scuola pensa che magari potrebbe succedergli qualcosa per strada, a piedi mentre attraversa sulle strisce con lo zaino che lo sbilancia sulle spalle, in moto se piove perché l’asfalto scivola. A scuola, pensava una mamma sino a ieri mattina, non può mica succedergli nulla di male - a parte un brutto voto, una nota sul diario, una bisticciata fra compagni.

Invece non è più così da ieri mattina, per una mamma che manda suo figlio a scuola. Perché fra quelle quattro mura, seduti al banco, può capitare anche di morire per colpa di un controsoffitto che casca, come fosse fatto di carta straccia.
 
da lastampa.it


Titolo: Paola Emilia Cicerone. I misteri del seno
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 05:26:08 pm
Rubriche

I misteri del seno

di Paola Emilia Cicerone


Colloquio con Peter Hartmann, direttore dell'Human Lactation Research Group e autore di numerose pubblicazioni sulla salute delle madri e l'allattamento  Peter Hartmann è uno di quelli che sul seno femminile ha parecchio da dire. Dirige lo Human Lactation Research Group presso la University of Western Australia ed è convinto che ne sappiamo ancora poco. Gli abbiamo chiesto perché.

Professore, cosa c'è ancora da scoprire?
"Se ne occupano oncologi o chirurghi plastici, ma non ne conosciamo ancora bene la funzionalità. Né la composizione standard del latte: se un neonato non cresce, si dà la colpa al latte materno, quando i problemi possono essere altri. Solo di recente abbiamo usato gli ultrasuoni su donne in allattamento, scoprendo un'anatomia diversa da quella descritta nei libri di testo. Abbiamo visto che i dotti in cui dovrebbe raccogliersi il latte prodotto, non esistono. E che i dotti attraverso i quali scorre il latte sono meno numerosi di quanto ipotizzato, non 15 - 20 ma al massimo 9, superficiali e facili da occludere".

Oggi gli interventi di chirurgia estetica al seno sono molto diffusi. Con quali rischi?
"Il 50 per cento delle donne che si sottopongono a interventi di riduzione ha difficoltà ad allattare. Ma anche chi inserisce protesi rischia di danneggiare l'area intorno al capezzolo, o di creare occlusioni che possono rendere più difficile l'allattamento".

Qualche consiglio per chi vuole allattare?
"Non esiste una posizione ideale per allattare: se il bambino mangia e la madre non sente male è ok. I bambini sanno spontaneamente come alimentarsi, bisognerebbe lasciare fare alla natura invece di separare mamme e neonati al momento della nascita come spesso avviene".

(25 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: LETTERE E DIARI DELLE DONNE ARGENTINE IMPRIGIONATE DURANTE LA DITTATURA.
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 06:01:12 pm
MEMORIA DEL BUIO

LETTERE E DIARI DELLE DONNE ARGENTINE IMPRIGIONATE DURANTE LA DITTATURA.

UNA TESTIMONIANZA DI RESISTENZA COLLETTIVA.
 

Mercoledì 3 dicembre 2008 – ore 18.00

Presentazione del libro con la partecipazione di Gianni Minà, direttore della collana Continente desaparecido;
Italo Moretti, giornalista, corrispondente della Rai in Argentina nel periodo della dittatura;
Adela Gutierrez, Gladys Baratce, Estela Robledo, ex prigioniere politiche nel carcere di Villa Devoto
 
Casa Internazionale della Donne
Sala Carla Lonzi (Primo piano)
Via della Lungara, 19 - Roma


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Sono state, sono, compagne.

Compagne: coloro che condividono il pane.
Questo è il significato della parola, secondo la sua radice latina.
Questo libro condivide, allo stesso modo, la memoria.

E’ l’opera collettiva di molte prigioniere
dell’ultima dittatura militare argentina.

Ed è testimonianza dei segreti soli
che quella notte nascondeva.


Eduardo Galeano

da segreteria@giannimina.it a latinoamerica


Titolo: Voci di pace tra Israele e Cisgiordania "Ricordate che siamo esseri umani"
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 03:46:33 pm
Un'operatrice culturale italiana che ha lavorato a lungo nell'area ha raccolto le paure e le speranze di chi pensa che la guerra non sia inevitabile

Voci di pace tra Israele e Cisgiordania "Ricordate che siamo esseri umani"

Persone che hanno figli in guerra scrivono ad amici che si trovano sotto il tiro dell'esercito israeliano



di MILENA GADIOLI *



Dialogo. Parola che in questi giorni suona quasi come una bestemmia. La dico.

Pace: parola che a pensarla dicono mi dovrei vergognare. La dico.

La dico perché da sotto le macerie e le urla di Gaza, da dentro una casa di Tel Aviv, Haifa, Jenin, Betlemme, da persone con cui ho vissuto e condiviso la vita e la morte mi viene urlato di dirla. Sono urla con un filo di voce ma voglio che quel filo resti vivo, nonostante tutto il dolore vivo. A Bologna ho letto un cartello: "Con Gaza fino alla morte". Penso che di morti ce ne siano già stati abbastanza.

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"La nipote di una mia amica è stata sotto shock per due giorni poi ha avuto un infarto. 15 anni, morta di paura a Gaza City, 15 anni! Morta di paura! Cosa provo non te lo riesco a spiegare. Tutto quello che ho potuto fare è cercare di pensare e agire. Potevo picchiare, ho deciso di usare le mie forze per aiutare. Tramite l'UNICEF ho inviato a Gaza materiale riguardo come trattare con bambini e ragazzi in tempo di guerra, spero sia utile. Hasta!" (N. A. A - Betlemme, Cisgiordania)

"Sono araba e sono israeliana. La situazione è pesante. Ricordate che siamo esseri umani. Quelle persone di Gaza, Sderot, Hebron, Gerusalemme, sono tutti miei fratelli. Il loro dolore è il mio. Siamo fratelli". (M. Q. - Ramla, Israele)

"Il Freedom Theater è nel campo profughi di Jenin. E' stato costruito da Arna, un'ebrea proveniente da una famiglia sionista. Un'ebrea che ha dato la mano agli arabi. Che ha vissuto per la Pace. E' morta ma il suo motto è rimasto: 'E' attraverso la conoscenza reciproca che arriva la libertà e solo attraverso la libertà arriva la pace'. Ogni ragazzo qui porta sul corpo i segni di pallottole, bruciature e torture anche io, Ahmad, ma vi dico che se prima volevo solo la morte, grazie al teatro e alla cultura ora ho qualcosa per cui voglio vivere, qualcosa per cui sognare. Voglio vivere e costruire, parlare, condividere, capire. Odio il terrore, ne ho subito troppo e non lo voglio dare ad altri. Voglio Vivere". (A. S. - Campo Profughi di Jenin, Cisgiordania.)

"Sono depresso e frustrato. Da anni lavoro per la pace e sono stanco. Deluso Deluso per i fatti di Gaza ma credo ancora che l'unica via sia il dialogo. Un accordo. Qui abbiamo bisogno di un cessate il fuoco che sia vero , da entrambe le parti e che venga una qualche forza internazionale che faccia rispettare i patti a entrambe le parti, e che si parlino. Questa è la mia speranza per vivere in una vera Pace, ho camminato su troppi morti, e voglio pace e giustizia in due stati indipendenti, Che si parlano." (M. A. T - Jenin città, Cisgiordania)

Dialogo tra L.N. e R.B., due donne. Una sta a Haifa in Israele, l'altra a Hebron, in Cisgiordania.
"Sono ebrea e sono israeliana e mi sento arrabbiata e spaventata e anche colpevole. (L. N. - Haifa, Israele)

"Non ho bisogno del tuo senso di colpa. Ho bisogno di sapere che non molli. Ho bisogno di sapere che resisti anche per me o divento matta. Il tuo esercito ha sparato anche oggi qui" (R.B. - Hebron, Cisgiordania)

"È difficile. Lo scorso week end sono andata a Tel Aviv alla manifestazione per il cessate il fuoco a Gaza. Mio figlio è all'esercito, voi nella West Bank mi si sta spaccando il cuore. Quella ragazzina di Gaza... ho paura che anche a me si spacchi il cuore (L. N.)

"Ti voglio bene e se ti ho aggredita con parole piene di rabbia è perché sono esausta e ho paura. Resisti, sapere che di la ci sono persone come te mi aiuta a non mollare." (R. B.)

"Si, sfortunatamente mio figlio è nel mezzo del combattimento, il suo comandante ieri è stato ucciso. Non ti riesco a dire cosa sto passando, e nell'altra mano ho la mia scuola comunitaria per ragazzi ebrei e arabi da mandare avanti. C'è molto da fare qui adesso. Ma mi il lavoro che facciamo qui mi dà forza e la scuola sta andando bene e fronteggiamo ogni giorno le nostre emozioni riguardo il conflitto, noi insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. È difficile, fa male ma è l'unico modo. Ci dobbiamo ascoltare per risolvere insieme." (O. E. - Misgav, Israele.)

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Non ho messo i nomi perché per l'opinione pubblica parlare di dialogo è un reato, perché a parlare di pace ci si deve vergognare. E loro si sforzano ma hanno paura. Se pensate come me che le loro parole oggi più che mai abbiano un senso, fateglielo sentire, rispondete qualcosa. Fategli sentire che non sono pazzi e soli. Potete farlo anche attraverso la mia mail (gadiolimilena@gmail.com). E allora vi diranno i loro nomi e vedrete volti e mani e vite che sono orgogliosa di poter chiamare umane. Di qua a di là del muro.


* Milena Gadioli, 29 anni, artista ed educatrice dalla provincia di Mantova, negli ultimi due anni ha vissuto tra Israele e la West Bank lavorando in progetti di cooperazione e dialogo interculturale. Usa l'Arte come terapia e mezzo di educazione sentimentale in una terra dove l'anestesia delle emozioni individuali sembra essere bandiera nazionale. Ha qui raccolto spezzoni del dialogo che si stanno scambiando in questi giorni le persone dei due territori in conflitto attraverso la sua casella mail; persone con cui ha vissuto e lavorato.

(7 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Rachida Dati e Carolyn Kennedy.
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2009, 06:33:06 pm
Rachida Dati e Carolyn Kennedy

Lo stiletto tacco otto e il ruggito dell'acqua cheta


Se siete donne e avete fatto un cesareo, immaginate che sforzo può essere, cinque giorni dopo l’intervento, non tanto l’andare al lavoro quanto l’andare al lavoro indossando scarpe a stiletto tacco otto; è nello stiletto la chiave di tutto, dell’ambizioso eroismo post-partum di Rachida Dati.

Se vivete sul pianeta terra e quindi conoscete la storia di JFK, potete capire perché un’orfana di presidente assassinato e mitizzato può aspettare fino a cinquant’anni prima di darsi alla politica, dopo aver fatto vita tranquilla e cresciuto tre ragazzi;ma l’aver fatto la mamma a tempo pieno finché voleva è uno deimotivi di astio verso Caroline Kennedy. Rachida D. e Caroline K. sono ai due estremi dello spettro delle maternità possibili. Molto estremi: una è figlia di immigrati marocchini diventata ministro della Giustizia e poi mamma a 43 anni senza dire il nome del padre; l’altra è una rarissima Kennedy che non abbia mai avuto problemi di alcol e droga, non abbia mai commesso stupri, abbia sempre lo stesso marito e abbia tirato su la prole normalmente. Ma tutte e due, ognuna dal suo angolo, stanno sorprendendo.

Rachida ha sparigliato da combattente senza scrupoli e senza paura.
Ha mollato la neonata e ha messo su una photo opportunity che i media di mezzo mondo non hanno potuto ignorare; rendendo più difficile a Nicolas Sarkozy un rimpasto in cui lei verrebbe fatta fuori causa impegni da mamma. I media di mezzo mondo l’hanno anche attaccata. Molte donne sono intervenute; sostenendo che con la sua bravata ha ridicolizzato le leggi sul congedo di maternità, ha fatto sentire fesse quelle che dopo il parto sono giustamente a pezzi, ha fatto sembrare possibile quello che raramente è fattibile (Dati ha un ricco staff chemaltratta; altra storia sarebbe tornare in ufficio subito dopo il parto facendosi, per dire, autobus più metro).

Caroline, acqua cheta e poi pezzo pregiato della campagna di Obama, rischia di venire nominata dal governatore di New York nonostante interviste disastrose; viene difesa perché è perbene, perorerebbe buone cause e al Senato c’è già di molto peggio. Molte madri lavoratrici non la amano perché solo una iper-privilegiata può diventare senatore così, dopo aver lavorato quando le andava e allevato i figli senza sensi di colpa, a un’età in cui tante vengono messe da parte. D’altra parte, se nessuna si può identificare in pieno (senatrici ereditiere e ministre madri singole ce n’è poche), molte possono tifare, criticare, discuterne fino a notte fonda (specie se c’è da dare la poppata). E magari concludere che non esiste un Pensiero Unico sulla maternità e mai esisterà (certi diritti dovrebbero essere garantiti, però; e i dibattiti politico-pop non c’entrano niente).

Maria Laura Rodotà
10 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: Elena Doni La strage delle donne
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2009, 06:44:49 pm
La strage delle donne

di Elena Doni


Provate a immaginare quanto spazio occupano 150 corpi stesi a terra. Se ci fosse l’obbiettivo di un tg sarebbe una carrellata a perdita d’occhio sulle bare allineate. Ma non c’è, non ci sarà mai lo shock di un telegiornale a documentare la strage delle donne in Italia: perché le morti, se non avvengono tutte insieme, «non fanno notizia», televisivamente parlando.
E invece questa strage viene perpetrata goccia a goccia: una donna morta ammazzata ogni due giorni.

Nel 2006 le donne uccise da mano maschile erano state 112, nel 2007 sono salite a 149, per il 2008 l’elaborazione dei dati non è ancora ultimata ma siamo in grado di darvi l’anticipazione di quanto è avvenuto fino al mese di settembre: gli omicidi sono stati già 110, quasi quanti due anni fa in un intero anno.
Il dato finale, probabilmente, non sarà diverso da quello del 2007. A questo vanno aggiunti i tentati «femminicidi». Tra gennaio e settembre sono stati 212.

Elaborando i dati dell’anno che è appena concluso, si può dire che più di quattrocento uomini hanno desiderato uccidere una donna e in molti casi ci sono riusciti. Donne che in genere conoscevano bene: ex-mogli, ex-fidanzate, ex-amanti.
E a queste cifre che registrano gli atti di violenza estrema, vanno aggiunti quelli che riassumono episodi che ne sono il preludio: le violenze e i maltrattamenti. Cioè le botte, le lesioni, le ustioni, gli stupri, la costrizione a fare sesso con terzi, le minacce, e le ingiurie. Quelli che vengono denunciati. Le denunce sono in aumento, anche se si sa che non sempre le donne le presentano, specie se le violenze avvengono in famiglia.
Cosa fanno le forze di polizia per aiutare le donne che hanno denunciato?
Lo apprendiamo dal sito del Ministero dell’Interno. Nei casi di violenza domestica il 42,6% delle donne dichiara che hanno preso la denuncia, il 26,9% che hanno ammonito il colpevole, il 5,3% che il colpevole è stato arrestato. Ma poi solo nell’uno per cento dei casi è stato condannato dal magistrato.

Chi in pratica viene in aiuto alle donne che hanno subito violenze sono quei servizi specializzati ai quali viene avviato dalle forze dell’ordine lo 0,3% delle vittime. In Italia ce ne sono un centinaio, concentrati nel centro-nord. Il governo Prodi aveva destinato loro 20 milioni di euro, spariti nella nuova finanziaria: inevitabile quindi fare ricorso al volontariato, che ovviamente non consente di fornire continuità di assistenza.
Tutti i centri antiviolenza denunciano un aumento delle violenze, quasi sempre domestiche, segnalando tuttavia che potrebbe trattarsi di un aumento delle denunce, dovuto ad una crescente consapevolezza delle donne: cioè del fatto che molte si sono ormai convinte che le violenze in famiglia sono un reato e non un destino crudele.
L’associazione Solidea che gestisce centri a Roma e provincia ha registrato un aumento dell’utenza del 51% negli ultimi quattro anni.

L’avvocata Luigia Baroni, responsabile del centro antiviolenza del Comune di Roma, ha registrato 398 nuovi contatti nel 2006, 612 nel 2007, 648 nel 2008. Di donne italiane per il 65%, il restante di donne straniere: vittime al 45% di uomini italiani, per il resto di uomini dei quali non vogliono denunciare nome e origine..

Nel 2007, secondo i dati raccolti in tutto il territorio nazionale dalle forze di polizia 5.492 donne hanno subito maltrattamenti e fra queste c’erano 1321 straniere. Nei primi tre trimestri del 2008 le donne che hanno subìto percosse sono state 5721, quelle che sono state minacciate 28.709. Abbiamo visitato uno dei centri antiviolenza di Roma, in via di Villa Pamphili. Una grande casa luminosa e accogliente dove in questo momento abitano solo donne straniere. Non che manchino le italiane bisognose di aiuto, ma nell’ultimo periodo hanno tutte trovato alloggio presso famigliari o amici e al Centro vengono solo per ricevere assistenza legale e psicologica.
«Le donne straniere sono molto più esposte alle violenze dei loro compagni, che siano immigrati o italiani conviventi», dice Emanuela Moroli, presidente di Differenza Donna che gestisce quattro centri antiviolenza a Roma e uno a Guidonia. «Sia gli uomini italiani che gli stranieri “dimenticano” infatti di mettere in regola le loro donne. Provvedono con attenzione a regolarizzare i propri figli, ma non si curano del permesso di soggiorno delle loro compagne, che sono così continuamente esposte al rischio di essere rimpatriate, senza i bambini naturalmente».

La punta dell’iceberg delle violenze compiute in Italia contro le donne è emersa nel febbraio 2007 quando l’Istat pubblicò una ricerca sconvolgente, durata quasi cinque anni, condotta su un campione di 25mila donne. «In particolare quella delle violenze in famiglia», dice Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat che ha coordinato quella ricerca, «è una realtà amara, che si scontra anche con la difficoltà da parte delle donne di riconoscere la violenza e considerarla un reato».
E, a titolo personale, aggiunge: «le donne di tutte le estrazioni politiche dovrebbero unirsi, come già è avvenuto in passato quando la violenza passò da reato contro la morale a reato contro la persona, perché siano sviluppate campagne sistematiche e approvati provvedimenti di tutela. E si deve chiedere anche che ci sia una formazione adeguata del personale nei pronto soccorsi e nei commissariati. Se tutto questo non lo faranno le donne perché dovrebbero farlo altri al nostro posto?».

15 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Le donne di Gaza
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:26:00 pm

16
Gen
2009

Le donne di Gaza

Notizie da Gaza. Aidos, l’associazione italiana delle donne per lo sviluppo, è riuscita dopo tanti giorni di inutili tentativi a sapere cosa succede laggiù, nel suo Centro per la salute delle donne di Bureij. Intanto, ha saputo che sono tutti vivi: Naima, la field worker, ha perso un familiare; la ginecologa, che è di di nazionalità russa, è riuscita a lasciare la città e a tornare al suo paese con i figli; Murad, l’addetta alle pulizie e Salwa, la contabile hanno cambiato casa, in cerca di un posto più sicuro. Il Centro è chiuso, ma è ancora in piedi; lì accanto l’ambulatorio dell’UNRWA è stato colpito e così il centro nascite.
Racconta Murad: “Se poteste venire ora, a Gaza, non la riconoscereste più. Perfino mio padre non ha mai visto niente di simile”. E Feryal, la direttrice del Centro: “I bambini di notte dormono vestiti, così se devono scappare fanno prima”. Altre voci: Finalmente stanotte sono riuscito a dormire, ma solo perché sono crollato dopo una settimana. La vita è sospesa: non c’è più nessun ritmo a scandirla, è difficile organizzare qualsiasi cosa se hai luce e acqua per tre ore ogni tre, quattro giorni. I negozi sono chiusi, in quelli aperti il cibo comincia a scarseggiare, il latte, ad esempio, non si trova più. Gli aiuti dell’ UNRWA non bastano, solo pochi carichi riescono a entrare a Gaza durante le tre ore giornaliere di apertura e decine di camion aspettano al di là del confine. Stanno utilizzando armi chimiche che avranno effetti devastatnti sulle persone e sulla nostra terra. Queste le ultime parole di Murad: “Che futuro attende i miei figli? Li guardo e non so cosa sarà di loro”.


 

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14
Gen
2009

Usciamo dal silenzio

Il 14 gennaio del 2006 Milano si preparava ad essere invasa dalle donne. Le cronache del giorno dopo diranno che erano duecentomila, quelle del giorno prima raccontavano di treni speciali, centinaia di pullman, delegazioni in volo dalle isole; e il colpo d’occhio sulla piazza del Duomo era davvero impressionante. Mamme e nonne che avevano fatto il femminismo insieme a ragazzine; professioniste, commesse, operaie e studentesse; donne di destra accanto a donne di sinistra. C’erano anche molti uomini, per la verità: graditi e discreti ospiti. Era stata, dopo tanti anni, la prima manifestazione nazionale delle donne con quel nome un po’ così - usciamo dal silenzio - che mi piace usare come slogan e come auspicio. Ed era stata una manifestazione bellissima: allegra, sentita, e aveva acceso la speranza che i temi che riguardano le donne potessero tornare in cima alla lista delle agende politiche, spinte da questo nuovo movimento.
Tutto era partito con una e.mail, scritta da una giornalista ad un’amica. E tutto era partito per rispondere alle manovre per mettere e mani sulla legge 194, quella sull’aborto. Ma dopo è successo il miracolo che talvolta accade: tutto si è gonfiato, i numeri delle persone coinvolte e i temi. Ventimila contatti su Internet, 4.000 firme sotto un appello; la salute e i diritti, il lavoro e la parità. Rileggere le cronache di quei giorni ridà una sferzata di entusiamo.
Però, tre anni dopo, rieccoci qua. A zero. Legge 40; RU486; Pacs, Dico, Di-Do.Re, o chiamateli come volete; sicurezza del lavoro; percentuali delle donne nei posti di potere, dal Parlamento ai cda delle aziende; perfino il numero di ore che le donne impiegano nei lavori di cura non è cambiato. Tutto è rimasto drammaticamente fermo. E allora, per inaugurare questo nuovo spazio, ho voluto scegliere quel ricordo e questo titolo. Perché sia un invito a cominciare da qui: facciamoci sentire, usciamo di nuovo dal silenzio.


da sasso.blogautore.repubblica.it


Titolo: Tutti i segreti di Rachida la donna che voleva il potere
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 11:47:39 am
18/1/2009 (7:21) - IL PERSONAGGIO

Tutti i segreti di Rachida la donna che voleva il potere
 
Rachida Dati è nata nel 1965. Dal 2 gennaio è mamma

La carriera da brivido della ministra

L’inseminazione per diventare mamma?


DOMENICO QUIRICO
PARIGI

E’ successo pochi mesi fa. Nel suo ufficio di ministro della Giustizia. Il televisore va in panne. Catastrofe. Urla, strilli. Vengono convocati capigabinetto, alti funzionari; ahi, è una delle famose, terribili collere della signora ministro. Bisogna riparare il televisore e subito in pochi secondi, nel palazzo ce ne sono a decine ma che importa, lei, Rachida, vuole quello. Difficile da farsi, attorno a Place Vendôme c’è un quartiere dove è più facile trovare dei gioiellieri. Il capo gabinetto fa il miracolo: arriva in un baleno un tecnico.

Aposto, ci siamo, un minuto e il televisore della Guardasigilli è pronto. Ma... il poveretto deve fare anticamera due ore. Lei è fatta così, ha i suoi capricci. È allo stesso tempo disarmante e capricciosa, simpatica, non sgradevole». Gilles Gaetner, redattore capo al settimanale «L’Express» ha il talento del narratore e dispone di archivi di aneddoti, quelli che un tempo rendevano deliziose le ore con i vecchi cremlinologi. Specie scomparsa. Il suo soggetto è molto più glamour, è la Dati, la femme de pouvoir più famosa di Francia. Su di lei ha scritto un libro di successo, «Rachida Dati: et si on parlait de vous?», di grande successo. Le sue fonti sono i magistrati, i grandi nemici di madame, gli stessi che ogni tanto fanno scivolare ai giornali trappole avvelenate contro quella che considerano con livore in fondo soltanto una piccola sostituto di provincia.

Allora quali sono le ultime sulla Dati, grande mare di voci che ondeggia tra le redazioni dei settimanali, palazzi della politica e salotti della Rive Gauche? Allatta, garantisce la sua amica Bernadette Chirac che ha reso visita a Zohra, attualmente parcheggiata dalla sorella. La polemica sul troppo rapido ritorno al lavoro ministeriale è meno viscida ma non è scomparsa. Corrono stupefatte indiscrezioni sulle cadenze della sua giornata in ufficio alle sette e di ritorno a casa alle nove... ma come fa? Dopo le femministe, mugugnano le mamme: quella bimba crescerà trascurata! Sul fronte del padre si attende la annunciata «sorpresa» di gennaio: e se fosse, dopo tanti nomi e cognomi, una fecondazione in vitro? Attenzione, sui giornali impazza la polemica sul fatto che troppe donne in Francia ancora esitano a servirsene… Gaetner sorride: «La comunicazione è la sua forza, ha l’investitura del popolo, gioca la carta dell’opinione pubblica contro i suoi nemici i magistrati e lo stesso Sarkozy. Quando arriva in una città per le sue visite la gente si affolla per scandire: Dati, Dati. Come avevo annunciato non lascerà il governo per un seggio all’europarlamento, dice no, adesso si parla delle regionali: su una cosa state certi: non lascerà la politica tanto presto». E racconta come il simbolo della diversità ha scalato il potere, la storia di un moderno Rastignac: «Dati, nata povera, vuole riuscire, c’è in lei una fantastica volontà di rivincita sociale, è nata in provincia e vuole salire a Parigi per incontrare gente importante e famosa, sa che il successo passa di lì. Allora viene a sapere che c’è un ricevimento molto chic della ambasciata di Algeria in un hotel di Rue Castiglione, curioso destino è a trenta metri dal ministero della Giustizia. Riesce a imbucarsi e si fionda su Albin Chalondon, bell’uomo anche se non giovanissimo e soprattutto ministro della Giustizia del governo Chirac. Per combinazione si è appena documentata leggendo la sua biografia su Le Figaro. Lo incanta e ottiene un invito a pranzo. È l’uomo che l’ha guidata al ministero. Sa farsi notare, pranzo dopo pranzo. E la lista è lunga: altro party ed è la volta del miliardario Lagardère che le trova un lavoro, poi Simone Weil, poi Kouchner poi Sarkozy. Sì, è davvero Rastignac in gonnella che conquista la capitale. È una donna che non ha una grande cultura nel senso lato del termine ma che sente le cose, sente che quel tipo lì può avere un destino. Con Sarkozy ha fatto così».

Balzac dunque, anche se dichiara che il suo libro preferito è «Au bonheur des dames» di Zola perché, dice, lei si immedesima. E adesso eccola al potere. È tutto per lei, basta vedere come dice «l’Ufficio». «Sapete, ministro guardasigilli vuol dire tanto in Francia: è Napoleone, è l’Ottocento e Cambacérès. Lei sta lì se lo guarda con i suoi ori le dorature la pompa...». Quando il Presidente le annunciò che sarebbe diventata ministro guardasigilli si mise a piangere e lui le disse: «Piantala, non devi piangere, devi riuscire». «Il Presidente è suo mentore e padre, c’è una ammirazione reciproca anche se da parte di lui c’è dell’altro, le serve come simbolo della diversità al governo. Si è infuriato con lei ma c’è ancora tenerezza e riconosce a questa donna che ha fatto delle cretinate il merito di aver fatto passare le riforme. Dati è il suo clone». Con le donne di Sarkozy è più complicato: «Le relazioni con Cécilia erano come si sa molto buone. Lei è stata una seconda scelta, Sarkozy aveva deciso di affidare il ministero a Hubert Védrine che ha rifiutato e Cécilia gli ha soffiato il nome di lei. Con Carla? Le relazioni non sono buone anche se si sono evolute. Il fatto è che lei è cinica, ha gettato via Cécilia quando era uscita di scena.

E poi c’è la vicenda del settimo Arrondissement: elezioni per la capitale, lei annuncia che punta al consiglio comunale, al ruolo di braccio destro del possibile sindaco di destra. Per il quartiere strada aperta al sindaco uscente, tale Dumont, politico sperimentato e poco ambizioso. Vince la sinistra: addio sogni di vicesindaco, annuncia: sarò sindaco del Settimo! E il povero Dumont? Può farmi da vice!». E poi c’è la ostinazione, di essere ricevuta dal Papa in udienza privata. Perché? «Mai spiegato. Forse solo perché è un uomo che conta, che fa immagine. Rachida organizza un programma infernale: partenza da Parigi, pranzo con le donne ministro italiane, udienza in Vaticano. Alle cinque di nuovo a Parigi per una cerimonia ministeriale: l’ha fermata Sarkozy». Già la bimba, lo shopping da Dior (oggi un po’ in sordina) il ministero.

Come è possibile? «Sapete, un po’ scherzando si può dire che il vero ministro della Giustizia non è a Place Vendôme ma in rue du Faubourg Saint-Honoré 55 e si chiama Patrick Ouart: chi è? Mai sentito? Un magistrato, vera stoffa di grande funzionario dello Stato, vicino a Sarkozy: è lui che gestisce i dossier le nomine gli affari sensibili. A lei interessa solo la sicurezza e la politica penale».

da lastampa.it


Titolo: Unioncamere, le donne imprenditrici fanno meglio degli uomini
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:47:04 pm
Unioncamere, le donne imprenditrici fanno meglio degli uomini
 

 di Paola Toscani

ROMA (16 gennaio) - La crisi non ha fatto paura, almeno a loro: creative, disposte al sacrificio e competenti. È questo il ritratto delle donne imprenditrici tratteggiato da Unioncamere in occasione dell’Osservatorio semestrale sull’imprenditoria femminile.

Sono state oltre 5mila le nuove attività avviate da donne in un anno (giugno 2007-giugno 2008), si legge nel rapporto, cifra che sommata alle imprese già esistenti porta il numero di aziende in rosa a quota 1.243.824.

Il numero di ditte neonate è all’apparenza poco significativo (appena lo 0,45% del totale delle aziende esistente in Italia). Ma se messo a confronto con l’andamento pari a zero del tessuto imprenditoriale complessivo fotografato nello stesso periodo, il dato appare sotto un’altra luce.

Nel dettaglio, il saldo tra le imprese in rosa che aprono e chiudono i battenti è risultato positivo grazie alle quasi 12mila nuove ditte di capitali e alle mille società di persone che hanno compensato le 8mila iniziative individuali abbandonate. E il Lazio è in testa nella graduatoria delle regioni che hanno maggiormente contribuito al saldo positivo, con un’altissima concentrazione di attività avviate, pari al 46,6% di tutto il saldo nazionale, seguita da Lombardia e Campania.

Quest’ultima rappresenta tuttavia un’eccezione al quadro generale: dalla mappatura delle imprese neonate e in controtendenza rispetto al resto dello stivale, resta infatti escluso il Mezzogiorno d’Italia, con una contrazione delle attività in rosa dello 0,25%.

Ma dove scelgono di avventurarsi le donne imprenditrici? C’è chi abbandona le attività agricole (e sono 6mila le attività in meno in questo settore), e chi (in altrettanta misura) si orienta verso i servizi alle imprese, ad esempio in campo immobiliare o nell’informatica.

Determinante per il successo dell’imprenditoria in rosa è stato il contributo delle donne immigrate: delle nuove attività, due su tre sono state avviate da extracomunitarie. Quasi 4000 su un totale di 5.523.

Le nazionalità più rappresentate nell’universo imprenditoriale femminile in Italia sono quella cinese (12.152), marocchina (3.725) e nigeriana (2.947).

Per numero di presenze di capitane di impresa immigrate, il Lazio, con il 9,6%, è terza dopo la Toscana (10,8%) e la Lombardia (15,6%). 

da ilmessaggero.it


Titolo: Walchiria, Marisa e le altre: la Resistenza delle donne
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 03:28:18 pm
Walchiria, Marisa e le altre: la Resistenza delle donne

di Gabriella Gallozzi


Persino Al Jazeera l’ha raccontata. Un bel documentario sulla resistenza italiana dando voce alle donne, trasmesso per il mondo arabo qualche anno fa.
E da noi? Ci si ricorda giusto per le feste comandate. E il punto è sempre quello, ieri come oggi: «Il maschilismo... Altroché se c’era. Seppure noi rischiavamo la vita come i nostri compagni, dovevamo sempre dimostrare di essere più capaci degli uomini». Oggi Walchiria Terradura, medaglia d’argento al valor militare, ha 85 anni e ancora il piglio della combattente. Gli occhi verdi si accendono di una luce ancora più viva quando segue il filo della memoria. Ricordi di partigiana, di «ragazza col fucile» che durante la resistenza sui monti del Burano ha comandato una squadra di sette uomini (Il Settebello) che faceva parte della brigata Garibaldi-Pesaro. «Quando mi hanno scelto a capo della squadra - racconta - Gildo, uno dei compagni, per solennizzare l’avvenimento, mi regalò una pistola dicendo: “Ti avrei dovuto offrire dei fiori, ma vista la situazione... A primavera coglierò per te i più belli”».

Walchiria non è che una delle protagoniste, come tante altre partigiane, staffette e contadine, di questa pagina di storia, la resistenza, che, nonostante la «sordina» della storiografia ufficiale, oggi è noto: non si sarebbe potuta compiere senza l’intervento delle donne. E i numeri parlano chiaro: 35.000 partigiane nelle formazioni combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa. 638 le donne fucilate o cadute in combattimento, 1750 le ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania. Cifre che «raccontano» per difetto. Perché come spiega la stessa Terradura, «quella delle donne è stata una partecipazione diffusa, spontanea. La contadina che ci dava un piatto di minestra, o ci faceva nascondere in casa rischiava la vita proprio come noi».

Eppure questa è stata una memoria taciuta a lungo. «E quante sono ancora oggi le donne della resistenza rimaste nell’ombra?», commenta Teresa Vergalli, classe 1927, della provincia di Reggio Emilia e autrice del libro Storie di una staffetta partigiana «A parte i nomi celebri di coloro che dopo la guerra hanno incrociato la strada della politica, tante partigiane sono state zitte. In certi casi sono stati gli stessi mariti che non avevano piacere se ne parlasse. C’era addirittura una sorta di vergogna, soprattutto per quelle poverette che sono state torturate....». Invece dell’indignazione contro i torturatori la «vergogna». Alle donne, infatti, scrive Teresa, nome di battaglia Annuska, «venivano riservate cose terribili. Di cui i particolari li abbiamo saputi a guerra finita». Tanto che lei teneva sempre con sè una piccola pistola «con la quale mi illudevo mi sarei potuta tirare un colpo alla testa nel momento mi avessero catturata o torturata». La paura di essere prese era costante. Eppure per molte la scelta di stare contro il nazifascismo era «naturale». Come racconta Luciana Baglioni Romoli, partigiana romana «bambina». Il suo primo atto di «ribellione» fu alle elementari quando la sua maestra, «ligia alle leggi razziali», legò per le treccine ad una finestra della classe una ragazzina ebrea. Per Luciana fui istintivo «scagliarsi contro l’insegnante» e guidare la «rivolta». Il risultato fu l’espulsione da scuola e da lì, negli anni successivi, il suo sostegno alla resistenza romana: «in bicicletta - racconta - a portare messaggi o a buttare i chiodi a tre punte per le strade per far scoppiare le ruote dei nazisti».

Un po’ come è accaduto alla più «nota» Marisa Rodano, che scelse la strada del Pci: «Non sono discesa da una tradizione familiare - racconta -, anzi mio padre aveva fatto la marcia su Roma. Ho cominciato all’università, dopo aver visto cacciare due studenti colpevoli di essere ebrei. Con alcuni compagni abbiamo costituito un piccolo gruppo, nel 1943 sono stata arrestata per la pubblicazione di un foglio comunista, si chiamava Pugno Chiuso, era il primo numero e sarebbe rimasto l’unico. Il 25 luglio sono uscita dal carcere e di lì a poco sono entrata nella Resistenza». Sono tanti i ricordi delle donne. E pieni di coraggio. «Nell’aprile 1945 ero incinta, il mio compagno era appena stato ammazzato dai fascisti - racconta Lina Fibbi, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa delle donne, sindacalista e poi parlamentare del Pci. «Longo mi incaricò di smistare a Milano l’ordine di insurrezione generale del Cln. Io andai: in bicicletta, con il pancione e con una grande paura». Ma erano scelte. Come conclude Teresa Vergalli: «Ora si guarda con una certa comprensione ai ragazzi di Salò, perché anche loro sarebbero stati in buona fede. Ma anche noi partigiani eravamo ragazzi, e stavamo dalla parte giusta! Quella della pace. Ed è una differenza che non bisogna mai dimenticare».

La storia delle partigiane l’ha raccontata da cineasta anche Liliana Cavani, classe 1933: il suo viaggio nella liberazione al femminile l’ha comppiuto nel ‘64 con Le donne della resistenza, straordinario documentario realizzato per la Rai. «Le donne nella resistenza hanno avuto un ruolo fondamentale - racconta Cavani -, erano contadine, operaie, borghesi che sceglievano la lotta in piena coscienza: non solo contro il fascismo e gli occupanti nazisti, ma anche per rivendicare il diritto alla loro partecipazione attiva nella società che si sarebbe costruita».


22 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: È arrivata in Campidoglio in un tailleurone luccicante.
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 03:36:22 pm
LE SCELTE DI MICHELLE OBAMA

Una meringa crollata all'ora X

È arrivata in Campidoglio in un tailleurone luccicante.

Ed è affondata la sera con un terrificante abito disneyano


Maria Laura Rodotà



WASHINGTON — Ma perché una poveretta deve fare una vita da mediano (seppur di successo) per 45 anni, deve studiare-lavorare-affrontare il residuo razzismo americano, fare sacrifici, aiutare un marito ad arrivare alla Casa Bianca, perché deve fare tutto questo per diventare, nelle discussioni di mezzo pianeta, la tizia che ha sbagliato vestito? Va bene; Michelle Obama di vestiti ne ha sbagliati due, quello del giuramento e quello dei balli.

Va benissimo, la vita di Michelle Obama; in giro ci sono donne con afflizioni più serie. Però un po' dispiace, per lei. Invece di criticarla vale la pena di ammettere/ ammettersi che non è un gran traguardo fare la first lady, di questi tempi. E c'è poco da dire e da tentare di riconfigurare il ruolo; spiegando che Michelle O. sarà un modello per le ragazze, che si occuperà molto delle mamme lavoratrici, che eccetera.

Michelle è già un modello: è molto nera e molto grande ed è la prima dama del paese. La percezione di sé stesse di tante afroamericane e ispaniche, si prevede, cambierà. Per il resto, ahimè, tutto quello che ci si aspettava in queste giornate era che portasse con grazia svariati vestiti.

Lei è andata benissimo all'inizio, è rimasta la Michelle preelettorale; alternando cappotto di cammello da distinta professionista e jeans e cardigan avvitato da ragazza quarantenne. Ma è crollata all'ora X, arrivando in Campidoglio in un tailleurone luccicante. Ed è affondata la sera in cui era la bella del ballo, di dieci balli, scegliendo un terrificante abito disneyano con tulle-ruches-balze; che raddoppiavano il volume (della first lady) e le davano un'aria da meringa. A dir poco, un errore. Sui cui i comici si sono buttati subito. E' difficile fare satira su una coppia nera e fiera; però i vestiti delle femmine non sono argomento politicamente scorretto e spesso fanno ridere.

Così le hanno dato del pacco regalo, hanno detto che in Campidoglio portava «tappezzeria inaugurale» e così via. Giornali amici e tv hanno fatto finta di niente; hanno intervistato i due stilisti poco noti e ora felici, Isabel Toledo autrice del tailleur catarifrangente e Jason Wu responsabile dello scellerato abito da sera, esaltando il gusto di Michelle e la sua bravura nello scegliere dei giovani e nel promuovere l'abbigliamento americano.

C'è anche qualcuna (più qualcuna di qualcuno) a cui sono piaciuti veramente.

Poi c'era Michelle, che palesemente non si è goduta il vestito da meringa, era troppo stanca, l'altra sera.


22 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Ieri "tardone", oggi protagoniste
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 04:46:58 pm
25/1/2009 (8:39)

La carica delle quarantenni: una nuova mafia si prende la tv

Ieri "tardone", oggi protagoniste

ADRIANA MARMIROLI
MILANO


Tardone. Così le cantava con bonaria ironia il «signore di mezza età» Marcello Marchesi nei primi anni 60. Da allora molto è cambiato nel «comune sentire» verso chi ha passato la boa strategica degli anta. I quaranta, una volta debacle della femminilità, sono ora anni di massimo fulgore: estetico, intellettuale, esistenziale. Una donna a quell'età ha consapevolezza, potere e fascino. La moda l'aiuta. I ritocchi chirurgici l'aiutano. L'allungarsi della vita l'aiuta. Aiutano i modelli del momento: Rachida Dati, Carla Bruni, Michelle Obama, nate intorno alla metà degli anni 60. Come loro tante signore della tv, che, ancora una volta molto più del cinema è testimone di questa mutazione.

Solo una decine di anni fa, le protagoniste belle e spigliate, rampanti e aggressive, erano le trentenni. Come quelle di Sex & the City: Carrie, Charlotte e Miranda e le loro interpreti Sarah Jessica Parker, Kristin Davies e Cinthia Nixon avevano all'inizio della loro avventura circa trent'anni. Solo Samantha/Kim Cattrall aveva una decina di anni in più: che fosse la più sexy e scatenata voleva forse già dire qualcosa? Dieci anni dopo, i telefilm che dalla loro serie hanno in qualche modo preso le mosse mettono in scena non più le loro coetanee di allora, ma quelle attuali: delle splendide quarantenni. Magari sull'orlo di una crisi di nervi, ma sempre invidiabili. Prendiamo le due serie che assomigliano di più a Sex and the City, i «cloni» che i network Usa hanno generato per riempire il vuoto creato dal prototipo Lipstick Jungle e Cashmere Mafia (in onda la prima dal 5 febbraio su Foxlife, la seconda dal 25 febbraio su Mya): entrambe ambientate a New York in un mondo glamour, scintillante, modaiolo, entrambe hanno per protagoniste donne di successo, unite da forti rapporti di amicizia e solidarietà, magari con problemi in famiglia e nel lavoro, ma comunque dotate di una solida sicurezza in se stesse e nella propria bellezza. In Lipstick Jungle le interpretano Brooke Shields, Kim Raver e Lindsay Price; in Cashmere Mafia Lucy Liu, Frances O'Connor, Miranda Otto e Bonnie Somerville. Con l'eccezione di Lindsay Price e Bonnie Somerville, tutte saldamente iscritte alla «mafia» televisiva delle quarantenni.

Anche quell'altra saga femminile di gran successo che è Desperate Housewives mette in scena questa generazione: lo sono Teri Hatcher, Marcia Cross, Felicity Huffman e Nicollette Sheridan. Con la sola eccezione di Eva Longoria, la bomba sexy che l'ideatore della serie Marc Cherry si è divertito a imbruttire e ingrassare nella quinta stagione (attualmente in onda su Foxlife). Sono un po' più mamme e meno business-woman, conoscono qualche cedimento nella loro amicizia, ma non per questo sono meno toste e «vincenti» nei confronti di uomini anche loro quarantenni, ma al di sotto delle aspettative femminili, giuggioloni o bamboccioni che dir si voglia. Se queste fanno blocco, poi si sono altre lady quarantenni che in ordine sparso hanno colonizzato la serialità americana: la mamma per amica Lauren Graham, tanto spesso più giovane della figlia; la mamma-vedovella spacciatrice d'erba Mary-Louise Parker; la lesbo-mamma Jennifer Beals; la divorziata alla riscossa Debra Messing di The Starter Wife; la tetragona Mariska Hargitay di Law & Order-SVU, la volitiva Lisa Edelstein di House, la Joely Richardson moglie-amante dei chirughi plastici di Nip/Tuck, sola donna a «sopravvivere» senza ritocchi e senza fulgore dei 20 anni nelle vite dei due protagonisti. E 40 anni li compie il 28 gennaio anche l'eterea Kathryn Morris, alias detective Lilly Rush di Cold Case. Vero, in qualche caso si tratta di attrici «invecchiate» con serie quasi decennali, ma resta il fatto che spesso hanno sopportato meglio le «ingiurie del tempo» delle figlie telefilmiche o dei loro partner maschi. Una generazione d'attrici compatta, con una lunga carriera alle spalle, un nome noto e, spesso, qualche stop & go proprio nei dintorni dei difficili trenta. Per loro, come per molte donne nella vita vera, i quaranta sono stati ruggenti, una età di leggerezza, il momento di seconda imperdibile occasione. Che alle loro mamme «tardone» non era concessa.

da lastampa.it


Titolo: GIOVANNA ZUCCONI. - Donne
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 10:01:44 am
26/1/2009
 
Donne
 
GIOVANNA ZUCCONI
 

Proprio mentre un uomo anziano fa battute stantie sugli stupri, una giovane donna conversa con uguale brillantezza di questioni di Stato e di cappellini. Nello stesso preciso momento, ecco al centro della scena mediatica il potere maschile più calcinato e provinciale, e il vero glamour internazionale. Dicono: le donne fanno notizia (Carla, Michelle, Hillary, Rachida, Maria, Veronica, Tzipi). E ci mancherebbe altro, sarebbe l’unico commento da fare. Ma forse non è come sembra, non è questione di maschi e di femmine, di ribalta conquistata, di rivalsa. Forse è piuttosto questione di nuovo e di vecchio, di giovani e di vecchi. D’improvviso il vecchio (il vecchio politico e la vecchia politica) sembra vecchissimo. E il nuovo ha una fluidità, una souplesse direbbe Carla Bruni, tutta femminile.

Ai vecchi tempi, nel vecchio mondo che oggi appare vecchissimo, i ruoli erano ben separati. Di qua il potere, di là l’estetica e l’eros. Le donne delle quali i giornali parlavano erano star del cinema, mogli mute, imperatrici ripudiate, vallette: la bellezza senza il potere, tutt’al più al suo fianco come Jackie con Kennedy. Poche le eccezioni, e di nicchia: qualche intellettuale, ma gli intellettuali non contano (figuriamoci le intellettuali). Le rare donne che agivano sul terreno del potere vero e visibile si maschilizzavano, erano «donni». Diciamolo brutalmente: erano brutte o dovevano fingere di esserlo, toste fino al parossismo. Margaret Thatcher, Golda Meir, Tina Anselmi eccetera.

Anche i giornali, nel vecchio mondo, avevano ruoli separati. I femminili parlavano del femminile, moda, bellezza, glamour, gossip. Tutti gli altri, viceversa. Oggi invece trovi l’impegno politico nei cosiddetti femminili, e non c’è virile telegiornale o quotidiano che non sfarfalli nel privato, nel fru-fru, nel pettegolezzo, nella gastronomia, nel patinato; che non rincorra la leggerezza. Si sente ripetere che la politica, o almeno la sua rappresentazione sui media, si è femminilizzata, provando a sconfinare nella vita personale e nel dettaglio modaiolo. E (causa o effetto) anche l’informazione si è femminilizzata. La nuova informazione, per dirla con parole anch’esse nuove, è transgender. Scavalca i generi, le proprie sedi tradizionali, i linguaggi consolidati.

Ebbene. A fare cose femminili, le donne sono più brave degli uomini. Se percepiamo come nuovo e giovane ciò che è capace di scivolare con naturalezza fra pubblico e privato, di mescolare e includere, di ricoprire ruoli diversi in contemporanea, questa è una fatica che le donne sono da qualche millennio allenate a fare. Forse per questo sembrano dominare la scena mediatica. Se l’ultima zampata della vecchia informazione e della vecchia politica morenti sono state le fotografie di Hillary Clinton rugosa (mai avrebbero tentato di demolire un maschio di potere per la sua bruttezza), oggi gli schermi e le prime pagine ci informano che il nuovo sono il flessuoso Obama e Michelle, non solo moglie ma coprotagonista, che può sfoggiare vezzosi guanti verdi senza perdere statura. E la modella e cantautrice italiana che è diventata première dame presidenziale, e sa parlare di terrorismo proprio come dell’incertezza sul berrettino da indossare in visita dalla regina d’Inghilterra. E l’israeliana Tzipi Livni, belligerante senza imbarazzi femminei. E la ministra francese Rachida Dati, anche lei campionessa di doppie vite, maternità e potere, che tornando a lavorare a pochissimi giorni dal parto ha riaperto la discussione appunto sul corretto gravame di ruoli e fatiche. E mettiamoci anche Maria De Filippi, che era la giovane moglie del vecchio potente conduttore e adesso è talmente «nuova» da riuscire a demolire l’ultima barriera, quella fra reti televisive in (presunta) concorrenza. (A proposito di uomini e donne: ricordate com’era imbarazzante Fassino che tentava di fare lo sciolto proprio da Maria De Filippi).

Un’ultima cosa. Dicono: le donne fanno notizia, nel bene e nel male. Accanto al giovane potere glamour, in prima pagina ci sono anche gli stupri. Ma quello è il delitto più maschile che c’è. Quanto di più vecchio, e pesante, e da rottamare, in un uomo. Soltanto un vecchio politico può invocare, su questo, una leggerezza che non fa sorridere nessuno, e nessuna.
 
da lastampa.it


Titolo: La donna che ha scelto di testimoniare denunciando un killer si dice delusa...
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2009, 03:02:29 pm
La storia «Quando mi vedono per strada mi chiamano la pentita»

La «maestra di Saviano»: per le mie accuse ai boss ho perso lavoro e amici

La donna che ha scelto di testimoniare denunciando un killer ora si dice delusa: mi hanno abbandonata

 

«Quei cinque spari li ricordo come se fossero esplosi nella mia testa. Dopo il primo mi voltai, vidi la pistola che fiammeggiava, la faccia del ragazzo armato e quell'altro nell'ombra. "Hai fatto?", gli chiese. "Sì, sì tutto a posto. Vai, vai». Una sgasata, lo scooterone T-max filò via lasciando a terra un uomo di mezz'età, il sangue ovunque, una maschera di terrore stampata in faccia. Nei luoghi di mafia si cerca di dimenticare episodi di questo tipo. Eppure Carmelina ricorda ogni singolo dettaglio di quella notte. Erano da poco trascorse le 2 del 14 agosto 2003. Nel patio di un bar di Mondragone (Caserta), si consumò l'omicidio di Giuseppe Mancone, spacciatore in rotta coi boss. Lei era lì ma per i killer contava quanto una sagoma grigia al poligono di tiro. E di solito le sagome non parlano. Carmelina, invece, ha visto e non ha voluto dimenticare.

Dopo qualche giorno la donna delle pulizie con il diploma da maestra ha riconosciuto l'assassino. E quando lo hanno arrestato lei ha riempito con furia un borsone ed è volata via tra quattro agenti su un un'auto civetta. Di Carmelina non si è saputo più nulla per cinque anni. Poi, lo scorso settembre, «la maestra di Mondragone» è riapparsa in un articolo di Roberto Saviano per la Repubblica. Quindi è stato il pm Raffaele Cantone a parlare di lei nel suo libro Solo per giustizia. Ilmagistrato che ha indagato sul delitto Mancone l'ha definita «una rosa nel deserto».

Perché pur conoscendo i rischi della denuncia, ha confermato le accuse in primo grado e poi in Appello, contribuendo alla condanna di Salvatore Cefariello, malavitoso di 24 anni. Da quando ha assunto una nuova identità ed ha lasciato il paese, Carmela vive in silenzio. Ma oggi, senza soldi e senza lavoro perché nessuno assume chi si è messo contro il clan, ha deciso di raccontare la sua storia e la sua decisione di abbandonare il programma di protezione per le delusioni avute dai rappresentanti dello Stato. A casa di una delle rare amiche che le sono rimaste, non casualmente la figlia di un carabiniere, rigira tra le mani una foto in bianco e nero. È lei, più magra, bionda, sorridente: «La scattarono soltanto qualche giorno prima di quella notte. Com'ero bella...».

Testimoniando ha dovuto abbandonare casa, lavoro, famiglia e gli amici che le hanno subito voltato le spalle. Dentro di sé portava il figlio dell'uomo che l'aveva lasciata. E si è dovuta privare anche di quello: «Pensai che non avrei potuto portarlo in fuga con me», sospira ora. Da allora quella forma di latitanza che è la vita sotto protezione è diventata un calvario: «Chiesi di incontrare uno psicologo, ma fu possibile solo dopo mesi». All'inizio la fecero rimbalzare da un albergo dove le servivano minestre con i vermi a minuscoli paesini dimenticati da Dio. Come se non bastasse, il ministero le pagava lo stipendio da pentito, 800 euro circa, e non quello da testimone, che è quasi il doppio. In provincia di Cesena, dove le avevano trovato una casa, cercò un lavoro. Ma dal Nop, l'ufficio interforze che segue testimoni e collaboratori, secondo il suo racconto invece che aiuti arrivavano insulti: «Un giorno un funzionario, sbattendo i pugni sul tavolo mi disse: "sei un peso per la società". E un'altra volta: "Se non hai i soldi vai a mangiare alla Caritas".

Eppure chiedevo soltanto un'auto, indispensabile per lavorare. Bastava un anticipo sulla capitalizzazione, ma si guardarono bene dal dirmelo». La situazione a casa intanto precipitava: i nonni morti, il padre ammalato di tumore ai polmoni, la madre epilettica e iper-obesa. E l'unico che avrebbe potuto contribuire economicamente, il fratello imbianchino, non trovava lavoro: «Sei il fratello dell'infame, non ti vogliamo» gli dicevano. Tormentata dal ricordo di quel bimbo perduto e in angoscia per la famiglia, tentò anche il suicidio. Toccato il fondo, Carmelina non ha più voluto saperne del programma di protezione: ha incassato 200mila euro di liquidazione e si è riavvicinata a casa senza tornare in Campania. I soldi li ha dilapidati in pessimi investimenti e il resto se n'è andato con le spese mediche dei genitori. Ora non ha più un centesimo. Non le è rimasta che la famiglia. Lei, la sorella, il fratello e i genitori malati, vivono tutti con la pensione di 440 euro del padre. Quelle rare volte che si fa vedere a spasso per Mondragone, la gente si dà di gomito puntando il dito: «La vedi? Quella è la pentita».

Antonio Castaldo
27 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: PIETRO GARIBALDI - Le Lilly italiane aspettano
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2009, 02:53:01 pm
30/1/2009
 
Le Lilly italiane aspettano
 
 
 
 
 
PIETRO GARIBALDI
 
Barack Obama, con un atto di grande valenza simbolica, ha dedicato alla parità salariale tra uomini e donne la prima legge della sua presidenza. La nuova legge, firmata davanti alla tv, è dedicata a Lilly Ledbetter, una lavoratrice della Goodyear che ha scoperto dopo anni di servizio di ricevere una paga inferiore a quella dei colleghi maschi per il solo fatto di essere donna. Per ovvie ragioni storiche, la legislazione sul lavoro negli Stati Uniti è particolarmente attenta contro ogni forma di discriminazione. In aggiunta, la legge sulla parità salariale era stata una delle questioni più dibattute durante la campagna elettorale ed è particolarmente cara ai sindacati e alle elettrici che hanno appoggiato in massa Barack Obama.

Quando poi si guardano i dati, si scopre che effettivamente le donne negli Stati Uniti sono pagate circa il 25% in meno degli uomini. Questa grandissima differenza non è però di per sé sufficiente a dimostrare che esista davvero discriminazione sul posto di lavoro.

La differenza potrebbe essere dovuta ad altri fattori, quali un diverso grado di istruzione, diversi livelli di esperienza e diverse mansioni. Sarebbe un grave errore pensare di poter ignorare questi fattori imponendo lo stesso salario a donne e uomini per via legislativa. Tuttavia, il rischio di discriminazione è serio ed è giusto garantire alle donne ogni possibilità di ricorrere al giudice, come cerca di fare la legge firmata ieri dal presidente Usa.

In Italia si potrebbe supporre che le donne non siano in realtà così discriminate. Mentre sappiamo che l’occupazione delle donne è particolarmente bassa, il loro reddito, quando lavorano, non è molto diverso da quello degli uomini. Se negli Stati Uniti e nel Regno Unito le donne in media guadagnano il 25% in meno degli uomini, in Italia la differenza nel salario medio di uomini e donne è invece solo del 10 %. Si potrebbe quindi ritenere che il nostro mercato del lavoro renda sì difficile alle donne lavorare, ma tratti in modo relativamente uniforme in termini di retribuzione i lavoratori e le lavoratrici. In un recente studio Barbara Petrongolo e Claudia Olivetti hanno mostrato che le cose non stanno affatto così. Le poche donne occupate in Italia sono in realtà quelle che sono riuscite a superare una grandissima barriera all’entrata. Sono mediamente molto più istruite e molto più qualificate degli uomini. Le donne poco istruite o con potenzialmente bassi salari semplicemente non lavorano del tutto. Una volta che si tenga conto di queste caratteristiche di uomini e donne occupate, il differenziale salariale in Italia diventa tra i più elevati in assoluto. A parità di istruzione ed età, il differenziale salariale fra uomini e donne è circa del 26 %: gli uomini guadagnano oltre un quarto di più delle donne.

Anche in Italia bisogna quindi tenere la barra alta per cercare di evitare ogni forma di discriminazione sul lavoro tra uomo e donna. Alla luce dei bassi tassi di occupazione femminile, si deve innanzitutto facilitare l’entrata delle donne nel mercato del lavoro. Oggi sappiamo benissimo che l’entrata nel mondo del lavoro delle donne, come quella dei giovani, avviene quasi sempre in condizioni precarie, generando un ulteriore elemento di discriminazione. Questi gravi problemi non si risolveranno con un semplice intervento legislativo, ma richiederanno innanzitutto un’economia e un mercato del lavoro in crescita. Anche con un’economia in recessione e la disoccupazione che rischia di aumentare, non possiamo permetterci di far finta che questi fenomeni non esistano. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensa in proposito il ministro per le Pari Opportunità.

pietro.garibaldi@unito.it
 
da lastampa.it


Titolo: Una nuova Rosa Parker?
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2009, 10:46:47 pm
Una nuova Rosa Parker?

di Silvia Ballestra


Lilly Ledbetter finirà sui libri di storia. Certo, anche il nome di Rosa Parker non era famoso finché un giorno di dicembre del 1955, in Alabama, si sedette in autobus in un posto riservato ai bianchi. Da lì si partì, e non è male pensarlo quando si guarda Obama in tivù. Lilly è un’altra storia, ma se ci pensate è la stessa storia, e bella pure questa. Lilly Ledbetter ieri era alla Casa Bianca, dove il nuovo presidente Usa ha firmato la sua prima legge. E la prima legge del primo presidente nero non poteva che essere una legge contro la discriminazione. Non razziale, questa volta, ma l’odiosa discriminazione di genere, che ancora resiste e persiste, ovunque nel mondo. E da ieri, un po’ meno.

La prima legge Obama facilita le cause di lavoro per chi denunci discriminazioni: non più 180 giorni di tempo per fare denuncia, ma un periodo più lungo. Come dire, aumentare la difesa dei discriminati contro i discriminatori. E lei, Lilly, manager alla Goodyear, ci aveva messo vent’anni a scoprire di essere pagata meno dei suoi collegi maschi, pagati di più solo perché, appunto, maschi. Una bella rivincita, assistere alla firma di questa legge dopo che la corte Costituzionale, nel 2007, le aveva sbattuto la porta in faccia.

E una bella rivincita le parole di Obama: «Ho firmato questa legge per le mie figlie e per chi verrà dopo di noi. La parità salariale non è solo una questione economica per milioni di americani e le loro famiglie, è una questione di chi siamo, se viviamo veramente secondo i nostri ideali». Se era un segnale, è arrivato forte e chiaro, e tutte le donne d’America lo hanno sentito. Lo si sentisse anche qui, dove le disparità salariali di genere resistono, persistono e continuano ad umiliare, sarebbe davvero una buonissima notizia.


30 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Iran, le donne chiedono diritti e finiscono in cella
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 11:13:58 am
Iran, le donne chiedono diritti e finiscono in cella

di Cesare Buquicchio


Chiedeva una firma Nafiseh Azad. Nient'altro che una firma per una petizione volta a cambiare le leggi islamiche che, in Iran, limitano i diritti delle donne come lei. Ma Nafiseh Azad è stata bloccata dagli agenti dei servizi di sicurezza ed arrestata mentre con la sua petizione raccoglieva firme fra i gitanti a Darrakeh, sulle montagne a nord di Teheran, meta di escursioni di giovani e famiglie durante i fine settimana. Con lei sono state arrestate altre due attiviste.

Sono decine, nel paese che ieri festeggiava i 30 anni dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Ruhollah Khomeini, le attiviste femministe imprigionate e condannate negli ultimi due anni per aver preso parte a questa campagna, denominata «Un milione di firme» dal numero di adesioni che intendono raccogliere per la loro iniziativa. Sono soprattutto le leggi in materia di divorzio e di custodia dei figli che questa campagna mira a modificare. «Su questi temi siamo considerate delle cittadine di seconda categoria» spiega Sussan Tahmasebi, una delle leader del movimento nato dopo che una manifestazione, il 12 giugno 2006, fu soffocata dalla violenta reazione della polizia di Teheran.

L'ondata di arresti delle ultime settimane, secondo le organizzatrici della campagna, è una forma di pressione che le autorità stanno intensificando in vista delle manifestazioni programmate per l'8 marzo, Giornata Internazionale delle Donne. Ma, fa anche parte della repressione di voci critiche alla presidenza Ahmadinejad, già sotto accusa dalla comunità internazionale per il suo programma nucleare. Lo scorso autunno anche una femminista iraniana-americana, Asha Momeni, era stata incarcerata per quattro settimane per avere realizzato un documentario sulla campagna. E, pur essendo stata rilasciata, non le è stato ancora consentito di fare ritorno negli Usa.


01 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: GUIDO CERONETTI Anatomia di un crimine (checchè ne dica silvio. ndr)
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 11:27:04 am
2/2/2009
 
Anatomia di un crimine
 

GUIDO CERONETTI
 

Ho inteso, dalla sua stessa voce, il Presidente del Consiglio associare ipoteticamente stupro a «bella ragazza», e faccio questa nota per inquadrare con meno imprecisione il fenomeno in questione, psicologicamente e criminologicamente tra i più complessi e inafferrabili.

Quando leggiamo, nella storia delle origini di Roma, del ratto delle Sabine, sarà bene toglierci la benda del pulito ricordo scolastico e degli svolazzi neoclassici. Fu un fattaccio turpe. Bande di bruti raccogliticci, chiamati da un Caino del Latium, sfuggiti ai castighi o scacciati dalle più antiche e civili città meridionali, tutti maschi esasperati dal bisogno di femmina (tentigine rupti), decidono di compiere spedizioni notturne nelle campagne abitate dai Sabini, a Sud delle loro tane da lupe (dove cuocevano all’aperto, per sé soli, polente di farro e pezzi di pecora), e seminano il terrore nei villaggi, stuprando bestialmente, prima che i loro uomini si radunassero, povere donne mal nutrite e mal lavate, una parte delle quali, per la vergogna e per sottomissione alla forza, li seguirono. Ne venne fuori un popolo che aveva nel sangue la violenza e la guerra, e la madre dei Gracchi, e il divino Cesare...

La storia dello stupro è infinita, e solo modernamente è entrato nelle legislazioni, che lo puniscono recalcitrando, quando non sia seguito da assassinio. In Italia è «reato contro la persona» solo da pochissimo tempo. Ma in nessun caso la bellezza della vittima ne è il movente, vorrebbe dire che lo stupratore, solitario o in branco, ci vede e fa una scelta. Lo stupratore è accecato dal sesso, non dal volto, di cui gli interessa esclusivamente quanto esprima terrore, ribrezzo, impotenza, sgomento, umiliazione. Fortissima sempre in questi inconsci di guazzabuglio è la volontà di umiliare, di insozzare un santuario, di sfogare odio etnico, di far nascere figli di quest’odio (molto chiaro nelle guerre balcaniche di fine XX). La donna del nemico militare è sempre, nonostante i divieti (ma spesso con comandi complici) da umiliare sessualmente. Nelle giungle urbane d’oggi la legge primitiva della giungla coabita con le nostre regole etiche e politiche frantumate, e di notte negli spazi incustoditi, periferici, ferroviari, sotterranei, strappa un infame diritto di sopravvento. Là, qualsiasi donna diventa, per ogni anonimo passante, foemina simplex, una bambola fessurata, la connotazione individuale scompare nell’indistinzione della tenebra.

E una gran parte ha, posso dire sempre più avrà, la componente sadistica. L’aroma che più risveglia l’istinto di violenza è la debolezza, l’inermità, l’avere a tiro, da sbattere sull’asfalto o in un cesso, una creatura del tutto digiuna di karatè, anoressica, bruttina, con braccia esili, perduta. E tutto questo è al cento per cento sadismo - da manuale o, alla lettera, da Malheurs de la Vertu. Una ventina di anni fa seguivo a Parigi un corso della scuola teatrale di Grotowsky, che si teneva in un posto orripilante sul Quai de la Gare, al Tredicesimo, immenso ex deposito dei macelli del grande Ventre. Al piano di sotto della nostra sala, tutta ben rifatta, c’era una batteria di decenza con decine di porte che stridevano sinistre e il vento sbatacchiava. Per scendere là sotto negli intervalli, tutte le ragazze chiedevano di essere accompagnate da qualcuno degli stagisti maschi. Non c’era ombra di maniaco sadico dietro quelle porte, ma il timore ancestrale dell’uomo in agguato in un luogo propizio, lugubre come un Dachau, spingeva le donne (non mi pare ce ne fosse qualcuna di distinta bellezza) a farsi proteggere da un altro uomo, fosse pure di muscolatura schiappona e di natura da straccio bianco. Era bello e ci inorgogliva quel ruolo... La virilità è forza in sé, anche se non ci sono forze. Ancestrale anche quel ruolo di custodes. Contro l’uomo che offende, che non vede il volto ma è eccitato dal corpo indifeso, l’uomo che difende: due sicuri archetipi, due forme simboliche del pensiero - preistoria nel cuore sfinito della civiltà.

I marocchini hanno una risoluta fama di stupratori (pericolosissimi in guerra, nel ricordo storico le truppe coloniali al seguito di Franco, i marocchini della campagna d’Italia dei francesi di De Gaulle-Leclerc), ma nelle cronache recenti e nelle statistiche sono stati abbondantemente superati dai romeni, spesso in branco, talvolta omicidi. Il loro numero è misurabile dalla quantità esorbitante di presenze fuori controllo, dall’oziosità abbrutente, tra bevute di birra senza cibo negli ondeggiamenti senza confini delle grandi periferie. Va ricordato che si tratta di figli dei ventri forzati a partorire da Ceausescu sotto stretta sorveglianza antiabortista della Securitate, cresciuti in condizioni prossime al randagismo canino. Il dono all’Italia di questi campioni di umanità degradata è stato fatto dai frenetici allargamenti a Est dell’Unione e dalla follia di Schengen.
 
da lastampa.it


Titolo: Federica Fantozzi Gli Uomini Perbene
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2009, 04:58:09 pm
Gli Uomini Perbene

di Federica Fantozzi


Stieg Larsson li chiamerebbe “Uomini che rispettano le donne”. Sono i promotori di un appello contro la violenza lanciato nella tragica estate 2006 di Hina, la giovane pakistana uccisa dal padre a Brescia, e rimodulato sulla cronaca recente. Tra le firme Goffredo Fofi e Gad Lerner, Giacomo Marramao e Nanni Balestrini, Piero Fassino e Franco Giordano. La segretaria generale della Cgil Tessile Valeria Fedeli ha chiesto al sindacato nazionale di sottoscriverlo. Il sindaco e la giunta di Sesto San Giovanni lo hanno fatto proprio e proposto a tutti i cittadini maschili.

Dietro c’è l’associazione Maschile Plurale, nata un anno fa per «reinventare l’identità maschile e la mascolinità» sforzandosi di avvicinare Marte a Venere. Una mosca bianca, nel mare magnum delle organizzazioni anti-violenza, che senza dubbio piacerebbe allo scrittore svedese, autore del best seller «Uomini che odiano le donne».

Singoli e gruppi al maschile che nel tempo hanno costruito una rete a livello locale, tra amicizia e idee comuni, e poi hanno giudicato i tempi maturi per emergere con un «progetto sociale». Significativo il testo: è «giunto il momento di una presa di parola pubblica e assunzione di responsabilità da parte maschile». Di qui sedute di autocoscienza collettive, iniziative politiche, presentazioni culturali, un appuntamento nazionale a Pinerolo il 21-22 marzo.

Non sono numeri enormi: un centinaio gli iscritti, un migliaio le firme, molti più simpatizzanti e internauti. Racconta Alberto, da Genova: «L’appello ci ha fatto vedere una realtà più grande di quanto immaginassimo di uomini su questa posizione». Ora hanno uno strumento per condividerla. Conferma Gianguido Palumbo, uno dei fondatori: «C’è stato un tam tam. Il sollievo di poter confrontare dubbi, riflessioni, modi di vita». Capita, come racconta Alberto, di uomini che «usufruendo di questa piccola comunità siano riusciti a incanalare una tendenza alla violenza che sentivano dentro di sé, senza venire condannati». Ma se è ben accetta la curiosità (che soprattutto è femminile), Palumbo mette in guardia dal «voyeurismo»: «Una trasmissione televisiva ci ha chiesto di filmare un incontro di autocoscienza maschile. Li abbiamo mandati al diavolo».

Palumbo fornisce un identikit degli aderenti. Età: dai 40 ai 60, maggioranza over 50. «Siamo non dico reduci ma militanti di una sensibilità sociale che ha fatto gli Anni ‘70». Generazioni toccate dal femminismo: non pervenuti ragazzi di oggi. Professioni varie: insegnanti, professionisti, impiegati, pensionati, qualche operaio. Credenti e non, etero e omosessuali. Pochi militanti o iscritti a partiti, tutti di sinistra. Dal Pd agli attuali extraparlamentari: «Nessuno di destra e c’è un motivo. La politica è anzitutto cultura. Il rapporto con il mondo attraverso l’identità sessuale fa parte integrante di te e conduce a una certa militanza. Un associato di An mi farebbe piacere, ma sarebbe in crisi con la sua tradizione».

Omogeneità territoriale: da Nord a Sud. A Torino c’è «Il cerchio degli uomini», con attività teatrali e «lavoro sul corpo». A Pinerolo «Uomini in cammino», comunità di cattolici di base gestita da Beppe Pavan, ex prete poi sposatosi, ex operaio. A Roma e Bologna le presenze più strutturate. A Ragusa è nato il nucleo «Non più sole».
Orazio Leggiero fa parte di «Uomini in gioco»: da 7 anni si incontrano tra Bari e Monopoli, a casa dell’uno o dell’altro. «Ci vediamo 4 volte al mese - racconta - E scegliamo il tema da affrontare a livello emozionale, perché è lì che noi siamo carenti. Parliamo del rapporto con i genitori, i figli, la violenza in generale». Perché un gruppo maschile si incontra per dibattere un problema non suo? «Non vogliamo scimmiottare le femministe, ma si deve partire dal proprio vissuto di genere». Gli amici vi prendono per matti o vi invidiano? «Avvertiamo un certo disagio, interesse inconfessato. Ma spesso si uniscono a noi. C’è sofferenza diffusa».

Per un fenomeno in riemersione, che sia «quantitativa o culturale»: «Ormai - si legge nell’appello - opinione pubblica e senso comune non tollerano più la prevaricazione maschile». Tantomeno se l’”allarme straniero” serve a rimuovere gli stessi comportamenti «di noi maschi occidentali». Massimo Greco, caposala al Policlinico di Tor Vergata, ha gestito un corso di formazione per infermieri che si relazionino con vittime di abusi. 60 iscritti. Il punto: «Le ricerche mostrano che gli operatori sanitari a volte non capiscono il problema della donna, o scattano stereotipi del tipo “guarda come era vestita”». Si impara a individuare una vittima che ha paura di denunciare: lesioni da difesa, come il livido della presa di mani o tagli sulle braccia, i movimenti, il silenzio. Visti dalle ambulanze, i maltrattamenti crescono? «Cresce il coraggio di andare in ospedale. Tante donne non sanno che anche nel matrimonio può esserci stupro che richiede il medico». L’interrogativo finale è perché uomini rispettosi delle donne sentano il bisogno di impegnarsi in prima linea: «Noi non abbiamo mai alzato le mani - dice Leggiero - Ma questo non ci assolve del tutto». È il senso di colpa maschile? «Direi introiettato nel profondo. C’è una colpa collettiva di cui dobbiamo farci in parte carico».
ffantozzi@unita.it


03 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Abdon Alinovi Combattiamo l’idea della donna-preda
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2009, 04:59:03 pm
Combattiamo l’idea della donna-preda

di Abdon Alinovi


La sequenza degli stupri che affligge il bel Paese registra un picco alto, dal Capodanno e nella stessa Capitale. Si è aggiunto il caso clamoroso di Guidonia ed ora quello nel piacentino, dove gli autori dell'odioso delitto sono stati due branchi di giovani di nazionalità romena. A Guidonia la giusta indignazione popolare rischiava di finire in un linciaggio senza la robusta tenuta dei carabinieri. È legittimo il dubbio che allo sdegno si sia mescolata l'ostilità xenofoba.
Resta la necessità di riflettere sopra un delitto che si è diffuso senza confronto con il passato per numero e frequenza. Certo, il delitto si inscrive nel grosso capitolo della violenza contro la donna. L'allarme della stampa è giustificato. Si deve insistere non solo con l'informazione ma con l'impegno volto alla formazione di un'opinione pubblica che sappia valutare i rischi gravi di regressione culturale e morale.

Considero tuttora emblematica la vicenda complessa e sconcertante della ragazza di Montalto di Castro. Nel marzo 2007, una sedicenne uscita dalla discoteca del paese per rincasare fu assalita e violentata sulla strada da otto giovanotti, sortiti dallo stesso locale. Le cronache registrarono marginalmente il caso. Ma il clamore fu suscitato dall'incredibile deliberazione del Comune che elargiva trenta mila euro, su richiesta delle otto mamme, per la difesa degli imputati in una "faccenda più grande di loro" (parole del Sindaco).
La protesta si levò alta, ma tutta al femminile, ed alcune parlamentari chiesero le dimissioni di quel Sindaco. Questi, nel riferirsi ad Anna Finocchiaro, la apostrofò pubblicamente con le parole: "...talebana del...". Il pressing di un personaggio altolocato del suo partito lo indusse alla revoca e ad un'untuosa, ipocrita autocritica che, invece, si rivelò un'autoaccusa. Si ricompose, comunque, il coro del consenso paesano. Fu archiviata "l'imprudenza", la "scivolata".

Quella rozza reazione aveva rivelato una precisa mentalità: la Finocchiaro si era "impicciata di una ragazzotta di poco conto" solo per fanatismo femministico, senza tener conto, per dirlo con le parole dei predatori, che "...aveva provocato con la sua minigonna nera e poi era ubriaca...", aggiungendo così alla selvaggia violenza altre turpi offese. Solitaria, al maschile, si levò su questo giornale la mia protesta: la vittima era stata trascurata. Immaginai che la sventurata ragazza fosse figlia di uno dei miei figli e questo mi aiutò a capire.
Evocai anche il nome di Luigi Petroselli che era stato animatore di lotte civili ed aveva portato in alto il nome di Montalto, prima di ascendere in Campidoglio. In suo nome chiesi a vari enti misure riparatrici. Invano. Ecco perché sui casi recenti di Roma e del Lazio non mi sembra che l'accento vada posto sulla pubblica sicurezza. Ad Alemanno occorre chiedere un atto di coraggio civile; il Comune assuma la difesa delle cittadine colpite, anche in nome della dignità e civiltà della Capitale. Sarebbe un segnale forte. Lo spirito pubblico sarebbe chiamato a proteggere le vittime, a condannare la concezione della donna-oggetto, la donna- preda.

Questo è il punto dolente. La frivolezza del Grande Deviatore nei confronti dell'universo femminile fa tutt'uno con la sua rozza ironia: "...un soldato per ogni bella ragazza...?". Parole che rivelano la mentalità partecipe della subcultura comune: " l'uomo cacciatore per natura...e per natura la donna bella provoca, deve dunque sapersi guardare da sé...". Cioè, deve rinunciare alla rischiosa minigonna, all'allegria in discoteca....

In Parlamento, finalmente, pare ci si muova. Non si tratta tanto di inasprire le pene, quanto piuttosto di restringere le maglie sulle attenuanti. Inoltre, occorrerebbe migliorare la normativa, determinando l'obbligatorietà della cura e dell'assistenza alla vittima da parte degli enti pubblici competenti. La delibera revocata nel Comune di Montalto di Castro non deve essere neppure ipotizzabile perché antigiuridica; al contrario, occorre obbligare l'ente locale ad attuare i provvedimenti necessari per la possibile riparazione del danno materiale e morale.
Persone esperte, per il patimento subito o per competenza scientifica, affermano che il trauma agisce in tutto il corso della vita della donna, anche con possibilità di disabilità in alcune funzioni.
Più in generale, occorrerebbe una svolta culturale in tutta la società, per suscitare una concezione universale di gioiosa limpidezza e naturalità nel rapporto uomo-donna.


03 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Luigi Manconi La forza potente del dolore
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2009, 11:00:19 pm
La forza potente del dolore

di Luigi Manconi


Ora che la vicenda di Eluana Englaro – una sorta di parabola per credenti e laici – si avvia all’epilogo, risultano più nitide le figure dei diversi protagonisti. Da una parte, sgangherate manifestazioni di fanatismo: quello di chi grida «assassini» verso l’ambulanza che porta via Eluana e quello di chi (qualche prelato e molti politici) definisce «un omicidio» la pietosa scelta dei suoi familiari. Dall’altra, il volto nobilissimo, nella sua scavata essenzialità, di Beppino Englaro che ha saputo fare del solo sentimento che lo muove, l’amore per la figlia, una testimonianza civile e morale.


UNA NOVITÀ CULTURALE
Sullo sfondo, una straordinaria novità culturale e religiosa: a favore del diritto all’autodeterminazione come espressione della libertà di coscienza e della “libertà dei cristiani” si sono espresse le intelligenze più acute del cattolicesimo italiano: Vito Mancuso e Roberta De Monticelli, Vittorio Possenti e Giovanni Reale.
Tutto ciò ha lasciato traccia persino all’interno della Conferenza episcopale italiana, le cui più recenti parole sono state diverse da quelle precedenti: si parla di eutanasia, ma precisando che ciò accade “al di là delle intenzioni” e ci si affida “alla preghiera” (che è dimensione propria dell’espressione di fede più di quanto lo sia l’accalorato dibattito pubblico-politico).


IL DIRITTO RICONOSCIUTO
Ma ciò si deve al fatto che l’intera giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di Beppino Englaro a decidere sulla sorte ultima della figlia.
Per una volta il diritto si è espresso in modo limpido e inequivocabile: e questo è accaduto perché la famiglia Englaro solo a esso si è appellata e solo di esso si è fatta scudo. Come nelle tragedie greche e come nella storia delle vittime di tutti i tempi, il dolore più intimo – se trova il coraggio di manifestarsi nello spazio pubblico – può farsi forza potente, capace di fondare nuove norme e di tutelare le libertà collettive.

04 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Sex & 40 "Il vero piacere comincia adesso" Merito di ormoni e autostima
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 10:02:53 am
6/2/2009 (7:24) - TENDENZE

Sex & 40
 
"Il vero piacere comincia adesso" Merito di ormoni e autostima

FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA LONDRA


Almeno metà delle nostre clienti sono signore grandi», ammette Sally, giovane commessa di Ann Summer, il popolare sexy shop di Oxford Street, nel cuore di Londra. Rosa H., avvocato, 44 anni come la mamma di Sally, curiosa tra le offerte di San Valentino, l'essenza di feromone, un paio di manette rosa, il «Kit Lapdance» completo di palo e tuta in latex. «Il sesso è divertente», dice sfogliando il manuale per la ricerca del punto G. La chiave è la complicità col partner: «Da ragazzina mi sarei vergognata ad assecondare certe fantasie, ora con il mio compagno è uno spasso».

E' finita l'epoca delle vittoriane severe narrate da Virginia Woolf: il Sex nella City migliora con l'età. Parola della rivista Health Plus Magazine che ha pubblicato una ricerca sull'erotismo femminile: il 77% delle 2000 donne intervistate ha scoperto la libido dopo il 40° compleanno. Con buona pace di rughe intorno agli occhi e qualche impertinente capello bianco.

«E' uno dei nostri segreti più belli, la consapevolezza che il piacere fisico non è legato a una certa stagione della vita», nota Susan Quilliam, psicologa e coautrice del pamphlet The New Joy of Sex. Nel romanzo The Summer before the Dark, il nobel per la letteratura Doris Lessing indaga il percorso interiore della protagonista, agée, che sulla via dell'autocoscienza incontra un uomo e rinasce fanciulla.

«L'idea che le donne mature non fossero idonee al sesso risale all'Ottocento, quando i medici prescrivevano canfora per smorzare eventuali voglie», spiega al Daily Mail la storica Louise Foxcroft. Nel volume «A History Of Modern Menopause» documenta i tabù «ginecologici» del secolo scorso sistematizzati da tal dottor Heinrich Kish, che si meravigliava del desiderio riscontrato nelle donne in menopausa. E dire che, secondo il New Hite Report, il rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 2000, «la possibilità di provare orgasmi multipli aumenta dopo i 40 anni».

Quello che le donne non dicono è che l'oggetto del desiderio rinnovato non è necessariamente il partner. Anzi. «Molte delle mie amiche quarantenni hanno un amante», rivela al Daily Mail Marcel d?Argy Smith, ex direttrice di Cosmopolitan. Uno studio dell'università del New Hampshire conferma che la maggior parte dei tradimenti extramatrimoniali riguarda mogli over 45 (per gli uomini il momento d'oro è dopo i 55).

La primavera dei sensi ha una ragione medica e una psicologica. Quella medica, spiega Peter Bowen Simpkins, del Royal College of Gynaecologist, dipende dall'organismo: «Dopo la menopausa si produce più testosterone, l'ormone del desiderio». La seconda è mentale. Sentite la psicoterapeuta Jane Polden intervistata dal Guardian: «Madri, mogli, tutte si rilassano. Non sono più ossessionate dal corpo, la bilancia, il lavoro, i figli avuti o quelli che non avranno più». Donne sensuali nella pienezza della maturità come quelle dipinte dal pittore Jack Vettriano, il cui catalogo Lovers& Others Strangers campeggia nella libreria Waterstone's.

Il tempo delle mele torna a cicli. Anche solo per segnare i tempi della vita, chiosa Susan Quilliam: «Nella libido della seconda giovinezza c'è la tensione tra eros e tanatos. La menopausa ci ricorda che la possibilità di riprodursi è finita». Tanto vale approfittare di quel che si è.

da lastampa.it


Titolo: Congo, l'inferno nel nostro corpo. Lo stupro una strategia di guerra
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 06:29:38 pm
Reportage esclusivo di «io donna» dallo Stato africano dove si combatte da dieci anni

Congo, l'inferno nel nostro corpo

La donna è un campo di battaglia. Lo stupro una strategia di guerra


«Devo proteggermi» sussurra l’uomo in camice bianco. «Ho imparato a essere insensibile per poter curare pazienti che perdono urina e materia fecale dopo che lo stupro di gruppo le ha lacerate. Donne torturate con bastoni, coltelli, baionette esplose dentro i loro corpi rimasti senza vagina, vescica, retto. Ragazze alle quali devo dire: mademoiselle, lei non ha più un apparato genitale, non diventerà mai una donna». Dieci anni fa, una giovane violentata a cento metri da qui si è trascinata da lui. Da allora, nel suo ospedale Panzi a Bukavu, il ginecologo Denis Mukwege ha operato 25 mila vittime di stupri efferati e ne ha medicato altrettante nei villaggi, condannato a leggere nei loro corpi gli scempi di questo cruciale lembo d’Africa, l’est della Repubblica Democratica del Congo.

Si combatte dal 1998 nel Nord e nel Sud del Kivu, fuori dalle città di Goma e Bukavu, sulle rive di un lago beffardamente incantevole a ridosso della frontiera con il Ruanda. Cinque milioni di morti dal ’98 al 2002, nel conflitto più sanguinoso del globo dopo la seconda guerra mondiale. Poi i ribelli impazziti, i villaggi cancellati, la missione dell’Onu Monuc - la più imponente, con 17 mila caschi blu - capace solo di contare i morti dopo battaglie sbrigativamente attribuite a faide etniche e che invece mirano al controllo di immense e maledette ricchezze minerarie: oro, tantalio, diamanti. Lo stupro, qui, è l’arma affilata di una guerra che da tempo ha perduto la linea del fronte. La strategia primordiale di tutte le sigle paramilitari che annidano plotoni assassini nel cuore di tenebra della foresta equatoriale. Stuprano i ribelli del Cndp del generale Nkunda, appena messo fuori gioco dai suoi storici alleati ruandesi, e forse - mentre scriviamo - già ammazzato o spedito in un esilio dorato. Stuprano le milizie della Fdlr, gli hutu responsabili del genocidio ruandese del ’94 fuggiti in Congo. Stuprano i Mai Mai, combattenti filogovernativi, allucinati da riti tribali. E stupra l’esercito regolare.

Violenza sistematica, compiuta davanti a figli e mariti: annientare le donne è un metodo veloce e sicuro per riuscire a mutilare intere comunità, spaccandole in un’invincibile vergogna. Il presidente congolese Joseph Kabila ha appena autorizzato l’esercito ruandese a entrare in Congo per sgominare gli hutu della Fdlr, come promessa di pace per il Kivu, ma la sua gente non si aspetta che altri morti, altri inferni. «Perché chiamare qui i ruandesi a risolvere un loro problema? » si chiede Mathilde Muhindo, che si è dimessa dal Parlamento disgustata dall’immobilismo di Kinshasa e da sempre assiste le vittime di stupro nel Centro Olame della diocesi di Bukavu. «Perché il governo è sceso a patti con Bosco Ntaganda, l’antagonista di Nkunda, ricercato dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità? È triste che nella nostra terra chiunque sia autorizzato a fare ciò che vuole, esattamente come i militari sul corpo delle donne».

Corpi sfioriti come quello di Elise Mukumbila, maschera di rughe e livore: nelle credenze tribali, forzare un’anziana porta ricchezza, così i Mai Mai hanno abusato di Elise per mesi, nella foresta a nord di Goma, lasciandole l’Hiv. La incontro a Goma, nel piccolo centro di Univie Sida, associazione locale che convince le donne sieropositive del fatto che la vita può, deve continuare. E corpi di bambine come Valentine, orfana dodicenne, perché violare una vergine rende immortali. Lei ha perso la parola dopo i ripetuti stupri di gruppo, ha la gonna fradicia di urina per una fistola mai curata: la sorella maggiore vuole nascondere la tragedia agli altri sfollati nel campo di Buhimba, poco lontano da Goma, dicendo a tutti che il sorriso vuoto della bimba non è che una pazzia senza nome. A Bukavu Janette Mapengo, 31 anni, mi si avvicina zoppicando. Gli otto hutu che l’hanno violentata nella sua capanna costringevano il marito a guardare, per poi seccarlo con una pallottola in fronte ed esplodere su Janette altri tre colpi, appena lei ha osato urlare.

Alza la gonna scolorita mostrando l’arto di plastica: all’ospedale Panzi le è stata amputata la gamba destra maciullata dagli spari. Janette piange piano: «Sono inutile». Françoise Mukeina ha 43 anni, undici figli, occhi color miele: «Cento hutu ci hanno prese in otto dal villaggio, a Shabunda, tenendoci schiave nella foresta per due anni, nutrite con gli avanzi, violentate a turno ogni giorno, marchiate col fuoco. Quando mi hanno mandato a fare legna sono fuggita. Ho dolori che non finiscono mai ma ringrazio Dio: io sono viva, le altre no». Solo nel Sud Kivu, da gennaio a settembre 2008, l’agenzia dell’Onu Unfpa ha censito 11.600 donne che hanno chiesto cure dopo la violenza carnale: per il 95 per cento di loro, gli autori erano miliziani. Nel Nord Kivu si stimano 30 mila vittime di stupro dal 98, ma quelle che tacciono per vergogna sarebbero molte di più.

«È un femminicidio: gli stupri aumentano, sembrano contagiosi» esplode Fanny Mukendi di Action Aid, organizzazione internazionale che tra Bukavu e Goma finanzia i gruppi locali più attivi nel ricomporre i brandelli di esistenza di queste donne. «Sono povere, sfollate dopo gli attacchi dei ribelli: la violenza è il colpo di grazia. Hanno bisogno di un sostegno psicologico e di entrate economiche: con noi fabbricano sapone, panieri, preparano dolci da vendere al mercato. Nulla di spettacolare, ma le aiuta ad accettarsi di nuovo». A Goma, Action Aid ha fondato un movimento femminile che a novembre, durante l’assedio di Nkunda, ha riempito lo stadio al grido “stop aux viols”. E per Fanny, «ogni donna del mondo dovrebbe essere solidale con loro». Pensava soprattutto all’est del Congo, l’Onu, quando l’anno scorso si è decisa a inserire lo stupro di guerra tra i crimini contro l’umanità, perseguibile dai tribunali internazionali.

Ma per ora, qui, domina l’impunità: «Con i militari si può solo segnalare l’esercito di appartenenza» spiega Julienne Mushagaluja, avvocatessa del gruppo Afejuco a Bukavu, che raccoglie testimonianze di vittime in vista di un appuntamento importante: «Sta per arrivare un inviato della Corte dell’Aja» rivela. «Dovrà capire se esistono prove sufficienti a denunciare per stupro i signori della guerra». Delle 58 condanne eseguite a Bukavu nel 2008 (su 353 denunce), solo 9 riguardavano militari, ma rispondevano anche di altri delitti. «Se a soffrire fossero gli uomini e non le donne» dice sommesso il dottor Mukwege «la comunità internazionale avrebbe già trovato una soluzione». Nel campo di Buhimba, durante il consueto acquazzone pomeridiano, siedo in una capanna buia sopra la terra nera del vulcano Nyiragongo, con un gruppo di donne e i loro neonati. I figli della violenza. In Congo l’aborto è illegale, per quello clandestino ci vogliono soldi, e non è il caso di Dativa Twisenge, 22 anni, scheletrica, bella, che disprezza il suo piccolo Oliver: «Che me ne faccio? Voglio solo morire. Due stupri sono troppi» mi gela. «Due anni fa in casa mia, a Masisi, con mia madre: a lei hanno spezzato le gambe. L’anno scorso qui vicino: tre militari del governo mi montavano come una cagna e intanto mi bastonavano la schiena: non ho fatto che urlare “uccidetemi!”». Agnès è un raggio di luce: 33 anni, sei figli, l’ultimo nato dallo stupro. Rapita vicino al campo con altre nove, legata e bendata dall’alba al tramonto, gettata tra i banani come spazzatura. Non riesco a non chiederle cosa prova per questo neonato paffuto, che per sempre le ricorderà la tortura. Lei sgrana gli occhi allungati: «Devi capire, è il mio bambino. L’ho chiamato Chance affinché, almeno lui, abbia la fortuna di conoscere un mondo migliore».

Emanuela Zuccalà
06 febbraio 2009

DA corriere.it


Titolo: Diari segreti della regina del sesso
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 11:54:41 am
9/2/2009 (7:13) - LA STORIA

Diari segreti della regina del sesso
 
Decise di trasformare il sesso in lavoro su consiglio della madre

Vip in camera da letto: i segreti della maitresse

Da Belmondo a Dalí, la più grande maîtresse di Spagna racconta le perversioni dei vip

GIAN ANTONIO ORIGHI
MADRID


Per l’anagrafe della Barcellona natale è Lydia Artigas, casalinga. Ma tutti la conoscono come Madame Rius, la leggendaria meretrice e maîtresse catalana che cominciò il più antico mestiere del mondo a soli 15 anni. Questa Cleopatra dei lupanari di lusso, ancora sulla breccia a 70 anni, ha raccontato la sua boccaccesca biografia in un libro, «La Señora Rius. Con moralità disinibita». Sono 256 pagine che si leggono d’un fiato. Anche perché tra le sue braccia sono passati clienti defunti del calibro di Salvador Dalí, di Orson Welles, del Nobel alla letteratura Camilo José Cela, del re dell’Arabia Saudita Faisal, o vivi, come Jean-Paul Belmondo. E lei ne spiattella gusti e perversioni. La palma dell’eccentricità se l’aggiudica il famoso erotomane Dalí.

Siamo negli Anni 60, al raffinato bordello San Mario, quando si presenta il pittore, accompagnato da un codazzo di sventole alte e bionde che il geniale artista si porta dietro anche per farsi ripetere continuamente «Divino». E, dopo essersi seduto su di una poltrona, fa a Madame Rius una richiesta che la lascia di stucco: «Portami un’anatra». Quando l’oggetto del desiderio arriva, il maestro si eccita sgozzando la povera bestiola. «Il pittore mi parve altezzoso ed arrogante», ricorda la regina dei casini che ancora oggi riceve i clienti che si interessano per la sua celebre pubblicità, la stessa che compra sui giornali locali dall’87: «S.ra Rius. Se cerca tranquillità, le trovo signore e signorine non professioniste d’appartamento. Orario da convenire». Non sempre gli avventori sono così folli. Anche se le richieste non sono meno curiose.

Cela, l’autore della «Famiglia di Pascual Duarte», notissimo Casanova, arriva alla casa d’appuntamento e chiede un gruppo di lucciole per accompagnarlo in camera da letto. La ragione non ha niente a che fare con la potenza sessuale del romanziere: quasi tutte servivano per scagliare in terra servizi di piatti. La maîtresse chiede incuriosita la ragione della stramberia e le viene risposto che Cela si eccita pensando a quando sua madre sgridava una maldestra domestica a cui cadeva spesso tutto quello che le capitava per le mani. La tenutaria, figlia e nipote d’arte che diventò prostituta per consiglio materno dopo aver fatto la mantenuta per quattro anni con un facoltoso uomo d’affari catalano, è ormai una istituzione. Le tv se la contendono per farsi dire le scene più strane del libro. Lei, ancora piacente e biondissima, non si fa pregare, sottolinea che aborrisce la parola prostituzione, che considera volgare. E snocciola i segreti della sua affollatissima alcova. Da film l’incontro, nel ’65, con Orson Welles, di cui la Poppea barcellonese conosce tutta la filmografia. Il regista americano si trova nel capoluogo catalano per girare «Falstaff» e arriva al San Mario. Gli preparano la solita sfilata delle sette ragazze più desiderabili ma l’autore di «Citizen Kane» punta il dito verso di lei. L’amplesso avviene con il cineasta che non si spoglia nemmeno del suo elegante vestito scuro e l’attira verso di sé prendendola per i lunghi capelli. «Mi sono sentita Rita Hayworth», rimembra ancor estasiata la signora.

Ma non sempre questa ex Venere dell’amore mercenario fa incontri così eclatanti. Dalle sue memorie viene fuori anche un appuntamento con il mitico re dell’Arabia saudita Faisal, a Barcellona per una visita oculistica nella nota clinica Barraquer. Il San Mario manda il clou delle suo carniere, tra cui, inutile dirlo, Madame Rius, all’hotel Ritz. Le lolite arrivano, si spogliano a fianco della enorme suite del miliardario arabo ed entrano nel salone. Ci sono altre trenta prostitute che farebbero bollire il sangue ad un moribondo. Il monarca entra, con una veste filata d’oro, le guarda bene una ad una per 15 infiniti minuti, a volte le palpa, poi se ne va mentre i suoi servitori pagano una fortuna lo spogliarello. I suoi clienti venivano ribattezzati con nomi di personaggi celebri, come Al Pacino o Gandhi. Ma Belmondo no. «La notte con l’attore, nell’86, fu terribile. Per colpa sua non ho potuto lavorare tre giorni. Non capisco come Catherine Deneuve e Ursula Andress abbiano potuto vivere con lui», sbotta la donna che nell’ambiente della prostituzione di lusso si è guadagnata un proverbio: «Girerai, girerai, ma da Madame Rius tornerai».

da lastampa.it


Titolo: GUIDO CERONETTI - La ballata dell'angelo ferito. Eluana Englaro
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 04:59:33 pm
LA POESIA.

Una ballata di Ceronetti per "il coraggio di Eluana Englaro"

La ballata dell'angelo ferito


di GUIDO CERONETTI



Urlate urlate urlate urlate.
Non voglio lacrime. Urlate.
Idolo e vittima di opachi riti
Nutrita a forza in corpo che giace
Io Eluana grido per non darvi pace

Diciassette di coma che m'impietra
Gli anni di stupro mio che non ha fine.
Una marea di sangue repentina
Angelica mi venne e fu menzogna
Resto attaccata alla loro vergogna

Ero troppo felice? Mi ha ghermita
Triste fato una notte e non finita.
Gloria a te Medicina che mi hai rinata
Da naso a stomaco una sonda ficcata
Priva di morte e orfana di vita

Ho bussato alla porta del Gran Prete
Benedetto: Santità fammi morire!
Il papa è immerso in teologica fumata
Mi ha detto da una finestra un Cardinale
Bevi il tuo calice finché sia secco
Ti saluta Sua Santità con tanto affetto

Ho bussato alla porta del Dalai Lama.
Tu il Riverito dai gioghi tibetani
Tu che il male conosci e l'oppressura
Accendimi Nirvana e i tubi oscura
Ma gli occhi abbassa muto il Dalai Lama

Ho bussato alla porta del Tribunale
E il Giudice mi ha detto sei prosciolta
La legge oggi ti libera ma tu domani
Andrai tra di altri giudici le mani.
Iniquità che predichi io gemo senza gola
Bandiera persa qui nel gelo sola

Ho bussato alla porta del Signore
Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare
Chiamami in cielo o dove mai ti pare
Soffia questa candela d'innocente
Ma il Signore non dice e non fa niente

Ho bussato alla porta del padre mio
Lui sì risponde! Figlia ti so capire
Dolcissimo io vorrei darti morire
Ma c'è una bieca Italia di congiura
Che mi sentenzia che non è natura

E il mio papà piangeva da fontana
Me tra ganasce di sorte puttana.
Cittadini, di tanta inferta offesa
Venga alla vostra bocca il sale amaro.
Pensate a me Eluana Englaro


(28 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Igiaba Scego Migranti per amore
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 03:24:24 pm
Migranti per amore

di Igiaba Scego


L’amore è il sentimento che ci tiene in vita, si dice. Certo, ci tiene in vita ma ci fa fare anche le cose più sciocche (vedi le vetrine di San Valentino) o ci porta alla disperazione più cupa. Tutti ci siamo passati! Fino adesso però non avevo mai pensato che l’amore potesse essere uno dei motori del viaggio dei migranti verso Occidente. Si parte dal Paese “x” attraverso il Sahara, la Libia, fino a Lampedusa su carrette fatiscenti anche per amore, o molto spesso a causa di una delusione d’amore o ad una paura incontrollabile di non essere amati.

Sono arrivata a questa conclusione dopo aver visto un film somalo fatto nel Somaliland ad Hargheisa. Il film si intitola «Dhoof baa i galay», che significa ho voglia di viaggiare (o letteralmente: un viaggio si è impossessato di me). Un film fatto da somali con l’aiuto di una Ong italiana e una norvegese. Quattro cortometraggi per dissuadere i giovani a fare il Tahrib, ossia il viaggio verso occidente. Le cause della partenza mostrate dal film sono diverse: la mancanza di prospettive, di futuro, di soldi, la paura della guerra che ti mangia vivo.

Ma nell’ultimo cortometraggio un ragazzo viene lasciato dalla sua ragazza perché lei alla fine preferisce sposare un somalo della diaspora venuto dalla Norvegia carico di soldi che alle parole romantiche (che il povero ragazzo le diceva) preferisce comprare l’amata come una mucca, infatti la dote non è moltissima ma vista dalla Somalia diventa stratosferica. Il ragazzo “cornuto & mazziato” non può competere con i soldi dell’africano occidentale e decide di intraprende il viaggio. Muore, solo, nel deserto con la foto di lei in mano e uno struggimento senza fine. Non ci avevo mai pensato, ma si può ancora morire per amore. Come Romeo.


11 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Berlino, trionfa il film sulla patata antistupro
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 11:17:12 pm
LA SERATA FINALE

Berlino, trionfa il film sulla patata antistupro

Orso d'oro al peruviano «La teta asustada». La regista: «Siamo ossessionate dalla violenza»
 

DAL NOSTRO INVIATO


BERLINO — L'Orso berlinese si inchina davanti alle ossessioni antistupro. «All'unanimità», svela Tilda Swinton che era a capo della giuria del Festival di Berlino. Sul palco ieri sera sono saliti tutti gli artefici di un successo che spiazza: produttore, regista, attrice non si erano preparati discorsi. Cantano un folksong, fanno un elenco di ringraziamenti, sottolineano a braccio l'importanza dell'Orso d'Oro dato al film La teta asustada per il cinema peruviano: «Questo premio è per il nostro paese».

Sotto la crosta della fantasia bizzarra, il film va in profondità sul crimine più odioso e meno poco punito dalla legge. «Dietro la malattia della ragazza, trasmessa dal latte materno, che le causa il terrore di essere violentata, c'è il dramma del nostro tempo, l'ossessione della violenza», dice la regista Claudia Llosa. La protagonista, interpretata da Magaly Solier, dopo la morte della madre, mentre cerca di farsi con difficoltà una vita in un villaggio del Perù, deve lottare proprio con il costante terrore di essere stuprata. Si infila una patata nella vagina. Sarà un ginecologo a convincerla: dovrà togliersela perché potrebbe, secondo lui, pericolosamente germogliare.

Hanno vinto le donne, Tilda il presidente, Claudia la regista, e soprattutto il tema: diritti violati dell'universo femminile. E ha vinto il Sudamerica perché, dopo il Perù, l'uruguaiano Gigante si porta a casa tre riconoscimenti, quello che pesa è il Gran Premio della giuria (ex aequo con Alle Anderen, Everyone else). Il giovane regista Afrian Biniez alla fine esclama: «Voglio mamma!». È l'anno dei paesi poveri, Orso d'argento al regista iraniano di About Elly, Asghar Farhadi. Migliore attore, l'africano Sotigui Kouyate di London River sulle bombe del 2005 a Londra: si mette a cantare pure lui, alto come un giunco, si presenta come nel film, treccine e bastone, si siede e non si alza più, raccontando storie leggere del suo continente: «Non bisogna sempre essere seri, ridere fa bene alla salute, ringrazio tutti i festival, anche Cannes e Venezia, che mescolano le culture e le fanno incontrare, perché è la varietà degli alberi che fa la bellezza della foresta». Migliore attrice la tedesca Birgit Minichmayr per Everyone else.

All'ultimo giorno l'Italia fuori concorso piazza almeno un solista, Riccardo Scamarcio, il clandestino di Verso l'Eden. Pubblico tiepido. Costa-Gavras sfiora il grottesco d'autore nello sbarco del bel Riccardo in un club vacanziero con relativo corner per nudisti. Il club come metafora, parabola, bolla del falso Paradiso, eccetera. I turisti occidentali sono egoisti, indifferenti, cinici. Scamarcio è il ragazzo innocente «che ignora il nostro mondo». La meta è Parigi. Scamarcio è braccato dalla polizia, quasi una caccia all'uomo e tutti lo vogliono usare, anche sessualmente.

L'immigrazione senza regole, tema nobile ma la tensione non c'è.

Valerio Cappelli
14 febbraio 2009(ultima modifica: 15 febbraio 2009)

da corriere.it


Titolo: Susanna Camusso Libertà femminile. Senza si arretra tutti
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 11:42:29 pm
Libertà femminile.

Senza si arretra tutti

di Susanna Camusso


La nostra Repubblica attraversa probabilmente la più grave crisi istituzionale dalla sua fondazione.

Una notte buia in cui è messo in discussione l'equilibrio dei poteri e quindi il fondamento della democrazia.

Particolare orrore suscita la strumentalizzazione della vicenda Eluana Englaro, che avrebbe dovuto vedere da parte di tutti fare un passo indietro. Ma il silenzio dovuto non è stato la misura della politica e il presidente del Consiglio ha mostrato disprezzo per la Costituzione e per le donne. Bisognerebbe fare un passo indietro, rispetto alle vicende degli ultimi giorni, e domandarci se il crescere dell'attenzione mediatica e politica sulla violenza maschile contro le donne porti con sé, anche solo simbolicamente, un senso o sia, un'ulteriore regressione.

Le statistiche sono note ed ignorate, la violenza contro le donne si esercita prevalentemente tra le mura domestiche, nella cerchia famigliare o dei conoscenti. È un pensiero "molto maschile" quello che distingue per gravità diverse se la violenza è commessa da uno straniero, da un estraneo, o da chi ha un legame affettivo. Se una diversa gravità potesse essere individuata comunque rovescia quell'ordine. Per le donne ogni uomo che violenta è un violentatore, ma forse è ancor peggio (se vale l'idea che al peggio non c'è limite) se è amato, conosciuto, se c'è un legame affettivo. Quella rottura di sé che genera la violenza, la lacerazione della dignità, non può non essere "aumentata" dal vederla compiere da chi pensavi ti conoscesse, amasse, avesse condiviso con te un progetto.

Perché allora si opera questa gerarchia, perché si sconfina rapidamente in un razzismo che ha bisogno di vedere il diverso da sé? Perché è più semplice portare fuori e non interrogarsi? Perché non ci si vuole interrogare su una sessualità maschile che dà per scontato che la violenza è connaturata e quindi che noi, le donne, dobbiamo essere vittime per sempre? Questo significato hanno le affermazioni sulle donne belle da proteggere con i soldati, o quando si dice di Eluana: "Potrebbe fare un figlio, ha il ciclo mestruale". Si può dire che la traduzione è stupro, è concepire la donna come puro contenitore, è negare la procreazione come scelta libera e consapevole? Questa è la cultura che legittima la violenza maschile contro le donne, il clima che si respira. Non vogliamo essere vittime per sempre, allora devono tornare nel lessico quotidiano parole e valori che del rispetto, della dignità, della libertà femminile, fanno misura della democrazia e della civiltà del nostro paese.

Per questo, anche nei giorni della crisi, mentre con il presidente della Repubblica difendiamo la Costituzione, non ci possono essere dei non detti o dei temi secondari, senza libertà femminile si arretra tutte e tutti, perciò non ci può essere un tempo della democrazia e un tempo delle donne.


16 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: CHIARA BERIA DI ARGENTINE L'insostenibile altezza dei tacchi
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 05:34:24 pm
17/2/2009
 
L'insostenibile altezza dei tacchi
 
 
CHIARA BERIA DI ARGENTINE
 
Giovanissime, graziose modelle issate su vertiginosi sandali dai lacci alle caviglie e imponenti plateau di legno sfilano su un lucido parquet. Una sfida alla gravità e all’ortopedia che ieri alla sfilata di Hervé Léger by Max Azria a New York per il prossimo autunno-inverno ha prodotto un vero record di cadute a terra. Una dopo l’altra, due ragazze sono precipitate dagli assurdi oggetti sui quali erano costrette a montare per presentare gli abitini di Léger, molto genere «bondage» (ovvero, schiavitù, soggezione). Bisogna dar merito alle poverette franate giù ai piedi della stampa, di averlo fatto con un certo stile.

Non è da tutti saper cadere bene. Del resto, da quando gli stilisti, ben consapevoli della femminea debolezza per le scarpe, hanno deciso di alzare sempre più in alto i tacchi (da alcune stagioni siamo anche sopra i 15 centimetri) e di proporre certe surreali zeppe che sembrano rubate dal rutilante guardaroba dei trans, le sfilate sono diventate una vera suspense per le modelle e gli spettatori. Cadrà o non cadrà? Franose cadute si ricordano chez Gucci quando Tom Ford fece sfilare giovinette dallo sguardo bistrato su un tappeto di bianca pelliccia con inciampo garantito; altra caduta di modella, causa tacco troppo alto e passerella d’ecologica ma fastidiosa erba, da Saint Laurent, stilista Stefano Pilati. Alle ultime collezioni di Milano si ricorda una caduta di gran tendenza: capitò a una modella che sfilava per Miuccia Prada, regina degli accessori, che ai tacchi fuori misura aveva abbinato anche calzini corti, certo molto trend ma che accrescevano le difficoltà per le modelle.

C’era una volta l’incedere elegante delle mannequin; le sensuali scarpe con la punta alla francese e ammiccanti tacchetti a spillo di Marilyn e Audrey Hepburn. Magre, magrissime con spalle larghe e testa piccola su una figura superallungata: nell’immaginario di certi stilisti (molto aiuta il fotoshop) la silhouette femminile oggi è più simile a una giraffa che a una pantera. Se non sono statuarie come Michelle Obama (delle ballerine di Carla Bruni si è parlato fin troppo) le fashion victim sono costrette a sacrifici (anche economici) immensi: pur di torreggiare comprando scarpe che più che calzature sono vere e proprie costruzioni architettoniche in stile gotico, spesso molto fetish. Il messaggio è chiaro: metti pure il vecchio e sobrio tubino nero da tempi di crisi ma esagera nei tacchi; mostrati sporcacciona fino alla punta del piede, costringiti a soffrire come se le scarpe fossero moderni cilici, a inciampare come una moderna schiava. E, soprattutto, ad avere molto presto l’alluce valgo. Sensualità di questi folli oggetti? Per le anime candide meno che zero; ma forse gli intorcinati sono ormai la maggioranza. Tutto serve a eccitare spiriti sempre meno bollenti; il gioco (e gli affari di una moda in crisi d’idee) val bene qualche caduta.
 
da lastampa.it


Titolo: «Aumentano gli stupri commessi dagli immigrati»
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 11:06:25 am
«Aumentano gli stupri commessi dagli immigrati»

di Maria Serena Palieri


Negli ultimi vent’anni la quota di stranieri sulle persone denunciate per stupro nel nostro Paese è passata dal 9 al 40%. Tenuto conto che gli immigrati restano solo il 6% della popolazione, è una cifra spaventosa. Ma, su questa cifra, dobbiamo ragionare» ci dice Marzio Barbagli. Sociologo, storico della famiglia, per Il Mulino a fine 2008 ha pubblicato la ricerca Immigrazione e sicurezza in Italia.

Professor Barbagli, la cifra è, diceva, allarmante. In che modo va letta?
«Primo, sapendo che la violenza sessuale è un argomento difficile. Perché è altissima la quota di vittime che non denunciano. Per questo ciò che è più significativo è appunto il “trend”. Ora, la prima annotazione che va fatta è che le violenze sessuali, in genere, avvengono all’interno dello stesso gruppo nazionale: gli uomini italiani violentano le donne italiane, i romeni le romene, i tunisini le tunisine. I giornali valorizzano le notizie che concernono stupri commessi da stranieri su italiane. Ciò che ci colpisce, i giornali lo sanno, è la ragazzina bolognese violentata dall’immigrato tunisino. Ma mettono la sordina quando avviene il contrario, o quando una donna romena è violentata da connazionali».

La maggior parte delle violenze avviene in famiglia o nella coppia. E questo collima con la bassa percentuale di violenze “interetniche”. Però la cifra iniziale resta: gli immigrati, 6% della popolazione, oggi sono il 40% degli autori di stupri denunciati. Perché?
«Continuiamo l’analisi dei dati. A commettere queste violenze sono al 60% immigrati irregolari, al 40% in regola. Rispetto ad altri reati, qui la percentuale di regolari è più alta: lo spaccio, per esempio, è praticato al 92% da immigrati irregolari. Ed eccoci al problema che, dopo due leggi, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, il nostro Paese ha tuttora: la difficoltà a rimpatriare. Nel discorrere comune si parla di “irregolari” facendo di ogni erba un fascio. In realtà magistratura e forze dell’ordine fanno ancora dei distinguo: quelli che andrebbero rimpatriati sono gli irregolari sospettati di fare lavori illeciti, non la badante col permesso scaduto. Ma il rimpatrio avviene solo per un quarto dei casi. C’è un numero di persone, come il cittadino tunisino arrestato l’altro giorno a Bologna, che commettono vari reati. Tra questi, stupri. Commettono anche omicidi: c’è un’alta quota di omicidi commessi da immigrati. Ci sono persone che vengono qui per compiere attività illecite. Ma se il meccanismo della giustizia funzionasse, non sarebbero qui».

Il permesso di soggiorno, però, non basta, visto che il 40% delle violenze sono commesse da «regolari». Il problema è culturale, allora?
«Molti di noi dell’immigrazione godono i vantaggi. Ma c’è uno scarso impegno pubblico nel prevenirne gli svantaggi. C’è difficoltà di controllo sul territorio. Siamo indietro nell’integrazione sociale. Dove non c’è una rete solida, parentale, amicale, è più facile succedano questi fatti. Poi, ci sono anche quanti hanno disturbi di personalità, ma qui entriamo in campo psichiatrico...».

Il nostro modello di costume può, in alcune culture, suscitare scandalo? E dunque paura, aggressività?
«Non credo sia questo un motivo. Oggi la nostra tv, i nostri film, circolano, gli immigrati arrivano qui sapendo dove vengono».
spalieri@unita.it

17 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Cofferati «Senza sicurezza muore il diritto di cittadinanza»
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 11:10:02 am
«Senza sicurezza muore il diritto di cittadinanza»

di Massimo Franchi


Cofferati, un altro stupro nella “civilissima” Bologna. Questa volta una ragazzina di 15 anni.
«Un fatto gravissimo. Che si è reso possibile per un clamoroso vuoto nelle leggi italiane: quella persona non doveva stare lì, doveva essere già stata espulsa. La vicenda ripropone non solo il tema della violenza contro le donne, ancor più se si tratta di una ragazzina, ma lo scarto tra l’allarme lanciato dal governo e le leggi inadeguate che ci sono: la totale mancanza della certezza della pena, persone pericolose che ritornano in libertà troppo in fretta. C’è un aspetto trascurato, quello dei tempi dell’identificazione dei clandestini: per avere i dati da certi Paesi spesso servono due mesi, un tempo inaccettabile».

Nel caso di Bologna il tunisino arrestato era libero dopo un ricorso al Tribunale della Libertà. È un problema di leggi o di interpretazioni da parte dei giudici?
«In questo caso non vedo soluzioni tecniche che risolvano il problema. Le decisioni sono molto soggettive, non si può far altro che appellarsi al rigore dei giudici».

La ragazza ha detto che un passante non si è fermato: «Non mi interessa», avrebbe motivato. Ormai siamo assuefatti a questi crimini?
«No. Perché per fortuna gli episodi di questo genere sono pochissimi. Certo, anche un solo episodio non deve portare ad una sottovalutazione. Questi comportamenti, benché isolati, confermano il venir meno del senso civico nelle persone. In generale c’è una tendenza a chiudersi in sé, a considerare meno l’altro. Del resto i modelli di comportamento che ci vengono imposti sono volti sempre più all’individualismo: questo è l’inevitabile risultato».

L’altro caso di violenza è avvenuto a Roma. Alemanno e la destra hanno vinto le elezioni sul tema della sicurezza, ma niente sembra cambiato in quasi due anni.
«Da tempo sostengo che il problema della sicurezza sia il più importante per le società contemporanee. La mancanza di sicurezza è una privazione di un diritto di cittadinanza. È una questione che andrebbe sottratta dalle campagne elettorali, è inaccettabile sentir dire: “Io ti garantisco, gli altri no”. Poi capisco benissimo le differenze nelle politiche che devono garantire la sicurezza».

E quali sono, fra destra e sinistra, queste differenze?
«L’azione sul territorio prodotta da Amato e Minniti durante il governo di centro-sinistra ha dato ottimi risultati. L’idea alla base è quella del controllo del territorio e va fatta impegnando più uomini e più mezzi. Va invece evitata la propaganda che ha usato il centro-destra sull’uso dei militari: possono essere utilizzati, ma solo per il controllo di luoghi sensibili, liberando agenti di Polizia e Carabinieri per pattugliare ad esempio i parchi dove sono avvenuti gli ultimi stupri. Perché un militare non ha le competenze specifiche per intervenire in casi come questi. Se l’utilizzo delle forze è indistinto siamo alla pura demagogia».

A lei è stato affibbiato il soprannome di “sceriffo”. Da uomo di sinistra cosa deve venire prima, la legalità o la solidarietà?
«La sinistra deve avere ben fermo davanti agli occhi il desiderio della solidarietà, nel senso di azioni di prevenzione di qualsiasi pericolo. Dove però la prevenzione non basta, allora servono azioni repressive. La sinistra deve evitare giustificazioni sociologiche e non deve avere timore di azioni repressive. Se sta lontano da questi rischi, anche la solidarietà avrà più senso».

La mente va subito alla questione delle baracche sul fiume Reno.
«Abbattemmo le baracche perché quelle persone rischiavano di venire sommerse. Ma subito dopo demmo a donne e bambini una casa e una scuola da frequentare. Furono espulsi solo i clandestini».

Ma erano i loro mariti e padri...
«Non c’è dubbio. Non ci siamo fermati davanti a questo: la solidarietà non può essere indistinta. La solidarietà c’è stata. E tanta. Donne e bambini ora sono integrati».

mfranchi@unita.it

16 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: STEFANIA MIRETTI Per dispetto
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2009, 03:48:19 pm
20/2/2009
 
Per dispetto
 
STEFANIA MIRETTI
 

«Dispetto» è una parola che, nell’uso quotidiano, nelle scaramucce tra amanti, nelle canzonette e nelle filastrocche per bambini dove sempre fa rima con «scherzetto», se n’è andata un po’ alla deriva, alleggerita del suo fardello etimologico. «Dispetto» è, tuttavia, una parola pesante, per adulti. Nomina un sentimento forte, di quelli che, una volta manifestati, non possono che innescare una catena di reazioni emotive altrettanto forti.

Despicere», guardare dall’alto in basso, insomma disprezzare: è di questo che stiamo parlando. Magari non ha troppo senso perder tempo a interrogarsi sulle parole, quando queste sono palesemente lost in translation perché a pronunciarle è persona che parla una diversa lingua, e a riferirle è il verbale di un interrogatorio presumibilmente agitato; non ha molto senso quando le parole si gonfiano nei titoli del tg della sera, tonfano sui giornali e si sciolgono nei rivoli di mille siti Internet; quando, soprattutto, restano impigliate nel groviglio di un dibattito politico umorale e sgangherato, là dove ogni tentativo d’accuratezza verbale pare destinato a fallimento certo. Però le parole esistono e talvolta si vendicano. Fanno, per l’appunto, i dispetti (quando meno te l’aspetti, direbbe la filastrocca), costringendo chi le ascolta, chi le legge, a chiedersi cosa vogliano, esattamente, dire.

E dunque: quale genere di dispetto avrà avuto in mente il giovane uomo Alexandru Isztoika Loyos, uno dei due stupratori romeni arrestati a Roma, quando ha usato la parola «dispetto» quale movente all’orrenda violenza inflitta a una bambina di quattordici anni? Cos’avrà voluto dirci? Forse che lui, lo stupro l’ha preso alla leggera, per incoscienza, per infantile senso di potenza e presunzione d’impunibilità, perché in fin dei conti in molti paesi e pure nel nostro almeno fino all’uscita di scena del Codice Rocco, la violenza contro le donne è sempre stata considerata alla stregua d’uno scherzetto un po’ più pesante?

Oppure, la parola dispetto l’avrà pronunciata nel senso più etimologicamente appropriato, per indicare disprezzo? In entrambi i casi - ed è quest’altra domanda a contare e atterrire - chi è il destinatario del dispetto di Alexandru? La fragile vittima sulla quale lui e il suo complice hanno così brutalmente infierito? Difficile crederlo. O magari il ragazzino di lei, invitato a osservare «come si fa con le donne», e in ultima analisi ogni giovane maschio ben curato di paese ludico e benestante? Qui, probabilmente, ci si avvicina di più al vero. Ma converrà prendere in esame pure questa terza ipotesi: che il dispetto di Alexandru sia per tutti noi. Di più: che il suo disprezzo sia il nostro disprezzo, patito e rispedito al mittente (al mittente sbagliato, al più debole e al meno dispettoso, come sempre è accaduto nella storia). Il suo e il nostro despicere, guardare dall’alto in basso.

Fosse così, sarebbe una cronaca fatta di dispetti, quella che quotidianamente ci tocca registrare: al despicere di Alexandru e del suo più maturo compare Karl, corrisponderà il despicere di un Mario o di un Gianluca di qualunque età che assalteranno il bar gestito da romeni o il campo rom abusivo (anche qui: dispetto restituito al mittente sbagliato), e naturalmente al despicere del ministro che esorta a essere «più cattivi coi clandestini».

Fosse così, il «dispetto» del quale stiamo parlando in queste ore, sarebbe null’altro che il disprezzo che sempre alimenta e chiama altro disprezzo in una spirale che solo un uso più adulto delle parole potrebbe spezzare. O a un uso meno maschio. Provare a interrompere il circolo vizioso è infatti interesse primario e urgentissimo per ogni donna, essendo la violenza sul corpo femminile una delle forme in cui si è storicamente radicalizzato il farsi i dispetti tra maschi: che si tratti dello stupro etnico e ideologico, inevitabile corollario d’ogni guerra, o delle spedizioni punitive indiscriminate al grido di «giù le mani dalle nostre donne». Stupisce qualcuno il fatto che la presenza di un maschio italiano, costretto ad assistere inerme, renda l’ipotesi dello stupro ancora più eccitante per la coppia, o il «branco» come piace dire, dei ragazzi romeni? Francamente: no. La violenza sessuale nasce nella logica della competizione e della rivalsa, dal voler sopraffare e umiliare il rivale, sia esso vicino («farsi» la donna dell’amico è pensiero dispettoso con pieno diritto di cittadinanza nell’immaginario maschile), sia esso lontano: «farsi» la donna dello straniero, violentandola appunto; o magari anche solo comprandola. Il corpo femminile come campo di battaglia, e quel che si cementa con le sgangherate reazioni agli stupri compiuti da romeni o tunisini, con l’infantile ricerca di giustificazioni per quelli compiuti dai connazionali, è sempre alleanza tra maschi contro maschi, non riconoscimento dei diritti femminili. A fare le spese di tanta dispettosità, ultima d’una lista che inizia nella notte dei tempi, la quattordicenne di Roma. Vittima del loro disprezzo, del vostro disprezzo.
 
da lastampa.it


Titolo: Donne di tutt’Italia, svegliatevi!
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:46:28 pm
Laura Specchio e Luciana Matarese

Donne di tutt’Italia, svegliatevi!


Milano: Si avvicina l’8 marzo e viene spontaneo fare brevi considerazioni sulle donne, chiedersi a che punto siamo, se siamo arrivate a un sistema di piena parità. Purtroppo, non occorre pensarci troppo ed appare evidente che siamo ancora ben lontane dall’aver raggiunto quella situazione tanto auspicata da un bel po’. Non è vittimismo o la solita retorica femminile: è, purtroppo, un dato di fatto. Basti pensare alla scarsa presenza delle donne negli organi apicali delle imprese, e pure in politica. A parte il gruppo delle solite note ed i grandi proclami, “quote rosa”, alternanza nei meccanismi di formazione delle liste, ecc. ecc., la presenza femminile è spesso relegata al ruolo di mera presenza, oppure di utile manovalanza durante campagne elettorali. Le più fortunate ricoprono incarichi di scarsa rilevanza, ma che possono fare molta “vetrina” (di qualche negozietto di periferia, quelli “tutto a 1 euro”) con scarse prospettive, ovviamente. Anche qui gioca l’antropologia: dalla pensionata volantinante, alla ex strega rivoluzionaria in carriera assetata di sangue (delle altre donne, non degli uomini), dall’intellettuale ben equilibrata, alla predicatrice mancata. Che vuoi siamo tante, ognuna fa la sua parte.

Napoli: Sempre da figurante di teatro di periferia, dici? L’argomento è scivoloso, rischia di far sbandare verso la retorica di genere. Di certo, ma sono considerazioni più proclamate che condivise, c’è che il contributo delle donne in tutti gli ambiti, e dunque anche in politica, è fondamentale e che per arrivare a darlo, quel contributo, al pari degli uomini, le donne devono sudare sette gonne e alla fine indossare i pantaloni. Poi c’è quella che i pantaloni preferisce sfilarli all’uomo sul quale ha puntato per fare carriera o quella che del lui capace di farla uscire dall’anonimato si innamora e riesce ad unire l’utile al dilettevole, ma queste sono altre storie. La parità, in politica come dovunque, continuerà ad esistere nei programmi da conventicole rosa o, al più, come sofisma da incartare insieme alla mimosa dell’8 marzo, fino a quando non si ragionerà sulle modalità attraverso le quali realizzarla. E non credo che l’offerta da supermarket dell’uno più uno in lista aiuti. O la riserva indiana delle quote rosa. Il problema, secondo me, è a monte ed è prima di tutto a carico delle donne, che, per stare alla politica, brandiscono la sottorappresentanza nei partiti e nelle istituzioni come l’arricciacapelli o l’ultimo tipo di lacca: per sembrare più interessanti. Agli occhi degli uomini.

Milano: Antropologia e altre amenità a parte, sono convinta che il criterio paritario possa essere il motore di un processo di rinnovamento della classe politica, in quanto elemento di discontinuità, facilitando lo smantellamento delle logiche di autoconservazione di un sistema autoreferenziale. Inoltre, potrebbe inserire risorse e competenze, sdoganando il Pd, ad esempio, dalla “carestia di personale politico nuovo”. Esiste la necessità di eliminare l’attaccamento a logiche e schemi di funzionamento inveterati e non più rispondenti alle aspettative degli elettori e degli iscritti al Pd? Ebbene ecco qui  le donne (non le raccomandate, parliamo delle donne impegnate veramente!).
Un ultimo slancio di creatività ed un avvertimento: “Tremate, tremate! Le Milanonapoli son tornate!”.

Napoli: Come si fa a non essere d’accordo con quello che dici? Il problema è che lo sappiamo io, te e qualcun'altra di buona volontà, abbastanza incosciente (parlo di me) da posporre il conto in banca e il matrimonio e i figli ai propri convincimenti ideali, alla volontà (ma forse è un’esigenza più profonda) di impegnarsi per cercare di capire un po’ di più la realtà in cui si vive e si muore. Alla maggior parte delle donne non interessa niente, preferiscono dormire o abbandonarsi alla corrente. Lo spazio è di chi se lo prende, in fondo, e non se ne può fare certo una colpa agli uomini se si accomodano sulle poltrone con tanta facilità. Uomo e donna: sono questi i poli dai quali ripartire. Ma devono essere gli uomini e le donne a farlo, insieme. E queste ultime la smettano di lamentarsi, che hanno stancato. Studino e si propongano se vogliono contare. E le strade da percorrere per realizzare la parità le aprano loro. Altrimenti, se ne restino a casa (dove pure c’è bisogno di donne, per carità) e infiorino i loro balconi. Una mimosa riusciranno sempre a guadagnarsela.

MilanoNapoli e ritorno

Dialoghi politicamente scorretti liberamente ispirati alla realtà


da www.formazionepolitica.org


Titolo: Lilly Ledbetter - Obama dalla mia parte.
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 10:00:43 pm
«Obama dalla mia parte. Vi racconto la lotta per i diritti delle donne»

di Marina Mastroluca


Per quasi vent’anni ha lavorato in un’azienda in cui le donne le potevi contare sulle punte delle dita di una mano. Capo-reparto alla Goodyear, mansioni di responsabilità, lavoro duro. Lilly Ledbetter è brava, sa come si fa. Glielo riconosce anche l’azienda, nel ‘96 la premia per l’alto rendimento. Finché un giorno qualcosa cambia. «È stato un biglietto anonimo. Un pezzetto di carta che qualcuno mi ha fatto trovare nella cassetta della posta. C’era scritta la paga di tre dei miei colleghi uomini, persone che svolgevano il mio stesso tipo di lavoro».

Per Lilly è uno shock. Non che non sospettasse di essere pagata di meno, ma non così tanto di meno: il 40 per cento in meno. È da qui che parte la storia di Lilly Ledbetter, la donna a cui è dedicata la prima legge firmata dal presidente Obama, il suo primo atto ufficiale da presidente: un provvedimento per l’equità salariale, dopo che la Corte Suprema dell’era Bush ha respinto la richiesta di risarcimento della donna, giudicandola tardiva e annullando una precedente sentenza che riconosceva a Lilly un risarcimento di 300.000 dollari.

Ledbetter in questi giorni è a Roma, oggi riceverà dalla Inca Cgil il premio simbolico «Non solo mimose». Perché la sua battaglia parla ai diritti di tutte le donne che lavorano.
La legge che porta il suo nome è stato il primo atto del nuovo presidente ed è sembrato un passo dal valore simbolico oltre che politico.

Molti hanno sottolineato anche che Obama deve a lei la vittoria in Pennsylvania, uno stato importante. Come ha vissuto questo momento?
«È stato sicuramente un messaggio, non solo un riconoscimento della mia battaglia che ha coinvolto anche tante altre persone. Ecco, credo sia stato un messaggio a tutte le donne degli Stati Uniti e anche del resto del mondo, sulla necessità di riconoscere diritti uguali alle donne e a tutte le minoranze. Per me è stato un grande momento perché la firma di Obama è stata come se avesse detto alla Corte suprema che aveva torto. È che la sua sentenza era un salto indietro, a prima delle leggi sul pari trattamento salariale approvate nei primi anni ‘60».

Perché è stato respinto il suo ricorso?
«Secondo i giudici avrei dovuto presentare il mio ricorso entro 180 giorni dalla prima discriminazione, cioè dalla prima busta paga. Il fatto è che io non lo sapevo. Potevo sospettarlo, ma fino a quel messaggio anonimo non avevo niente in mano. Alla Goodyear valeva la regola della massima segretezza sulla paga dei dipendenti. Non potevi chiedere, non dovevi sapere. È così che avvengono le discriminazioni: nel segreto. Se i giudici mi avessero dato ragione ci sarebbe stata una marea di cause».

Quando ha scoperto che il suo lavoro valeva meno di quello degli uomini, che cosa ha provato?
«Ero completamente scioccata. Persino uomini che avevano meno anzianità e meno competenze di me erano pagati di più. Allora ho parlato con la mia famiglia, i miei due figli, mio marito che oggi non c’è più. E loro mi hanno detto: vai avanti. I sindacati mi hanno sostenuto, la mia battaglia è arrivata al Congresso. Ma è stata molto dura».

Quale il momento più difficile?
«È stato tutto difficile, dall’inizio alla fine. Quando si è saputo che avevo fatto ricorso nessuno mi parlava più, in fabbrica mi evitavano. Poi mi hanno cambiato mansioni, mettendomi a spostare da una parte all’altra pneumatici pesantissimi. Volevano dimostrare che non ero all’altezza e che le mie mansioni erano più basse. In tribunale hanno portato gente che ha detto tante bugie su di me. È stata dura. Ed è per questo che credo che non sono poi così tante le donne che si mettono in questa impresa. Posso capirle. Una collega della Goodyear, con un figlio disabile, a suo tempo me lo disse chiaramente: vorrei, ma non posso».

Negli Stati Uniti 25.000 donne hanno seguito le sue orme, sono stati pagati risarcimenti per 135 milioni di dollari. Lei non ha avuto niente.
«È vero e probabilmente non vedrò niente, ho già 70 anni. Anche se certo la Corte Suprema, sotto la nuova presidenza, di qui ai prossimi anni potrebbe cambiare parere. Ma ho sempre pensato che anche se non per me, la mia battaglia sarebbe comunque servita. Per le nostre figlie, per le nostre nipoti. Un amico alla fine di questa storia mi ha detto: “Hai perso, ma hai anche vinto”. Ed è davvero così».

Com’è la sua vita ora?
«Mi sono battuta per questa legge e per un candidato democratico – non mi importava se Hillary o Obama - che potesse sostenerla. Il nuovo presidente mi ha invitato all’insediamento, ho persino ballato con lui. Ma resto una cittadina di serie B. La mia pensione non è quella che avrei meritato, non ho avuto i soldi quando mi servivano per far studiare i miei figli, non ne ho ora. Eppure in tutti questi anni neppure per un minuto ho pensato che non avrei vinto. Ed alla fine è così che è andata».
mmastroluca@unita.it


06 marzo 2009
da unita.it


Titolo: Il femminismo trasversale e la parità che non c'è
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 03:50:45 pm
La giornata della donna

Il femminismo trasversale e la parità che non c'è
 
 
«Questo 8 marzo dovrà essere una giornata di memoria e di lotta», l'ho sentito ieri alla radio. Non un'emittente zapatista del Chiapas, ero su Radio 24; la conduttrice e le sue ospiti, parlamentari Pdl e Pd, concordavano. Non pare una stranezza o un momentaneo impazzimento sovversivo. È la festa delle donne 2009, niente sembra più al sicuro, e tante femmine — soprattutto le femmine — non si sentono tanto bene. Ovvio, non sono più tempi da suffragette, roba di secoli fa. Né di quote rosa, la cooptazione di donne variamente selezionate dai nostri maschi politici continua a suscitare stupore bipartisan. E nemmeno da manifestazioni femministe anni Settanta, col cavolo che ci rimettiamo gli zoccoli. Non è neanche più tempo di postfemminismo colto e autoreferenziale, di riflessioni sullo «specifico femminile»; sono un lusso da società paritaria, e l'Italia non lo è.

E forse, a decenni di distanza, c'è di nuovo bisogno del buon vecchio femminismo emancipazionista. Perché non siamo davvero emancipate; né sul lavoro, né in famiglia, né per strada, né quando veniamo bombardate di spot e programmi tv con decerebrate svestite; né quando (orrore) pensiamo che il nostro corpo sia (parrebbe logico) nostro. Anche se le italiane lo tengono ben allenato. Il 77 per cento del lavoro domestico è a carico loro. Con un lavoro esterno la fatica è doppia. Avendone ancora uno: le cassintegrate aumentano, le precarie se va bene restano precarie, le lavoratrici di mezza età sono le prime a venir fatte fuori. Siamo penultimi nella Ue per occupazione femminile, probabilmente manterremo il primato.

E perfino le iper-occupate iper-abbienti vengono maltrattate se dicono cose realistiche: vedi la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Quando ha parlato di foschi scenari economici — poi confermati per difetto — il ministro Scajola l'ha attaccata parlando di «corvi». «Corve» non suonava bene, almeno quello. E poi non ce ne sono tante, di corve, la differenza retributiva tra uomini e donne resta del 23 per cento. D'altra parte, si sa, hanno la testa altrove, devono curare la casa e i cari. Sennò pagano donne straniere per farlo; di collaborazione maschile non si parla. Però. Approfittando dello stato attuale dei maschi si potrebbe trovare una via d'uscita emancipazionista e trasversale (non è necessario essere di sinistra, oggi, per essere imbufalite).

Il sistema italico ha prodotto uomini disastrati, tronfi ma inetti, egomaniaci e poi pavidi, viziati quindi fragili. E tiene in quarantena una minoranza di massa di donne formidabili; spesso occupate a tenere insieme contratti a termine-compagni insipienti-figli da accompagnare-lavatrici. Intanto — è una novità, ancora minima, ma succede — questo 8 marzo per la prima volta da anni è stato ricco di microincontri, discussioni in rete, creazione di network femminili. Qualcosa ne nascerà forse, anzi si spera. Anzi, per favore, sorelle, imponetevi ovunque, lavorate bene e fate meno lavatrici (le italiane fanno più lavatrici di chiunque al mondo, ora basta, infischiatevene delle lavatrici).

Maria Laura Rodotà
08 marzo 2009

da corriere.it


Titolo: ELENA LOEWENTHAL Intossicati nella testa
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:42:54 am
20/3/2009 - LA STORIA
 
Intossicati nella testa

 
ELENA LOEWENTHAL
 
Sedici bambini di una scuola elementare a Torino sono stati intossicati dalle figurine. Per chi non è più bambino magari da un pezzo, quel diminutivo al plurale femminile è una scatola magica di ricordi lontani. Da che mondo è mondo o quasi, le figurine sono un gioco unico, perché lo si fa da soli ma anche con gli altri: c’è un album da completare, comprando e scartocciando i pacchettini, sfogliando e applicando quel che ancora manca. Ma il più bello, delle figurine, è che ce le si scambia, spartendo e confrontando quel che c’è e che non c’è. Non esiste un altro gioco così, che si fa da soli ma senza poter fare a meno degli altri.

Per colpa di questo gioco vecchio come il mondo, per il quale siamo passati tutti - maschi e femmine, con i calciatori e gli animali esotici, i cartoni animati e la storia antica - sedici bambini della «Altiero Spinelli» di Torino sono finiti in tre ospedali della città, intossicati nelle vie aeree, in preda ad acuti bruciori agli occhi. La colpa, a dire il vero, non è delle figurine in sé, un gioco innocuo anzi istruttivo come nessun altro perché si fa da soli ma anche e soprattutto con gli altri. È, piuttosto, del modo marcio d’intendere questo bel gioco d’altri tempi.

Il «marcio» va inteso in senso niente affatto metaforico, del resto: le figurine che hanno spedito all’ospedale sedici bambini e un’insegnante di una scuola elementare (che quasi per beffa porta il nome di chi ha contribuito come pochi altri alla costruzione dei valori in questa nostra modernità...), si chiamano infatti «Schifidol Puzz», e il loro album non schiera squadre di calcio né racconta la vita degli antichi romani. La loro particolarità, infatti, è quella di emettere odori nauseabondi. «Ancor più fetenti e sempre più potenti», decanta la, si fa per dire, invitante pubblicità. Di nauseabondo, però, questo quanto meno discutibile prodotto non ha soltanto i miasmi. Ci sono anche le parole e i nomi: «Bruce Pus», «Otto Sboccadibotto», e via di questo disgustoso passo, con dovizia di immagini repellenti. Il tutto condito di un senso dell’umorismo quanto meno discutibile: se questo è il modo per far ridere i nostri figli, c’è davvero poco o nulla di che stare allegri.

La particolarità di queste figurine, o meglio di questa degenerazione della specie «figurine», è quella di emettere un cattivo odore onomatopeico, che richiama il disegno di dubbio gusto e le parole inequivocabili, generando uno scatenamento chimico ad effetto immediato. Ma evidentemente un po’ sopra le righe in quanto a dose. L’avvertenza sui pacchetti dichiara che si tratta di un «gioco» non adatto ai bambini di età inferiore ai dodici anni, ma è un controsenso, dal momento che si tratta di figurine e non di oggetti da pornoshop. Si comprano comunemente in edicola, sempre che non siano già andate a ruba fra minori e maggiori di dodici anni. E così, scartocciando pacchetti e annusando puzze artificiali, sedici bambini di quinta elementare sono finiti all’ospedale accusando piccoli problemi respiratori e forte bruciore agli occhi. Certo, nulla di grave, se la caveranno alla faccia delle figurine «Skifidol Puzz». Il vero guaio è un altro, e non sta in gola o in trachea, ma più nel profondo: perché l’intossicazione di quei bambini, così come di tanti altri, sta nella testa e nel cuore. Nell’idea inculcata in loro che sia bello e divertente scartocciare figurine che puzzano con dei nomi volgari e dei disegni grossolani. Quelle figurine non sono solo nocive, sono anche e soprattutto brutte nel senso più ampio e preoccupante che la parola contiene.

Mentre i bambini non sono brutti, non lo sono mai. Possono diventarlo, se il mondo propina loro la bruttura, gliela fa sembrare divertente e desiderabile. Se li intossica così, a suon di fetenzie. Che non fanno solo male al naso, alla gola e giù per i polmoni o su per gli occhi. Fanno male soprattutto a quel che sta più nel profondo e che nei bambini è qualcosa di morbido e permeabile, come una spugna che assorbe quel che le sta intorno. Farli diventare matti per un album di figurine da schifo, capaci di intossicarli fuori e dentro, è una forma di manipolazione che sconfina nella violenza.

elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it

 
da lastampa.it


Titolo: Turchia, la strage delle ragazze costrette al suicidio «per onore»
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:25:12 pm
ORA CHE l'Ue punisce gli omicidi dei clan, centinaia di casi soprattutto nelle zone curde

Turchia, la strage delle ragazze costrette al suicidio «per onore»

Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera
 

A Derya, 17 anni, la sentenza di morte è arrivata via sms: «Hai infangato il nostro nome — scriveva uno dei tanti zii — ora o ti uccidi o ti ammazziamo noi». A Nuran Unca, 25 anni, l'hanno detto i genitori, entrambi insegnanti. Lei ha resistito per un po', poi si è impiccata nel bagno di casa. Elif, invece, non ce l'ha fatta a togliersi la vita e ha deciso di scappare. Da otto mesi vive come una clandestina, costretta all'anonimato da un'assurda sentenza di morte emessa per aver rifiutato un matrimonio combinato. Sono solo alcuni dei tanti nomi di ragazze costrette al suicidio per motivi d'onore in Turchia. Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera, grazie alla sua età e alla legge che prevedeva forti attenuanti in casi del genere. Ma nel 2005, per avvicinarsi all'Europa, Ankara ha riformato il codice penale prevendendo l'ergastolo per il delitto d'onore. Così le famiglie sono corse ai ripari e, per non perdere due figli, hanno pensato di indurre le giovani ad uccidersi.

In poco tempo le percentuali dei suicidi si sono impennate. Soprattutto nel sud-est del Paese, l'area abitata dai curdi, profondamente influenzata dall'Islam più conservatore. Batman, una cittadina grigia e polverosa di 250mila anime, vanta il triste primato di morti sospette, tanto da essere citata da Orhan Pamuk nel romanzo Neve in cui un giornalista investiga sulla strana epidemia di suicidi tra le adolescenti. Ma il fenomeno dilaga ormai anche nel resto del Paese. Nella moderna Istanbul, per esempio, si conta un delitto d'onore a settimana. Sui suicidi dati certi non ce ne sono, si parla di centinaia di casi. Gli esperti sostengono che l'emigrazione dei curdi verso le grandi città porta a un'esasperazione del conflitto tra modernità e tradizione.

Le teenager scoprono Mtv, i jeans stretti, le feste, l'amore. Basta un'occhiata a un ragazzo o una gonna troppo corta e il loro destino è segnato: il consiglio di famiglia si riunisce e le condanna a morte. «Questo scontro di civiltà — ha spiegato a una troupe della britannica Channel Four Vildan Yirmibesoglu, capo del dipartimento dei diritti umani a Istanbul - sta rendendo la situazione ancora peggiore. Aumenta la pressione sulle donne perché rispettino i dettami conservatori della tradizione. E, chiaramente, ci sono più tentazioni». Ogni giorno decine di giovani bussano alla porta di Ka-mer, il centro fondato nel 1997 da Nebahat Akkoc per aiutare le donne in pericolo. La sede di Diyarbakir ha le pareti color corallo e una poltrona di pelle dove le ragazze sprofondano raccontando la loro storia. L'associazione le aiuta a trovare una casa-rifugio e a rivolgersi a un tribunale. Per rendere le cose più facili è stata creata anche un'hotline, ma telefonare e denunciare la propria famiglia può diventare improponibile nella regione curda dove, secondo i dati delle Nazioni Unite, si stima che il 58% delle donne sia vittima di abusi e che il 55% sia analfabeta. Vista da qui l'Europa appare ancora più lontana.

Monica Ricci Sargentini

28 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Meglio fare la Cancelliera che subire il tè per signore
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 03:42:32 pm
Controcanto - iSTRUZIONI PER LA GIOVENTù

Meglio fare la Cancelliera che subire il tè per signore

Ragazze e ragazzine che cliccate sulle foto delle first ladies, fermatevi un mo­mento. E riflettete, voi che siete in tem­po: non è tanto, ma tanto più interessan­te essere Angela Merkel? La Cancelliera tedesca passa la giornata a discutere con Barack Obama, Gordon Brown, Nicolas Sarkozy e altri leader di come rilanciare l’economia.

Una media first lady a un me­dio vertice — o a uno grande, come que­sto — deve attenersi a un’agenda anacro­nistica e parecchio noiosa. Che attual­mente prevede: infiniti tè tra prime da­me con diplomatici e interpreti in cui è sconsigliato fare battute; photo opportu­nities in cui c’è sempre il rischio che sbu­chi Carla Bruni-Sarkozy e tutte le altre facciano la figura della signora Pina (soli­darietà tardiva a Sarah Brown, che dopo la visita a Londra dell’anno scorso ha det­to «che volete, con lei non avevo una chance»); sollievo relativo per il manca­to arrivo di Carla Bruni-Sarkozy che astu­tamente ha rimandato lo scontro con Mi­chelle Obama, la vedrà a Strasburgo, do­ve sarà padrona di casa; probabile crisi di inutilità di tutte le first ladies tranne Michelle Obama, assente Carlà i media si occupano solo di lei; altro tè con la regi­na, e chiunque abbia visto The Queen sa che a Buckingham Palace le first ladies vengono trattate malissimo; visite tanto caritatevoli quanto inutili a ospedali ed enti benefici, e a Londra può essere fru­strante perché c’è sempre qualcuno che decide «era stata più brava Lady D».

Ma Diana Spencer aveva studiato da principessa, e non si era neanche trovata bene. Le altre prime dame nella vita hanno fat­to altro; e al netto dell’adrenalina da ver­tice non devono divertirsi troppo. Ambe­due le mogli di Sarkozy hanno evitato il più possibile il «programma signore», finora, e ci sarà un perché. E poi: va bene, Sarah Brown aveva un’agenzia di public relations, e vede il lavoro di first lady come un proseguimento delle pierre con altri mezzi; Michelle Obama (che un ospedale lo amministrava) è comunque un’icona positiva, nera e ganzissima. Ma guardarle insieme sul portone di Downing Street travestite da spose di guerra (con completini di medio costo perché c’è la crisi; come da comunicati stampa), sentirle parlare di gravidanze e Pilates mentre a Londra succedeva di tutto era, sottotraccia, un po’ avvilente. Comunque la si pensi sulla recessione, meglio, molto meglio essere Merkel (che il marito lo ha lasciato a casa, un uomo nel programma signore fa sempre la figura del fesso, e ci sarà un perché).

Maria Laura Rodotà
02 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: I viaggi per l’aborto in Svizzera «Una donna su tre è italiana»
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2009, 10:41:23 am
«È il fallimento della nostra politica di prevenzione»

I viaggi per l’aborto in Svizzera

«Una donna su tre è italiana»

Su 682 aborti eseguiti nel 2008, più di 200 sono stati richiesti da italiane. Picco di interventi in Canton Ticino


MILANO - È italiana quasi una donna su tre, di quelle che hanno interrotto la gravidanza in Ticino lo scorso anno. A lan­ciare l’allarme sul «turismo abortivo» in Svizzera è stato Carlo Luigi Caimi, avvocato e deputato del Gran Consiglio per il Ppd (la corrente dei de­mocristiani), che giovedì scor­so ha presentato una interpel­lanza al Consiglio di Stato de­nunciando il totale fallimento della politica di prevenzione del Cantone. I dati sono stati elaborati dal­l’Ufficio statistica e dall’Ufficio del medico cantonale. Nel 2008 in Ticino sono stati fatti 682 aborti, con un incremento dell’11,25% rispetto all’anno precedente (la tendenza italia­na è -3,9%). Nel 33 per cento dei casi le donne erano residen­ti «all’estero».

Quelle che vive­vano nel nostro Paese erano 221. Ancora più nel dettaglio: 206 proprio di nazionalità ita­liana, le altre cinque straniere. Cinque anni prima, nel 2003, il «turismo» aveva interessato 78 donne. «Queste cifre ci colpiscono e non potevamo osservarle in si­lenzio. Sul fenomeno abbiamo avanzato diverse ipotesi: uno dei problemi è dato dalla Ru486, che in Italia o non c’è o se ne fa un uso molto limitato. Gioca poi a nostro vantaggio il di­scorso della privacy, ri­gorosissimo. A questo aggiungiamo l’efficien­za del sistema sanita­rio e la quasi totale mancanza di tempi di attesa». L’avvocato Ca­imi legge così le stati­stiche che ha anticipa­to nella sua interroga­zione parlamentare. La voce «pillola abortiva», dunque, è la più im­portante nella scelta di andare nel Canton Ticino. Stando alle ultime statistiche, l’interruzio­ne delle italiane è stata farma­cologica in 180 casi, chirurgica in 25, e in uno ha richiesto en­trambi i metodi. La fascia di età coinvolta va dai 25 ai 29 an­ni in misura più larga (106), poi dai 30 ai 34 (novantadue) e dai 35 ai 39 (settantotto).

Silvio Viale, il ginecologo del Sant’Anna di Torino che da anni si batte per introdurre nel nostro Paese il farmaco aborti­vo, sulla materia ha molte cose da dire. «Il fenomeno del turi­smo non è nuovo. Molte pie­montesi si spostano in Fran­cia, così come le liguri. Per la Svizzera ero rimasto fermo ai Cantoni tedeschi. Chi si muo­ve, trova comunque una rete di assistenza al suo rientro, ga­rantita magari dallo stesso me­dico che ha suggerito il viag­gio ». Chi sono queste donne? «Persone che trovano le infor­mazioni su Internet. Che prefe­riscono spendere da 400 a 600 euro oltre confine piuttosto che fare le code nei nostri con­sultori, dove c’è sempre qual­cuno che ti può riconoscere o ricordarsi di te. E poi sono don­ne che non vogliono rischiare la corsa contro il tempo dei po­chi ospedali che oggi importa­no l’Ru486. Dal momento della richiesta alla Francia, in gene­re, passano 4-5 giorni: basta un imprevisto per far saltare l’aborto con la pillola». L’argomento della discrezio­ne è quello che convince di più Basilio Tiso, direttore sanitario della clinica milanese Mangia­galli, dove negli ultimi mesi i tempi di attesa si sono allunga­ti da 7 a dodici giorni a causa dell’aumento delle richieste. Commenta: «In quei numeri ci vedo semplicemente la voglia di abortire lontano da casa, di nascosto». Ancora, nel 2009.

Elvira Serra
07 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Onna, il paese raso al suolo «Qui non ci sono più bambini»
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2009, 10:36:23 pm
Il terremoto - il reportage dal cuore della devastazione

Onna, il paese raso al suolo «Qui non ci sono più bambini»

Viaggio nei centri più colpiti. Morta anche la badessa del convento di clausura

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


ONNA (L’Aquila) — È straziante guardare la signora Tiziana mentre si inginocchia sul prato e invoca il nome delle sue figlie. Lei sa che Susanna e Benedetta non ci sono più. Ma continua a chiamarle. Appena i vigili del fuoco si avvicinano trasportando corpi senza vita, va veloce verso di loro, chiede subito di spostare il lenzuolo. Poi scuote la testa, si ritrae. Però non riesce a fermare le lacrime. Si accascia sull’erba e piange anche Anna Rita. Lei aspetta Fabio, il suo ragazzo di 21 anni che era andato a dormire dalla nonna. La accudiva, le faceva compagnia per la notte. E adesso fa impressione vedere questa donna che non vuole farsi illusioni. «Il padre l’ha visto in quel letto, non c’è speranza», sembra quasi consolare le donne del paese che la sorreggono, le stanno intorno e le accarezzano il viso stravolto da una smorfia di dolore che non può attenuarsi. È una disperazione senza conforto quella delle madri di Onna. Perché sono sopravvissute ai loro figli e adesso hanno quasi paura a sollevare quei lembi di stoffa per guardare i cadaveri e scoprire che non c’è più speranza, che mai potranno più abbracciarli, oppure soltanto sfiorarli. Quando le bare vengono chiuse e caricate sui furgoni dei vigili del fuoco loro si guardano attorno, terrorizzate per quello che d’ora in poi saranno costrette a sopportare.

Non ha più un filo di fiato la giovane donna, già fiaccata da un male incurabile, che sotto le macerie ha perso i suoi bimbi, due maschietti di 2 e 3 anni, e suo marito Antonio. Non ha più parole Pina Parisse — moglie di Giustino, il giornalista del quotidiano Il Centro — inconsolabile per la morte di Maria Paola, 15 anni, e Domenico, 17. Questo paesino con 300 abitanti è il centro della catastrofe, il luogo simbolo di una tragedia spaventosa. Perché qui si parla di 20 morti e 40 dispersi, ma i vigili del fuoco dicono che le stime riguardano soltanto le case della cinta, «invece nel centro nessuno è ancora riuscito ad arrivare e contare chi non risponde all’appello».

Le palazzine sono venute giù in pochi secondi e sono soprattutto i grandi ad essersi salvati, mentre i piccoli non hanno avuto scampo. Piccoli anche se sono come Susanna che aveva 16 anni e sua sorella Benedetta, 27 compiuti da poco. La minore viveva con la famiglia, dormiva nell’ala che si è sbriciolata. Katya, la sua amica del cuore ora piange mentre la macchina escavatrice rimuove macerie alte 10 metri. «Eravamo cinque compagne di scuola, stavamo sempre insieme. Ora sono sola», grida mentre la madre cerca di afferrarle le mani e calmarla.

I corpi vengono ammassati sul campo, spesso sono le ambulanze a portarli via. I feriti da soccorrere qui sono una decina, quando le squadre di volontari e specialisti sono arrivate poco prima delle 8, si è capito subito che ci sarebbero stati pochi superstiti da aiutare. Perché la scossa delle 3.32 è stata devastante e riuscire a mettersi in salvo era difficile, con le scale crollate, la luce saltata, il gas che fuoriusciva dai rubinetti. Dall’altra parte della strada, arroccato sulla montagna c’è il paese di San Gregorio, poco più di 200 abitanti. È raso al suolo, anche qui ci sono pochissimi sopravvissuti. Nessuno sa dire quale fosse la casa che ospitava una mamma francese con la sua bimba arrivate per trascorrere le vacanze di Pasqua e rimaste vittime del terremoto.

E invece tutti conoscono la villetta dove vivevano Massimo Calvitti e sua moglie. Lui faceva il poliziotto, era in servizio alla prefettura de L’Aquila. Sono stati i suoi colleghi a trovarlo. Quando hanno estratto dalla macerie il comodino con la pistola nel cassetto, hanno capito che per lui non c’era più nulla da fare. Hanno facce segnate dal terrore gli uomini rimasti nella piazza di Paganica. Guardano la chiesa che potrebbe crollare, i vicoli ostruiti dai detriti. Entrare con le gru e le escavatrici non è facile, bisogna aspettare i mezzi più piccoli. E provare ad arrivare al primo piano di quella casa che affaccia sul corso dove vive un gruppo di albanesi, con la bimba di 3 anni che tutti coccolavano e adesso non si sa dove sia.

Ugo De Paulis, delegato del sindaco, non riesce neanche a digitare i tasti del telefonino per avere notizie dei suoi compaesani. Ha le mani che tremano, la voce si spezza quando pensa ai morti da contare e ai vivi da sistemare perché nessuna di queste case sarà dichiarata agibile e migliaia di persone finiranno sfollate per mesi, forse per anni. La badessa del convento di clausura è tra le vittime, altri due anziani mancano all’appello. Gli abitanti di Tempera, frazione distante due chilometri, sono tutti ammassati nel parcheggio. Ci sono i piccoli da accudire e così provano a collegare le bombole del gas ai fornelli da campo per scaldare il latte, attrezzarsi per una giornata che si preannuncia lunga e difficile. A Poggio Picente i bimbi morti sarebbero tre. A Fossa è venuta giù la montagna ed è franata una delle strade di collegamento. Gli abitanti sono in fuga, il paese è spettrale nella sua desolazione. Ma è quando si torna verso Onna che la tragedia si manifesta nella sua dimensione perché soltanto il calare della notte e la grandinata convince i volontari a interrompere la ricerca dei cadaveri.

Fiorenza Sarzanini
07 aprile 2009

da CORRIERE.IT


Titolo: TAHAR BEN JELLOUN Le donne cancellate
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 09:25:06 am
10/4/2009
 
Le donne cancellate
 
 
TAHAR BEN JELLOUN
 
Ah, se si potessero soddisfare i complessi e perversi desideri dei fanatici del mondo! Questi vogliono prendere le donne contro la loro volontà.

Quelli vietano contraccezione e preservativi. Tutti sono ossessionati dalla femminilità.

Se nel mondo le donne lottano per la loro dignità e per migliorare le loro condizioni di vita, ci sono Stati come l’Afghanistan che vanno in soccorso degli uomini proponendo una legge che obblighi la donna a soddisfare il desiderio del marito anche se è un eiaculatore precoce o ha l’alito cattivo o più semplicemente se non stimola in alcun modo la sua libido. Contro il rifiuto, la violenza.

I fondamentalisti hanno un vero problema con la donna e la sua sessualità. Vale per l’ebraismo, per il cristianesimo come per l’islam: l’integralismo trema davanti al corpo femminile, ha paura del suo sesso e reagisce con la violenza alla frustrazione o al turbamento. Tutto ruota lì attorno. Non si capisce nulla delle motivazioni degli integralisti se non si considera questa dimensione essenziale della loro psicologia e della loro esistenza.

Ciò si traduce nell’imposizione del velo, del burqa o della djellabah. La donna deve essere celata, invisibile, deve essere allontanata dagli sguardi e dalla vita. L’uomo dice: «Non toccare mia moglie, mia figlia, mia sorella, mia madre». Ovvero, detto altrimenti «Questi corpi mi appartengono e nessuno ha il diritto di avvicinarsi!». Bisogna veramente avere un cattivo rapporto con se stessi per appropriarsi il corpo degli altri. E per giustificare questa mentalità si ricorre alla religione che di per sé non dà affatto un simile diritto. Anche se tutte le religioni in genere non sono molto giuste nei confronti delle donne.

I taleban, ad esempio, immaginano un mondo dove la donna è assente. Esiste, ma è segregata in casa e non ha il diritto di uscirne. Questo non vuol dire che disprezzino il piacere sessuale, anzi, lo amano a tal punto da voler essere certi di essere i soli a gioirne. È il senso del progetto di legge presentato dal presidente Hamid Karzai. Un progetto che voleva rendere legale lo stupro compiuto sulla propria moglie e vietarle di uscire di casa senza l’autorizzazione del marito. Questo provvedimento avrebbe riguardato le donne sciite, che rappresentano il 10% della popolazione. Karzai contava su questo disegno di legge per attirarsi le simpatie e i voti degli sciiti alle prossime elezioni. Dopo le proteste di molti Stati, Karzai ha finito col ritirare il progetto, ma gli uomini continueranno a comportarsi da bruti con le donne, con o senza legge.

In ogni caso, questa ipotesi legislativa, degna dell’epoca della jahilya (il periodo preislamico quando alcuni beduini seppellivano vive le loro figlie per evitare che il loro onore un giorno potesse essere macchiato) è stupida e grottesca. Che va a fare la legge nella camera da letto di una coppia? Cosa può aggiungere all’intimità tra un uomo e una donna? Che piacere ne ricaverà l’uomo che si sentirà forte grazie a questa legge?

Un piacere dettato dalla norma e una violenza legittimata da un diritto che ha un senso dell’equità e della realtà ben singolare. In Afghanistan ci sono donne che si battono, che si organizzano e sono aiutate dalle femministe di diversi Paesi. Ma che un uomo come Hamid Karzai abbia potuto mettere la propria firma su questo progetto di legge la dice lunga sulla fame di potere, sull’ambizione divorante che lo possiede. Con che faccia può presentarsi agli occidentali che frequenta avendo aperto la porta allo stupro legale nel matrimonio? Vorrebbe forse che i taleban lo considerassero vicino a loro? Ma i taleban vogliono di più. Non si accontentano di una legge sulla pratica sessuale. Vorrebbero spadroneggiare su tutta la società e introdurvi una barbarie che va al di là dell’immaginabile. Dunque Karzai ha fatto un passo falso e ha sbagliato i suoi calcoli. E quindi ha fatto marcia indietro. Per ora, almeno.

Una donna che prova piacere è una «porca», è pari a una prostituta (tranne il fatto che le poverette che fanno sesso per mestiere non ne godono affatto, è un lavoro, una fatica necessaria per guadagnarsi da vivere). Sarebbe interessante far leggere agli uomini che parlano di questo godimento qualcuna tra le testimonianze di queste donne che raccontano la loro vita sessuale. Ma non arriveremo a tanto.

L’importante è far sentire la propria voce contro questa iniziativa afghana che non farebbe altro se non aggravare la situazione nel Paese e potrebbe favorire il ritorno sulla scena politica dei taleban. Perché quel che è in gioco in questa regione martoriata da troppe guerre è una scelta di società e anche di epoca.

Sfortunatamente io sono pessimista: gli eserciti occidentali non riusciranno a eliminare il pericolo talebano. Il terreno è difficile, i metodi asimmetrici e la popolazione divisa. Solo gli afghani medesimi potranno farla finita con i taleban. Ma fino a che questa guerra è legata al traffico di oppio, fino a che il guadagno facile è a portata di mano, la lotta sarà dura e impari.

Nel film dell’afghano Siddiq Barmak Opium War (2008) si vede una lunga fila di donne coperte dal burqa avanzare all’orizzonte dirette verso un campo di papaveri da oppio. Quando arrivano al campo sollevano il velo e si scopre che sono taleban armati venuti a prendere la loro parte sull’incasso della vendita di droga. I contadini pagano per non essere uccisi. Questa immagine riassume la situazione: la guerra in Afghanistan ruota attorno all’oppio e alle donne. Bisogna controllarli entrambi, pena la fine di una tragedia innescata dalla barbarie nel nome di un islam totalmente estraneo a queste pratiche.

© Le Monde
 
da lastampa.it


Titolo: Le ragazze di San Gregorio "Ricostruiremo il nostro paese"
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2009, 11:04:16 am
REGISTI TRA LE MACERIE

Il racconto di Francesca Comencini

Viaggio in una frazione dell'Aquila completamente rasa al suolo

Le ragazze di San Gregorio "Ricostruiremo il nostro paese"


di FRANCESCA COMENCINI


ARRIVO nella conca dell'Aquila di notte e ho paura. Mi accosto con l'auto a un piccolo gruppo di persone per chiedere come arrivare a San Gregorio, dove mi aspetta Chiara, una ragazza del paese che desidera parlarmi. Al rumore della macchina le persone sussultano, terrorizzate, poi si scusano e ridono, nervose. "Abbiamo paura di tutto".

Alla tendopoli di San Gregorio la notte fa freddo. Ci si muove alla luce della torce. Chiara somiglia al suo nome, ha un incarnato pallido e sottili capelli biondo rame. È esile, nervosa, sorridente, euforica. Fuma una sigaretta dopo l'altra. Ha ventinove anni, è stata eletta rappresentante del paese, che vuol dire sindaco. San Gregorio non è un comune a sé ma l'ultima frazione dell'Aquila. È stato completamente raso al suolo, ci sono state dieci vittime. Chiara vuole parlare del suo paese, vuole farlo insieme alle sue amiche.

Mentre camminiamo per arrivare alla roulotte dove dobbiamo incontrarci con le altre le chiedo se la notte riesce a dormire, e mi dice, a mezza bocca, di no, che ha paura di un'altra scossa, più forte, che squarci la terra. Ma lo dice a denti stretti. La paura e il disagio non vanno nominati, si deve avere forza, e lei, come le altre, mostra euforia, ride spesso. Sono in piedi le donne di San Gregorio, vogliono farlo sapere.

Ci sediamo intorno ad un tavolo di plastica vicino alla roulotte della signora Gloria, ci raggiungono le altre, si forma un gruppo, sempre più numeroso, tutto al femminile. Solo dopo, silenziosi, arrivano anche i fratelli, i fidanzati, i padri, ma rimangono in disparte, sono più timidi. Sul tavolo spuntano bottiglie di liquore di genziana fatto in casa, salvato da una cantina. Sarebbe vietato farlo, la pianta è protetta, ma loro lo fanno ancora, perché così facevano i loro nonni.

Posano sul tavolo pezzi di scottex a mo' di tovaglietta e vi tagliano la pizza pasquale, fatta nel forno a legna. "Iniziamo a prepararla quindici giorni prima della Pasqua, per questo era già pronta prima del terremoto", spiega Marianna, giovane laureata in geologia che di mestiere qui a San Gregorio fa la commessa. "Mio padre è andata a riprenderla in casa, la pizza di Pasqua, anche se è pericoloso".

Iniziano a parlare del legame con il loro paese, e mai, in vita mia, mi pare di aver capito così bene come il perimetro di un luogo, le proporzioni di una piazza, la facciata di una chiesa, la prospettiva di una montagna vista dalla cornice di una finestra siano necessarie all'anima, come la bellezza semplice e umile, possa avere un ruolo così primario, come il cibo, come un tetto sulla testa, nel definire la geografia interiore delle persone.

Sono ragazze giovani, non sono nostalgiche. Ma rivogliono il loro paese, disperatamente. Non vogliono nuove città, lo dicono e lo ripetono, rivogliono San Gregorio, non così com'era, è ovvio, ma con la sua anima salvata, custodita e riconosciuta. Lorella, un'altra ragazza laureata in Storia dell'arte e che di mestiere fa la cameriera, dice che ha fatto la sua tesi su un manoscritto antico ritrovato a Paganica. Tutto riporta alle radici, sempre. Michela, che vive a Milano, è tornata qui il giorno seguente il terremoto, e ora vive nella tendopoli, con le altre. Si conoscono da quando sono nate, e stanno insieme ogni minuto, non riescono a separarsi mai, da quella notte tremenda.

La notte è sempre più gelida, ma le lingue si sciolgono, i racconti si fanno più allegri. La tendopoli è stata montata nel luogo dove ogni anno in agosto si svolge la sagra del paese. Anche allora, come adesso, si mangia tutti insieme intorno a grandi tavoli, seduti sulle panche, e una vecchina dopo due giorni di tendopoli ha chiesto: "Ma quando finisce 'sta festa?".

Ridono, mostrano un'allegria nervosa, e quando spuntano le lacrime, non si mostrano. Parlano del nipote di una di loro che ha due mesi e verrà battezzato nella tendopoli. Poi di un'altra nipote, rimasta sotto le macerie. Parlano dei vivi e dei morti, uguali, insieme. Mi chiedono di aiutarle a far adottare San Gregorio, di parlarne, e lo faccio, ora, come posso, come so.

Mi dicono che nel pomeriggio sono state messe in salvo le campane della chiesa, completamente crollata. La signora Lola, mamma di Marianna, mi racconta che è stato suo nonno, tornato dall'America dove era emigrato, a pagarne una, rinunciando a comprare i vestiti e le scarpe per i suoi otto figli. L'ha battezzata Concetta, perché qui ogni campana ha un nome.

L'indomani le vedo, le due campane messe in salvo, adagiate con delicatezza dai pompieri sul suolo di questa piazza dove non ci sono che ammassi di pietre. Sembrano due neonate stese in una culla, tenere e fragili. Nel paese solo macerie, polvere nell'aria. Lo starnazzare impazzito di una gallina, l'abbaiare di un cane, il cinguettio assordante degli uccellini, riempiono un silenzio che rendono ancora più immenso. È qui che le ragazze vogliono essere filmate, qui vogliono parlare di loro, di San Gregorio, della loro forza e del loro attaccamento indomito a questo luogo.

Chiedo come mai gli uomini siano così silenziosi, forse sono intimiditi da una regista donna, azzardo, o forse sono più schivi, forse San Gregorio è un paese di donne forti. Chiara dice che non lo sa, ma sorride e mi fa l'occhiolino, sussurrando, fiera: "Chissà come mai sono stata eletta io rappresentante del paese". Le loro voci di donne riempiono questa piazza distrutta, i loro sorrisi ricuciono le pietre, i loro piedi tengono insieme la terra che continua a tremare.

Io le ascolto e le filmo meglio che posso, ammiro il loro struggente amore per questa terra, così privo di nostalgia, così attuale, complesso e intelligente. Mi fanno pensare all'Arturo de "L'isola di Arturo" di Elsa Morante quando parla della sua isola e ripenso all'incipit del libro: "Quello che tu credevi un piccolo punto della terra,/ fu tutto. /E non sarà mai rubato quest'unico tesoro /ai tuoi occhi gelosi dormienti.../ Stella sospesa nel cielo boreale / Eterna: non la tocca nessuna insidia".

San Gregorio, Onna, Paganica, L'Aquila, stelle sospese tra un cielo boreale e un suolo di rocce cattive, piccoli punti sulla terra che oggi per noi sono tutto, che si sparga ovunque il coraggio delle vostre donne, e che vi benedica il loro amore.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: Sitara Achikzai è stata avvicinata da due killer che hanno fatto fuoco...
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2009, 03:52:47 pm
Sitara Achikzai è stata avvicinata da due killer che hanno fatto fuoco, mentre tornava a piedi dal lavoro a Kandahar

Uccisa parlamentare in Afghanistan attivista per i diritti delle donne

 

KANDAHAR - E' stata uccisa da due uomini armati una donna impegnata nella difesa dei diritti femminili, eletta parlamentare provinciale a Kandhar, nel sud dell'Afghanistan. Lo ha riferito il capo del Consiglio provinciale e fratello del premier, Ahmad Wali Karzai. Sitara Achikzai stava tornando a piedi del lavoro quando i due killer l'hanno avvicinata a bordo di una moto e hanno aperto il fuoco.

Achikzai era nota per la sua lotta in favore delle donne. Negli ultimi giorni è tornata a infuriare in Afghanistan la polemica sui diritti femminili, dopo l'approvazione da parte del parlamento nazionale di una legge, fortemente voluta dagli ambienti religiosi, in cui si stabilisce la subordinazione della moglie al marito e in pratica se ne autorizza lo stupro. Karzai su pressione degli occidentali ha promesso di rivedere il testo ma ieri un eminente esponente religioso è tornato sull'argomento affermando che ogni ripensamento sarebbe inaccettabile oltre che anticostituzionale.

Oggi l'Afghanistan è stato squassato dalla violenza: 22 talebani sono morti in scontri con l'esercito afgano e le forze della missione internazionale. Sempre nel sud, a Helmand, un kamikaze è stato ucciso mentre cercava di entrare in una stazione di polizia; l'esplosivo è scoppiato quando gli agenti gli hanno sparato.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: Serena Palieri A proposito di femminismo
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 05:00:09 pm
A proposito di femminismo

di Serena Palieri

Quando muore un essere umano, finisce un tempo: il «suo» tempo. Quando una donna, Roberta Tatafiore, che è stata protagonista di un tempo collettivo - il femminismo - decide liberamente che il suo tempo è finito, è facile che si sentenzi che anche quel tempo collettivo, quella cultura - il femminismo - è suicida. Eccoci qui, il giorno dopo l’addio a Roberta Tatafiore, con Alessandra Bocchetti, figura grande del neofemminismo italiano - dei suoi tanti scritti ricordiamone qui almeno uno, quello magistrale e incandescente sulla guerra datato 1984 - a passare al setaccio un quarantennio di storia. Di storia «matria»: storia, cioè, e cronaca, e quotidianità delle donne italiane. Per capire cosa del femminismo - per esempio di quelle parole che oggi a molti e molte sembrano archeologia, come «autocoscienza» - sia vivo e cosa sia morto.
Per cominciare, del femminismo italiano, stabiliamo una data di nascita: «1970, "Sputiamo su Hegel"> di Carla Lonzi. Il femminismo, come avviene per i movimenti, è risultato dalla somma di tanti rivoli che si univano. Ma se devo trovare una data è quella dell’uscita di questo libro. E del passaggio fondamentale dal concetto di emancipazione a quello di differenza. Altro passaggio, dalla ricerca di libertà in senso generico alla liberazione. Per cambiare bisognava cambiare noi stesse. Da qui la domanda “che cosa è una donna?”. Sembrava una domanda assurda da rivolgerci, invece è stata fondamentale» risponde.
Classe 1942, da sempre a sinistra, da ragazzina militante nella Fgci romana, laureata in Lettere, lei, ricorda, femminista lo è diventata in un certo senso tardi, appunto quando la parola d’ordine è diventata «differenza». «Perché» dice Alessandra Bocchetti «il pensiero dell’uguaglianza mi sembrava misero. Mi sembrava umiliante andare dietro gli uomini, ripetere i loro passi. Pensavo che bisognasse cercare una strada originale e guadagnarla attraverso il nostro pensiero».

Se scriviamo «neofemminismo» - chiariamolo per le più giovani - è perché si considera che quello degli anni Settanta sia una riapparizione carsica - e una fase inedita - d’un movimento delle donne che ha percorso l’intero Novecento: di femminismo si parlava già a fine Ottocento. Ma, appunto, la svolta è il passaggio da una lotta emancipazionista, per l’uguaglianza e la parità, a quest’altra. Oggi, guardando indietro, è possibile individuare, dal 1970 in poi, delle fasi del neofemminismo: infanzia, adolescenza, maturità, senescenza? «No, perché la fase della differenza è appena cominciata. Nella struttura della società c’è uno scarsissimo segno della presenza femminile. Facciamo un esempio concreto: il ministro Brunetta polemizza con le impiegate statali che fanno la spesa durante l’orario di lavoro, e non ci si rende conto che è l’organizzazione sociale stessa a obbligare a questa trasgressione. Se la presenza delle donne fosse registrata, i negozi sarebbero aperti il sabato e la domenica. Molte donne hanno studiato la questione dei tempi e degli orari, ma la traduzione è mancata».

Nei primi anni Novanta le donne del Pds elaborarono in effetti una «legge sui tempi» ambiziosa, una specie di «programma fondamentale» come si diceva ancora all’epoca col residuo linguaggio del Pci. Ecco, il rapporto con la politica maschile può farci leggere delle fasi del movimento femminista? Pensiamo alla fragorosa rottura con Lotta Continua nel 1975, pensiamo subito dopo alla legge sull’aborto. «Sull’aborto successe questo: che ci alleammo con l’Udi, l’Unione Donne Italiane, questa grandissima e articolata associazione, legata soprattutto al Pci, ma anche al Psi. L’Udi pose un aut-aut e, obtorto collo, il Pci abbracciò la lotta. Anni dopo, per tramite della figura della responsabile femminile Livia Turco, ci fu l’avvicinamento del Pci al femminismo, nacque la “Carta delle donne” ed ebbe un successo grandissimo. Le elezioni successive, nel 1986, furono quelle in cui la sinistra mandò più elette in Parlamento. Ma poi con amarezza, con amarezza personale mia, ci accorgemmo che l’interesse del partito per il movimento era puramente strumentale. Non ne seguì nulla. Ancora adesso continua a non seguirne nulla. La sinistra, alle donne, la parola l’ha tolta, non gliel’ha data. Il tema della libertà delle donne, classico della sinistra, è il più disatteso in assoluto, il più deluso».

Ci si può chiedere se si può ottenere qualcosa quando un movimento - di massa, forte - non esiste più. Secondo Alessandra Bocchetti quand’è che quello delle donne ha dato l’ultimo segnale di vita? «L’ultima volta che siamo state tante, tantissime, è stato a giugno del 1995, quando scendemmo in piazza col documento “La prima parola e l’ultima”. Perchè c’erano le elezioni politiche e ci eravamo accorte che la sinistra cominciava a contrattare la sua andata al governo, cedendo le conquiste delle donne. Vedi, l’aborto. Cominciava insomma quel tragico dialogo che le avrebbe fatto perdere la sua identità. Per tre mesi quel documento nostro tenne banco e condizionò l’agenda politica».

Tre anni fa, di nuovo in difesa dell’autodeterminazione in tema di procreazione e aborto, ci fu una nuova, brevissima fiammata: l’autoconvocazione sotto l’insegna «Usciamo dal silenzio». Ma, appunto, un seguito non s’è visto. Il movimento si è inabissato? Alessandra Bocchetti legge, nella nostra scelta del termine, un giudizio palese. Replica: «No, non si è inabissato. Il movimento è - di per sé - una scarica di energia che lascia sul campo delle idee. Che, poi, devono essere portate avanti nella società. E questo semmai è mancato in Italia. Strano, perché il nostro era un femminismo fortissimo. Però molto rivolto a se stesso, molto nel segno di una profonda ricerca di sé. La vulgata dice che il femminismo era la lotta delle donne contro gli uomini. Niente di più falso. Era una ricerca del pensiero di sé, la nascita di un soggetto. Certo, poi saltavano i matrimoni. Ma per effetto indiretto. Il fine non era quello. Il femminismo italiano degli uomini proprio non si è occupato. Ecco, oggi il femminismo forse non c’è più, ma ci sono le femministe». Quarant’anni dopo sul terreno sono di più le macerie o le speranze? «La conquista fondamentale che è avvenuta è questa: tutte le donne oggi, del Nord e del Sud, casalinghe o superlaureate, pensano di avere diritto alla ricerca della propria felicità. Quest’idea le nostre madri non ce l’avevano data: mia madre mi parlava di dovere, di bontà. La parola ”felicità” non l’usava mai. Che cosa vuole una donna, appunto? Ma è contro quest’idea che assistiamo a una tremenda controriforma. Io non me la sento di dire che le donne oggi sono felici. La società vive un momento durissimo, tremendo, di infelicità grande. Tra il diritto di ricerca della propria felicità e l’essere felici, c’è ancora un mare. Però è questa l’idea che alla lunga rovescia il mondo».

16 aprile 2009
da unita.it


Titolo: Educhiamo i bambini a essere liberi (anche dalla pubblicità)
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:01:02 pm
Educhiamo i bambini a essere liberi (anche dalla pubblicità)

di Malcom Pagani


Un aereo in partenza per gli Stati Uniti, il computer sempre acceso, un’intervista epistolare fatta di parole precise.
Strano tipo di rivoluzionario, il fiorentino Paolo Landi. Creativo al centro della piramide Benetton, laurea con Mario Luzi, Landi è tra i più lucidi critici dei meccanismi pubblicitari. Nella guerra combattuta sotto il sole nero della competitività, Landi propone una terza via. Tra industrie e marchi concorrenti, c’è un filo di umanità che tenta di preservare. È quello delle intelligenze ingrassate davanti al filtro dell’esperienza virtuale, dei bambini trasformati in obbiettivi di mercato, lo stesso che faceva di ciò che eravamo, un’irripetibile esperienza di scoperta.

Accadeva quando della televisione non sapevamo nulla. Quella di Landi da anni è in soffitta. Ne La pubblicità non è una cosa per bambini, (La scuola), il professore del Politecnico di Milano traccia un ritratto senza sconti. Le soluzioni semplici, quando il contesto è disgregato, latitano.
Nella scuola steineriana di suo figlio, la tv è bandita...
«Una madre mi ha raccontato che non manda il figlio al parco per paura di pedofili e drogati. Preferisce il centro commerciale. Mi pare sia urgente domandarsi che tipo di bambini stiamo crescendo, che direzione stiamo dando al loro futuro. Più che all’omologazione, qui bisogna attrezzarsi per sfuggire all’idiozia che ci assedia».

Fin dagli anni ’50 i bambini sono stati considerati come essenziale veicolo di messaggi pubblicitari. Vere e proprie aree da fertilizzare con nuovi prodotti, per vedere a quali mutazioni potessero giungere.
«L’inquinamento delle coscienze non tiene conto della psicologia umana che reagisce ad ogni eccesso con azioni uguali e contrarie. I consumatori cominciano a non poterne più di donne nude e bambini usati per vendere l’automobile al papà. Siamo ormai perfettamente alfabetizzati alla lingua del consumo. La pubblicità che pretende di indicare nuovi comportamenti, è in ritardo sull’evoluzione della società».

Consumare è l’imperativo sul quale si basa la nostra società. Fin da bambini si assorbe una sola regola: «Chi perde è perduto». Che impatto ha avuto e continua ad avere una simile condizione d’ingaggio?
«La competitività mi pare una nuova religione fondamentalista. E il paradosso è che, ad emergere, alla fine, sono quelli che non ne hanno mai fatto il loro dogma. In un mondo dove tutti sembrano essere quello che consumano, vincerà chi punterà su se stesso invece che sulla sua immagine. E le intelligenze, anche quelle timide, se sono vere si rivelano. Sono quelle allenate alla competizione sterile a mostrare la corda, la frustrazione, la stanchezza. Certi “vincenti” sembrano prigionieri di un ruolo e mostrano tutta la loro malinconica fragilità».

La pubblicità si camuffa. I territori si allargano. I confini si dilatano. C’è una guerra. Quale rivoluzione possibile, per salvare generazioni condannate in partenza?
«C’è un’infanzia che deve essere lasciata stare, bambini che devono restare tali fino a 14 anni e adulti che possono misurarsi col denaro e il consumo. Nel migliore dei mondi, i bambini restano bambini e gli adulti si comportano da adulti. Nella sfera dei bisogni indotti, resiste uno spazio di azione intelligente che non relega i consumatori nel ruolo di greggi pilotate. La rivoluzione è una cosa semplice, basta dare ad ogni cosa il suo tempo».

Da Carosello alle televendite, in tv è passata la nostra storia recente...
«È solo una fetta molto piccola di umanità, a meno che non si voglia ricondurre tutto alla fenomenologia di Mike Bongiorno. Berlusconi ci ha ricordato che se 15 milioni di italiani vedono Sanremo, ce ne sono altri 45 che non lo guardano. Fuori dalla tv c’è un mondo da scoprire. In futuro l’offerta sarà talmente ampia che perderà la centralità che sembra avere oggi».

La discrepanza tra desideri e mezzi, in una società che ha elevato l’iperconsumo a religione unica, produce infelicità. È parodistico disegnare un futuro fatto di depressione generalizzata?
«Credo si avvicini alla realtà. Il paradosso della società iperconsumista è che sono i poveri a cedere di più alle lusinghe del consumo. Faticano a pagare la bolletta ma non rinunciano a Sky. Sono preda dell’orrore del vuoto e tendono a riempirlo di merci. Una produzione di frustrazione e infelicità».

Lei sintetizza lo sviluppo economico del futuro secondo tre direttrici: responsabilità, sostenibilità, solidarietà. Cercare una politica che riduca la pressione al consumo rappresenta l’ultima scialuppa?
«Sarebbe un importante primo passo. Per ridare forza al circolo virtuoso della domanda e dell’offerta, bisogna tornare a dare valore alle cose. Troppa pubblicità non comunica nulla. La bulimia di merci provoca il rigetto».

La deriva culturale molto deve all’approccio consumistico. «Se si aspira al sapere - suggerisce - bisogna liberarlo dagli scaffali del supermercato». Non teme le diano dello snob?
«Niente snobismi ma, soprattutto, niente retorica. Anche il sapere, come l’infanzia, se diventa merce perde il suo valore».


24 marzo 2009
da unita.it


Titolo: "Le donne non sono gingilli da usare come specchietti per allodole"
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 11:46:04 pm
Duro attacco di FareFuturo dopo le candidature volute dal Cavaliere

"Le donne non sono gingilli da usare come specchietti per allodole"

"Basta veline in politica"

L'altolà della fondazione di Fini

Il presidente della Camera non sconfessa ma frena: "Comprensibile, ma eccessivo"

di MATTEO TONELLI

 
ROMA - I distinguo tra Fini e il Cavaliere non sono una novità. Ma stavolta l'affondo di FareFuturo, fondazione animata dal presidente della Camera, punta su donne e televisione. Ovvero due dei punti nevralgici della visione del mondo berlusconiana. "Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi, le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse". Parole come pietre, firmate da Sofia Ventura sul magazine della fondazione. Al punto che, alcune ore più tardi, lo stesso Gianfranco Fini deve puntualizzare definendo "copmprensibili, ma eccessive e non totalmente condivisibili" le opionioni della Ventura.

Da tempo, la ricerca dello smarcamento dal premier è strategia quotidiana del presidente della Camera. E, come in passato, Farefuturo è lo strumento per mandare precisi segnali. Ora è il turno del personalissimo modo con cui il premier utilizza le donne in politica, le procedure di scelta e il retroterra da cui provengono. Veline, velinismo e simili, insomma.

Una scelta rilanciata con forza dal premier per l'ultima infornata di candidature del Pdl per le Europee. Nell'ordine ci sono Barbara Matera, già "letteronza", Angela Sozio, ex del Grande Fratello, Camilla Ferranti, reduce da Incantesimo, Eleonora Gaggioli, direttamente dai set di Don Matteo ed Elisa di Rivombrosa. "Volti nuovi e freschi" nelle intenzioni del Cavaliere. Destinati a rappresentare l'Italia in Europa. In quel Parlamento europeo che con le ribalte televisive ha poco da spartire. O almeno dovrebbe.

Il giudizio di Farefuturo è duro. Si parla di "una pratica di cooptazione di giovani signore con un background che difficilmente può giustificare la loro presenza in un'assemblea elettiva come la Camera dei deputati o anche in ruoli di maggiore responsabilità".

E che nessuno parli di ricerca di volti nuovi, di nuove pratiche di selezione. Di rottura con le liturgie partitiche. "Qui assistiamo ad una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto a che fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento - continua Farefuturo -. Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con estrema disinvoltura, denota uno scarso rispetto da un lato per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro, dall'altro per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima".

Nessuna valorizzazione, insomma, semmai un uso spregiudicato del "corpo delle donne" che ottiene l'effetto opposto. A fronte di numeri che fotografano una presenza femminile in politica ancorata a livelli minimi, infatti, la risposta del Cavaliere è un "velinismo" che "rilancia uno stereotipo femminile mortificante, accuratamente coltivato dalla nostra televisione (che è, a questo proposito, un unicum nel contesto europeo-occidentale) e drammaticamente diseducativo per le nuove generazioni".

(27 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: Veronica Lario: «L'uso delle donne per le Europee? Ciarpame senza pudore»
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2009, 12:12:41 am
«Potere senza ritegno offende le donne»

Veronica Lario: «L'uso delle donne per le Europee? Ciarpame senza pudore»

La moglie del premier: «Voglio che sia chiaro che io e i miei figli siamo vittime e non complici»



ROMA - «Ciarpame senza pudore». Così, Veronica Lario definisce, in una dichiarazione all'Ansa, l'uso delle candidature delle donne che a suo avviso si sta facendo per le elezioni europee. La signora Berlusconi ha deciso di mettere per iscritto in una mail - in risposta ad alcune domande sul dibattito aperto dall'articolo pubblicato lunedì dalla Fondazione Farefuturo - il suo stato d'animo di fronte a ciò che hanno scritto martedì i giornali sulle possibili candidate del Pdl alle europee. «Voglio che sia chiaro - spiega - che io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione. Dobbiamo subirla e ci fa soffrire».

LA DONNA IN POLITICA - Alla domanda su cosa pensa del ruolo delle donne in politica, alla luce delle polemiche di queste ore, Veronica Lario risponde che «per fortuna è da tempo che c'è un futuro al femminile sia nell'imprenditoria che nella politica e questa è una realtà globale. C'è stata la Thatcher e oggi abbiamo la Merkel, giusto per citare alcune donne, per potere dire che esiste una carriera politica al femminile». «In Italia - aggiunge la moglie del presidente del Consiglio - la storia va da Nilde Jotti e prosegue con la Prestigiacomo. Le donne oggi sono e possono essere più belle; e che ci siano belle donne anche nella politica non è un merito nè un demerito. Ma quello che emerge oggi attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, e che è ancora più grave, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte e questo va contro le donne in genere e soprattutto contro quelle che sono state sempre in prima linea e che ancora lo sono a tutela dei loro diritti».

DIVERTIMENTO DELL'IMPERATORE - «Qualcuno - osserva Veronica Lario - ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell'imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere». La signora Berlusconi prende anche l'iniziativa di parlare della notizia, pubblicata martedì da la Repubblica, secondo cui il premier sarebbe stato domenica notte in una discoteca di Napoli a una festa di compleanno d'una ragazza di 18 anni: «Che cosa ne penso? La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perchè non è mai venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo stato invitato».


28 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: I figli, i gossip. Così è nata l'ultima rottura in famiglia
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2009, 11:26:00 pm
I figli, i gossip. Così è nata l'ultima rottura in famiglia

Le candidature delle veline e la festa della diciottenne a Napoli le nuove micce

Lo strappo politico della first lady "Mio marito come Napoleone"

di DARIO CRESTO-DINA

 
UNO sfregio familiare. La risposta è un attacco politico. Come due anni fa, quando, dopo i complimenti di Berlusconi alla Carfagna ("Se non fossi sposato, ti sposerei"), Veronica scrisse a Repubblica spiegando che lei non voleva essere la metà di niente.

Anche questa volta le sue parole all'Ansa sembrano concordate con i figli, soprattutto là dove, commentando la partecipazione del presidente del Consiglio alla festa di compleanno di una ragazza napoletana, Veronica Lario manifesta uno stupore che è una stilettata: "Che cosa ne penso? La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perché non è mai venuto a nessun diciottesimo compleanno dei suoi figli pur essendo stato invitato".

Non pronuncia le parole "mio marito". Mai. Una scelta precisa dietro alla quale c'è una nuova rottura. Una bufera davvero inattesa. "Mi spiace che Veltroni si sia dimesso. Mi sembra che il centrosinistra non ci sia più", mi aveva detto un mese fa a Macherio Veronica Lario. Poi aveva aggiunto: "Mio marito insegue lo spirito di Napoleone, non quello del dittatore. Il vero pericolo è che in questo paese la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica come temo stia succedendo". Voleva dire che il Cavaliere stava correndo su una strada senza ostacoli. Senza opposizione. Che il suo obiettivo era il Quirinale. Scherzando le avevo fatto notare che la paura più grande del premier poteva essere ancora lei. Lei e l'effetto Veronica. "Le cose vanno un po' meglio - aveva risposto - Io faccio soltanto la nonna, seguo Alessandro, il bimbo di Barbara e devo riconoscere che anche mio marito si è innamorato di lui. Trascorre ore a farlo giocare, spesso anche da solo".

Aveva ribadito che le voci di divorzio erano infondate, ripetendo ciò che aveva spiegato un anno prima: "Potrei dire che ci sto pensando da dieci anni e che sono lenta a prendere le decisioni. Non avere compiuto questo passo ha dato risultati molto positivi per i miei figli. Ora sono serena, non ho pensieri di questo tipo. Voglio stare fuori da tutto e non fare nessun tipo di dichiarazioni". Aveva preferito parlare della crisi, dei contrasti tra Tremonti e Draghi sugli interventi anti-recessione ("Chi sbaglia dovrà dimettersi, credo"), dell'azione del governo che non la convinceva fino in fondo. Delle polemiche sul testamento biologico: "La tecnica oggi ci impone dubbi più grandi di noi". Della lotta di Beppino Englaro: "È stato linciato. Non doveva essere permessa una cosa del genere".

Insomma, era serena. Fino a ieri sera. A farla scattare sono state le critiche sulle liste elettorali del centrodestra per le europee avanzate dalla Fondazione "Fare futuro" e l'articolo di questo giornale sulla notte napoletana del premier. Veronica è scesa in campo, trasferendo la dignità sua e dei suoi figli dentro il teatro della politica. Come in quel giorno di fine gennaio di due anni fa. Quarantotto righe che fecero il giro del mondo: "Con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili".

Una festa, una donna. Mara Carfagna. Veronica Lario continuava così: "Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l'età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito e all'uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente". E ancora: "Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sue dimensione extra familiare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli.

Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l'esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un'importanza particolarmente pregnante, almeno quanto l'esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro".

(29 aprile 2009)

da repubblica.it


Titolo: Veronica, tormento e affondo «Prima o poi penserò a me»
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 10:14:57 am
La first lady «Sono una donna oramai abituata alla solitudine»

Veronica, tormento e affondo «Prima o poi penserò a me»

Lo sfogo: lotto per i ragazzi. La «sorpresa» di Marina e Piersilvio
 

MILANO - È l’ora, in parti­colare, ad aver stupito tutti: le 22 e 38. Chi la conosce bene, sa che i colpi di testa non appartengo­no a Veronica Lario. E invece, quel comunicato inviato all’An­sa a tarda sera, dimostrerebbe l’esatto contrario. Ecco perché molti si sono chiesti che cosa possa aver scate­nato l’irritazione improvvisa del­la moglie del presidente del Con­siglio. Arrivati a questa fase del­la vicenda, sono rimasti in pochi a credere al movente della gelo­sia. Al di là delle foto ufficiali e dei servizi posati e concordati— come quello a Portofino con tut­ta la famiglia allargata — per i Berlusconi il Mulino Bianco sem­bra essere un’idea oramai sbiadi­ta. D’altronde, da anni Veronica Lario coltiva con passione la sua immagine di donna forte, anti­conformista e intellettualmente indipendente, anche rispetto al marito. Basta ricordare le sue di­chiarazioni su alcune vicende pubbliche, come la fecondazio­ne assistita o il caso Englaro. E per questo appare difficile imma­ginare che possa ancora ingelo­sirsi per le boutade o le iniziati­ve folcloristiche di Silvio Berlu­sconi. Lei stessa nella sua lettera pubblica del 31 gennaio 2007 scriveva: «Nel corso del rappor­to con mio marito ho scelto di non lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i suoi comportamenti ne hanno creato i presupposti».

Allora la lite fu composta con le pubbliche scu­se del consorte, che misero a ta­cere anche le insistenti voci di di­vorzio. Poi arrivò la «trasforma­zione » di Veronica: capelli mossi e non più lisci, abiti colorati neo-folk, l’adorato nipotino Ales­sandro, il figlio di Barbara, esibi­to con orgoglio. E spesso accan­to, per un improvviso restyling familiare, Silvio Berlusconi. Tutto inutile. La tregua appa­rente è stata rotta l’altro ieri da quel comunicato carico d’ira e d’indignazione. E nulla esclude che Veronica possa rendere an­cora più esplicito il conflitto e abbandonare le convenienze. Sa­rebbe nel suo stile. A infastidir­la, stavolta, l’improvvisata di Berlusconi a Napoli, alla festa di 18 anni di Noemi Letizia. In un momento delicato in cui forse lei avrebbe preferito che il mari­to rimanesse a casa, magari ac­canto alla figlia Barbara, al setti­mo mese di gravidanza, in atte­sa del secondo bambino. Ma in­tanto chi conosce bene i Berlu­sconi sa che vivono da anni in case diverse: Veronica a Mache­rio, Silvio ad Arcore. Difficili da credere, dunque, le frequenti battute del premier su episodi di quotidianità familiare.

Alle amiche più care, poche e selezionate, la riservatissima Ve­ronica avrebbe più volte confida­to la sua solitudine: «Abbiamo esistenze separate. Io sono una donna oramai abituata alla soli­tudine. Ma per fortuna mi onora e mi rafforza il mio ruolo di mamma e di nonna. È per i miei figli che vivo. E combatto. A me? Ci penserò solo quando tutto sa­rà a posto». Una frase sibillina. Che però, chi la conosce bene, interpreta nell’ottica della grande questio­ne, tuttora irrisolta, della sparti­zione ereditaria. Aspetto che sa­rebbe pesantemente dietro la sua esternazione di martedì se­ra. Il futuro manageriale e patri­moniale dei suoi tre figli — Bar­bara, Eleonora e Luigi — sta par­ticolarmente a cuore a Veronica Lario. Che spesso avrebbe mani­festato i suoi timori di vederli pe­nalizzati rispetto a Marina e Pier­silvio, nati dal primo matrimo­nio del Cavaliere con Carla Elvi­ra Dall’Oglio. È la Fininvest, la «cassaforte» di famiglia, ad esse­re al centro della contesa. C’è poi da definire l’eredità patrimonia­le di Berlusconi. Nel 2006 è stato assegnato a ognuno dei tre figli avuti da Veronica Lario il 7,6 per cento di Fininvest. Ma c’è anco­ra da fare. Sia per quanto riguar­da il 63 per cento del gruppo an­cora in mano al Cavaliere, sia per stabilire chi comanderà dav­vero domani. Ciò nonostante, se­condo indiscrezioni, Marina e Piersilvio ieri avrebbero accolto con sorpresa la dichiarazione al­l’Ansa di Veronica.

Infine, un’altra questione di fondo riguarderebbe l’esito di un’eventuale separazione. Di qui quel «poi penserò a me», spesso ripetuto alle amiche. Si dice in­fatti che la sua lettera pubblica del gennaio 2007 avrebbe dato il via a una sorta di «lodo» (smenti­to dall’avvocato del premier, Nic­colò Ghedini) che prevedereb­be, in caso di separazione, una diversa e più cospicua sistema­zione patrimoniale per Veronica Lario. Fin qui le ipotesi. Resta il ge­sto di grande rottura scelto dalla signora Berlusconi.
Rispetto al quale sono arrivati, naturalmen­te, apprezzamenti da sinistra. Ad esempio quello di Giovanna Me­landri. Ma il «popolo» azzurro ha gradito davvero poco.
Ieri, in­fatti, il sito del Pdl è stato bom­bardato con email d’ira e di pro­testa. Il bersaglio, si capisce, era lei, Veronica. Il capo d’imputazio­ne: ha danneggiato l’immagine del premier. E così c’è chi, come Andrea, scrive: «Caro Presiden­te, dica a sua moglie di compor­tarsi da vera first lady e di accom­pagnarLa nei suoi viaggi istitu­zionali come fanno le altre. Altro che comunicati indignati».

Angela Frenda
30 aprile 2009

  da corriere.it


Titolo: Silvio e Veronica, tutto iniziò nel camerino
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 05:27:59 pm
Il primo incontro nel 1980. La vita pubblica del Cav, quella monastica della «signora»

Silvio e Veronica, tutto iniziò nel camerino

Trent'anni di vita, dal primo incontro dietro le quinte del Teatro Manzoni alla crisi coniugale a mezzo stampa
 
 
MILANO - Diceva Veronica il 21 luglio 2008: «Da anni leggo notizie che riguardano il mio prossimo divorzio. Per quel che ne so io, non è nei miei piani». Aggiungeva Silvio, un paio di settimane dopo, il 5 agosto: «Non si può fare pace se non c'è stata guerra». E' un po' come una gravidanza che si cerca di tenere nascosta, anche se a un certo punto il pancione non passa inosservato. E a distanza di nove mesi, i primi vagiti annunciano quello che ormai era noto a molti: la «signora» ha annunciato di voler dare un taglio alla vita a due con il presidente del Consiglio.

L'INCONTRO NEL CAMERINO - Si è detto e si è scritto molto della lunga storia di Silvio e Veronica. Una storia più che trentennale, iniziata nel 1980, quando lui era un imprenditore di successo sulla scena milanese (ma ancora lontano dall'impegno politico in prima persona) e lei un'attrice impegnata perlopiù in pieces teatrali. Ed è proprio sotto le luci della ribalta, o meglio dietro le quinte, che è scoccata la scintilla. Le vite di Veronica Lario (al secolo Miriam Bartolini) e di Silvio Berlusconi si sono incrociate per la prima volta in un camerino del Teatro Manzoni di Milano - di cui il Cav. era diventato proprietario - alla fine di una sua interpretazione senza veli ne «Il magnifico cornuto» di Fernand Crommelynck, con la compagnia di Enrico Maria Salerno. Ne nacque una relazione in «clandestinità», in quanto a quel tempo Berlusconi era ancora unito in matrimonio con Carla Dall'Oglio, madre di Marina e Piersilvio. I due si sono poi sposati nel dicembre del 1990, quando avevano già tre figli. Nel 1990 le nozze, celebrate quasi in segreto, con ricevimento a Palazzo Rovati, sede della Fininvest.

DA ARCORE A MACHERIO - Veronica ha sempre tenuto un basso profilo, evitando di apparire in pubblico al fianco del marito. Poche le occasioni in cui ciò è avvenuto, come ad esempio in occasione della visita di Bill e Hillary Clinton a Roma nel 1994, con Berlusconi fresco della sua prima vittoria elettorale e relativa ascesa a Palazzo Chigi; o, dieci anni più tardi, durante il passaggio nella capitale di George W. e Laura Bush. Il 26 gennaio di quello stesso anno, quando il Cavaliere annuncià la «discesa in campo», in un' intervista a Paris Match la Lario dichiarava di trovarlo «irresistibile». «Nessuna parola - aveva aggiunto - lo descriverebbe meglio». Lei, però, non ha mai manifestato grande entusiasmo per le apparizioni in pubblico al fianco del marito, preferendo dedicarsi alla crescita dei figli nella riservatezza di Villa Belvedere, la residenza di Macherio diventata la nuova casa dei Berlusconi, dopo che villa San Martino ad Arcore, a cui è invece legata l'adolescenza dei figli di primo letto Marina e Piersilvio, è stata trasformata nella sede di rappresentanza del Cavaliere, soprattutto per le questioni legate alla politica. Le due ville distano tra loro pochi chilometri in linea d'aria, ma sono un po' il paradigma delle due vite dei coniugi Berlusconi. Il leader del Pdl non aveva mai espresso particolare disagio nel presentarsi da solo agli appuntamenti istituzionali internazionali, diversamente dagli altri capi di Stato e di governo, quasi sempre accompagnati dalle rispettive first lady. «Apprezzo e molto la sua riservatezza» diceva Berlusconi ai cronisti che gli facevano notare la posizione defilata di Veronica Lario.

CARFAGNA E DINTORNI - Le difficoltà coniugali della coppia sono diventate pubbliche soprattutto negli ultimi anni e, in particolare, dopo gli apprezzamenti pubblici a Mara Carfagna nel gennaio 2007, quando il leader di Forza Italia si rivolse all'allora neodeputata ancora ignara del fatto che sarebbe diventata ministro dicendole: «Se non fossi già sposato, la sposerei subito». Ne era seguita la famosa lettera aperta con cui Veronica aveva chiesto pubbliche scuse al marito, intimandogli di fatto di smetterla con le umiliazioni pubbliche al suo ruolo di moglie e di madre. Berlusconi era stato allora costretto a delle scuse altrettanto pubbliche: «Custodisco la tua dignità come bene prezioso. La battuta spensierata, il riferimento galante, la bagattella di un momento». Era stato però, quello, un punto fermo. «Un ultimatum» lo definisce Maria Latella, direttrice di «A» e autrice di «Tendenza Veronica», la biografica di Veronica Lario.

L'HAREM E LE BARZELLETTE - Ma a quell'ultimatum il Cavaliere non ha dato seguito. Già pochi mesi dopo, nel luglio 2007, la pubblicazione su Oggi delle foto che ritraevano Berlusconi mano nella mano con cinque giovani attiviste di Forza Italia (titolo del servizio: «L'harem di Silvio»), tra cui l'ex «rossa» del Grande Fratello Angela Sozio di cui si era paventata la possibile candidatura anche alle prossime Europee, aveva creato nuovi malumori. Che però lo stesso Cavaliere aveva minimizzato raccontando una barzelletta in pubblico: «Amore, erano cinque ragazze, ma ho fatto la corte solo a quattro di loro...". La sua risposta? E’ andata in camera a fare le valigie. Allora io le ho chiesto: "Torni da tua madre?". "No, sono le tue valigie..."». Non era la prima volta che il Cavaliere faceva la consorte oggetto di una battuta pubblica. Tra le più note, quella con cui nel 2002 si rivolse all'allora premier danese Rasmussen: «Lei è il primo ministro più bello dell'Europa. Penso di presentarlo a mia moglie perchè è anche più bello di Cacciari (a cui il gossip attribuiva un flirt con la first lady, nda). Con tutto quello che si dice in giro... Povera donna...».

NOEMI E L'ULTIMO AFFRONTO - Poi si arriva alle ultime settimane. La notizia di veline e donne di spettacolo probabili candidate nelle liste del centrodestra alle prossime europee, la replica di Veronica che parla di «ciarpame», la notizia della partecipazione alla festa per i 18anni di Noemi, una ragazza napoletana che sarebbe solita rivolgersi a Berlusconi chiamandolo «papi». E' stata probabilmente questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso, quell'affronto di troppo che ha spinto Veronica a dire basta e a mettere tutto nelle mani di un avvocato.

Alessandro Sala
03 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Veronica Lario: «Che futuro ha un Paese che cerca soldi facili in televisione?»
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2009, 04:53:13 pm
La rottura

«L'ho aiutato fino all'ultimo ma ora ha superato i limiti»

Veronica Lario: «Che futuro ha un Paese che cerca soldi facili in televisione?»


Chissà quanti ricordi riaffiorano, in queste ore, nella mente di Veronica Ber­lusconi. I più dolorosi, forse, non sono ancora ricordi, ma delusioni recenti.
Leggere che suo marito era stato alla fe­sta di compleanno di tale Noemi, diciot­to anni appena compiuti, sarà stato un dolore o una delusione? Il patto siglato nel 2007 dopo la lettera inviata a Repub­blica è andato in frantumi in un mo­mento: la giovane Noemi che racconta «Lo chiamo papi, vado a trovarlo, a Ro­ma, a Milano» e Veronica che vede con­fermata quella «mancanza di rispetto» nei suoi confronti per la quale nel 2007 aveva chiesto pubbliche scuse. In con­fronto ai giorni del 2007, però, oggi c’è qualcosa di più. Sembra a Veronica che la mancanza di rispetto sia una questio­ne più generale, che questo Paese man­chi di rispetto anche nei confronti di se stesso. Alle amiche racconta che l'Italia del momento è uno specchio che riflet­te brutte cose: genitori pronti a chiude­re tutti e due gli occhi purché la figlia diventi una Velina, ragazzi convinti che la vita valga solo se partecipi al Grande Fratello.

La decisione è stata presa mercoledì mattina. E ora è il momento dei ricordi che fanno male. Gli altri, quelli belli, fin quando si sta insieme contano relativa­mente. Solo mentre ci si separa struggo­no e distruggono anche le più coriacee: provi a cacciarli indietro, scopri che ci riesci, sì, ma solo se non freni le lacri­me. Un paio di ricordi felici me li aveva raccontati proprio lei, Veronica, mentre lavoravamo al libro.

Quando, nei primi anni Ottanta, lui la portava al mare di domenica e insie­me canticchiavano quella canzone che le piaceva tanto: «Che domenica bestia­le, la domenica con teeee». La nascita di Barbara, figlia fortemente voluta dopo il dolore di un aborto terapeutico. La co­perta di lana che Silvio le portò a Roma (erano ancora molto meno che fidanza­ti) perché al telefono lei gli aveva confi­dato di aver freddo. Il travestimento da berbero, a Marrakesh, tre anni fa, quan­do erano già una coppia distante e cio­nonostante lui riuscì a sorprenderla e a farla piangere perfino, presentandosi inatteso alla festa per i suoi 50 anni. I ricordi felici, le emozioni affiorano sem­pre nei giorni in cui si sancisce la fine di una storia. Chi ci è passato lo sa. Gli altri, quelli abituati a valutare l'annun­cio di un divorzio col metro degli avvo­cati e delle star di Hollywood, cinica­mente se ne fregano. Chi si appassiona al pettegolezzo si impegnerà ora nel so­lito conteggio del dare e dell'avere, gua­dagni e perdite nel divorzio dell'anno, quanto «ci perde lei», «quanto guada­gna lui» e vai con la valutazione dell'ef­fetto sondaggi, impegnati tutti nell'at­tribuire al premier un consenso al qua­le nessuno arriva, neppure Obama.

Trattandosi di ricchi e famosi, natu­ralmente, nessuno crede e nessuno cre­derà che i due protagonisti di questa storia soffrano, almeno un po’ e ciascu­no in proporzione alla vita che si è scel­to: Silvio Berlusconi potrà, in questo momento, consolarsi con l’ammirazio­ne che milioni di italiani, il 76% della popolazione sondata (addirittura), gli tributano. Una consolazione (lo sanno bene le star di Hollywood) capace di al­leggerire le tensioni, se non il dolore. Veronica, da oggi ufficialmente ex first lady, potrà consolarsi sapendo che i tre figli, ai quali ha dedicato i primi 52 anni della sua vita, non le rimproverano né la decisione né il modo in cui l’ha gesti­ta.

Sono con lei, i tre figli, a patto che il padre venga rispettato quanto la ma­dre, in tutta questa storia. Luigi, Barba­ra ed Eleonora hanno con lui un legame vero perciò quando Berlusconi dice «i miei figli mi amano» dice la verità. «E io di questo sono contenta, ho contribu­ito a costruire il loro rapporto e l’ultima cosa che vorrei fare è danneggiare mio marito — ha ripetuto Veronica ai pochi che, oltre al suo avvocato, hanno potu­to parlarle —. Non l’ho mai danneggia­to per trent’anni, ho solo cercato di aiu­tarlo, fino all’ultimo. Se i sondaggi so­no oggi tutti per lui questo non può che farmi piacere. Nessuno potrà dire che con la mia decisione politicamente gli creo un problema. La smetteranno, for­se, con la scemenza di Veronica mano­vrata dalla sinistra». Come se fosse facile, poi, manovrare una come lei.

E il resto, quel che interessa ai pette­goli? Si arrangino con le leggende, così come si sono arrangiati in questi anni. Quelli che non vedono oltre il dollaro e l’euro (e perciò ripetono, come in un di­sco rotto, «divorzia per la robba, per l’eredità»), non sanno che, separando­si, probabilmente Veronica Berlusconi rinuncerà a quel 25% del patrimonio che, in quanto moglie, le sarebbe spetta­to alla morte del marito. Del resto, es­sendo sposata con uno destinato all’im­mortalità, la rinuncia si presenta tutto sommato teorica.

In ogni caso, nel raccontare la storia di quei due, Silvio e Veronica bisognerà piuttosto ricordare che la separazione sarà anche per loro un vero dolore, per dirla con Battisti. Basta riavvolgere il film dei ricordi, per stare male. Chi ci è passato lo sa. Sa che quelle sensazioni dolorose sbiadiranno, pian piano, ma mai del tutto. Ripensando al giorno del­l’addio, anche vent’anni dopo, può capi­tare di aver voglia di piangere.

E allora eccola, la nostra prima cop­pia d’Italia che così di rado abbiamo vi­sto in coppia. Per l’ultima volta insie­me, nel ricordo di lui («Quando l’ho vi­sta la prima volta, a teatro, sono rima­sto senza parole. Era bellissima») e nei ricordi di lei: «La prima volta l’ho incon­trato a Milano, a una cena. Era il padro­ne di casa e con le sue ospiti si compor­tava come se fosse single, invece aveva moglie e due bambini. Sono sicura di averlo conosciuto in quell’occasione, ma lui nega, non se lo ricorda» mi rac­contò Veronica all’epoca in cui racco­glievo materiale per il libro. Chi, anche di recente, aveva avuto occasione di ve­derli insieme, non poteva non ricono­scere in quei due il rapporto di chi si conosce fino in fondo all’anima. Pun­zecchiature reciproche ma, si sarebbe detto, in fondo affettuose. Tra coniugi che sanno, volendo, dove andare a para­re. Ogni tanto, si chiamavano amore.

«Da quando è nato Alessandro, an­che mia moglie mi vuole più bene» rac­contava il premier radioso per la ritro­vata pace familiare. L'estate scorsa, pur di farla sorridere una sera in cui era un po' giù, le aveva perfino offerto il sacri­ficio supremo, la rinuncia al prediletto ferragosto a Villa Certosa, la sua Disney­land: «Resta tu in Sardegna con Alessan­dro, vado via, vado ad Antigua». A dirlo così, sembra la battuta di un film di Na­tale, Christian De Sica e Neri Parenti, ma chi conosce Berlusconi sa quanto tenga al suo Ferragosto coi fuochi d'arti­ficio, le ballerine, l'amato chitarrista na­poletano.

Fino a poche settimane fa, insomma, la coppia sembrava avviata verso una sia pur turbolenta sopportazione. Saba­to scorso, per dire, Veronica era stata in­vitata dal marito al concerto di Napoli, al teatro San Carlo. E ci sarebbe andata. E adesso? Adesso, lascia filtrare Vero­nica, il problema non è più suo. Il pro­blema è di chi accetta. «Bisogna spec­chiarci in questo Paese, vederlo per quello che è in realtà. Un Paese nel qua­le le madri offrono le figlie minorenni in cambio di un'illusoria notorietà. Un Paese in cui nessuno vuole più fare sa­crifici perché tanto la fama, i soldi, la fortuna arrivano con la tv, col Grande Fratello. Che futuro si prepara per un Paese così?». Veronica in quello specchio non ci si trova. E vuole avere la libertà di dirlo

Maria Latella
04 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: E Veronica: mi sento come un soldatino assediato dagli eserciti
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:15:54 am
Dietro le quinte

E Veronica: mi sento come un soldatino assediato dagli eserciti

«Sto difendendo la mia dignità di donna e quella dei miei figli»
 

MILANO — «E adesso come mi sento? Come un povero soldatino oramai assediato dagli eserciti nemici». Ufficializzata la richiesta di divorzio, condita da una serie di critiche rivolte al marito, in questi giorni finalmente primaverili Veronica Lario se ne sta rintanata nella sua villa di Macherio a guardare la tempesta mediatica e politica che hanno scatenato le sue parole.

Certo, l'ha fatta soffrire il fatto che tra le fila di quegli eserciti abbia scorto anche volti un tempo amici. Attacchi che le hanno dato il senso della battaglia che si sta preparando: senza limiti e senza regole. Ma se la ride, all'ipotesi lanciata da Berlusconi che dietro il suo gesto si nasconda «un sobillatore». Idea che fa sorridere anche le sue amiche più care: «Veronica sobillata? Chi la conosce bene sa che sarebbe impossibile. Ha una testa durissima, a volte ai limiti della cocciutaggine». E per ora lei sceglie, come è naturale, di non commentare ufficialmente. Né le dichiarazioni del marito né quelle di altri. Un aspetto, però, Veronica Lario ci tiene a chiarirlo per bene: «In questa storia vorrei che tutti capissero, se non l'hanno ancora fatto, che sto soltanto difendendo la mia dignità di donna. Che è stata profondamente offesa. E, con me, sto difendendo anche quella dei miei figli».

Già, i figli. Luigi, Eleonora e Barbara di commentare non hanno alcuna intenzione. Lo hanno detto più e più volte. Il piccolo di casa in queste ore è a Lourdes con i cavalieri dell'Ordine di Malta. La secondogenita è a New York, dove studia all'università. La maggiore, Barbara, invece è rimasta a Macherio, anche perché è al settimo mese di gravidanza. Tutti e tre, però, in questi giorni ostentano grande serenità. Certo, la decisione della madre per loro non è stata una bella notizia. Al padre, come vanno ripetendo a tutti da giorni, loro vogliono un gran bene. E se anche gli rimproverano atteggiamenti e comportamenti spesso sopra le righe, non per questo vogliono rinunciare al suo affetto. «I miei figli mi amano tantissimo», ha ribadito quasi difendendosi Silvio Berlusconi in questi giorni. Per poi aggiungere: «Veronica me li vuole mettere contro». La replica della moglie non si è fatta attendere: «Non è così. Se gli vogliono bene ne sono contenta, ho contribuito io a costruire il loro rapporto e l'ultima cosa che vorrei fare è danneggiare mio marito».

Ma per ora, almeno ufficialmente, i tre ragazzi Berlusconi non hanno intenzione di schierarsi con nessuno dei due genitori. Lasciano alla sfera privata eventuali sentimenti di disapprovazione o di rabbia. In queste ore è sempre e solo Veronica ad esporsi. Alle amiche ha spiegato, ancora una volta, i motivi che si nascondono dietro la sua scelta, primo fra tutti la storia di Noemi, la diciottenne di Napoli: «È la prova che lui non è cambiato. Me l'aveva promesso ma non è stato così. Anzi, è peggiorato. Sono dieci anni che sopporto tutto questo. Ora la misura è colma. Non provasse a convincermi di ripensarci. Non torno più indietro».

Angela Frenda
05 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Se la gelosia fa bene all'assassino
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:25:20 am
5/5/2009
 
Se la gelosia fa bene all'assassino
 
GIOVANNA ZUCCONI
 
Per vincere lo sgomento, e per restituire alle parole il loro valore, ogni tanto dovremmo tutti immaginare il mondo alla rovescia. Nel mondo capovolto, la storia sarebbe questa: a Milano, una ragazza (femmina) uccide il fidanzato (maschio) a coltellate, dopo averlo ripetutamente minacciato di morte se l’avesse visto con altre. La Suprema Corte di Cassazione, che com’è noto è formata da fanciulle, conferma la correttezza della sentenza d’appello che l’ha condannata a 14 anni di reclusione: sostenendo che la gelosia non è un’aggravante «per futili motivi», e anzi «per la coscienza collettiva non costituisce una ragione inapprezzabile di pulsioni illecite».

Per la coscienza collettiva, quella di noi tutti e di noi tutte, dunque, una donna consideri pure il suo uomo cosa propria: la gelosia non è un pretesto ma un movente sostanzioso e riconosciuto, dunque niente aggravante «per futili motivi» perché, citiamo ancora, questi si determinano quando il delitto è causato da uno «stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire per la generalità delle persone assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa, tanto da poter considerarsi più che una causa determinante l’evento un pretesto per dare sfogo all’impulso criminale». Mentre invece la gelosia dell’assassina «non è stata tale da caratterizzare un soverchiamento fine a se stesso, pretestuoso e abnorme, della altrui personalità». Infatti, sempre nel mondo alla rovescia, la passionale ragazza non ha soverchiato: ha ucciso. Ma si sa, la donna è donna, la possessività non è un’aggravante, pena confermata a 14 anni e non innalzata a 30.

Ovviamente nel mondo in cui viviamo, questo, questa nostra Italia che ha abolito le attenuanti per delitto d’onore neanche trent’anni fa, i ruoli sono capovolti. L’assassino è un uomo che nel 2006, a Milano, ha ucciso la moglie con un coltello da cucina, dopo l’ennesima scenata. Per il procuratore che ha ricorso contro la condanna troppo lieve, il «desiderio anomalo di possesso» e le prolungate molestie e persecuzioni sono un’aggravante. Per la Suprema Corte, che ha cassato il suo ricorso, no. Possiamo inebriarci per le sottigliezze linguistiche e per la nitidezza giuridica, ma al nostro sguardo forse profano ma certamente addolorato, sembra di capire questo: si dà per scontato, trent’anni dopo l’abolizione del mostruoso delitto d’onore, che il sentimento maschile del possesso sia un movente «naturale» della violenza contro le donne. Tant’è vero che la stessa storia, a sessi rovesciati, appare poco verosimile, neppure raccontabile.

Che cosa sta succedendo ai sentimenti, e alla narrazione pubblica dei sentimenti? Che cosa sta succedendo, fra uomini e donne? Ci si scanna tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, nelle arene televisive o nei tribunali, in un eclatante divorzio fra ricconi o con un coltellaccio da cucina. Violenza. Verbale, stilistica, fisica. Può darsi che la storia proceda a ondate, e che dopo gli anni del femminismo ora ci tocchi questo evo di Restaurazione, di virilità esibita, di veliname, di rigurgiti del vecchio gallismo, di tautologie stantie (l’uomo è uomo), di sciupafemmine vanagloriosi e di gelosia maschile accettabile «per la coscienza collettiva». Passerà. Non può che passare. Nel frattempo, che quei signori per cortesia rammentino che l’altra faccia del gallismo è sempre stata la retorica cortese e paternalistica, «una donna non si tocca neanche con un fiore» eccetera. Ecco: nel frattempo, per piacere, non toccateci. Soprattutto con un coltello.
 
da lastampa.it


Titolo: Claudia Mori: "Capisco Veronica È una donna offesa"
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2009, 04:43:00 pm
9/5/2009 (9:15)

Claudia Mori: "Capisco Veronica  È una donna offesa"
 
“Berlusconi non può sostenere che è un fatto privato. Io in Mondo Beat torno a incidere i successi Anni 70”

MARINELLA VENEGONI
MILANO


Una voce moderna, giovane ancora oggi, sexy. Inconfondibile. Un repertorio che appartiene al passato, che oggi ritorna in Claudia Mori collection, insieme con un Dvd famigliare che fa risplendere la sua bellezza di invidiatissima moglie di Celentano: riprese private al mare, sorrisi sulla battigia con i tre bimbi, Adriano papà un po’ maldestro. Ma le canzoni, ah le canzoni. Celeberrime come Non succederà più e Chi non lavora non fa l’amore, cantate con il marito, sono quasi tutte «B Songs», a partire da un cult del kitsch, Buonasera Dottore del ’74, musica di Shel Shapiro, dove lei cinguetta maliziosa al telefono con la voce charmante di un doppiatore rimasto sconosciuto.

Ci ritorna cantante, cara Claudia...
«Sony me lo ha chiesto l’anno scorso. Ho nicchiato... e non ci sarà seguito. Però erano canzoni su 45 giri, un mondo un po’ beat. Quei filmati poi, 15 minuti della nostra storia da ragazzi...».

Ora fa altro: produttrice tv, direttrice dei lavori artistici di Adriano...
«Ogni fiore ha la sua stagione. Fra una settimana cominciamo a girare C’era una volta la città dei matti, sulla legge Basaglia, con Vittoria Puccini e Fabrizio Gifuni che impersona proprio Basaglia, per Raiuno. A fine anno toccherà alla vita di Caruso, una storia bellissima. Ho scelto io il problema della 180: fu doveroso chiudere i lager, ma Basaglia aveva dato indicazioni precise, e rimasero a metà. Ora non ci sono strutture adatte, il problema resta alle famiglie. La Puccini impersona una giovane internata pur non essendo matta... sono storie vere».

«Buonasera Dottore» è un must delle B-Songs, ma sono tutte canzoni di tradimenti. E lei è così fedele...
«Ma avevo già idee abbastanza chiare: gli uomini sono bugiardi e poco fedeli. La conclusione è che lei non ci sta: i testi sono modernissimi».

Siamo al centro di un divorzio istituzionale...
«Veronica Lario è una donna intelligente, per bene, sensibile. E’ difficile pensare che sia stata condizionata da qualche giornale, forse ha sentito l’esigenza - e io la capisco - di difendere la propria dignità per quelle che lei ritiene offese e ha sentito di non poter più tollerare. Sono scelte forti, mi sembra una di alto profilo. Come si fa a dire che è un fatto privato? Di privato, nel Presidente del Consiglio, non c’è nulla: come può chiedere a lei di esser privata?».

Ci sarà un concerto di donne cantanti per l’Abruzzo. Ci andrà?
«Mi hanno invitata, ho detto di no perché non sono una cantante: anche se mi capita di cantare, fischio molto e so fare i fischi da pecorara. Penso che ognuno deve scegliere la forma del dare, io e Adriano facciamo cose più private».

Abbiamo letto che Adriano si è arrabbiato per un canzone di Mogol ispirata a lui, dove gli dice di uscire di casa...
«Due amici possono anche arrabbiarsi, ma non vuol dire chiudere: almeno da parte nostra non è stato così. Adriano non si è arrabbiato: solo, non trovava ironico il testo. Non è stato un litigio, ma una divergenza».

A quando il prossimo disco di Adriano?
«Nel 2010. E’ una cosa molto diversa, strana, particolare. Senza Mogol: è una scelta artistica, e spezzare fa bene».

da lastampa.it


Titolo: Gemma Calabresi e Licia Pinelli "Finalmente ci guardiamo negli occhi"
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2009, 04:45:04 pm
La vedova del commissario racconta il colloquio con la vedova dell'anarchico "Le ho detto 'è assurdo che non sia avvenuto prima'.

Mi ha risposto 'Fingiamo che non siano passati tanti anni'

Gemma Calabresi e Licia Pinelli "Finalmente ci guardiamo negli occhi"

 

ROMA - "Finalmente, dopo 40 anni, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi. Finalmente due famiglie si ritrovano". Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, si china sorridente verso Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, seduta in seconda fila, nel salone dei Corazzieri al Quirinale, pochi istanti prima che inizino le celebrazioni del Giorno della memoria per le vittime del terrorismo e delle strago. Licia Pinelli non si alza, vista anche l'avanzata età, ma ricambia il sorriso e risponde: "Fingiamo che non siano passati tutti questi anni".

E' stata una giornata "intesa e ricca di emozioni - riferisce la signora Calabresi, accompagnata dal figlio Mario al Quirinale - quella che si è appena conclusa". Terminata la cerimonia le due donne sono state ricevute dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

"E' assurdo che questo incontro non sia avvenuto prima", fa notare la vedova del commissario ucciso in un agguato nel '72, dopo che una campagna di stampa lo rappresentò ingiustamente come responsabile della morte di Pinelli. Considerazione, questa, pienamente condivisa dalla vedova del ferroviere anarchico, ingiustamente sospettato della strage di Piazza Fontana e che morì dopo un volo dalla finestra della questura di Milano nel '69. "Anche io l'ho pensato molte volte", dice la signora Pinelli mentre la figlia, Claudia, tende la mano alla signora Calabresi.

"Se torno indietro negli anni - riflette Gemma Calabresi, al termine della cerimonia mi rendo conto che le nostre due famiglie sono state divise. Siamo stati tutti un po' vittime della stagione dell'odio e del terrorismo, come ha detto oggi il presidente Napolitano. Ora non è più tempo di recriminazioni ma della memoria, che deve essere sgombra da sentimenti di rancore. A separare le due famiglie ci hanno pensato anche i mass-media e coloro che hanno voluto vedere contrapposti i Calabresi e i Pinelli. Chissà, a volte l'uomo è schiavo di certi preconcetti e forse questo falso pudore del mondo che ci guarda ci ha portate a non incontrarci prima".

"Questa giornata è stata un un dono di Dio, per chi come me è credente. Il presidente Napolitano - conclude Gemma Calabresi - ci ha dato una grande opportunità, e gliene siamo riconoscenti". Quando il prossimo incontro con la vedova Pinelli? "Mi ha invitata a casa. Ci siamo lasciate dicendoci 'a presto'".

(9 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Aung San Suu Kyi, non smettiamo di difenderla
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2009, 05:38:56 pm
L'APPELLO

Aung San Suu Kyi, non smettiamo di difenderla


È iniziato a Rangoon, a porte rigidamente serrate — esclusi dunque giornalisti, diplomatici stranieri e pubblico — il processo ad Aung San Suu Kyi, 63 anni, tredici dei quali (nell’arco di 19) passati agli arresti domiciliari. Arresti che, beffa estrema, dovevano concludersi alla fine della settimana prossima. L’icona della resistenza contro il regime dei generali birmani ne rischia ora altri cinque di carcere per avere accolto e rifocillato il mormone americano, John William Yettaw, che il 6 maggio aveva attraversato a nuoto un lago per raggiungerla nella sua abitazione.

E c’è da scommettere che quest’ultimo, a sua volta sotto processo in un giudizio separato, pur essendo in teoria il vero responsabile dell’accaduto, avrà una pena ben più mite, se l’avrà. Perché è americano ma, ancora di più, perché la spina nel fianco del regime è lei e l’occasione per incarcerarla di nuovo va, evidentemente, colta. Duecento oppositori del regime hanno manifestato ieri davanti al tribunale in favore di Aung San Suu Kyi—nome da scrivere per intero e non, come vuole il regime, abbreviato in Suu Kyi, per far dimenticare alla cittadinanza che è figlia di un eroe nazionale, il generale Aung San — ma si vorrebbe che si manifestasse per lei in tutto il mondo, uscendo da quella certa diffusa, rassegnata indifferenza con la quale è stata accolta la notizia del suo nuovo arresto.

Innumerevoli volte si è, in effetti, già scritto di lei e delle persecuzioni delle quali è stata vittima, al punto che l’opinione pubblica — fatta di noi tutti — pare ormai assuefatta e incapace di ribellarsi ancora, di protestare e di difenderla. Ed è probabile che proprio su questa assuefazione faccia conto, e ne approfitti, il regime dei generali per colpirla di nuovo, chissà, in modo definitivo, viste l’età e le non brillanti condizioni fisiche. Chiudere o socchiudere gli occhi, anche solo per stanchezza, su una giustizia così tragicamente ingiusta vorrebbe dire, si sa, condannare altri forse numerosi sconosciuti alle medesime iniquità. La nostra grande centenaria, Rita Levi Montalcini, ancora una volta ha dato prova di tenace vitalità chiedendo al governo birmano la liberazione di Aung San Suu Kyi. Nella speranza che la sua voce sia di esempio e traino per molte altre.

Isabella Bossi Fedrigotti

19 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Veronica, nessuna lagna conosci da anni lui e il suo reame ADESSO BATTITI...
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 06:20:12 pm
E alle amiche: visto? A quelle feste c’era una 17enne

La delusione di Veronica: «Quante voci malevole su di me»

La moglie del premier decisa sulla strada della «separazione consensuale»
 
 
MILANO — Troppe voci. Incontrol­late e malevole. È questo il nemico con­tro il quale Veronica Lario cerca di di­fendersi. Opponendo, per ora, solo la sua forza di donna offesa. Ai pochi che l’hanno vista negli ultimi giorni, la mo­glie di Silvio Berlusconi ha confessato di essere «stanca e addolorata» da una vicenda, quella del divorzio, che ha pre­so una piega difficile da fronteggiare. Fatta di «continue insinuazioni» volte a farla apparire come «una donna instabi­le, umorale, condizionata da suggerito­ri occulti». Indiscrezioni dolorose. Ac­compagnate da una certezza, quasi gri­data alle persone a lei più care: «Mi so­no messa contro uno degli uomini più potenti del mondo. Capite che sarà du­rissima?».

In ritiro nella sua villa di Macherio, Veronica Lario nelle ultime settimane ha evitato anche di partecipare all’abi­tuale colazione del venerdì con le ami­che del cuore, a casa di Floriana Menta­sti. Niente cinema della domenica. Niente cene fuori. In programma solo due tre giorni intorno al 7-8 giugno, sempre con le amiche, nella bellissima casa di campagna che la Mentasti ha a Lodi. In compenso da New York, marte­dì, è arrivata la secondogenita Eleono­ra. Mentre l’altra figlia, Barbara, al setti­mo mese di gravidanza, è tuttora a ripo­so per evitare complicazioni. È a loro che Veronica ha preferito dedicarsi. E al­l’adorato nipotino Alessandro. In un isolamento volontario, scelto forse per compensare l’altro isolamento da lei de­nunciato usando una metafora bellica: «Sono come un soldatino davanti agli eserciti schierati. Sono isolata, e so che non mi resta che combattere».

Le voci che circolano in questi gior­ni, e che la stanno ferendo, riguardano anche una possibile riconciliazione tra lei e Berlusconi: «Non sono vere — ha chiarito ad amici fidati —. Io e lui non abbiamo nemmeno parlato al telefo­no ». Sembra invece che il premier, due domeniche fa, sia andato di proposito a Macherio a prendere il figlio Luigi, per tentare di incontrare anche Veronica. Tentativo fallito. Come sarebbero anda­te a vuoto alcune sue telefonate. Per Ve­ronica non è più tempo di regali o pro­messe. Sempre a poche amiche ha riba­dito di voler «proseguire nella strada del divorzio» ma con giudizio, andando quindi «verso una separazione consen­suale ». Una scelta valutata assieme al suo avvocato di fiducia, Maria Cristina Morelli, consultato quotidianamente. Giovane, fuori dai salotti, riservata e te­nace, la Morelli rispecchia in pieno lo stile di Veronica Lario. Che l’ha voluta con determinazione, cestinando divor­zisti di grido segnalati dalle amiche.

Ma Veronica Lario è stata scossa an­che dalle notizie riportate dai giornali sui rapporti tra Berlusconi e Noemi Leti­zia. La ragazza di Portici che chiama il premier «papi» ha partecipato il 19 no­vembre scorso a una cena a Villa Mada­ma con gli imprenditori di Altagamma. In sala sarebbe entrata con Santo Versa­ce. E a chi ha chiesto chi fosse quella di­ciassettenne bionda, è stato risposto che «era lì con il premier». Noemi in­dossava un vestitino di lamé poco in­vernale. Tanto che a metà serata, infred­dolita, qualcuno le ha dovuto prestare una sciarpa di cachemire. Il 15 dicem­bre, invece, il giorno dopo il suo provi­no da meteorina con Emilio Fede, assie­me alla mamma Anna Palumbo era alla festa di Natale del Milan.

È alla luce di questi episodi che Vero­nica Lario ha spiegato alle amiche con rassegnazione: «Ciò che ho letto sulla Festa del Milan e sulla sua presenza, ve­stita di lamé, alla cena a Villa Madama, davanti a ministri e imprenditori, mi rafforza nelle mie convinzioni: quella ragazza, all’epoca, aveva 17 anni». E dunque ritorna il tema delle presunte frequentazioni del marito. «Non posso stare con un uomo che frequenta mino­renni », aveva scritto Veronica nella sua lettera pubblica. Ed è stata questa l’accu­sa che avrebbe fatto più infuriare il pre­mier.


Angela Frenda
22 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI. Bagarre, la colpa non è di Veronica
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 12:12:20 am
Giudizi

Bagarre, la colpa non è di Veronica

Avrà diritto una donna a non poterne più di suo marito, fosse anche l'uomo più straordinario?

di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI


Lettera agrodolce — a voler essere leggeri — quella di Melania Rizzoli a Veronica Berlusconi, pubblicata ieri in queste pagine. Prima di tutto perché nella dolcezza del tono ci tiene comunque a rammentarle che in giro ci sono — e sono state pubblicate — foto di lei in topless. E poi, dall'alto del suo status di medico, parlamentare oltreché descrittrice, di donna, insomma, professionalmente molto attiva, la accusa di restare sempre chiusa nella sua casa dorata: un'oziosa casalinga d'altri tempi, dunque, sebbene fino a ieri grande mente e da tutti apprezzata proprio per questa sua discrezione.

Ma la missiva è agra, perché individua in Veronica la causa del gossip nazionale e internazionale che si è scatenato intorno al nostro premier. Parla di ammiccamenti di carattere sessuale provocati da lei nelle stanze della politica e non soltanto lì, a causa dei quali le donne italiane sarebbero state rigettate indietro, ai tempi bui in cui «venivano considerate soltanto corpi da guardare e sesso da godere». A parte il fatto che una pur attraente signora ultra cinquantenne, così platealmente felicemente nonna da lasciarsi ormai fotografare solo con il nipotino in braccio, ben difficilmente riuscirebbe a strappare nel nostro paese un ammiccamento di tipo sessuale, è assai probabile che battute, lazzi, sguaiataggini siano, malauguratamente, dovute piuttosto alla presenza delle giovani, belle, ma non sempre referenziate signore di governo e di parlamento. Quanto all'incuriosita, irridente quando non incredula attenzione che all'estero si è accesa intorno all'Italia, stando almeno a quel che scrivono i giornali stranieri, sembra in verità dovuta più che a Veronica al premier stesso e ai suoi, chiamiamoli così, atteggiamenti anticonvenzionali.

Insomma, avrà diritto una donna a non poterne più di suo marito, fosse anche l'uomo più straordinario quale lo giudica la maggioranza degli italiani, senza per questo dover subire intromissioni e offese sia pure ripassate nello zucchero? Potrà voler divorziare per una qualunque ragione sua, sentimentale, economica o anche solo per continuata lesa dignità, senza dover chiedere scusa agli innumerevoli sostenitori e sostenitrici del marito? E a proposito di divorzio, come mai i legali di Veronica devono necessariamente essere definiti «famelici», quando Maria Cristina Morelli, l'avvocatessa che la difende, risulta essere una persona particolarmente equilibrata, oltreché di alto profilo professionale?


24 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Dacia MARAINI Ora dico: solidarietà a Veronica
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 11:04:25 am
Ora dico: solidarietà a Veronica


Cara Veronica,

questa lettera giace sul mio tavolo da settimane.

Mi tratteneva il riserbo di fronte a una persona riservata come lei. Ma quando ho letto che si sente sola e abbandonata ho pensato che era giusto comunicarle pubblicamente la mia solidarietà. Che le assicuro è la solidarietà di molti italiani, sicuramente più di quanti lei sospetta. La mia è una solidarietà impregnata di indignazione. Il linciaggio nei suoi riguardi, soprattutto dai giornali vicini a suo marito, è feroce, rancoroso e punitivo. Vorrei ricordare loro che la brutalità che usano, oltre a colpire lei, ferisce tutte le donne.

Perché denuncia una mentalità razzista, un atteggiamento culturale offensivo nei riguardi dell’altro sesso. Come a dire: tacete e state a casa.

Qualsiasi prepotenza o abuso denunciate certamente sarà per ragioni volgari: gelosia, invidia, paura di perdere potere e denaro.

Purtroppo non si tratta di una novità: sta montando di questi tempi una nuova misoginia, fatta di una falsa ammirazione per le bellezze femminili che nasconde aggressività e disprezzo.

Un virus insinuante che ha contagiato, oltre una quantità di settimanali e di giornali anche molto linguaggio della classe politica, e appare tutti i giorni, brillante e festosa, in tante trasmissioni che entrano nelle case italiane.

Come interpretare questa rabbiosa intolleranza verso il genere femminile? Forse le donne stanno diventando troppo brave: le migliori nelle università, le migliori nella pedagogia scolastica, le migliori in tante professioni. Questo certamente mette in discussione la supremazia culturale maschile che per molti deve rimanere alla base del rapporto fra i sessi. Altrimenti «botte», come strillano i prepotenti. Anche nel suo caso si sta ricorrendo alle «botte» mediatiche. Perché taccia.

Cosa conta la sua dignità, il suo pensiero, le sue preoccupazioni di fronte a un marito che, secondo lei, è caduto in preda a una erotomania senile?

Più i giorni passano e più risulta chiaro che le parole dure ma limpide da lei pronunciate non solo dichiarano il vero, ma rivelano solo una parte della gravità della situazione. Un uomo dalla grande responsabilità politica che si è esposto gridando e minacciando la propria moglie che lo redarguisce e gli chiede con fermezza il divorzio non è né dignitoso né onorevole. Qualcuno ha strillato al tradimento, qualcuno alla calunnia, qualcun altro al moralismo bigotto. Ma tutti sanno che un uomo che rappresenta una nazione non può comportarsi come un cittadino qualsiasi.

La sua condotta deve, non dico essere esemplare, tutti possono sbagliare, ma non può trascurare la trasparenza. Doppiezza e menzogna sono pericolosi per un governante, in quanto si prestano ai ricatti. I cittadini hanno il diritto di sapere se un loro governante sia in condizioni gravi di doppiezza e ricattabilità. Questo non significa fare del moralismo, come è stato scritto, ma credere in una tenuta pubblica che deve suscitare stima e fiducia.


Dacia Maraini

27 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Lisa Ginzburg Noemi, la politica e i media: un caso senza sentimenti
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 10:11:01 pm
Noemi, la politica e i media: un caso senza sentimenti
 
 
 
 di Lisa Ginzburg


ROMA (27 maggio) - Si consuma in questi giorni una vicenda piena di scandalo e pochezza, una storia che in modo sin troppo plateale mette in scena temi a tutti noti, argomenti per i più di una certa importanza – matrimonio, adulterio, confusione tra seduzione e potere, tra ambizione e simpatie, tra calcolo e istinti di mediocrissimo tenore e livello. Gli echi politici di questa piccolissima/enorme storia sono potenti, e non deve sorprendere che sia così: la politica è anche (sempre più) fatta di immagine, e l’immagine di irreprensibilità. Quale che sia il governo in carica.

Ma a guardarla con altri occhi, meno focalizzati sulla realtà del nostro paese di questo momento, ciò che pare incredibile del “caso Noemi” è che al centro dell’opinione pubblica praticamente di tutto il mondo vi siano personaggi e intrecci il cui comune denominatore è la totale assenza di sentimenti autentici. Da un lato una ragazzina, i suoi pressanti genitori, l’ex fidanzato, dall’altro un uomo ai vertici del potere e le esasperazioni risentite della sua consorte.

A chi possiamo credere? A nessuno. Ogni gesto, dichiarazione, ogni silenzio di ciascuno di questi attori non risuona di una sola eco neanche lontanamente vera. Eppure a questa piccolissima/enorme storia siamo costretti a pensare e ripensare, da giorni ormai. Indignati, nauseati o incuriositi: ciascuno a modo suo. Ma che tutto è lontanissimo dalla realtà della vita, per favore non perdiamolo di vista. O no?
 
da ilmessaggero.it


Titolo: "Finalmente una rivista per l'erotismo delle donne"
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2009, 04:40:19 pm
In Inghilterra esce "Filament", diretta da Suraya Singh

"Se vuoi eccitare una lettrice, devi chiederle prima cosa la eccita"

"Finalmente una rivista per l'erotismo delle donne"


dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI

 
LONDRA - Avviso ai lettori: se capitate da queste parti e, mentre fate un giretto tra Piccadilly Circus, Hyde Park e Chelsea, venite avvicinati da una giovane donna dai capelli rossi (tinti) che vi chiede se vi andrebbe di posare nudi per una nuova rivista erotica femminile, sappiate che non è uno scherzo. La donna dai capelli rossi si chiama Suraya Singh, nazionalità neozelandese, padre indiano, lei vive a Londra da sei anni. Faceva l'impiegata e, durante la pausa per il lunch, comprato un sandwich, sfogliava le riviste di quei negozietti in cui si vende di tutto, compresi i giornali. C'erano sempre un bel po' di mensili patinati rivolti a un pubblico maschile, con vari gradi di porno, dal soft all'hard. Niente di questo genere, invece, per un pubblico femminile.

A lei, una pubblicazione del genere, sarebbe piaciuto leggerla. Alle sue amiche, pure. Così un giorno si è licenziata dal lavoro e ha provato a trasformarsi in editrice/direttrice.

Il risultato arriva in edicola in questi giorni. Si chiama "Filament", che vuol dire filamento: conduttore che, riscaldato da corrente elettrica, emette la luce, oppure la parte sterile dello stame, la quale sorregge la parte fertile, secondo la definizione del dizionario. Quale che sia l'interpretazione che si dà al titolo (volendo, se ne possono immaginare anche altre), il sottotitolo spiega meglio di cosa si tratta: "erotica for the thinking woman", ovvero erotismo per donne col cervello. In copertina, c'è un giovane uomo di spalle, schiena nuda, inginocchiato come per pregare, davanti a una fonte di luce. Dentro, foto di modelli seminudi, racconti erotici, articoli eruditi su temi di interesse generale e anche un paio di ricette di cucina. Cadenza: trimestrale, per adesso.

La formula è già stata tentata, in Gran Bretagna e altrove, senza grande successo. Riviste come "Playgirl" e "For Women" cercavano di fare per le donne quello che "Playboy" e "Penthouse", con tutti i loro imitatori, fanno per gli uomini (o facevano: tutto il settore dell'erotismo soft maschile, e anche quello hard, è stato messo in crisi dalla rivalità di internet). Hanno chiuso quasi tutte.

In Inghilterra ne resiste una, "Scarlet", descritta nell'ambiente come "Cosmopolitan con più sesso", ma non è esattamente la stessa cosa. Secondo la editrice/direttrice di "Filament", la ragione dei fallimenti è che quelle pubblicazioni cercavano di offrire alle donne lo stesso tipo di erotismio offerto agli uomini. In genere, cioè, maschi muscolosi con il corpo cosparso di olio, tipo gli spogliarellisti culturisti di Chippendale. "Non funziona", spiega lei al quotidiano Independent, che l'ha intervistata. "Quelle riviste avevano più successo trai gay che fra le donne. Se vuoi eccitare una donna, devi prima chiederti cosa la eccita".

Lei lo ha fatto, passando mesi a organizzare forum sull'argomento via web. "Le risposte sono molto interessanti", dice. "Ogni donna naturalmente è diversa, e piacciono ogni tipo di cose differenti, ma il consenso è che ad eccitarle non è il maschio culturista alla Chippendale. E' un altro modello di uomo". Un incrocio fra Jude Law, Hugh Grant e Brad Pitt, pare di capire dalle immagini del suo trimestrale. Immagini in cui l'uomo, tuttavia, non è mai completamente nudo: mostra il lato B, ma non il lato A. Come mai?

"Avevamo anche le foto col lato A, ma non ci pareva che funzionassero, che rispecchiassero quello che cercavamo", dice Suraya Singh. "Non sempre per eccitare devi far vedere subito tutto. Ma in futuro avremo anche la nudità completa". A proposito: gli uomini ritratti senza veli su "Filament" sono stati tutti "presi dalla strada": fermati da Suraya, o dalle sue collaboratrici, che li giudicavano adatti allo scopo, e posti davanti al quesito di cui sopra, posereresti nudo per una rivista erotica femminile?

Non tutti concordano con la sua tesi. "Secondo me non c'è grande differenza tra ciò che eccita un uomo ed eccita una donna", afferma Rowan Pelling, ex-direttore della Erotic Review. "La differenza è tra buon erotismo e cattivo erotismo. Il buon erotismo eccita entrambi i sessi. Penso che sia difficile creare un tipo di erotismo specificatamente adatto a un pubblico femminile, ma tanti auguri alle mie colleghe". Alle lettrici, l'ardua - l'hard, verrebbe voglia di dire con una battuta - sentenza.

(28 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Samar Minallah «I talebani mi vogliono morta»
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2009, 09:11:37 am
Su Io Donna

«I talebani mi vogliono morta»

Samar Minallah paga per le immagini della 17enne flagellata dagli integralisti in Pakistan


dal nostro inviato  Lorenzo Cremonesi


ISLAMABAD - L’accusa è di quelle che non perdonano: offesa alla reputazione dei talebani e della popolazione nella vallata di Swat. E così è anche la condanna: morte per lei, Samar Minallah, e minacce altrettanto letali alla sua famiglia. «Ho paura, davvero tanta. Da quando un mese fa è scoppiato lo scandalo della ragazza di Swat frustata dai talebani non ho più pace. Per me è cambiato tutto. Temo per i miei due figli di 11 e 16 anni, temo per mio marito. I talebani hanno già annunciato di avere pronti alcuni attentatori suicidi per ucciderci appena possibile», ci dice per telefono dal suo nuovo nascondiglio.

Non è la prima volta che la 41enne Samar viene attaccata direttamente dai talebani. Nata a Peshawar da una nota famiglia pashtun, da oltre 20 anni dedica tutte le sue energie alla lotta per l’emancipazione femminile nelle «zone tribali» e nel Pakistan rurale. A questo fine ha fondato una sua organizzazione non governativa, la Ethnomedia. Un suo video qualche anno fa venne anche premiato alle Nazioni Unite per il coraggio con cui denunciava la tradizione di sposare le bambine agli anziani per dirimere le dispute tra clan rivali. E immancabilmente le piovvero contro le accuse di «tradimento» e di «essersi venduta ai nemici dell’Islam e del Pakistan». «Ma questa volta è grave, molto grave. Ne va della nostra vita», dice quasi mangiandosi le parole.

È la prima volta che Samar accetta di essere intervistata da un giornalista da quando, un mese fa, è fuggita in clandestinità. Il fatto è noto. Samar il primo di aprile scorso diffuse il filmato ripreso da un telefonino di un gruppo di talebani che nel villaggio di Matta, nel cuore della vallata di Swat oggi al centro dell’offensiva militare pakistana, flagellavano Chand Bibi, una diciassettenne sospettata di avere una relazione «illecita» con il suocero. Le immagini della giovane donna a terra, tenuta per le gambe e le braccia dai suoi aguzzini con il turbante scuro in testa fecero il giro del mondo. I maggiori commentatori pakistani sostengono unanimi che contribuirono a instillare nell’opinione pubblica nazionale questo nuovo e diffuso sentimento anti-talebano che sta al cuore della legittimazione dell’offensiva militare. «In un primo tempo gli stessi talebani dissero che quello era un’azione legittima, nel pieno rispetto della legge islamica. Poi però ritrattarono, dissero che il video era falso, si resero conto che giocava contro di loro, convinsero persino Chand Bibi a negare che il fatto fosse mai avvenuto. È allora che sono scattate le minacce», ricorda Samar.

E lei come si è difesa? «Non ho difese. Ho dovuto cambiare casa. Con la mia famiglia ci troviamo in gravissime difficoltà economiche. Temo per il mio bambino più grande che va a scuola. Muslim Khan, portavoce di Sufi Mohammad, uno dei leader di Swat, ha dichiarato anche alle televisioni locali, non ultima GeoTv diffusa in tutto il Paese, che io sono una vergogna per l’islam. E ho ricevuto tantissime telefonate minatorie, minacce di ogni tipo». Le autorità non la difendono? Dopo tutto è in corso una guerra aperta con i talebani di Swat. «Il ministro dell’informazione per le province delle zone tribali, Iftikhar Hussein, da Peshawar mi ha pubblicamente accusata di aver danneggiato l’accordo sull’applicazione della Sharia a Swat. Dal primo di aprile almeno tre attiviste di organizzazioni non governative pakistane che lavorano per i diritti delle donne sono state assassinate, altre nove sono minacciate».

E che ne è stato di Chand Bibi? «Non so. Sembra fosse stata punita perché rifiutava di sposare un militante talebano. Ma ora a Swat regna il caos. Chand Bibi potrebbe già essere morta». L’offensiva anti-talebana in corso potrebbe migliorare la situazione a Swat? «È troppo presto per dire. Io lo spero ardentemente. Ma anche in passato l’esercito ha compiuto operazioni simili, che sono finite nel nulla. C’è il rischio molto serio che tutto questo abbia effetti controproducenti e spinga addirittura nuovi giovani ad arruolarsi tra i ranghi talebani. Non sarebbe la prima volta».


30 maggio 2009

  da corriere.it


Titolo: La Santanchè rivela a Libero: «Veronica Lario ha un compagno»
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2009, 10:55:47 pm
la verità della leader del Movimento per l'Italia

La Santanchè rivela a Libero: «Veronica Lario ha un compagno»

«È il capo del servizio di sicurezza di Villa Macherio»
 

ROMA - «Il presidente non ha sfasciato nessuna famiglia, ma è Veronica Lario che da molto tempo ha un compagno». Il nome? Alberto Orlandi, 47 anni, capo del servizio di sicurezza di Villa Macherio. Lo afferma Daniela Santanchè in un'intervista a Libero. Secondo la leader del Movimento per l'Italia, Berlusconi «ha tentato di tutto per tenere ugualmente in piedi la famiglia. Ha rinunciato ad avere al fianco la sua donna, ha accettato che l'Italia non avesse una first lady, ha messo da parte il suo orgoglio di uomo.
Con la moglie ha fatto un patto: andiamo avanti, non sfasciamo tutto, ha pensato ai figli, ai nipotini. Insomma, ha fatto quello che pochi uomini, soprattutto nelle sue condizioni, avrebbero il coraggio di fare. Ha accettato ciò che pochi uomini accettano. Cosa gli sarebbe costato divorziare e rifarsi una famiglia, un amore? Il battito di un ciglio e la questione era risolta. E invece nulla».

CAMPAGNA MEDIATICA - La Santanchè spiega al quotidiano di Vittorio Feltri di essersi decisa a rendere nota questa circostanza per l'insistenza con la quale viene condotta la campagna mediatica contro il premier: «Ogni mattina apro i giornali e leggo di Berlusconi di qua e Berlusconi di là. E ogni mattina spero di trovare quella verità che io so e che ribalterebbe tutto, ogni giorno spero che il presidente abbia la forza di farlo, di dire. E invece niente. Il Paese poteva essere travolto da un finto scandalo, l'immagine internazionale sta per essere compromessa. Non è più accettabile, sopportabile. Sono certa che la misura è colma, che il gioco è truccato».


31 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: I. BOSSI FEDRIGOTTI. Veronica e l'antico vizio di chiudere le donne in Casa
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2009, 09:24:21 am
IDEE E OPINIONI

Veronica e l'antico vizio di chiudere le donne in Casa

Un uomo che si rifà una vita è meritevole, mentre se lo fa una donna viene marcata come malafem­mina


Notizia bomba. Titolo grande in prima pagina. Scoop. Vero­nica Lario, 52 anni, da una decina se non di più separata di fatto dal marito, figli adulti, un nipote e un altro in arri­vo, nessun incarico politico né istituzio­nale, ha (così scrivono) un compagno.

Finalmente la si può inchiodare alle sue responsabilità, finalmente tutta l’Ita­lia saprà di che stoffa è fatta la donna, rea del resto, da almeno due anni, di comportamenti assai sospetti. Inutile scrivere la parola che la definisce, per­ché, tanto, tutti la sanno.

Un giornale — lo stesso che l’indoma­ni della sua dichiarazione di voler chie­dere il divorzio ne ha pubblicato le foto in topless — è andato a fondo della tor­bida vicenda scoprendo anche l’identità dell’individuo in questione: il quaranta­settenne capo delle guardie del corpo di Veronica, che ha l’aggravante, dun­que, di essere, oltre che amante, anche di cinque anni più giovane di lei.

Dove viviamo e in quali anni? In un tempo e in un Paese, evidentemente, nei quali la moglie di un grande uomo, quando il matrimonio nella sostanza è finito da un pezzo, è comunque condan­nata a non divorziare e a starsene sola per sempre nel perenne ricordo di lui, a non guardare mai più altra persona con desiderio, a tornare vergine possibil­mente, a occuparsi, per quel che riguar­da gli affetti, soltanto di figli e nipoti e, se ci sono, degli anziani genitori. Non basta che viva nascosta, non basta che sia discretissima, non deve e non può innamorarsi o anche solo appoggiarsi di nuovo a qualcuno.

Siamo, dunque, ancora nell’orribile gioco dell’oca che continua a rimandar­ci alla partenza, per cui un uomo che si rifà una vita è una figura evidentemente meritevole di amore, mentre se la stes­sa cosa vuole fare una donna automati­camente viene marcata come malafem­mina?

Sarà Veronica la prima donna italia­na che vuole divorziare da un uomo, non solo perché non va più d’accordo con lui, non solo perché non condivide e non sopporta i suoi comportamenti pubblici e privati, ma anche perché (for­se) ne ha trovato un altro, forse meno famoso del primo, però, magari, per qualche ragione che non sappiamo, a lei più congeniale?

Dall’arcigna severità con cui viene ad­ditata al pubblico ludibrio si direbbe di sì.

Isabella Bossi Fedrigotti

01 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: L’uscita della Santanché.
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2009, 09:31:54 am
Caso Noemi I protagonisti

«Veronica ha un compagno» Ma il bodyguard: invenzioni

L’uscita della Santanché.

L’uomo nella scorta da 7 anni. Chi lo conosce lo descrive «serio e ri­servato».
 

MILANO — Sarebbe «il se­greto in grado di ribaltare tut­to ». Nel fuoco di gossip incro­ciato Berlusconi-Lario, irrom­pe Daniela Santanché. E sugge­risce di spostare l’obiettivo dal­la vita privata del premier al «giardino di Veronica». Moti­vo: «Ogni giorno spero che il Presidente abbia la forza di far­lo, di dire. Invece niente». E al­lora la Santanché si incarica di calare l’ultimo carico nella sa­ga familiare berlusconiana: «Veronica Lario da molto tem­po ha al fianco un suo compa­gno. Si chiama Alberto Orlan­di, ha 47 anni, è capo del servi­zio di sicurezza della villa di Macherio e con lei condivide progetti, interessi e vacanze».

La leader del Movimento per l’Italia affida il suo racconto a Libero, il quotidiano che nei giorni scorsi ha già definito «Veronica velina ingrata». L’af­fondo è in un commento del di­rettore, Vittorio Feltri, che del­la signora Lario dice: «Sorpren­de che, pur consapevole dei panni in cui sta, abbia avuto l’improntitudine di condanna­re al rogo il marito per un pec­cato commesso da lei medesi­ma ». Pare che il pettegolezzo sul­la liaison di Veronica circolas­se da tempo in certi ambienti. La pubblicazione ha ovviamen­te peggiorato il clima. Ieri, do­po l’intervista a Libero, c’è sta­ta una consultazione tra l’avvo­cato che assisterà Veronica nel divorzio, Maria Cristina Morel­li, e una sua collega patrimo­nialista. In serata il senatore Mario Mantovani (Pdl), molto vicino alla famiglia del pre­mier, ha spiegato: «Questa campagna di gossip non sta in­fluenzando i nostri sostenitori. In una famiglia possono esser­ci momenti difficili, ma forse la signora dovrebbe tener con­to che la mossa di usare i gior­nali per vicende private ti si può ritorcere contro». L’unico a intervenire dalla sponda del Pd è Pierluigi Bersani. Che at­tacca: «Se Veronica Lario vuole avviare le pratiche di divorzio, faccia lei. Noi chiediamo che si­ano gli italiani ad avviare le pratiche di separazione da Ber­lusconi ».

Ma chi è Alberto Orlandi, la guardia del corpo che fino a sa­bato ha lavorato nel completo anonimato? Di lui si sa che ieri si è dedicato al lavoro, come sempre negli ultimi anni. Le voci però, quelle di una sua re­lazione con Veronica, gli erano arrivate all’orecchio già da tem­po. E lui, in passato, ha sempre ripetuto la stessa cosa, di sen­tirsi «amareggiato e dispiaciu­to per quei pettegolezzi, per le maldicenze che qualcuno met­te in giro». Battute che ha sem­pre liquidato così: «Tutte robe inventate».

Chi lo conosce, parla di Or­landi come di un professioni­sta «particolarmente serio e ri­servato». Non potrebbe essere altrimenti, visto che da sette an­ni è il responsabile della sicu­rezza per la (ex) moglie di Ber­lusconi. È lui a guidare il grup­po di bodyguard che sorveglia 24 ore su 24 la villa di Mache­rio e segue ogni movimento di Veronica Lario. Che passi da Mi­lano per lo shopping, o che par­ta per Londra o New York, in­torno a Veronica c’è sempre lui: alto, massiccio, fisico atleti­co, capelli corti castani, pizzet­to appena accennato. Racconta­no che tra i due ci sia un rap­porto di totale fiducia, cresciu­to con gli anni. E fondato sulle qualità del caposcorta Orlandi: «Grande preparazione, massi­ma discrezione».

La sua carriera è iniziata in una piccola società, poi il pas­saggio nel «Consorzio servizi vigilanza», l’azienda della Fi­ninvest che cura la security di dirigenti e personalità del gruppo. Partito dalla posizione di autista, Orlandi ha via via as­sunto ruoli di maggiore re­sponsabilità, fino a quello di capo della sicurezza a Mache­rio. Ha una casa nelle vicinan­ze e un figlio, ma il suo lavoro lo tiene a contatto strettissimo e continuo con Veronica. I ser­vizi di protezione, seppur in maniera ridotta, sono infatti or­ganizzati come quelli del pre­mier: vigilanza senza pause, massima allerta all’esterno, ma assiduo controllo anche in casa. Dicono che da lì nasca la sua amarezza, per quel «pette­golezzo che lo colpisce nella sua professione».

Riccardo Rosa Gianni Santucci

01 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: India: è donna e "intoccabile" il nuovo presidente della Camera
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2009, 12:11:46 pm
India: è donna e "intoccabile" il nuovo presidente della Camera


di Evelina Marchesini

31 maggio 2009


Rivoluzione negli organismi di governo dell'India.

Per la prima volta una donna è stata scelta a presiedere la nuova Camera Bassa che si insedia domani. Meira Kumar, 64 anni, parlamentare del Congresso sarà infatti la "speaker" del Lok Sabha (Assemblea del popolo) che conta 543 deputati.

A volere la sua nomina, che sarà formalizzata nella sessione del 3 giugno, è stata Sonia Gandhi, la leader del Congresso, del partito di maggioranza che ha trionfato nelle elezioni di maggio-aprile. Di estrazione "dalit" (gli "intoccabili"), Kumar è originaria dello Stato settentrionale del Bihar e fa parte di una dinastia politica essendo la figlia di un ex vice primo ministro.

Ha una lunga esperienza come diplomatica (nelle ambasciate in Spagna, Regno Unito e Mauritius) e nel precedente governo come ministro per la giustizia sociale dove si era battuta, in particolare, per la promozione di matrimoni tra caste differenti. Era stata riconfermata venerdì scorso nella nuova compagine governativa di Manmohan Singh come ministro per le risorse idriche, incarico da cui dovrà dimettersi.

Non è la prima volta che Sonia Gandhi affida una delle massime cariche istituzionali a una donna. Nel 2007, un'altra "fedelissima" del Congresso, Pratibha Patil era stata scelta come presidente della Repubblica al posto dello scienziato nucleare mussulmano Abdul Kalam. Secondo Wikipedia, Meira Kumar è nata nel 1945 nel Patna e suo marito, Manjul Kumar, è un avvocato della Suprema corte indiana. La coppia ha tre figli, tutti e tre sposati. Viene definita una sportiva, ha collezionato medaglie nel tiro con il fucile ed è anche una poetessa.

31 maggio 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da ilsole24ore.com


Titolo: Santanchè: rivelazioni su Veronica sono una mia iniziativa.
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2009, 11:25:27 pm
Santanchè: rivelazioni su Veronica sono una mia iniziativa.

Storace: sono disgustato, Daniela come Mata Hari
 
 
ROMA (1° giugno) - «E' giusto che gli italiani sappiano finalmente la verità» ha detto Daniela Santanchè, intervistata da Telelombardia, confermando quanto dichiarato nei giorni scorsi a Libero, e cioè che Veronica Lario ha una relazione con il capo del servizio sicurezza di villa Macherio. «Non ho mai parlato con Silvio Berlusconi di questa vicenda - ha detto Santanchè nell'intervista che andrà in onda martedì - Non mi sono consultata con nessuno, meno che meno con Berlusconi. Ho agito da sola e di mia iniziativa».

Lara Comi (Pdl): sapevo della love story di Veronica. Lara Comi, candidata all'europarlamento con il Pdl, rispondendo ad una domanda sulla presunta love story della signora Lario, ha detto: «Confermo quanto raccontato al quotidiano Libero da Daniela Santanchè. Anch'io, da qualche tempo, sapevo della love story della signora Lario. Ma non voglio parlare di vicende che riguardano la vita privata delle persone. Comunque confermo. In molti sapevano».

La Russa: non commento la Santanchè, sinistra triste. «Per una volta non voglio buttare le croce sulla Santanchè, che è l'ultima sulla lista di coloro che scendono su argomenti extrapolitici, e quindi non commento - dice il ministro della Difesa, Ignazio La Russa - Quello che fa tristezza è che la sinistra è impegnata in questi argomenti. Quello che fa tristezza è che quando ero più giovane facevo politica anche dura contro la sinistra, ma sotto sotto sapevo che, anche con tesi sbagliate, aspirava a una società migliore. Oggi li vedo impegnati in una attività politica in cui i poveri, i diseredati neanche vengono presi in considerazione. Invece è più importante ciò che dice il fidanzato di Noemi. Alla sinistra non è bastata la risposta chiara, precisa e inequivocabile di Berlusconi all'unica domanda lecita: "Hai avuto qualcosa di cui vergognarti con una persona non maggiorenne?", "No". E allora fine, in qualunque Paese civile la questione sarebbe finita, a meno che non ci fossero prove diverse che non ci sono mai state».

Santolini (Udc): Santanchè chieda scusa. «L'onorevole Santanchè - dice Luisa Santolini, deputata dell'Udc - dovrebbe vergognarsi per le presunte rivelazioni che ha fatto su Veronica Lario e chiedere scusa ai tre figli più piccoli del presidente del Consiglio. Questa campagna elettorale è veramente barbara, ma che una donna, per mendicare qualche favore dal potente di turno, si presti ad un'operazione di scacallaggio simile è veramente mortificante per tutte le donne».

Storace: sono disgustato, Santanchè come Mata Hari. «Sono disgustato - dice Francesco Storace, segretario nazionale di "La Destra". E' impensabile leggere pagine e pagine dei giornali sulle vicende private del capo del governo. A tutto questo va aggiunto la storia che ha tirato fuori Daniela Santanchè su un presunto amante di Veronica Lario. La Santanchè voleva fare Evita Peron, ma si trasforma in Mata Hari. Non è bello quello che ha fatto. Ma ti pare che si tirano fuori storie disgustose, veramente disgustose e non si parla di lavoro?». 
 
da ilmessaggero.it


Titolo: Lara Comi: ho preso anche voti dei rossi
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:30:30 pm
L’esponente Pdl: confronto con le donne di sinistra

Lara Comi: ho preso anche voti dei rossi

Mai stata una velina, che fatica spiegarlo

«La mia campagna con il curriculum. Il sì alla Santanchè sul compagno di Veronica? Ho solo risposto con onestà»
 

La neoeurodeputata riceve i complimenti in corridoio, è appena tornata al lavoro dopo l'elezione, prima di spiccare il volo verso il Parlamento europeo con aspettativa dalla Giochi Preziosi dove lavora come brand manager, in quel di Cogliate, a due passi da Saronno. Passa e si rallegra con lei Leandro Consumi, il geniale inventore dei Gormiti, tormentone italico di tutti i bambini; un collega le stringe la mano e l'aiuta a cercare una saletta per l'intervista: «Vede, è un comunista, ma è mio amico!». Ma non è un po' antico chiamarlo così? «Certo, ma è lui che dice di esserlo!». Per Lara Comi, ventiseienne eletta per il Pdl con 63 mila 158 voti, la soddisfazione più grande è che fra quelle preferenze ce ne siano anche provenienti da sinistra: «Lo so perché dei miei amici mi hanno detto noi ti votiamo perché sei tu».

Il paradosso di Lara è che lei è davvero un'antivelina nell'animo, anche se nella campagna elettorale più strampalata del periodo si è trovata a correre con qualche velina vera. E anche se è molto bellina, per quanto distrattamente inconscia della sua bellezza. Ora che è andata, ammette che forse l'intruppamento è stato un po' fastidioso? «Mah, non mi ha toccato più di tanto, non considerandomi io una velina, non ho mai fatto tv, sono pure stonata... ho la coscienza a posto: semmai mi è pesato dover continuare a spiegare che non lo ero e dover per questo girare con il curriculum in mano». Un curriculum fatto di una laurea con lode in economia e di una precoce vocazione politica (nessun precedente in famiglia): da sette anni milita in Forza Italia dove è stata anche coordinatrice dei giovani. Unico apparente scivolone in una sapiente campagna elettorale condotta in un equilibrato mix di presenza sul web (molto gettonata una sua intervista versione Iene su YouTube) e presenza sul territorio, è stata una frase di appoggio a Daniela Santanchè che aveva esternato sul fidanzato di Veronica Lario.

Pentita, ce ne era proprio bisogno? «Voglio solo precisare che non l'ho detto di mia iniziativa, mi hanno fatto una domanda a Telelombardia, a Iceberg, e io ho risposto con onestà quello che sapevo, che avevo sentito già quella notizia durante la campagna elettorale. Ma che sia vera o falsa non è un problema mio». Archiviate le veline e lo scivolone Lario, quali sono i suoi atout? «La determinazione e la voglia di confronto, anche con le donne della sinistra». Anche con Debora Serracchiani, l'antivelina del Pd? «L'ho conosciuta a La7 per una trasmissione e mi è piaciuta, anche se abbiamo idee opposte. È schietta come me, che se c'è qualcosa che non va, non ho problemi a dirlo». E ce ne vorrà di dialogo, perché di certo per le donne politiche non è bel momento: Caroline Flint, la sottosegretaria di Gordon Brown, si è dimessa accusandolo di usare le donne come vetrina e Pier Ferdinando Casini ha parlato di politiche poco incisive, che non brillano di luce propria.

«Secondo me ha azzeccato la parola, incisiva, ma non il giudizio. Non sarei così pessimista. Sono ancora poche ma ce ne sono». Per esempio? «La Gelmini». La Gelmini non vale, è la sua protettrice: una a sinistra? «La Toia, l'ho conosciuta oggi, mi piace». Espatriamo: fra Angela Merkel e Hillary Clinton? «La Merkel, è incisiva, mentre la Clinton vive di luce riflessa». Più indulgente solo se le si domanda se vede un difetto nel suo premier: con il più schietto dei suoi sorrisi, Lara dice che no, quello proprio non riesce a trovarlo.



Maria Luisa Agnese
10 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Serracchiani: «Il Pd? Pare Star Trek»
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:33:18 pm
L’esponente democratica che ha «battuto» il premier

Serracchiani: «Il Pd? Pare Star Trek»

«Dobbiamo fare una battaglia all'interno del partito per dargli credibilità. Ora tournée per convincere i delusi»
 

Se la famiglia disfunzionale del centrosinistra si chiamasse Simpson invece che Pd, Debora Serracchiani sarebbe - ovvio - Lisa: «Sì! Lisa Simpson mi piace». E in effetti. Lisa è la ragazzina assertiva, progressista, che suona il sax. I parenti la filano poco, ma alla fine l’unica brava, saggia, presentabile è lei. In un episodio sui Simpson nel futuro è alla Casa Bianca, tra l’altro. L’altro ieri si è saputo che lei (38 anni, avvocata romana a Udine) nel Friuli ha preso più preferenze di Berlusconi; che ha sfondato in tutto il Nordest superando capolista e boss locali. E il web di sinistra ha inneggiato (si è aggrappato?) a lei; da Facebook in giù era tutto un «Debora come Obama».

In fondo anche lei ha sfondato con un discorso, è diventata famosa con il video su YouTube, è amichevole ma determinata. Grazie grazie a tutti, ma «resto con i piedi per terra». Ma anche no. C’è il Parlamento europeo, si prevedono zero vacanze perché praticamente tutte le Feste democratiche (insomma, ex dell’Unità) d’Italia l’hanno invitata e lei teme di aver detto sì a tutti: «Quest’estate me la faccio in tournée». Senza il sax, con molta voglia di dire che il Pd deve fare «opposizione dura»: «Presentando un programma politico vero, parlando di crisi economica, mostrandosi uniti. Con più disciplina e spirito di servizio. Chi ci ha votato lo ha fatto contro Berlusconi e/o perché voleva una vera opposizione. E finora, spesso, li abbiamo delusi». Delusi, come no. Debora S. è diventata una star del web e del voto perché parla chiaro (le migliori battute dell’intervista non sono pubblicabili; ma avrebbero scatenato una standing ovation sia dei fan sia dei critici del Pd).

Parla chiaro, buca il video, sarebbe stato autolesionista non candidarla; e la sua aria da eterna ragazzina con la coda finora ha rassicurato i maggiorenti del Pd. Ma adesso? Riuscirà a trovarsi un ruolo in un partito di notabili in guerra? Non teme le correnti? E i dalemiani? «Dalemiani, veltroniani... ame sembrano nomi da alieni di Star Trek». Dal pop al politico, elabora: «Dobbiamo fare una battaglia all’interno del Pd per dargli credibilità; perché diventi un partito vero. Non due partiti che si sono messi insieme. Secondo me servono meno personalismi e un po’ di cinismo nelle decisioni ». Cinismo? Debora S. cinica? E come. «Cinismo invece di timore, nelle scelte. Durante il dibattito sul testamento biologico, per esempio. Mettere una cattolica teodem come Dorina Bianchi capogruppo alla Sanità al Senato al posto del cattolico progressista Ignazio Marino è stato un errore. La maggior parte dei nostri iscritti e dei nostri elettori non era d’accordo. In questi casi, ben venga il dibattito interno; e poi la maggioranza decide. Le troppe cautele ci hanno fatto del male».

Serracchiani aveva esordito a un’assemblea di delegati Pd e aveva iniziato dicendo «vengo da Udine, la città che ha accolto Eluana Englaro» e su quella storia, tuttora, non molla. Non molla in generale. Tra i suoi fan club su Facebook c’è «Debora Serracchiani contro Godzilla». Per ora in Friuli ha battuto ai voti Berlusca. Ieri era a Ballarò. Per due settimane andrà in giro a sostenere i candidati ai ballottaggi. E poi? «Poi in Europa voglio occuparmi di piccole imprese, che sono la vita del Nordest e dell’Italia. Per il resto mi metto a disposizione del Pd. Per carità, non sto lanciando un’Opa a nessuno». Per carità. Però magari qualcuno nel Pd (magari i dalemiani, guai a parlargli di Opa) comincia a sentirsi Godzilla (o meglio, vari Godzilla, fino al congresso di ottobre tra loro e con Debora S. se ne vedranno delle belle, si prevede).

Maria Laura Rodotà
10 giugno 2009

  da corriere.it


Titolo: Elisa Alloro... quel certo tipo di donna. (ndr)
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 05:32:08 pm
«Berlusconi? È come la Nasa»

Elisa Alloro ha scritto «Noi, le ragazze di Silvio, ribellandosi alla definizione di “ciarpame”.

Ora rivela l’ebrezza siderale che si prova stando vicini al capo


Alla prima impressione aveva pensato che la posizione fosse giusta, dal punto di vista di una donna: «Era il lancio Ansa della sera del 28 aprile. La mattina dopo, quando ho letto tutta l’intervista di Veronica Lario a Repubblica, ho cambiato idea». L’ha fatta invelenire l’espressione “ciarpame senza pudore” applicata alle candidature femminili del PdL per le europee: e non solo perchè ci poteva essere anche lei, in quelle liste. Elisa Alloro, trentatreenne reggiana, velina, show girl ma anche imprenditrice con una propria società di comunicazione d’impresa rivolta ai nuovi media, pasionaria berlusconiana con una vena di spregiudicatezza, ha allora preso carta e penna sfornando uno degli instant book più instant della storia «Noi, le ragazze di Silvio - Lettera a Veronica di una velina della politica», 100 pagine per Aliberti editore.

«In due giorni. Avevo in programma un viaggio a Gerusalemme, due settimane fa. Sono tornata la domenica notte, ho cominciato a scrivere, di pancia, martedì sera avevo finito. È un inno alle donne. Perchè ridurci a contenitori, a ornamento come fa Veronica? Scindere l’esterno da tutto quello che siamo è tipicamente maschilista. Nel libro parlo molto male della tv commerciale, credo che abbia fatto molti danni alle donne, non solo Mediaset, ovviamente. Ecco, Veronica, mi pare finisca per seguire la stessa logica».

C’era solo un’incertezza.
«La forma epistolare. Era stata la prima scelta. Dopo ci avevo ripensato. Alla fine, anche discutendo con l’editore, sono tornata lì. Ci sono dentro io con tutte le mie sfaccettature per rivolgermi a una grande donna».

Come?
«Regaliamoglielo». Alta, bionda, bella e fumatrice, Elisa, quando lavorava a Mediaset, ha conosciuto Berlusconi per un’intervista, cinque anni fa. Da allora è rimasta nel giro mondano e politico. Scrive che la donna può “concedersi il lusso di non dover necessariamente possedere una coscienza storica, dominio e ossessione della sua controparte maschile”. Si riferisce anche al senso di colpa?
«Io penso piuttosto alla responsabilità, poi, certo, anche i sensi di colpa, che gli uomini hanno molto».

Da questo punto di vista Berlusconi sembra inclinare più al lato femminile.
«Sì, forse sì».

Magari un personaggio politico dovrebbe curare la responsabilità.
«Lui a volte può sbagliare, da questo punto di vista. Ma è anche uno che non nasconde di volersi divertire. E questa è anche una delle ragioni per cui la gente lo ama».

Dalla lista delle candidate alle europee - il “ciarpame” - lei è stata smistata alle amministrative di Reggio.
«Il mio slogan è dialogo, innovazione, sviluppo. Basta col puntare il dito contro gli altri, quel che è fatto è fatto, ora andiamo avanti. Per dire, il ponte di Calatrava è uno splendido segno di identità. Lo dico anche contro il mio partito. C’è chi lo critica perché mancano le corsie di emergenza, io credo sia soprattutto perché l’hanno fatto le cooperative rosse. Reggio è bella anche grazie a chi la governa da tanti anni ».

Eppure certi ricordi reggiani non sono buoni.
«A scuola i compagni mi dicevano: “Stai zitta tu, che sei capitalista”. Io, in realtà, per sopravvivere ero super partes. E poi mio padre fa il neuropsichiatra».

A un certo punto parla dei forzisti “da 40 anni”. Un bel lapsus.
«Mi fa piacere l’abbia colto. È un errore, ma significativo. Voglio riferirmi agli apparati, ai gruppi dirigenti, anche del PdL, che hanno traversato innumerevoli esperienze politiche. Il turn over non sarà breve. Però almeno c’è un tentativo e un’intuito. Di Berlusconi. Coraggioso e da portare ancora a fondo».

Magari verrà inceppato dalla faccenda di Noemi col suo “papi”.
«Uffa, con questa storia. Quel termine l’adoperò la prima volta una velina milanista di sangue brasiliano, Renata. E da allora il vezzeggiativo si è diffuso, è diventato una specie di codice. Io, comunque, non l’adoprerei neanche sotto tortura. E poi i personaggi famosi attirano i nomignoli, le espressioni confidenziali. Ho sentito il candidato sindaco del PdL per Reggio Emilia usare per Berlusconi l’espressione “zio Silvio”».

Si ribella all’aggressione mediatica contro il premier. In una lettera a Veronica non era il caso di spendere una parola anche sul trattamento usato a lei?
«In effetti non ci ho pensato. Ho trovato talmente automatica la botta di Veronica e la risposta di Berlusconi o dei suoi amici... Perchè poi devi anche pensare alle conseguenze delle tue azioni».

Un oggetto metallico le ferma i capelli. Una matita?
«Macchè matita. È una penna d’argento di Tiffany»

Regalo di Berlusconi?
«No, me la dette il mio avvocato anni fa».
Ora va detto che Alloro è assai esuberante. Parla a raffica («L’ho imparato facendo radio. Lì non possono esserci momenti di vuoto che riempi con l’immagine, l’ascoltatore cambia canale») e viene un dubbio: se alle famose (o famigerate) festine di Silvio tutte le invitate sono come lei, dio salvi il premier! «Ma no, da Berlusconi sto parecchio zitta. Per non sbagliare. Mi piace ascoltareanche se, quando si riempie il vaso, parlo e non chiedo il permesso...». C’è una pausa e una risata. «Ma poi parla sempre lui!».

Ha anche scritto che in quel giro capitano “avventurieri”.
«Questa non gli è piaciuta molto».

Gliel’ha detto Silvio?
«No, lo immagino. L’espressione è uscita nell’articolo sul Corriere. Ma poi intendo dire che c’è tanta gente attorno a Berlusconi. Magari sprovveduti, come chi gli dice che la tal barzelletta l’ha già sentita. Ma come si fa!? Le barzellette non sono infinite ma non puoi dirgli che quella è vecchia! In ogni caso non vengano a dirmi che lui si occupa della lista degli invitati»

Ogni tanto, per Silvio, sfiora l’agiografia. “Umano, troppo umano”, “Miniera di saggezza”… Cosa ha imparato da lui?
«Moltissimo. Le dinamiche fra i potenti della terra, per esempio. Cose che normalmente ti paiono lontanissime. Ha presente Sei gradi di separazione? Ecco, se sei ricettivo, ascoltando Berlusconi capisci tante cose dei rapporti umani fra i grandi. Ti pare di cogliere i sismi geopolitica e nella sfera più privata. Come quando visiti la centrale della Nasa: anche se non sei nello spazio avverti una certa ebbrezza. E poi si impara anche dagli errori… Vicino a lui, comunque, ho sempre avuto la sensazione di stare vivendo un privilegio».

Enrico Mannucci
09 giugno 2009(ultima modifica: 10 giugno 2009)

da corriere.it


Titolo: La moglie di Mousavi, candidato anti-Ahmadinejad
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:39:42 pm
La moglie di Mousavi, candidato anti-Ahmadinejad

«Lotto con mio marito per i diritti delle donne» Zahra vuole essere la prima first lady iraniana


TEHERAN — La donna che potrebbe diven­tare la prima first lady iraniana dopo Farah Diba ha il volto tirato di una 58enne poco truccata, in campagna elettorale da tre mesi. Gli occhi piccoli, orientali luccicano appena da sotto il chador nero, ma la voce è pronta, agile, come le sue risposte, capaci di dribbla­re i nodi più insidiosi. I fiori rossi del rusarì (il foulard) sono l’unica nota di colore che si concede. In una sfida tra monumenti del regi­me teocratico, come sono queste elezioni pre­sidenziali iraniane, anche quelle roselline de­vono essere state soppesate con cura. Saran­no troppo audaci per i conservatori? Troppo mortificanti per i riformisti? La soluzione è nel moderato conformismo che caratterizza l’offerta elettorale del marito. Eppure Zahra Rahnavard è stata l’unica donna rettore universitario dell’Iran. È scul­trice, saggista, ex consigliere governativa. È passata dalla minigonna al velo quando, ven­tenne, incrociò uno degli ideologi della rivo­luzione, il filosofo Ali Shariati. Oggi è soprat­tutto la moglie dell’ex premier Mir Hossein Mousavi, ma negli anni 70 era lei la più famo­sa tra i due. Mousavi è uscito dopo due decen­ni dalla naftalina per diventare il principale rivale del presidente Ahmadinejad. Ed è lei il suo asso nella manica. Se l’architetto ex pre­mier è riuscito a riaccendere le speranze del popolo riformista orfano del presidente Kha­tami, non è per le sue (evanescenti) promes­se o per un carisma che non c’è, ma piutto­sto per questa moglie straordinaria tanto per quel che pensa l’Occidente di una don­na col chador, quanto a confronto con altre figure pubbliche del­l’universo musulma­no. «Io e Mousavi abbia­mo le stesse idee sui diritti delle donne — mette subito in chiaro —. Altrimenti non sa­remmo andati avanti per 40 anni di matri­monio ». Indipenden­te, provocatoria, un ego decisamente soli­do. Con vanità, raccon­ta alle simpatizzanti di come ha conosciuto il marito. «Si è innamo­rato a prima vista, in una mostra di pittura. Dopo 10 giorni mi ha chiesto di sposarlo».

 
Il candidato alle presidenziali iraniane Hossein Mousavi con la moglie Zahra Rahnavard (Afp)
Dottoressa Rahna­vard, lei ha scioccato l’Iran facendo comizi da sola o mano nella mano con suo marito.
«È stata una novità, è vero. Finora le auto­rità evitavano di portare le mogli nei viaggi ufficiali, mentre credo sia un fatto normale sia dal punto di vista religioso che intellettua­le. All’estero potrebbero capirci meglio e le al­tre coppie iraniane potrebbero avere un esempio di collaborazione e confidenza fami­liare».

Dicono che lei sia la Michelle Obama del­l’Islam.
«Non sono Michelle, mi basta essere me stessa. Di certo ho grande stima di tutte le donne che, nel mondo, riescono ad avere un ruolo attivo nella società».

Di solito, però, nei Paesi islamici alla donna viene chiesto di fare un passo indie­tro.
«Da 30 anni mi occupo della questione femminile e non ho mai sentito tanta atten­zione al tema come ora. In Iran sono donne più della metà dei contadini, un terzo degli operai e il 70 per cento degli universitari. Le donne hanno potenzialità superiori agli uo­mini in molte attività scientifiche e sociali. Ciò di cui noi abbiamo bisogno qui in Iran è un’evoluzione dei diritti civili. Vogliamo eli­minare l’attuale status giuridico che impone alle donne la tutela di un uomo. Le donne de­vono decidere da sole il proprio destino».

In Occidente il velo è il simbolo della sud­ditanza femminile. Lei lo porta.
«L’ho scelto assieme alla fede nel fiore del­la mia gioventù e ne sono orgogliosa. Nel 1975 pubblicai un libro in America dal titolo L’hijab: il messaggio della donna musulma­na. Il rispetto del velo, dicevo, deve derivare dal convincimento, non da un’ordine. Non ho mai cambiato idea: sono contraria alla tra­sformazione dell’hijab in strumento di op­pressione. Credo fermamente alla libertà di scelta».

La legge iraniana però…
«Infatti la mia è solo un’opinione».

Durante il governo Ahmadinejad oltre 120 donne sono state arrestate per le loro opinioni.
«Il Corano dice di 'non spiare la vita priva­ta altrui'. Perché Mousavi dovrebbe temere le donne quando sua moglie è scesa in cam­po? Se verrà eletto farà di tutto per rispettare i diritti, eliminare le discriminazioni, garanti­re processi giusti e rapidi».

Gli ultimi sono stati anni duri per i diritti civili. Pochi mesi fa, ad esempio, il Parla­mento stava per liberalizzare la poligamia.
«Un altro capolavoro del presidente Ahma­dinejad. Ha presentato due disegni di legge per fortuna entrambi bloccati».

Eppure il Corano lo consentirebbe.
«Dovremo affrontare il tema rispettando i precetti religiosi e la dignità della donna libe­ra, musulmana, iraniana».

Possibile?
«Certo».

Secondo i sondaggi, molte iraniane han­no deciso di votare suo marito perché han­no fiducia in lei. Immagina un ruolo per sé al governo in caso di vittoria?
«Penso che potrei dare il mio contributo come consigliere politico. L’ho già fatto du­rante la presidenza Khatami e potrei rifarlo. Però nella prossima amministrazione dovran­no esserci almeno due o tre ministri donna (oggi non ce n’è nessuna, ndr) tante amba­sciatrici e consiglieri. Chi ha talenti deve po­terli esprimere. Maschio o femmina che sia».

In Iran c’è ancora chi pensa, come alle scorse elezioni, che sia meglio non votare per togliere legittimità al regime.
«Agli astensionisti dico non lasciate il pote­re a chi mente, rovina l’economia, umilia il Paese all’estero, offende la Costituzione. Fate sentire la vostra voce».

Lei ha annunciato querela nei confronti del presidente per aver messo in dubbio le sue credenziali accademiche. Perché Ahma­dinejad l’ha attaccata?
«È lui a dover rispondere, a me resta l’ama­rezza di un presidente che ha messo in ridico­lo la sua carica. Deve chiedere scusa al popo­lo iraniano, alla mia famiglia e a me».


11 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: GHEDDAFI: NEL MONDO ARABO DONNA E' PEZZO DA MOBILIO
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2009, 07:17:50 pm
2009-06-12 15:12

GHEDDAFI: NEL MONDO ARABO DONNA E' PEZZO DA MOBILIO


 ROMA - Nel mondo arabo e islamico la donna é "come un pezzo di mobilio che si può cambiare quando vuoi e nessuno chiederà perché lo hai fatto". Lo ha affermato il leader libico Muammar Gheddafi parlando della situazione delle donne nelle varie zone del mondo, nel corso dell'incontro all'auditorium del Parco della Musica. "C'é bisogno di una rivoluzione femminile nel mondo costruita su una rivoluzione culturale", ha aggiunto Gheddafi nel corso dell'incontro con il ministro per le pari opportunità Mara Carfagna e un migliaio di donne rappresentanti del mondo dell'imprenditoria, delle istituzioni e della politica.

La Libia "non favorirà altri paesi a spese dell'Italia" nel settore energetico. Lo ha assicurato il leader libico Mohammar Gheddafi nel suo discorso agli imprenditori in Confindustria. L'Italia, ha sottolineato, "ha un gran bisogno della Libia", per questo finché vigerà l'accordo di amicizia e di collaborazione tra i due paesi, la Libia non fornirà gas e petrolio ad altri "a danno dell'Italia". "Non credo - ha concluso - che l'Italia possa commettere qualcosa che causi un atteggiamento del genere".

Il leader libico avverte le imprese italiane che intendono lavorare in Libia: il popolo libico, dice "ha fatto la rivoluzione contro il colonialismo, ma anche contro la corruzione. Sotto questo aspetto siamo molto sensibili". Quindi, "io vi ho avvertito", le imprese che verranno scoperte "le mandiamo via". Gheddafi ricorda che "ci sono imprese che sbagliano pensando di lavorare guadagnandosi la benevolenza dei libici: ma se lo scopriamo lo mandiamo via" ha detto Gheddafi assicurando che le imprese che vinceranno saranno "solo quelle che soddisfanno il popolo libico". Gheddafi si è come scusato di aver fatto "questa piccola osservazione" parlando del "virus" della corruzione di cui teme la possibilità di diffusione. "Non vorremmo che un giorno una di queste imprese venisse accusata di questo: non dite noi non sapevamo, eravamo all'oscuro. Io vi ho avvertito" ha detto.

"Dicono che se fosse la sinistra a governare - aggiunge Gheddafi - l'Italia la fortuna delle imprese sarebbe minore. Finché è Berlusconi a governare siete fortunati". Le parole del leader libico sono state salutate da un forte applauso.


MARCEGAGLIA, SVOLTA IN RAPPORTI BILATERALI

"Credo proprio di poter dire che siamo in presenza di una svolta nei rapporti bilaterali". Così il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia parla dei rapporti tra Italia e Libia e tra le imprese dei due paesi in occasione della visita del leader Muammar Gheddafi in Confindustria. Il presidente di Confindustria ha sottolineato l'importanza della presenza sia delle imprese italiane in Libia, (da Eni a Enel, da Trevi a Impregilo, da Tecnimont a Finmeccanica, solo per citarne alcune), sia della presenza libica in Italia. "Penso all'ingresso nel capitale Unicredit che ha l'interesse a investire ad altre imprese italiane" ha detto Marcegaglia ricordando che "la presenza libica in Italia è importante e fa intravedere un possibile rafforzamento. Marcegaglia che ha anche ricordato alla Libia di costituire per le imprese italiane una zona franca ha quindi parlato dello stato dei rapporti tra i due paesi come una "svolta" portata anche dal "superamento delle condizioni storiche che hanno condizionato il nostro passato".

Ore 16.30: incontro alla Camera con il presidente Gianfranco Fini. Quindi, nella Sala della Lupa, tavola rotonda d'eccezione organizzata dalla Fondazione Italianieuropei con due ex ministri degli Esteri, lo stesso Fini e Massimo D'Alema e l'ex ministro degli Interni Giuseppe Pisanu.
 
da ansa.it


Titolo: Il Cavaliere, moderno Catilina e le persecuzioni dei riformatori
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2009, 10:10:34 am
La lettera

Il Cavaliere, moderno Catilina e le persecuzioni dei riformatori
 

Caro direttore, salvare Catilina, salvare la Repubblica. Roma, I secolo A. C.: Lucio Sergio Catilina è un patrizio romano, uomo coraggioso e di parola. In breve tempo percorre con inaspettato successo tutta la carriera politica, coltivando idee di giustizia sociale e libertà. Per tre volte tenta di raggiungere la carica di console, massima autorità repubblicana, spinto da un consenso popolare straordinario frutto di posizioni anticonformiste, progetti di riforma e profondo senso della Patria.

Per tre volte i poteri forti del tempo utilizzano tutti i mezzi, leciti ed illeciti, per combatterlo e sconfiggerlo. Nella Roma del 50 a.C. esisteva una norma molto lontana dall'attuale concezione del diritto, che alcune moderne marionette del giustizialismo italico vorrebbero applicare anche alla nostra democrazia: ai cittadini romani anche solo inquisiti veniva impedito l'accesso ad ogni carica pubblica. Ed è sulla base di questa norma che Lucio Sergio Catilina viene per due volte accusato di nefandezze a pochi giorni dalle elezioni, interdetto e poi assolto dopo il voto. Ma a chi vede in Catilina e nel suo partito un pericolo troppo grande per i propri interessi, l'esclusione anche solo temporanea del «rivoluzionario conservatore» non può bastare: occorre distruggerne il consenso per intero. Il compito viene affidato al più famoso e abile avvocato del tempo, Marco Tullio Cicerone, alla sua spregiudicatezza e alla sua straordinaria capacità di falsificare i fatti. Cicerone trasforma Catilina in un hostis, un nemico della Patria, servendosi dei più efficaci strumenti dell'epoca: dalle accuse basate su lettere anonime, ai brogli elettorali, ai discorsi retorici tesi a costruire l'immagine più degenerata del suo avversario, fino alle palesi violazioni della legge romana. Tra le accuse più infamanti, Cicerone imputa a Catilina di aver corrotto una giovane vestale, vergine e consacrata alla dea del focolare.

Ci spostiamo di oltre 2000 anni. Al famoso avvocato pensano di sostituirsi procure politicizzate e redazioni di giornali. Al posto delle orazioni di Cicerone, si ascoltano i teoremi mediatici e giudiziari, si assiste all'uso spesso indecente di foto, video e intercettazioni. La tentazione è sempre la stessa: demonizzare il «rivoluzionario conservatore» di oggi. Gli optimates di ieri che armarono le azioni di Cicerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi politici ed economici; gli optimates che violentano le regole di oggi sono potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori, gli uomini in grado di cambiare la storia, si presentano all'appuntamento senza bussare. Questo li rende inaccettabili.

Ma la storia maledice il suo ritorno. Il suo tragico fugge davanti alla farsa in cui si trasforma. E così accade che oggi, per distruggere l'uomo che sta cambiando l'Italia, si è persino disposti a distruggere l'Italia stessa. Minando la fiducia nelle istituzioni che quell'uomo rappresenta, il valore di una democrazia fondata sul consenso popolare, l'immagine di una nazione all'estero e la percezione che il Paese ha di se stesso. Si è disposti a far precipitare la dignità nazionale dentro il buco di una serratura. Un'opera di demolizione che non dovrebbe giovare a nessuno. O forse sì. Quando l'avversario politico viene trasformato per forza in un nemico della patria, quando diviene normale distruggerne il nome, la famiglia, gli amici, i collaboratori, la vita stessa, quando trionfano coloro che accusano per mestiere, con illazioni e teoremi, dietro il velo di un'informazione che è spesso solo fango, allora il diritto scompare, le Repubbliche cadono, le libertà civili si spezzano e i Cesari, quelli veri, arrivano di lì a poco.


Deborah Bergamini
18 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: Quelle donne a Sud di Gomorra
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2009, 06:25:34 pm
Quelle donne a Sud di Gomorra

Riti, comportamenti sessuali e regole imposti nelle terre di mafia

 
ESSERE donna in terra criminale è complicatissimo. Regole complesse, riti rigorosi, vincoli inscindibili. Una sintassi inflessibile e spesso eternamente identica regolamenta il comportamento femminile in terra di mafie. È un mantenersi in precario equilibrio tra modernità e tradizione, tra gabbia moralistica e totale spregiudicatezza nell'affrontare questioni di business. Possono dare ordini di morte ma non possono permettersi di avere un amante o di lasciare un uomo. Possono decidere di investire in interi settori di mercato ma non truccarsi quando il loro uomo è in carcere. Durante i processi capita spesso di vedere donne accalcate negli spazi riservati al pubblico, mandano baci o semplici saluti agli imputati dietro le gabbie. Sono le loro mogli, ma spesso sembrano le loro madri. Vestirsi in maniera elegante, curarsi con smalti e trucco mentre tuo marito è rinchiuso, è un modo per dire che lo fai per altri. Tingersi i capelli equivale a una silenziosa confessione di tradimento. La donna esiste solo in relazione all'uomo. Senza, è come un essere inanimato. Un essere a metà. Ecco perché le vedi tutte sfatte e trascurate quando hanno i mariti in cella. È testimonianza di fedeltà. Questo vale per i clan dell'entroterra campano, per certa 'ndrangheta, per alcune famiglie di Cosa Nostra. Quando invece le vedi vestite bene, curate, truccate, allora il loro uomo è vicino, è libero. Comanda. E comandando riflette sulla sua donna il suo potere, lo trasmette attraverso la sua immagine. Eppure le mogli dei boss carcerati, sciatte sino a divenire quasi invisibili, sono spesso quelle che facendone le veci più comandano.

Tutte le storie delle donne in terra criminale si somigliano, sia che abbiano un destino tragico sia che riescano a galleggiare nella normalità. In genere marito e moglie si conoscono da adolescenti e celebrano il loro matrimonio a venti, venticinque anni. Sposare la ragazza conosciuta da piccola è la regola, è condizione fondamentale perché sia vergine. In genere, invece, all'uomo è permesso di poter avere amanti, ma il vincolo dato dalle loro mogli negli ultimi anni è che siano straniere: russe, polacche, rumene, moldave. Tutte donne considerate di secondo livello, incapaci di costruire una famiglia, secondo loro, di educare i figli come si deve. Mentre farsi un'amante italiana o peggio del proprio paese sarebbe destabilizzante, e un comportamento da punire. Attraverso la sessualità passa molta parte della formazione di un uomo e di una donna in terra di mafia. "Mai sotto una femmina" è l'imperativo con cui si viene educati.

Se mentre fai l'amore, decidi di stare sotto, stai scegliendo pure di sottometterti nella vita di tutti i giorni. Farlo per puro piacere ti condannerà, nella loro logica, a sottometterti. "Mai sesso orale". Riceverlo è lecito, praticarlo a una donna è da "cani". "Non devi diventare cane di nessuno". Vecchio codice a cui si attiene ancora molta parte delle nuove generazioni di affiliati. E regole anche più rigide valgono pure al di fuori dell'Italia. La Yardie, la potente mafia giamaicana egemone in molti quartieri londinesi e newyorkesi, oltre che a Kingston, ne è un esempio. Vietato praticare sesso orale e riceverlo, vietato sfiorare l'ano delle donne e avere rapporti anali. Tutto questo è considerato sporco, omosessuale (i gay sono condannati a morte nella cultura mafiosa giamaicana), mentre il sesso dev'essere una pratica forte, maschile e soprattutto ordinata. Senza baci. La lingua serve per bere, un vero uomo non la usa se non a quello scopo.
Gli affiliati delle cosche sono ossessionati non solo dalla loro virilità, ma da come poterla esercitare: farlo secondo la rigida applicazione di quegli imperativi categorici, diviene un rito con cui si riconfermano il loro potere. Valgono, quelle norme chiare e inderogabili, in pressoché tutti i paesi di 'ndrangheta, camorra, mafia e Sacra Corona Unita. E sono, a ben vedere, qualcosa in più del semplice specchio di una cultura maschilista. Nulla come quel codice sessuale dice forse come in terra di criminalità non possa esistere ambito che si sottragga alle logiche ferree di appartenenza, gerarchia, potere, controllo territoriale. Potere sulla vita e sulla morte, di cui la morte subita o data è posta a fondamento. E chi crede di poter esserne libero, si sbaglia. Il controllo della sessualità è fondamentale. Anche corteggiare diventa marcare il territorio. Avvicinarsi a una donna significa rischiare un'invasione territoriale.

Nel 1994 Antonio Magliulo di Casal di Principe tentò di corteggiare una ragazza imparentata con un uomo dei casalesi e promessa in matrimonio a un altro affiliato. Magliulo le faceva molti regali, e intuendo forse che la ragazza non era felicissima di sposare il suo fidanzato, insisteva. Era invaghito di questa ragazza assai più giovane di lui e la corteggiava come dalle sue parti è abituale. Baci Perugina a San Valentino, un collo di pelliccia di volpe a Natale, "postegge" ossia attese fuori dal luogo di lavoro nei giorni normali. Un giorno in piena estate un gruppo di affiliati del clan di Schiavone lo convocò per un chiarimento al lido La Scogliera di Castelvolturno. Non gli diedero neanche il tempo di parlare. Maurizio Lavoro, Giuseppe Cecoro e Guido Emilio gli tirarono una botta in testa con una mazzola chiodata, lo legarono e iniziarono a ficcargli la sabbia in bocca e nel naso. Più inghiottiva per respirare più loro lo ingozzavano. Rimase strozzato da una pasta di sabbia e saliva che gli si è cementificata in gola. Fu condannato a morte perché corteggiava una donna più giovane, col sangue di un importante affiliato, già promessa in moglie.

Corteggiare, chiedere anche solo un appuntamento, passare una notte insieme è impegno, rischio, responsabilità. Valentino Galati aveva diciannove anni quando è sparito il 26 dicembre 2006 a Filadelfia, che non è la città fondata dai quaccheri americani, ma un paese in provincia di Vibo Valentia, fondato da massoni. Valentino era un ragazzo vicino alla ndrina egemone. Aveva sangue ndranghetista e quindi divenne ndranghetista, lavorava per il boss Rocco Anello. Quando questi finisce in galera per aver organizzato un sistema di estorsioni capillare (per una piccola tratta ferroviaria ogni impresa che vi partecipava doveva pagargli 50 mila euro a chilometro), sua moglie Angela ha sempre più bisogno di una mano da parte della ndrina per andare avanti. Spesa, pulizia della casa, accompagnare i bambini a scuola. A Valentino capita di essere uno dei prescelti. Così lentamente, quasi naturalmente, nasce una relazione con Angela Bartucca. Punirlo è indispensabile e quando non lo si vede più girare per il paese, nessuno si stupisce.

Condannato a morte perché è stato con la moglie del boss. Solo sua madre Anna non vuole crederci. Suo figlio amante della moglie di un boss? Per lei è impossibile: è divenuto da poco maggiorenne, è troppo piccolo. Ammette che Angela veniva anche in casa a prendere il caffè, e da quando suo figlio è sparito, non si è fatta più vedere. Ma per la madre di Valentino questo non dimostra nulla. "Mio figlio non c'entra niente con questa storia". Insiste a credere vi siano altri motivi, ma per la magistratura antimafia non è così. Per lungo tempo Anna ha dormito sul divano perché lì c'era il telefono ed ha aspettato una chiamata di suo figlio, terrorizzata che in camera da letto potesse non sentire il suono "dell'apparecchio", come a sud lo chiamano. Così, alla fine, la madre di Valentino si chiude nel silenzio di un dolore che rispetta il silenzio dell'omertà, continuando a negare contro ogni evidenza.

La stessa sorte era già capitata a Santo Panzarella di Lamezia Terme, ammazzato nel luglio del 2002. Santo si era innamorato di Angela Bartucca quattro anni prima. Sempre lei. Gli hanno sparato contro un caricatore, convinti di averlo ucciso lo hanno messo nel portabagagli. Ma Santo Panzarella non era morto. Scalciava nel portabagagli. Così gli hanno spezzato gli arti inferiori per non farlo continuare a intralciare con i calci il suo ultimo viaggio; infine gli hanno sparato in testa. Di lui è stata ritrovata solo una clavicola, che ha però permesso di far partire le indagini. Anche lui condannato a morte per aver sfiorato la donna sbagliata. Valentino quindi forse sapeva di rischiare la pelle, ma ha continuato lo stesso ad avere una relazione con quella donna proibita.

Ci si immagina Angela Bartucca come una sorta di donna fatale, una mantide come i giornali l'hanno spesso chiamata, capace con la propria seduzione di far superare persino la paura della morte. Una donna che amava e amando condannava a morte. Ma in realtà a vederla non sembra essere così come vuole la leggenda. Dalle foto si vede il viso di una ragazzina, carina, la cui colpa principale era la voglia di vivere. Un marito in carcere per le donne di mafia significa astinenza totale. Di affetti e di passione. Solo i boss maturi, se sono sposati con donne più giovani e sono condannati a pene pesantissime, permettono che le mogli possano avere qualche marito sostitutivo. Quasi sempre si preferisce il prete del paese quando disponibile o un fratello, un cugino, un parente comunque. Mai un affiliato non del sangue del boss, che godendo del rapporto con la donna potrebbe assumerne in qualche modo di riflesso il carisma e sostituirlo.

Molte donne vestono di nero, anche quelle giovani, e quasi perennemente. Lutto per un marito ucciso. Lutto per un figlio. Lutto perché è stato ucciso un fratello, un nipote, un vicino di casa. Lutto perché è stato ammazzato il marito di una collega di lavoro, lutto perché è stato assassinato il figlio di un lontano parente. E così c'è sempre un motivo per tenere il vestito nero. E sotto il vestito nero si porta sempre un panno rosso. Le anziane signore indossavano una maglietta rossa, per ricordare il sangue da vendicare, le giovani donne indossano un intimo rosso. Un ricordo perenne del sangue che il dolore non fa dimenticare, anzi il nero accende ancora più il colore terribilmente intimo della vendetta.

Rimanere vedove in terra criminale significa perdere quasi totalmente l'identità di donna e ricoprire soltanto quella di madre. Se resti vedova puoi risposarti solo con il consenso dei figli maschi. Solo se ti risposi con un uomo dello stesso grado del padre (o superiore) all'interno delle gerarchie mafiose. Ma soprattutto solo dopo sette anni di astinenza sessuale e osservazione rigida del lutto. Perché gli anni della vedovanza dovevano corrispondere al tempo che secondo le credenze contadine un'anima ci metteva per raggiungere l'aldilà. Così si aspettava che l'anima arrivasse nell'altro mondo, perché se ancora stava in questo avrebbe potuto vedere la moglie "tradire" con un altro. Antonio Bardellino, boss carismatico di San Cipriano d'Aversa, tendeva a liberare le vedove da queste regole medievali e da questo perenne dolore imposto. In paese molti ricordano che fino a quando comandò, don Antonio diceva: "Si mettono sette anni per raggiungere il paradiso, noi andiamo da un'altra parte. E quella parte si raggiunge presto, int' a nà nuttata".

Ma quando fu fatto fuori Bardellino arrivò l'egemonia degli Schiavone, e tornarono le vecchie regole sessuali. Nell'agosto del 1993 Paola Stroffolino fu scoperta con un amante. Lei moglie di un boss molto importante, Alberto Beneduce, tra i primi ad importare cocaina e eroina direttamente sulle coste del Casertano. Dopo che Beneduce fu ucciso, lei non rispettò i sette anni di vedovanza e intraprese una relazione con Luigi Griffo. Il clan decise che un atteggiamento del genere era irriguardoso nei confronti del vecchio boss. E così per eseguire la punizione scelsero un suo caro amico, Dario De Simone. Invitò la coppia in una masseria di Villa Literno con la scusa di volergli far assaggiare le prime mozzarelle dell'estate. Un solo colpo alla testa per l'uomo e uno per la donna. Non di più per due infami che avevano insultato la memoria e l'onore del morto. Poi, aiutato da Vincenzo Zagaria e Sebastiano Panaro, l'uomo che aveva mostrato la sua lealtà uccidendo scaraventò i corpi in fondo ad un pozzo molto profondo a Giugliano.

Sandokan, cioè Francesco Schiavone, e suo fratello furono accusati come mandanti. La vedova di un boss è intoccabile, ma se si sporca con un altro uomo, perde lo status di inviolabilità. I pentiti che cercavano di superare l'incredulità dei giudici, diedero una risposta che è anche una sintesi eccezionale: "Dottò, ma scopare qui è peggio che uccidere. Meglio se uccidi la moglie di un capo. Forse puoi essere perdonato, ma se ci scopi sei morto sicuro". Amare, decidere di fare l'amore, baciare, regalare qualcosa, fare un sorriso, sfiorare una mano, provare a sedurre una donna, esserne sedotto può essere un gesto fatale. Il più pericoloso. L'ultimo. Dove tutto è legge terribile, i sentimenti e le passioni che non conoscono regole condannano a morte.

Copyright 2009 - Published
by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

da roberto saviano.it


Titolo: NAOMI CAMPBELL Aiutare le madri per salvare il futuro dei figli
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2009, 10:59:03 am
5/7/2009 (1:28)

Aiutare le madri per salvare il futuro dei figli
 
NAOMI CAMPBELL


Milioni di donne muoiono senza un perché nel mondo. Nei Paesi in via di sviluppo muore di parto una donna ogni minuto e quasi sempre con lei muore il bambino.

In questi luoghi le donne sono spesso il sostegno economico e il capo della famiglia. La morte di una madre colpisce non solo i suoi figli ma tutti i suoi familiari, la loro sopravvivenza e il loro futuro.

Ci sono soluzioni e sono a portata di mano. Ma dobbiamo agire immediatamente. La White Ribbon Alliance è una rete che sul terreno lotta contro la morte di parto in tutto il mondo. Così potremo contribuire a salvare mezzo milione di vite di giovani donne ogni anno. È importante per il futuro di tutti; le famiglie sane sono vitali per la pace, la stabilità e la prosperità globali.

E’ uno scandalo che non ha avuto risonanza, ma tra gli Obiettivi del millennio concordati dalla comunità internazionale, la riduzione della mortalità materna è rimasta molto indietro. Non ci sono progressi da vent’anni. E tuttavia, io, come tanti altri, prima di scoprirlo e appassionarmi, non avevo nemmeno idea dell’esistenza del problema.

Com’è triste e inutile la morte di mezzo milione di donne ogni anno per cause, come emorragia e ipertensione, che possiamo contribuire a prevenire. E per ogni morte ci sono almeno altre 30 donne che riportano danni terribili che le lasciano nel dolore e spesso, ripudiate dai mariti. La disponibilità di operatori sanitari preparati è cruciale. Professionisti che sanno come salvare la vita di una donna quando qualcosa va storto - il bambino non esce o la puerpera sanguina o ha la pressione troppo alta.

Abbiamo le conoscenze e le medicine per farlo ma non abbiamo ancora destinato le risorse ai Paesi che ne hanno più bisogno.

Quando le madri sopravvivono vigilano affinché le loro figlie vadano a scuola, rompendo così il circolo vizioso dei matrimoni precoci, causa di tante morti per parto. Quando le madri sopravvivono donano amore e cura, portano cibo in tavola, procurano acqua pulita, fanno vaccinare i figli, lavorano i campi.

Se curiamo una madre affetta da Hiv e impediamo che passi l’infezione ai figli potrà prendersi cura della sua famiglia. Se aiutiamo una madre a sopravvivere potrà impedire che i suoi bambini vengano colpiti dalla malaria.

Questa settimana il G8 ha un’opportunità storica di porre fine a un vecchio scandalo e aprire un nuovo capitolo. Spero davvero che facciano la cosa giusta e offrano le risorse e la leadership necessarie a salvare milioni di vite.

Deve diventare una priorità per i governi di tutto il mondo.

da lastampa.it


Titolo: La laurea è una cosa per donne
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2009, 09:38:56 am
6/7/2009
 
La laurea è una cosa per donne
 
 
RICHARD NEWBURY
 
I ragazzi a scuola non vanno bene come le ragazze. Si sa. Quello che non si sa è che questo andazzo continua anche all’università». Lo scrive Bahram Bekhradnia, direttore dell’Higher Education Policy Institute di Oxford, che ha appena pubblicato un rapporto basato sui test di rendimento. «Qualcuno», osserva, «pensa che sia un fatto irrilevante. A una recente conferenza sull’impatto del femminismo sull’istruzione superiore, un accademico ha detto che gli scarsi risultati dei ragazzi “sono visti come una minaccia alla mascolinità. Sono un panico morale”».

Io», dice Bekhradnia, «non sono d’accordo. Non serve liquidare la preoccupazione come “panico morale”. Dobbiamo adeguarci alla nuova realtà. Se non lo faremo, ci saranno serie conseguenze per tutti coloro che sono coinvolti e per l’intera società».

In Gran Bretagna le donne hanno quasi raggiunto, con il 49,2%, l’obiettivo fissato dal governo del 50% di istruzione superiore, mentre i ragazzi languiscono al 37%. E tutte le statistiche mostrano come questo sia un fenomeno mondiale, con Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti grosso modo allo stesso livello, mentre in Scandinavia, nei Paesi Baltici e nell’Australasia la quota femminile è ancora più alta. E questo indipendentemente dalla classe sociale, dalla razza e dal numero chiuso.

La spiegazione - a parte il diverso modello di sviluppo fisico tra i sessi (alla pubertà le ragazze sono due anni avanti ai maschi) - sta nel cambiamento dei criteri di valutazione nella scuola secondaria (test GCSE), dove la maggior parte degli insegnanti sono donne. Trent’anni fa sono stati introdotti metodi di insegnamento e di esame con l’intenzione esplicita di discriminare positivamente le ragazze. Così è stato, ma a spese di un’intera generazione di maschi svantaggiati ed espropriati, con pesanti conseguenze sociali e educative. Risultati modesti al liceo portano a minori possibilità di ottenere un posto all’università, dove peraltro le nuove modalità di valutazione - verifiche continue anziché un impietoso esame finale - hanno di nuovo favorito le donne sugli uomini - così com’era il proposito.

Un esempio di quanto è successo è l’indagine internazionale PISA (Programme for International Pupil Assessment Exam) sui quindicenni: in Inghilterra i maschi erano più bravi delle compagne nelle materie scientifiche con un margine più alto che in ogni altro Paese, e facevano almeno bene come loro in matematica; eppure, quando gli stessi studenti facevano gli stessi test secondo il metodo GCSE, le ragazze li sorpassavano sui medesimi argomenti. Gli alti voti dei maschi nei PISA erano nei test di «spiegazione scientifica dei fenomeni», il modo più tradizionale di studiare ed essere valutati nelle materie scientifiche.
Nuove recenti scoperte sulla fisiologia del cervello e sulla genetica aiutano a spiegare le ragioni di tutto questo e a trovare una soluzione. Il professor Simon Baron Cohen, capo del Dipartimento di Fisiopatologia dell’Università di Cambridge e direttore del Centro di ricerca sull’autismo, indagando sul perché la maggior parte dei suoi pazienti fossero maschi, ha appurato che l’autismo era una forma estrema del cervello «maschile». E ha fatto una scoperta rivoluzionaria: il cervello femminile è cablato in modo dominante per l’empatia, quello maschile per la comprensione e la costruzione di sistemi. Il cervello maschile si forma nell’utero a tre mesi, quando una immissione di testosterone elimina alcuni - o nel caso dell’autismo - tutti i sentimenti di empatia. Dunque i maschi saranno per lo più sistemici e le femmine empatiche. L’autismo ha un’intenzione genetica: ci ha dato Leonardo, Newton, Einstein, Bill Gates.

Insegnare alla maggior parte dei ragazzi a identificarsi negli altri piuttosto che a sistematizzare è chiedere loro di usare una parte del cervello nella quale - per ragioni evolutive, biologiche e culturali - sono (grazie a Dio) insufficienti. Gli uomini hanno la fobia delle emozioni, ma adorano le macchine e i film di guerra. Insegnare alla maggior parte delle ragazze a leggere una mappa è un compito ingrato, ma non lo è chiedere loro di mappare la complessità dei rapporti in un romanzo di Jane Austen. Gli uomini vogliono essere rispettati dal sistema sociale intorno a loro; le donne vogliono essere ascoltate.
Questo maschio sistematizzante nota ciò che anche le femministe hanno notato, e cioè che gli uomini lasciano alle donne un settore quando l’offerta è superiore alla domanda. Il numero di maggio della rivista americana Chronicle of Higher Education pronosticava che, dopo la bolla Internet e quella immobiliare, la prossima che scoppierà potrebbe essere l’istruzione superiore. Le grandi università di ricerca negli Stati Uniti e nel mondo sopravviveranno, ma l’analisi costi/benefici comincia a far sembrare una laurea cosa sorpassata in un mondo digitale dove l’informazione - e i corsi di laurea - sono in rete. Dopotutto Bill Gates si ritirò da Harvard.

Gli uomini vogliono diffondere i loro geni e le donne vogliono qualcuno che protegga i loro figli. Il diario di Bridget Jones di Helen Fielding (che si rifà a Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen) descrive una donna manager di 33 anni, occupata nel mondo dei media, dove già il 70% dei manager sono donne laureate. Statisticamente un uomo sposa una donna che ha la metà dei suoi anni più nove. Come farà Bridget a trovare un uomo di 48 anni che non sia gay, non sia già sposato o divorziato con figli e pesanti alimenti da pagare? In altre parole, dove troverà il Mr Darcy di Jane Austen, quel marito ideale più alto, più vecchio, più intelligente e più ricco di lei?
Questa è la conseguenza non intenzionale dell’istruzione femminile e la forza di mercato che ri-equilibrerà i sistemi scolastici del mondo.

da lastampa.it


Titolo: L’attesa di Clio Napolitano : «Voglio sapere tutto da Michelle»
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2009, 02:40:31 pm
«Ma adesso, per il protocollo, non c’è niente di definito»

L’attesa di Clio Napolitano : «Voglio sapere tutto da Michelle»

La moglie del capo dello Stato: «Negli Usa la first lady conta, in Italia è solo la moglie»


ROMA - Signora Clio Napolitano, che effetto le fanno certi annunci in pom­pa magna di una sorta di G8 delle «first ladies» al Quirinale? Come vanno i prepa­rativi per il suo incontro con le mogli dei leader presenti al summit?

«A parte certe anticipazioni piuttosto fantasiose che ho letto qua e là, il problema è questo: ancora adesso, per il protocollo, non c’è niente di definito. Questa tappa al Quirinale per un tè è prevista, ma per il mo­mento non esiste una lista completa delle mie ospiti. E manca anche un elenco detta­gliato delle delegazioni che potrebbero ac­compagnarle. Quanto ai preparativi, penso a una cosa semplice, un rinfresco. Nulla di solenne, per carità».

Mercoledì lei, che non ha l'abitudine di prendersi la scena, dovrà rappresenta­re l’Italia delle donne. Ed esporsi a flash e telecamere a costo di superare la sua natura schiva, allergica a cerimoniali e riverenze.

«Ripeto, sarà un incontro un po’ infor­male e su binari in un certo senso lievi. Aperto a eventuali imprevisti dell’ulti­ma ora. La presenza della moglie del pre­mier inglese Brown, ad esempio, è parsa in dubbio fino a qual­che giorno fa senza che questo creasse al­cun problema. Per spiegarmi: mi hanno chiesto se possono aggregarsi a visitare il palazzo due ragazze di 12 e 14 anni di non so quale seguito, e ovviamente ho detto di sì. Non so poi se quel pomeriggio verrà an­che, come pare, la mamma della signora Obama, insieme alla stessa Michelle con le due figlie. So solo che durante la mattinata, quando ci sarà l’incontro tra mio marito e il presidente americano, la moglie avrà un colloquio a parte con me».

E’ curiosa di conoscere questa cop­pia? Interrogherà Michelle per capire in che direzione andranno l’America e il mondo?

«Se è per questo le ho anche scritto, qual­che tempo fa. Comunque, diciamo la veri­tà: la curiosità c'è, e pure un po’ di emozio­ne. Per cui, certo: mi fa piacere l'idea di averla di fronte e di parlarle in modo sem­plice e diretto, senza i vincoli imposti dall' ufficialità. Per comprendere meglio i pro­getti di suo marito, che hanno acceso tante speranze, ma anche i progetti suoi. Perché, lo sappiamo, in America è proprio così: c'è una coppia alla Casa Bianca. In questo caso una coppia davvero innovativa».

L'incontro con le consorti dei leader potrebbe essere un’occasione per affron­tare qualche tema «non leggero» di que­sta stagione?

«Non sono cose che si possono pianifi­care in anticipo. Tuttavia spero sul serio che, tra gli spunti di conversazione, possa­no trovare spazio questioni di carattere, diciamo così, sociologico. E magari politi­co, anche se quest’ultima ipotesi mi pare meno probabile».

Ha accennato al ruolo pubblico della first lady americana...

«Un ruolo ben determinato e importan­te, che credo abbia analogie con i compiti attribuiti in Francia alla première dame».

In Italia l’unico capo dello Stato che tentò di far assegnare alla moglie (anzi all'intera famiglia) un ruolo di rilievo costituzionale fu Leone. Ma dovette ri­nunciare.

«Da noi non esiste neanche un termine per definire le mogli dei presidenti. Nei pro­tocolli di pranzi e visite c’è sempre scritto: "Il presidente della Repubblica con la signo­ra Napolitano". Qui, per fortuna o ahimè, le cose vanno così».

Per fortuna o ahimè?

«Non mi voglio pronunciare».


Marzio Breda
06 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: Michelle sta in gruppo, Carla da sola
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2009, 12:53:31 pm
Le first lady

Michelle sta in gruppo, Carla da sola

Agenda fitta tra L'Aquila e Roma: dai musei alle cene (poco tempo per lo shopping)
 
 
ROMA — A L'Aquila presidenti e premier se la vedranno con i timori per le scosse di terremoto, nella capitale andranno in scena le vacanze romane delle first lady. Protagonista: Michelle Obama, nella sua prima volta in Italia, ospite insieme alle figlie a Villa Taverna. Sarà lei oggi il personaggio del giorno nell'intenso (e rigorosamente separato) programma delle mogli del G8/14/20. Hanno dato forfait gli altri due co-protagonisti: il signor Merkel, Joachim Sauer, non cambia abitudini e non segue la moglie a Roma, sarebbe stato l'unico first husband della compagnia.

Carla Bruni Sarkozy invece si è organizzata un programma a parte. Niente visite romane, solo una puntata a L'Aquila in controtempo rispetto alle altre dame: loro ci vanno giovedì mattina e ripartono dopo pranzo, lei atterra giovedì sera e venerdì avrà tutta la mattinata per visitare da sola una tendopoli, l'Ospedale San Salvatore e la Chiesa di Santa Maria del Suffragio, il monumento scelto dalla Francia per contribuire alla ricostruzione, stimata in 6,5 milioni di euro. Un programma polemico, quello della first lady francese? All'Eliseo non commentano, anche se è nota la sua scarsa simpatia per Berlusconi così come la sua attitudine a tenere la scena tutta per sé. Non parteciperà alla tre giorni romana neppure Svetlana Medvedeva che, confermano fonti russe, non accompagna il marito in questa trasferta. Difficile dire quanto abbia inciso sulle scelte del protocollo delle varie ambasciate l'assenza della first lady italiana e il fatto che il programma delle mogli è del tutto slegato da quello dei mariti (non si incontreranno neppure a pranzo e cena).

Ma a Roma stamattina, ad accogliere le mogli ci saranno ben due ministre, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini che le accompagneranno prima in Vaticano da Benedetto XVI (salta la visita Michelle, che ci andrà venerdì con il marito e le figlie) poi da Isabella Rauti alla terrazza Caffarelli (si esibiscono per loro prima Gianni Alemanno in un saluto e poi Heinz Beck in un pranzo leggero) e ai Musei Capitolini: oltre a Michelle, ci saranno Sarah Brown, unica first lady che insieme all'indiana Gursharran Kaur andrà a dormire nella caserma di Coppito, la giapponese Chikako Aso, la messicana Margarita Zavale, la svedese Giulia Reinfeldt e Siza Kele Khumalo, prima delle cinque mogli del poligamo presidente sudafricano Zuma, la cinese Liu Yongqing e la canadese Laureen Harper. Alle 18 appuntamento al Quirinale dove l'unica first lady italiana Clio Napolitano offrirà un tè alle sue colleghe. Serata libera, per girovagare per Roma (sono in allerta i ristoratori di Trastevere e del centro). Giovedì le mogli si trasferiranno a L'Aquila per una visita alla zona terremotata e un pranzo a Coppito. Venerdì invece saranno protagoniste di un seminario del World food programme sul ruolo delle donne nel combattere la fame nel mondo. Nei ritagli di tempo sarà difficile vederle indaffarate nello shopping: il momento non lo permette e il clima neanche.

Gianna Fregonara
08 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Nadia Urbinati Indovina dove sono
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2009, 03:43:08 pm
11/08/2009 19:40

Indovina dove sono


Dove sono i cittadini in Italia? Dove sono le donne? Si chiede Nadia Urbinati - docente di Teoria Politica alla Columbia University - riecheggiando una domanda che ormai da mesi ci sentiamo fare, noi che lavoriamo nei giornali, dai colleghi stranieri che arrivano con gli occhi tondi di stupore e il registratore in mano, che vengono con le loro domande semplici e taglienti. Dove siete, chiedono. Dove siamo? Qualche intellettuale di tanto in tanto parla, voce isolata che fa eco nel vuoto. Una lettera, a volte, un messaggio. Una bozza di documento che gira di mail in mail alla ricerca delle parole per dirlo e non le trova. La promessa di una mobilitazione, forse, a settembre, vedremo.
Dice Urbinati: «Dai bagni di palazzo Grazioli le ragazze del tiranno telefonano alle madri contente per dir loro "indovina dove sono", si rallegrano insieme. Le madri hanno la nostra età. Cosa è successo tra quelle madri e queste figlie, tra noi e loro?».

Il tema è questo, cosa sia successo. La docilità, l'apatia, la disillusione con cui ci si è arresi - in sostanza, nei fatti - alla logica del potere e del suo esercizio fin nelle ultime pieghe o nelle prime. Le donne si comprano. Si usano e si cambiano. Si convocano a decine. Le loro madri le offrono. Le loro insegnanti allargano le braccia e dicono - come quella professoressa del liceo di Noemi - chi non vorrebbe avere un amico importante? Ecco, chi? Le donne rallegrano la vita del capo. Sono un delizioso intrattenimento, a volte tradiscono ma nessuno è un santo e gli italiani capiranno. Un militare per ogni bella donna, giacché è ovvio che una bella donna per strada sia naturalmente oggetto di naturali assalti. Un miliardario da sposare per chi ha belle gambe, cosa può desiderare di meglio una ragazza dotata di belle gambe che una carta di credito Gold? Nelle bancarelle dei mercati si vendono le magliette: le donne sono come i mobili dell'Ikea. Si comprano si montano e quando si rompono si cambiano. Gli adolescenti che sognano una Vita Smeralda le indossano insieme all'abbronzatura della lampada, che costa meno di un viaggio e non si suda.

Dove sono le donne, dunque? Dove sono i loro compagni e i loro figli, i loro padri e i fratelli, dove sono gli italiani? A casa, certo. Davanti allo schermo della tv o del computer, sul blog. «Un pubblico che si cela al pubblico», dice Urbinati. Tutto è privato. La politica è potere. Soldi, affari, favori, scambi. Guerre intestine. Rivalità e rancori. Lamento. Le gabbie salariali, le ronde: ecco come si distrugge quel poco che resta della solidarietà tra cittadini, della giustizia. Divide et impera. Gli uni contro gli altri, poveri contro deboli, vecchi contro giovani e tutti a giocare la schedina, poi, che si può sempre aver fortuna. Se non hai belle gambe per sedurre un miliardario accendi la tv, c'è il quiz.
Il regime birmano ha condannato il premio Nobel San Suu Kyi a un anno e mezzo di reclusione, giusto il tempo necessario per tenerla lontana dalla competizione elettorale del 2010. Reclusa in casa. Un'altra icona, un altro simbolo da esibire nelle piazze dove le piazze ci sono. Non qui. Qui è il tempo del silenzio. Il suo, il nostro.

da unita.it


Titolo: Rompere il silenzio: se le donne ritrovano la voce
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 12:01:24 pm
Rompere il silenzio: se le donne ritrovano la voce


Da «Indovina dove sono», la domanda di una ragazza che telefona contenta alla madre dal bagno attiguo alla camera da letto del presidente del Consiglio, è partita la catena: e voi dove siete? Dove sono gli italiani, dove sono le donne?, si chiedeva l’altro ieri Nadia Urbinati, docente di Teoria politica, mentre ci parlava di «democrazia docile e apatica». Le ha risposto Lidia Ravera: «La nostra rivoluzione è stata interrotta. Riportiamo i corpi in piazza, contiamoci per contare».

Di rivoluzione interrotta parla oggi Simona Argentieri, psicoanalista: «I diritti sono ereditati ma non ereditari». Arrivano in dote alle nuove generazioni ma facilmente si possono perdere. Nelle pagine di Forum Paola Concia, deputata, propone di ripartire «dalla forza di quel che si è conquistato in questi anni, come ci hanno mostrato gli operai dell’Innse». Centinaia di lettori e lettrici hanno scritto e partecipato ai blog dell’Unità. Vi proponiamo uno spaccato delle lettere.

Moltissimi di loro mettono in relazione la forza della classe operaia («gli eroi dell’Innse») e la debolezza di chi non riesce ad esprimere la propria rabbia, il proprio dissenso. Ribellarsi fa bene, abbiamo titolato in prima pagina pensando ad entrambi: a chi lo fa e a chi non osa.

Adesso. Perchè le cose cambiano, intanto. Presto sarà tardi. La «recrudescenza stagionale» di violenza e di delitti - donne uccise da uomini - è un segnale che viene dalla cronaca nera, un segnale che naturalmente non parla di follia (follia collettiva? epidemia di follia?) ma di disagio, di incultura, di regresso.

Le pubblicità elettorali che esibiscono tette e culi di titolari anche autorevoli (il seno della cancelliera tedesca, per esempio) sono un segnale che viene dalla politica, dal linguaggio che si usa per farla. L’icona di Berlusconi nell’Erotica Tour che fa impazzire le notti di Ostia (slogan: «Vi aspetto nel lettone di Putin») chiude il dibattito sulla distinzione tra pubblico e privato: quale distinzione? Siamo già allo slang. Il lettone di Putin è in piazza. Ora tocca a noi.

14 agosto 2009
da unita.it


Titolo: Benedetta Barzini: alcuni indizi sul mutismo delle donne
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2009, 11:19:22 am
Benedetta Barzini: alcuni indizi sul mutismo delle donne

di Benedetta Barzini


Nel ragionare sui punti toccati con estrema lucidità da Nadia Urbinati e nel chiedersi il perché del silenzio delle donne italiane forse vi sono indicazioni (o indizi) precisi di cui tenere conto.

La bulemica apatia che ha dilagato fra la gente non ha né sesso né età. Il silenzio della popolazione femminile è evidenziato dal fatto che la componente più emancipata si è rifugiata nel preoccuparsi delle proprie sembianze invece di agire/reagire nel sociale (il centinaio di pubblicazioni «femminili» che dettano legge su come essere belle è la prova di un’abnegazione rispetto al pensare con la propria intelligenza).

-  Le organizzazioni femminili d’un tempo (per esempio l’U.D.I., l’Unione donne italiane) si sono sciolte, forse a ragione, ma ciò indica l’inizio di un diverso percorso di riflessione.

- L’allergìa al divenire «pubblici» – l’esposizione ai media, molto diversa oggi dagli anni 70 in cui si era fortemente gruppo, potrebbe spaventare.

- Nel rivendicare («il corpo è mio e me lo gestisco io») si afferma sperequazione e ineguaglianza. Ma perché dovrebbero essere le donne a manifestare contro le violenze subite e contro lo sfacelo dei valori e non invece gli uomini? Le donne chiedono il permesso dei loro diritti più elementari al maschio da loro stesse educato a diventare il «nemico».

- I tempi della Storia  sono lunghi. Le donne in Italia hanno attraversato la fase della «denuncia» – ora siamo in quella del districarsi nella complessità della consapevolezza. Le fasi della presa di coscienza sono diverse in ogni cultura: di sicuro questi sono i tempi in cui il femminile inizia a esistere.

- L’attuale «rassegnazione» porta a pensare alla Storia del Paese più giovane d’Europa (neanche 150 anni…) e cosa ne consegue dal punto di vista dell’incapacità di avere un senso civico emancipato.

- Il pasticcio di una democrazia in dissolvenza è causato dall’antropologica vittoria (ancora tale quale) della forza (fisica, economica, ideologica) del maschile. I tempi per dissolvere tutto questo, inclusa l’idea di un Dio fortemente maschio, sono secolari. Ci vuole comprensione e pazienza.

17 agosto 2009
da unita.it


Titolo: Il commento di Serena Dandini
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2009, 11:20:01 am
Il commento di Serena Dandini

di Serena Dandini

Nell’apatia dei trenta gradi all’ombra, aspettando l’autunno e l’estrazione del super enalotto, le parole di Nadia Urbinati su l’Unità del 12 Agosto ci hanno dato una scossa elettrica più urticante della medusa assassina. «Dove sono le donne?» si chiede l’impertinente filosofa allieva di Bobbio. E perché rimangono silenziose davanti al declino morale della politica e della società italiana, degrado che le vede non solo vittime ma ahimé spesso complici e protagoniste attive di un decadimento sociale che riporta in vita odiosi stereotipi femminili che speravamo di aver seppellito per sempre. In effetti, non ci avevo pensato, che fine hanno fatto le italiane? Non saranno tutte rinchiuse nei bagni di Palazzo Grazioli in attesa del loro turno? E poi quanti bagni ci saranno mai a Palazzo Grazioli? Se è per questo ci sono anche le toilettes del ministero degli esteri e quelle della Rai, il paese è pieno di anticamere dove ripassarsi il rossetto prima di affrontare un colloquio di “lavoro”, con mamma che aspetta a casa per sapere com’è andata. «Tutto a posto, mà, mi hanno preso, e mi è costato solo una palpatina, alla mia amica è andata peggio ma si è beccata anche un seggio elettorale». E le mamme dove sono? Anche loro, come noi, eredi delle lotte femministe ad un certo punto si sono confuse e hanno scambiato l’emancipazione con una seduta libera di botulino?

Non a caso l’instancabile direttore di questo giornale ci ricorda che ci siamo arrese «…alla docilità, all’apatia, alla disillusione» - in sostanza, nei fatti - alla logica del potere e del suo esercizio. Le donne si comprano. Si usano e si cambiano. Si convocano a decine. Le loro madri le offrono. Le loro insegnanti allargano le braccia e dicono - come quella professoressa del liceo di Noemi - chi non vorrebbe avere un amico importante? Ecco, chi?. Allora è andata. Così fan tutte? Abbiamo perso definitivamente quello straccio di dignità e autostima che le nostre nonne ci avevano consegnato marciando per il diritto al voto? E le zie e le sorelle e le madri che hanno lottato per il divorzio, l’aborto, l’eliminazione del delitto d’onore e il riconoscimento dello stupro come delitto contro la persona e non contro la morale, dove sono oggi? Tutte archiviate sotto l’etichetta “femministe baffone”, donne fuori moda. Essere o non essere trendy, questo è il problema. Meglio tacere per non passare da antimoderne, ed essere relegate nel girone “suore laiche”. Ci ricorda ancora la direttora dell’Unità che siamo nel tempo del silenzio: «Qualche intellettuale di tanto in tanto parla, voce isolata che fa eco nel vuoto». O peggio viene subito etichettata come «moralista/ bacchettona», nuovo insulto di moda che in un ridente dibattito tv si è beccata Emma Bonino da parte del principe dei fori delle tenebre Niccolò Ghedini. Insomma qual è il virus che sta minando l’immagine sociale delle donne italiane? Una volta mogli, madri e femministe integerrime e oggi all’occorrenza anche escort perfette, pronte a tutto pur di accaparrarsi vantaggi sociali, avanzamenti di carriera, o almeno un posticino al sole.

Sembravano fantasmi del passato, come le barzellette sulle maggiorate e invece eccoli di nuovo qui i pupazzi dell’eterna commedia all’italiana: il principale e la segretaria seduta sulle sue ginocchia, il capo-struttura tv e l’attricetta, il politico e la stagista. Affossati da una letteratura più entusiasmante riafforano oggi nelle boutade che fa ridere solo il premier e per contratto tutti i suoi invitati. Il virus è sicuramente potente, la malattia è diffusa e come l’influenza di tipo A gode di un’ottima stampa. Ci ricorda la storica Elisabetta Vezzosi che i periodici più diffusi e i programmi più visti sono riempiti ossessivamente da queste nuove eroine del socialclimbing, ma è una raffigurazione che non rende giustizia alle migliaia di donne che si sono guadagnate posizioni sul campo lavorando sodo per mettere in luce il proprio talento. Sapendo in anticipo che il merito non fa punteggio a questo tavolo da gioco. Sarà silenzioso e poco rappresentato ma esiste ancora un paese immune, un popolo femminile (e anche maschile) allegro e combattivo che non vorrebbe cadere nella trappola e si adopera ogni giorno in quell’assurdo percorso ad ostacoli che oggi si deve affrontare per realizzarsi. Dove sono le giovani donne? Spesso a casa a studiare. O su un charter low-cost dirette verso università straniere che hanno accolto una domanda già ammuffita nel cassetto di qualche barone nostrano.

Possiamo pontificare dall’alto di giornali, talk-show o aule universitarie sulla moralità delle nostre ragazze ma sarebbe più costruttivo spendere tutte le nostre energie per rendere trasparenti i concorsi, le audizioni, i provini, come le anticamere delle redazioni, degli ospedali, delle fabbriche, dei partiti politici e di qualsiasi altro ufficio pubblico o privato. Perché la selezione della classe lavoratrice o dirigente in questo paese, a parte poche eccezioni, è sempre affare di porte chiuse, di accordi segreti, di «do ut des». E se la legge del sopruso e delle raccomandazioni continua a vincere, sarà difficile estirpare l’idea che la strada più semplice e diretta, anche se immorale, non si dovrà percorrere. Sono pienamente d’accordo con la psicologa Simona Argentieri, intervenuta in questo bel dibattitone, quando dice: «Magari si ostenta il proprio scontento, ma non ci si sottrae a tutte quelle collusioni che mantengono in piedi il sistema: egoismi, narcisismi, complicità marginali col potere, clientelismo, omissioni, indifferenza». E più di tutto l’indifferenza che ci frega, ed è l’esempio più scoraggiante e negativo che possiamo offrire alle nuove generazioni che si affacciano alla vita. Dove sono le donne? Se ci siete battete un colpo. Evviva il dibattito.

21 agosto 2009
da unita.it


Titolo: Livia Turco "Primo: rompere il silenziatore su ciò che fanno le donne"
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2009, 11:20:54 am
"Primo: rompere il silenziatore su ciò che fanno le donne"

di Livia Turco


Ritessere le fila di una forza collettiva e di un progetto condiviso di donne è l’indicazione emersa dall’importante dibattito ospitato de l’Unità in questi giorni. Credo che questa sia la questione fondamentale per rompere il silenzio delle donne. Ma di quale silenzio parliamo? Personalmente l’ho avvertito con disagio quando non abbiamo saputo elaborare politicamente e contrastare in modo efficace l’incredibile intreccio sesso-potere-denaro che ha il suo epicentro nel presidente del Consiglio e che ha umiliato sia le donne che le istituzioni.

Analogo silenzio permane sui temi economico-sociali, dell’immigrazione, della sicurezza, delle questioni etiche. Silenzio paradossale perché su di essi le donne hanno eccellenti competenze e saperi, tessono relazioni, costruiscono ogni giorno, nel lavoro e nella famiglia, fatti e azioni di innovazione e di coesione sociale. Perché allora questo silenzio nella sfera pubblica quando in realtà le donne sono il soggetto economico, sociale e culturale più dinamico ed innovativo nella società?

Tento alcune risposte. C’è il silenzio ma anche il silenziatore su ciò che le donne dicono e fanno. C’è il silenzio ma anche la solitudine di ciascuna che nelle commissioni parlamentari, nei consigli comunali, nell’azienda, nella scuola e in famiglia stringe i denti e va avanti. Il silenzio di chi cerca di comporre gli equilibri difficili di una emancipazione che resta incompiuta. C’è silenzio anche perché ci sono stati e ci sono troppi sordi. Nella politica anzitutto.

Dovremmo pure aprire un dibattito con i nostri uomini, quelli attuali del Pd, quelli che sono stati dirigenti di primo piano dei Ds e della Margherita per chiedere loro conto della pervicace sordità nei confronti della elaborazione politica e culturale delle donne. Dobbiamo anzitutto rompere le solitudini, rimetterci in rete per dare valore al tanto che già stiamo facendo. A partire dai temi urgenti che sono anche quelli di fondo: l’equità, lo sviluppo, l’etica della cura, la convivenza. Dobbiamo rimetterci in moto con una consapevolezza e una ambizione: il berlusconismo come cultura e pratica politica è entrato in crisi.

Noi donne dobbiamo accelerare questa crisi e costruire questa alternativa che non è solo di governo di alleanze e di programmi. Ma di cultura e di senso comune. Di relazioni con le persone e di pratica politica. Alla mercificazione della persona dobbiamo contrapporre la forza delle relazioni umane, all’egoismo il vantaggio della convivenza; al mito del successo la società sobria ed equa; alla solitudine l’etica del prendersi cura. Sono questioni su cui le donne sono maestre. A partire da qui possiamo costruire un nuovo Paese. Pensando al passaggio di testimone, anche nella politica, con le nostre figlie i nostri figli.

20 agosto 2009
da unita.it


Titolo: Dacia Maraini "Alzare la voce contro discriminazioni e misoginia"
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 10:47:30 am
"Alzare la voce contro discriminazioni e misoginia"

di Dacia Maraini


Nadia Urbinati ha gettato il sasso nelle acque stagnanti della politica che riguarda le donne italiane. Ha riscoperto un grande sentimento: l’indignazione di fronte alla quotidiana misoginia che si sta trasformando in razzismo aperto, sancito da nuove leggi di intolleranza. Nadia Urbinati si stupisce che le donne a cui si rivolge proponendo di fare qualcosa subito, la invitino ad aspettare l’autunno. Ma il paese va a rotoli adesso e bisogna agire subito. Dopo sarà troppo tardi. La risposta è un inquietante silenzio. «Le vittorie di Berlusconi appaiono ormai la conseguenza e non la causa dell’indebolimento della presenza attiva dei cittadini nella vita pubblica». La consapevolezza della gravità del guasto appare sempre piu larvale, l’atteggiamento comune essendo la resa, come di fronte a una fatalità. Tanto, non c’è niente da fare, le dicono. Nadia lo chiama «il senso dell’inutilità dell’agire collettivo». «Ma dove sono le donne?» continua «in questa democrazia in declino dove si parla di donne per dire delle escort, delle ragazzine nel bagno del presidente che telefonano alla madre per raccontare contente, “mamma sapessi dove sono”!»… A tal punto il degrado.

La cosa più avvilente è che l’opposizione non ha trovato una voce altrettanto convincente. Balbetta, si contraddice, tace. Negli ultimi mesi, come dice Nadia «solo l’Unità e la Repubblica hanno avuto la capacità di fare infuriare il tiranno, l’opposizione no». Persa nelle sue battaglie interne, lascia spazio solo a un «nuovo populismo giustizialista». Insomma «siamo orfani di politica». Ormai valgono solo «i conti in banca, lo scambio di favori». Aggiungerei l’idea orribile che tutto si compra e si vende, non solo i corpi delle donne, ma anche le idee, il consenso, la morale, la verità. Nadia la chiama una «trasformazione molecolare». Vista dall’estero «l’Italia non ha piu niente da dire, resta solo un esempio interessante da studiare sul declino della democrazia».

Le donne sembrano intente soprattutto al lamento. Ma lamentarsi è facile, dice Nadia, non costa nulla. Proporre una soluzione significa invece assumersi una responsabilità, «pagare il prezzo di una decisione». Aggiungerei che spesso il silenzio delle donne ha una matrice di sconforto, di rabbia trattenuta, di paura e di solitudine. Le analisi, le stime, le constatazioni ci sono ma è come se stentassero a trasformarsi in giudizi e azione. In un periodo in cui le ideologie sono morte, l’utopia è sepolta e le speranze sono malate, si fa fatica ad avere fiducia nel futuro. Un sistema organico di idee porta a credere nella protesta in sé, come fattore di crescita collettiva: io protesto e pretendo anche se ho poche speranze di ottenere ciò che voglio perché è giusto farlo, perché chiedo a me stessa e alle mie simili di farlo, perché credo, nonostante le apparenze e le previsioni pessimistiche, nell’importanza di una politica in cui il dissenso è essenziale, perché faccio parte di una comunità di sesso troppo ingiustamente trattato in tutto il mondo.

Quante donne si rendono conto che la misoginia sta crescendo, si sta gonfiando assieme ad altri razzismi contro il diverso, l’estraneo? Forse più di quelle che immaginiamo. Ma la paura di apparire moraliste, di apparire rompiscatole e presuntuose, le trattiene dall’esprimere la rabbia che hanno in corpo.

Il razzismo sta entrando, con allegra disinvoltura, nella vita di tutti i giorni, e sta dettando le sue regole. C’è qualcuno che addirittura pretende di farlo diventare legge del paese. Una legge di intolleranza e odio verso l’altro. Le donne, come al solito, saranno le prime a farne le spese. Perché la misoginia è la piu subdola di tutti i razzismi, la più contraddittoria, la più difficile da rilevare, soprattutto quando è entrata con tanta prepotenza e agio nella mentalità collettiva. Proprio ieri è stato raccontato dai giornali che in Afganistan, per ottenere i voti dei talebani moderati, sono state accettate leggi aberranti come quella che permette al marito scontento della moglie di lasciarla morire di stenti. Potrà privarla del cibo oltre che della libertà.

Sono cose lontane, obietta qualcuno, non ci riguardano. Senza pensare che, in un mondo globalizzato le idee corrono piu veloci delle rondini. E fanno il nido ovunque, da un continente all’altro. La nuova scintillante misoginia può prendere le forme dell’intolleranza maritale in Afganistan, ma subdola si insinua al di qua di montagne e mari per rivelarsi attraverso programmi televisivi, attraverso nuove normative psicologiche, attraverso lo stabilirsi di modelli insultanti per le donne. Si dimentica fra l’altro che anche da noi, paese sviluppato che si pretende emancipato, si pratica una mattanza silenziosa: ogni due giorni una donna muore per mano del marito, dell’amante, del compagno di vita, per la semplice ragione che ha mostrato di desiderare la propria libertà al di sopra di una sudditanza anche se ben compensata.

Non è che manchino donne intelligenti, consapevoli, che parlano ad alta voce. Ma lo strepito è tale che le voci singole non passano. Solo una massiccia protesta di massa potrebbe suscitare qualche inquietudine, qualche ripensamento. Soprattutto creerebbe quella consapevolezza di genere che è tanto importante per affrontare nuove e vecchie misoginie e discriminazioni.

22 agosto 2009
da unita.it


Titolo: GIOVANNA ZUCCONI Il figlio a orologeria
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 10:57:25 am
23/8/2009
 
Il figlio a orologeria

 
GIOVANNA ZUCCONI
 
Adesso non posso. Farò un figlio quando avrò tempo, quando lavorerò di meno, quando troverò un lavoro, appena si libera l’appartamento della nonna. Come milioni di donne, anche Celine Dion, cantante, ha dovuto-voluto rimandare la gravidanza al momento giusto. Solo che lei doveva prima finire una tournée mondiale, guadagnare 273 milioni di dollari, eccetera. E soprattutto: solo che il bambino che le nascerà in primavera sarà il fratello gemello del figlio che ha già, René-Charles, di anni otto. Otto anni dopo, un embrione congelato per quella prima fecondazione assistita è stato impiantato, e ha attecchito. La femme fetale Celine lo ha annunciato subitissimo, visto che partorirà in maggio. Forse per prevenire l’inevitabile gossip, forse per scaramanzia (ha 41 anni, età non facile per molte cose, gravidanze incluse), o forse davvero perché, come cinguettano i suoi portavoce, è felice, entusiasta. Questa, teniamolo presente, è anche una storia d’amore. Oltre che, per il nostro sguardo «normale», un caso di capriccio divistico, di oltranza medico-tecnologica, di superomismo (d’accordo: superdonnismo).

Alla nascita di René-Charles, la signora disse in un’intervista che ne esisteva un «gemello da laboratorio»: «Non so se è buono per sempre, ma credo che si conservi a lungo. Andrò a prendermelo, poco ma sicuro». Che tono da film western. E ancora: «Quell’embrione congelato a New York è il mio bambino che aspetta di venire al mondo». Solo al momento giusto, naturalmente: giusto per la mamma. Nulla però è mai semplice come sembra. Dieci anni fa, raccontano i giornali, al marito di Celine, che si chiama René Angélil, ha 67 anni ed è il suo impresario storico, diagnosticarono un carcinoma. Congelarono il suo seme prima della chemio. Da quella prima forzatura, rispetto alla «normalità» e alla «natura» che avrebbero condannato la coppia alla sterilità, è nato il primo figlio, e ora nascerà il secondo.
Ma allora chi è, quella donna? Un mostro volitivo che ottiene ogni successo (figli inclusi), oppure una moglie e madre che, come milioni di altre, cerca di conciliare il lavoro e la famiglia? Una pop star bizzosa, o l’ultima di 14 figli di una povera famiglia canadese? E come giudicarla, sapendone soltanto dai giornali? E, più in generale, come giudicare, se non come un inno alla vita, chi vuole un figlio comunque, anche in provetta, anche congelando e scongelando? Chi si incaponisce e pretende: non un vestitino nuovo, ma un nuovo essere umano.

Sommessamente, soltanto due preghierine. La prima: che però, ecco, non diventi un’abitudine, questa di scongelare un gemello quando fa comodo. O di congelarlo quando fa scomodo. La seconda: che qualcuno protegga il bambino che c’è già, René-Charles: avrà già saputo di essere nato da provetta, e come, e da chi, magari da un programma di gossip? E chi gli spiegherà che quell’intruso piccoletto ha la sua età, ma anche no?

da lastampa.it


Titolo: «Donne incinte sul barcone Le ho viste abortire e morire»
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2009, 11:24:26 am
In ospedale Una dei cinque eritrei scampata al mare

«Donne incinte sul barcone Le ho viste abortire e morire»

Titi la sopravvissuta racconta


PALERMO — «A bordo c’erano an­che tre donne incinte. Due di loro pri­ma di morire hanno perduto il bam­bino che portavano in grembo, han­no abortito per la fame, la sete e la sofferenza di un viaggio terrificante durato 21 giorni». Parla un inglese stentato Titi Tazrar, 27 anni, eritrea, unica donna sopravvissuta alla trage­dia nel Canale di Sicilia. Ma lo strazio di quelle compagne di viaggio che coltivavano la speranza di una vita migliore soprattutto per le creature che portavano in grembo lo racconta anche a gesti. Alza a fatica la testa dal cuscino e muove le mani dall’alto in basso, sfiorandosi il ventre come a dar forma all’orrore di quei feti che vengono via dall’utero materno. Un gesto che fa calare il silenzio tra me­dici e infermieri dell’ospedale Cervel­lo di Palermo dove ieri è arrivata in elicottero assieme a un altro conna­zionale di 24 anni, Halligam Tissfa­raly, che se ne sta raggomitolato te­nendosi il braccio teso alla flebo.

Anche Titi è visibilmente provata, ma sgrana gli occhi e quasi si dispera quando non riesce a farsi capire. «A bordo non avevamo praticamente nulla — racconta — solo qualche bot­tiglia d’acqua, pochissimo cibo e ne­anche un telefono per lanciare l’allar­me. Alla partenza eravamo 78, in gran parte eritrei ma anche etiopi e nigeriani. Di alcuni ci accorgevamo che erano morti perché durante la notte cadevano direttamente in ma­re, altri li abbiamo dovuti abbando­nare noi. Le donne incinte sono quel­le che più hanno sofferto, noi non sa­pevamo come assisterle e consolarle. Ma poco dopo aver perso il bambino sono morte anche loro».

E poi dà la sua versione sulla con­troversa questione dei soccorsi mal­tesi. «Ci hanno dato cibo, acqua e del­la benzina ma ci hanno lasciati in ma­re. Anche un’altra imbarcazione si è accostata per darci cibo e acqua. Nes­suno però ci ha preso a bordo». Si fa evasiva di fronte alla domanda diret­ta se sono stati loro a rifiutare il tra­sbordo sulle imbarcazioni che hanno fornito i viveri. Insiste: «Ci hanno da­to solo acqua e cibo, mentre altre na­vi non si sono neppure avvicinate. Noi ci sbracciavamo, gridavamo, chiedevamo aiuto ma loro facevano finta di non vederci». Per Titi il trasfe­rimento in ospedale si è reso necessa­rio per le sue precarie condizioni di salute («si riprenderà presto» assicu­rano i medici).

Dietro la sua attuale fragilità si in­travede un’abitudine alla sofferenza che è stata determinante per resiste­re 21 giorni in balia del mare. Forse quel che resta della vita militare a cui era destinata. In Eritrea frequentava quella che lei chiama «accademia mi­­litare » e che forse è proprio la durissi­ma «Sawa» dove le donne subiscono ogni tipo di violenza. «Era una vita che non mi piaceva — si limita a dire lei — volevo e voglio una vita diver­sa ». Titi non è sposata e non ha figli. Nel suo Paese ha lasciato la madre, un fratello e una sorella che lavorano in un’azienda agricola e dice di non aver pagato nulla per il viaggio: «A pagare per me è stato mio zio mater­no, ma non so quanto abbia versa­to ». Sa benissimo invece quanto ha dovuto penare prima di arrivare al tanto atteso viaggio della speranza in Italia: «Un anno e otto mesi ho do­vuto aspettare prima dell’imbarco— racconta — restando a lungo in Su­dan e poi diversi mesi in Libia».

Non parla o preferisce tenerle per sé storie di violenze in Eritrea e du­rante il cammino verso l’Italia, ma il­lumina la stanza col suo gran sorriso quando si accenna al futuro: «Ho chiesto asilo politico — scandisce— sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia ma in Italia. Voglio restare qui. Sono di­sposta a fare qualunque tipo di lavo­ro ma voglio finalmente una vita mi­gliore ».

Alfio Sciacca
24 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: "Li avete mandati al massacro in quei lager stupri e torture"
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2009, 04:34:49 pm
Il racconto. Tra le reduci del Pinar: meglio morire che tornare lì

"Voi italiani siete buoni, come potete fare una cosa del genere?"

"Li avete mandati al massacro in quei lager stupri e torture"

Le lacrime di Hope e Florence per i disperati riportati in Libia: i nostri mesi all'inferno

dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO

 

LAMPEDUSA - "Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no". Hanno le lacrime agli occhi le donne nigeriane, etiopi, somale, le "fortunate" che sono arrivate a Lampedusa nelle settimane scorse e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle motovedette italiane e rispediti "nell'inferno libico", dove sono sbarcati ieri mattina. Tra di loro anche 41 donne.
Alcuni hanno gravi ustioni, altri sintomi di disidratazione. Ma la malattia più grave, è quella di essere stati riportati in Libia. Da dove "erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non solo le donne, ma anche gli uomini".

I visi di chi invece si è salvato, ed è a Lampedusa raccontano una tragedia universale. La raccontano le ferite che hanno sul corpo, le tracce sigarette spente sulle braccia o sulla faccia dai trafficanti di essere umani. Storie terribili che non dimenticheranno mai. Come quella che racconta Florence, nigeriana, arrivata a Lampedusa qualche mese fa con una bambina di pochissimi giorni. L'ha battezzata nella chiesa di Lampedusa e l'ha chiamata "Sharon", ma quel giorno i suoi occhi, nerissimi, e splendenti come due cocci di ossidiana, erano tristi. Quella bambina non aveva un padre e non l'avrà mai.

"Mi hanno violentata ripetutamente in tre o quattro, anche se ero sfinita e gridavo pietà loro continuavano e sono rimasta incinta. Non so chi sia il padre di Sharon, voglio soltanto dimenticare e chiedo a Dio di farla vivere in pace". Accanto a Florence, c'è una ragazza somala. Anche lei ha subito le pene dell'inferno. "Quando ho lasciato il mio villaggio ho impiegato quattro mesi per arrivare al confine libico, e lì ci hanno vendute ai trafficanti e ai poliziotti libici. Ci hanno messo dentro dei container, la sera venivano a prenderci, una ad una e ci violentavano. Non potevamo fare nulla, soltanto pregare perché quell'incubo finisse". Raccontano il loro peregrinare nel deserto in balia di poliziotti e trafficanti. "Ci chiedevano sempre denaro, ma non avevamo più nulla. Ma loro continuavano, ci tenevano legate per giorni e giorni, sperando di ottenere altro denaro".

Il racconto s'interrompe spesso, le donne piangono ricordando quei giorni, quei mesi, dentro i capannoni nel deserto. Vicino alle spiagge nella speranza che un giorno o l'altro potessero partire. E ricordano un loro cugino, un ragazzo di 17 anni, che è diventato matto per le sevizie che ha subito e per i colpi di bastone che i poliziotti libici gli avevano sferrato sulla testa. "È ancora lì, in Libia, è diventato pazzo. Lo trattano come uno schiavo, gli fanno fare i lavori più umilianti. Gira per le strade come un fantasma. La sua colpa era quella di essere nero, di chiamarsi Abramo e di essere "israelita". Lo hanno picchiato a sangue sulla testa, lo hanno anche stuprato. Quel ragazzo non ha più vita, gli hanno tolto anche l'anima. Preghiamo per lui. Non perché viva, ma perché muoia presto, perché, finalmente, possa trovare la pace".

Le settimane, i mesi, trascorsi nelle "prigioni" libiche allestite vicino alla costa di Zuwara, non le dimenticheranno mai. "Molte di noi rimanevano incinte, ma anche in quelle condizioni ci violentavamo, non ci davano pace. Molti hanno tentato di suicidarsi, aspettavano la notte per non farsi vedere, poi prendevano una corda, un lenzuolo, qualunque cosa per potersi impiccare. Non so se era meglio essere vivi o morti. Adesso che siamo in Italia siamo più tranquille, ma non posso non stare male pensando che molte altre donne e uomini nelle nostre stesse condizioni siano state salvate in mare e poi rispedite in quell'inferno, non è giusto, non è umano, non si può dormire pensando ad una cosa del genere. Perché lo avete fatto?".

"Noi eravamo sole, ma c'erano anche coppie. Spesso gli uomini morivano per le sevizie e le torture che subivano. Le loro mogli imploravano di essere uccise con loro.
La rabbia, il dolore, l'impotenza, cambiavano i loro volti, i loro occhi, diventavano esseri senza anima e senza corpo. Aiutateci, aiutateli. Voi italiani non siete cattivi. Non possiamo rischiare di morire nel deserto, in mare, per poi essere rispediti come carne da macello a subire quello che cerchiamo inutilmente di dimenticare". Hope, 22 anni, nigeriana è una delle sopravvissute ad una terribile traversata. Con lei in barca c'era anche un'amica con il compagno. Viaggiavano insieme ai loro due figlioletti. Morirono per gli stenti delle fame e della sete, i corpi buttati in mare. "Come possiamo dimenticare queste cose?". Anche loro erano in Libia, anche loro avevano subito torture e sevizie, non ci davano acqua, non ci davano da mangiare, ci trattavano come animali. Ci avevano rubati tutti i soldi. Per mesi e mesi ci hanno fatto lavorare nelle loro case, nelle loro aziende, come schiavi, per dieci, venti dollari al mese. Ma non dovevamo camminare per strada perché ci trattavano come degli appestati. Schiavi, prigionieri in quei terribili capannoni dove finiranno quelli che l'Italia ha rispedito indietro. Nessuno saprà mai che fine faranno, se riusciranno a sopravvivere oppure no e quelli che sopravviveranno saranno rispediti indietro, in Somalia, in Nigeria, in Sudan, in Etiopia. Se dovesse accadere questo prego Dio che li faccia morire subito".

(8 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Berlusconi, «le donne italiane si ribellano» (Nyt)
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:26:21 am
Berlusconi, «le donne italiane si ribellano» (Nyt)

di Elysa Fazzino
   

Una mano femminile, con la fede al dito, spunta da un piatto di spaghetti: con questa vignetta il New York Times illustra un commento di Chiara Volpato «Le donne italiane si ribellano». La vignetta evoca quella di Der Spiegel, che negli anni di piombo mise in copertina un piatto di spaghetti con sopra una pistola. Molti fuori dall'Italia – scrive Volpato - credono che Silvio Berlusconi la faccia franca con il suo «comportamento sessista» perché gli uomini italiani lo perdonano e le donne per lo meno lo tollerano. «Non è più vero. Oggi ci sono due Italie: un'Italia ha assorbito l'ideologia di Berlusconi sia per interesse sia per incapacità di resistere ai suoi enormi poteri di persuasione; l'altra contrattacca».

«Era ora: la condotta di Berlusconi è stata vergognosa», si legge ancora sul New York Times. Il commento di Volpato, docente di psicologia sociale all'Università di Milano, ricorda gli episodi più recenti: il premier italiano ha consigliato a una studentessa di sposarsi un uomo ricco per uscire dalle difficoltà economiche, si è vantato della bellezza delle candidate al Parlamento del suo partito, ha designato una ex modella con cui aveva flirtato come ministro delle Pari Opportunità. Finché la moglie Veronica lo ha accusato di amoreggiare con giovani donne e ha chiesto il divorzio.

«Perché gli italiani devono sopportare tutto questo?». Rispetto agli altri Paesi europei, scrive Volpato, in Italia le idee conservatrici sono dure a morire, in parte a causa della nostra cultura patriarcale, in parte a causa dell'«enorme influenza della Chiesa cattolica», la cui interferenza politica e sociale sembra essersi rafforzata da quando Berlusconi è diventato Primo ministro nel 1994.

Il «tetto di cristallo» che le donne non riescono a spezzare sembra essere più resistente da noi: l'Italia è solo al 67.mo posto su 130 nel recente rapporto del World Economic Forum sull'indice del divario sessuale, dopo l'Uganda, la Namibia, il Kazakhstan e lo Sri Lanka. Secondo l'Ocse, solo metà delle donne italiane hanno un lavoro, contro una media di due su tre. Gli uomini italiani hanno 80 minuti in più al giorno di tempo libero, la differenza più grande tra i 18 Paesi considerati. «Non c'è da stupirsi che molte donne italiane non vogliano prendersi il peso di allevare bambini». E il tasso di natalità dell'Italia è estremamente basso.

I media italiani non fanno che esacerbare la realtà, continua Volpato, presentando un'immagine della donna «incomprensibile nel resto d'Europa». Bellezze poco vestite fanno da silenziose decorazioni in show condotti da uomini, più vecchi e «vestiti di tutto punto». Con questo «lavaggio del cervello», l'ambizione più diffusa tra le ragazzine è di diventare una «velina».
Secondo Volpato, ci sono segni di cambiamento. Gli italiani denunciano il comportamento sessista di Berlusconi con denunce alla Corte europea dei Diritti dell'uomo, con il documentario di Lorella Zanardo «Il corpo delle donne». Prima del G8, un gruppo di accademiche, tra cui Volpato, ha presentato una petizione per invitare le first ladies a boicottare il vertice. In pochi giorni, la petizione ha ottenuto 15mila firme. La popolarità di Berlusconi è calata sotto il 50%. Il commento si conclude con un appello alle donne (e anche agli uomini) dissenzienti di farsi avanti perché l'Italia è finalmente pronta a scendere in piazza.

Sempre con Berlusconi nel mirino, il Guardian oggi mette a confronto l'atteggiamento delle mogli del premier italiano e dei fratelli Kennedy: mentre Veronica attacca il coniuge, le donne dei Kennedy hanno sempre coperto gli eccessi dei rispettivi mariti. Così – ironizza Alexander Chancellor - Berlusconi potrebbe anche avere vissuto con maggiore probità dei fratelli Kennedy, «eppure il primo ministro italiano è oggetto di derisione universale, mentre i Kennedy, anche dopo la loro morte, sono sempre ai primi posti nel pantheon degli dei americani».
E' stata la moglie di Berlusconi – ricorda il Guardian - a lanciare l'ondata di accuse sulla sua ossessione per le giovani donne. Le mogli dei Kennedy invece erano unite nel proteggere i mariti dall'esposizione pubblica delle loro debolezze.

Un altro commento sul sito del Guardian, «Indulging Berlusconi», si occupa dell'indulgenza plenaria. Il premier conta di farsi assolvere i peccati nella "Perdonanza" che si terrà a L'Aquila nel weekend, scrive John Hooper. «Ma lo salverà?». Comunque, «ci sono dubbi sul fatto che l'eternamente controverso primo ministro italiano sia desideroso – o capace – di approfittare dell'opportunità». Semplicemente partecipare alla processione significherebbe annunciare al mondo che si considera un peccatore. Per di più, è divorziato e «quindi non può fare la comunione».

L'uscita del libro «Tendenza Veronica», di Maria Latella, è oggetto di cronache su numerosi siti esteri. Il britannico Times titola: «Terapia per dipendenza sessuale potrebbe salvare il matrimonio di Silvio Berlusconi, dice libro». Il corrispondente Richard Owen fa notare che nella prefazione all'edizione paperback, Latella rivela che alcune delle persone più vicine al premier gli hanno consigliato di entrare in una clinica per curare la dipendenza sessuale come parte del processo di riconciliazione. La sola clinica specializzata in questi problemi in Italia è a Bolzano. Il direttore Cesare Guerreschi normalmente cura uomini e donne tra i 30 e i 40 anni. La cura dura da sei mesi a un anno. «La terapia appare essere una precondizione per ogni prospettiva di distensione tra il Primo ministro e sua moglie».

Il sito della Bbc richiama sulla homepage l'uscita del libro. Ne parla anche il Telegraph: «Berlusconi ha preso in giro il matrimonio aperto». Il Nouvel Observateur pubblica varie agenzie: «La moglie di Berlusconi giustifica la sua domanda di divorzio» (Reuters); «Le menzogne hanno condotto al divorzio, racconta Veronica» (Ap). El Pais riprende un'Efe: «Veronica Lario: Non ho potuto evitare che mio marito facesse il ridicolo». Il sito spagnolo Abc titola: «La signora Berlusconi si confessa». La notizia gira parecchio anche sui siti Usa, tra cui il New York Times con il titolo: «Moglie di Berlusconi: è ridicolo davanti al mondo», il Chicago Tribune, il San Francisco Chronicle.

27 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da ilsole24ore.com


Titolo: MONDO DONNA L'allarme: "L'abc delle nostre libertà è a rischio”
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2009, 05:17:40 pm
L'allarme: "L'abc delle nostre libertà è a rischio”

di Mariagrazia Gerina


"Andiamo nelle scuole ad insegnare l'articolo tre della Costituzione, anche la seconda parte... è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini... L'abc delle nostre libertà democratiche sono a rischio e se lo capiamo prima noi degli uomini meglio anche per loro", organizza l'azione Nadia Urbinati, docente di Teoria politica e ideologie moderne alla Columbia University e al Sant'Anna di Pisa: "L'opposizione non è solo in parlamento, ma anche quella che fuori dal parlamento non ha voce e non ha luoghi". E' stata lei ad avviare sulle pagine de l'Unità il dibattito sul “silenzio delle donne” davanti al Papi-gate. E ieri c'era anche lei, insieme a Paola Concia, Vittoria Franco, Susanna Cenni, Alessandra Bocchetti, Maite Larrauri, Siriana Suprani e – in collegamento telefonico – la regista Lorella Zanardo, al forum organizzato nella nostra redazione per fare il punto su donne, corpo potere, iniziativa politica femminile, dopo un mese di riflessioni, articoli, analisi, idee.

Una prima riunione operativa. In cui anche i dubbi servono: “Che vogliamo dire, per esempio, quando diciamo: noi donne?”, domanda la spagnola Maite Larrauri, insegnante. “Certo un tempo era chiaro, adesso no”. Ma da qui si riparte. Primo appuntamento in agenda: partecipare tutte il 19 settembre alla manifestazione sulla libertà di stampa.  E poi: “Individuiamo degli obiettivi attorno a cui mobilitare le donne e poi vediamo se questo movimento c'è”.

"Né vittime, né rivendicative", suggerisce Siriana Suprani, dell'Istituto Gramsci: "E' il momento di fare battaglie non solo per noi stess ma per  tutti". Obiettivo: riprendere l'iniziativa. Dopo quello che Nadia Urbinati, appunto, ha chiamato il “silenzio delle donne”: "Nessuna di noi in realtà era in silenzio, ma di fronte agli eventi gravi le donne si sono sempre mobilitate facendo sentire la loro presenza attiva e collettiva, mentre davanti al maltrattamento a cui abbiamo assistito – perché non c'è dubbio che così si debba definire quel via vai di donne a Palazzo Grazioli – siamo rimaste in silenzio, forse perché attonite, forse perché si trattava di un maltrattamento ingannevole", riflette Nadia Urbinati, richiamando l'attenzione sul nodo centrale di tutta la questione. Il rapporto tra sesso e potere. Altri modelli cercasi. Disperatamente. Un'alternativa a Noemi e a Patrizia D'Addario deve esserci. "E non è possibile che l'unica altra via perché si parli di donne è quando sono vittime di violenza o comunque vittime", si accalora Alessandra Bocchetti, storica e femminista. Almeno in Germania hanno Angela Merkel, sbotta Paola Concia. Da noi – come suggerisce qualche lettore – c'è Mara Carfagna, ministro delle Pari Opportunità.

Come smontare il modello “velina” dunque? "Perché va bene l'allarme sulla proposizione del corpo-oggetto fatta dalla tv er però poi i giovani hanno un bisogno enorme di corpo, per loro l'espressione attraverso il corpo è fondamentale", spiega Lorella Zanardo, autrice (“insieme a due uomini”, precisa lei) di un documentario su “Il corpo delle donne”, appunto, che è un montaggio rivelatore di come la tv le vuole, e anche animatrice dell'omonimo blog (www.ilcorpodelledonne.net, 240mila contatti). "Sul nostro blog , ci scrivono tanti ragazzi che dicono: ok, il corpo oggetto non va bene, ma dateci spazi e modi dove esprimere il nostro copro che per noi è una conquista e la vogliamo esibire". Figuriamoci se sarà un gruppo di “femministe” a smentirli. Tanto più che riapproriarsi del corpo significa di fatto rovesciare il rapporto con i media. Questione delle questioni. Come? Magari – come la stessa regista Lorella Zanardo vorrebbe fare – andando a insegnare nelle scuole educazione alle immagine e alla televisione.

La scuola di nuovo. E accanto a questa, si snocciolano poi in due ore fittissime di workshop tutte le altre questioni. Il lavoro, prima di tutto. “Il lavoro e come conciliarlo con la cura della famiglia, come fare in modo che anche il lavoro di cura diventi spazio pubblico condiviso”, articola Vittoria Franco, senatrice e responsabile Pari Opportunità del Pd: “La destra ci sta facendo fare un passo indietro e anche nel Pd si stenta a far capire la centralità di questi temi”. “Mettiamo le mani nella pasta del nostro paese”, rivendica Alessandra Bocchetti, femminista e storica, convinta che il punto non sia rivendicare ma “governare”: “Un paese di uomini e donne non può essere governato da soli uomini”. “Mi sono sentita un colpo allo stomaco alla prima seduta del parlamento, quando una a una si sono alzate le parlamentari del Pdl, era chiarissimo il messaggio: le donne in questo paese le rappresentiamo noi”, racconta la parlamentare del Pd Susanna Cenni.

E gli uomini? Si posso cambiare, suggerisce da brava insegnate Maite Larrauri: "Si parla di Zapatero come un uomo di sensibilità estrema ma non si dice quante donne hanno fatto pressione su di lui perché diventasse così sensibile”. “Io so che in Germania dove Angela Merkel è cancelliera il valore sociale delle donne è salito”, dice la deputata del Pd Paola Concia, autrice della proprosta di legge contro l'omofobia. Altro esempio di possibile iniziativa.

Delle otto ospiti tre erano parlamentari del Pd. A proposito: come mai non c'è nemmeno una candidata donna alla segreteria del Pd. La domanda non cade nel vuoto. “Il congresso è stato pensato come un risiko per maschi”, si lamenta Paola Concia. E però: “Anche noi non siamo riuscite a rovesciare le regole del gioco e ci siamo trasformati in comari dell'uno e dell'altro”. “Certo, dipende anche da noi... E in effetti – ragiona Vittoria Franco - Anna Finocchiaro sarebbe stata una bella candidatura”.

04 settembre 2009
da unita.it


Titolo: Nicla Vassallo. Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:31:41 pm
Il dibattito su l'Unità

Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio

di Nicla Vassallo


Da snob mi consento diverse cose, ormai è «facile» si è snob nel confidare nella ricchezza culturale piuttosto che in quella anti-culturale, e/o nel nutrire disinteresse per lo «scambio tra corpo e carriera», e/o nell’esprimersi contro il cinismo. Mi consento di guardare poca Tv orwelliana, sfogliare quotidiani inglesi, indignarmi: è evidente anche a me che le donne (ma non tutte le donne) stiano impiegando ogni risorsa per esibirsi con fare sguaiato, valorizzare un corpo porno–soft (o hard), concepirsi alla stregua di effettivi oggetti sessuali (in quanto oggetti, si vendono e acquistano a «prezzo di mercato »), vivere la propria sessualità in funzione della gratificazione maschile (non di tutti i maschi), agognare denari e successi facili. Già le donne (ma non tutte le donne) aspirano all’uggiosa omogeneità delle letterine, modelle, troniste, veline e, recentemente, escort. Recentemente? Dai tempi di Eva? Senza trascurare che, banalmente, benché spogliarmi sia un mio diritto (si badi bene: non un mio dovere), rimane vero che vi sono nudità e nudità: alcune belle, pure, non strumentali, altre orribilmente pornografizzate. Il privato si è trasformato in pubblico e il pubblico in privato. C’è privacy e privacy, pubblico e pubblico. Si promuove la lotta contro la violenza sulle donne, ma si promuovono anche le escort. Il denominatore comune: esternare. Eppure rido con Roberto Begnini a radio Rtl: «Parleremo anche di cose leggere, escort, mignotte e ballerine, tutte cose pubbliche. Non vorrei, Silvio, toccare temi privati come la crisi e la disoccupazione». Rido perché Begnini è un comico, e non un comico riciclato in un politico, né un politico camuffato da comico (le troppe gaffe di George Bush non mi facevano affatto ridere). Un riso amaro perché permane il dubbio che tutto questo si connetta (come?) a un vecchio slogan femminista: il privato è politico, è pubblico. Nella nostra presente società, scurrile e volgare, gli interpreti e le interpreti dello slogan ormai eccedono: non vorrei discettare con loro di Kate Millett (chi era costei?), meglio qualche «gossip» sui modelli femminili assoluti della contemporaneità: Victoria Beckhman, Paris Hilton, e via dicendo, quando va bene.

Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word. Sinonimi di «uomo»: «essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno. Sinonimi di «donna»: «femmina,gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina. Manca «escort»: peccato! Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a «culi, fighe, peni, tette» sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per «gnoccheria», a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.

Per di più, prima di reagire in quanto donne, e non in quanto donne e uomini consapevoli nonché pensanti, occorre sollevare qualche semplice domanda: cosa abbiamo in comune noi donne, oltre il sesso d’appartenenza – sempre che con «sesso» ci si riferisca a qualcosa di univoco?; l’appartenenza a un sesso e/o a un genere è «naturale», nel senso che, se sei femmina (o maschio), donna (o uomo), rimani tale per la tua intera esistenza? Sostenendo che tutte le donne appartengono al medesimo sesso femminile e tutti gli uomini al medesimo sesso maschile non risultiamo ciechi nei confronti delle tante differenze che sussistono tra le stesse femmine/ donne e tra gli stessi maschi/uomini, rischiando di sottolineare e condizionare indebitamente comportamenti e competenze declinate al «maschile» e al «femminile»? Perché ingabbiare le nostre individualità, le nostre singole peculiarità? In Italia domina la cosiddetta filosofia della differenza sessuale, su un piano anche socio–politico e religioso: le donne sono essenzialmente simili, e da ciò ne deriva, volente o nolente, che tutte le donne sono (o debbono essere?), più o meno, dolci, empatiche, sensibili; adatte a compiti di cura, e non a quelli dirigenziali, intellettuali, militari, politici, scientifici; umili e deferenti; poco assertive; fisicamente e psichicamente deboli. E perché non anche necessariamente provocanti, con una nuova ermeneutica inconsapevole del «questo corpo è mio e me lo gestisco io», o forse solo un’estrosa interpretazione del «my body is my own business »? È l’essenzialismo, non solo gli uomini di potere e le loro escort, a trasmetterci, almeno a livello teorico, la convinzione che ciò che è virtuoso nel femminile è patologico nel maschile, e viceversa. È virtuoso l’uomo con le rughe, che si circonda di escort, mentre è patologica la donna con le rughe che si circonda di escort; è virtuoso l’uomo duro, patologica la donna dura - fortuna che le realtà ogni tanto smentiscono le fantasie: per esempio, alla fine le rughe di Hillary Clinton hanno prevalso su quelle di John McCain, mentre a capo degli istruttori dell’US Army vi è il sergente maggiore Teresa King.

In verità, apparteniamo in modo fluido al mondo, in quanto donne e uomini in carne e ossa; non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali, schermandoci dietro la schematicità delle essenze. Responsabilità che concernono anche la preferenza sessuale: desideri, sogni, fantasie, identità, atti, scelte, riconoscimenti privati e pubblici, non invariabilmente eterosessuali, anzi, nonostante l’imperante eterosessismo e la crescente irragionevole omofobia. Se il silenzio deve essere violato, non potrà, in fondo, esserlo che da donne e uomini, consapevoli e pensanti. La donna non è che pura apparenza, al pari de l’uomo, uno strumento coercitivo per imporre a singoli individui determinati comportamenti, legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre. Ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti? Se rispondi in senso negativo, non sei una «vera donna» - o un «vero uomo»? La disapprovazione contenuta nel «Tu non sei una vera donna» ci interessa sul serio? Le «vere» donne ormai (escort o madonne, che siano, nella vecchia classificazione, non affatto desueta) non risultano, forse, donne solo a causa di desideri sessuali, che corrispondono a quelli che la donna deve avere, donne che frequentano certi palazzi e certi uomini? Come reagire? Con una comunicazione, fisico-verbale, ove non sussiste equivalenza tra sessualità e genialità, con una corrispondenza in cui si esplora se stessi/e e l’amato/a in un’eroticità anticonformistica, in cui le donne(almeno alcune) travalicano, anche da tempo, lo stereotipo logorato dell’oggetto da assoggettare, consumare. Donne e uomini, consapevoli e pensanti, possono relazionarsi tra loro da veri e propri individui, rispettarsi, per evidenziare le molteplici differenze che corrono tra donne, al di là di quelle insulse omogeneizzazioni che le desiderano comunque silenti. Pur ricordando che anche il silenzio è una forma di comunicazione, rompiamo il silenzio, sì, insieme agli uomini pensanti, seguendo la stupenda mente androgina di Virginia Woolf (chi era costei?) nelle Tre ghinee: «Ci troviamo qui… per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci… e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre… È nostro dovere, ora, continuare a pensare… Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere?». Difficile accusare Virginia Woolf e la sottoscritta di bigottaggine; per quanto mi riguarda, sono solo una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere.

12 settembre 2009
da unita.it


Titolo: Rita Borsellino Riprendersi il tempo per contare di più
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 11:56:22 am
Riprendersi il tempo per contare di più

di Rita Borsellino


Ho letto con molto interesse gli interventi che si sono succeduti sul Vostro giornale a proposito del dibattito sul «silenzio delle donne» davanti al cosiddetto Papi-gate. Ed ho notato come negli interventi si parli spesso di educazione e media. Due temi (o  forse un unico grande tema) che in qualche modo centrano quello che considero il problema cardine di questo dibattito: il grave  ritardo culturale del nostro paese circa la reale affermazione dei diritti e delle pari opportunità.
Perché è di un problema culturale  che parliamo quando citiamo con sgomento i sette milioni di donne italiane che nel corso della loro vita sono state vittime di  violenze. Oppure quando leggiamo che da noi trova occupazione solo il 46,3 per cento della popolazione femminile in età  lavorativa, contro una media europea del 57,4.Oche sette milioni di donne sono fuori dal mercato del lavoro.

Oppure ancora  quando scopriamo che tra casa e ufficio, le italiane sono quelle che «sgobbano» di più in Europa, visto che il 77,7 per cento del  lavoro domestico è a carico delle donne. Senza dimenticare quel «tetto di cristallo» per il quale le donne sono escluse dai luoghi  chiave del potere, delle istituzioni, del tessuto produttivo. Sono dati che chiariscono quanto in salita sia ancora la strada per una  concreta parità nelle opportunità tra i generi. Ed è proprio per questo che risulta ancora più grave la vicenda innescata dal  Papi-gate: lo stereotipo che viene fuori dalle cronache di questi mesi, per il quale le donne sono oggetto di compiacimento verso  i potenti e il loro corpo diventa merce di scambio per favori e carriere, è ancora più pericoloso per il nostro tessuto sociale proprio  perché non trova in Italia una barriera culturale adeguata.
Capire se la colpa di tutto ciò sia delle donne o meno non mi sembra un esercizio proficuo. Piuttosto, reputo necessaria da parte degli italiani, siano essi maschi o femmine, una doppia  mobilitazione. Una mobilitazione culturale, innanzitutto, che, attraverso l’uso e la sensibilizzazione dei media, ma anche tramite la  scuola e le università, contrasti gli stereotipi di genere e porti alla luce il «paese reale». Quel paese composto da donne che  hanno poco a che spartire con il modello di cui sopra. Perché – ne sono fermamente convinta - la maggioranza delle donne  italiane non è quella che bussa alle porte della politica mercificando il proprio corpo: è quella che ogni giorno fatica, lavora dentro  o fuori casa, si occupa della famiglia, s’impegna per il sociale, fa politica sul territorio.

Le donne italiane sono, per  esempio, le tante giovani che vedo ogni giorno intorno a me e che lavorano per costruire un futuro in cui poter portare avanti uno  sviluppo personale e sociale basato sul merito e non sulle fattezze estetiche o i rapporti di favore.Ma è fondamentale, anche, che  ci sia una mobilitazione politica per rivendicare ciò che, a mio avviso, è il bene di cui le donne italiane sono maggiormente  private: il tempo. L’impossibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro è, credo, una delle principali cause del «silenzio delle donne». Senza tempo a disposizione è difficile pensare di riuscire a conquistare maggiori spazi di vita pubblica, quei «pezzi» di  potere con cui affrontare e debellare il ritardo culturale. Per questo non bastano azioni di sensibilizzazione e di educazione. Servono battaglie, anche piccole, su temi concreti:come quelle per gli asili nido che non vengono costruiti o che, laddove  esistono, non vengono aperti.
Solo con un welfare a misura di donne (e di giovani), che contempli forme di ammortizzatori sociali come il salario minimo garantito o maggiori tutele per la maternità, solo con servizi che permettano a tutte le donne di conciliare  al meglio vita e lavoro, si può cominciare a costruire quella barriera culturale che ridurrebbe il Papi-gate a ciò che dovrebbe  essere: una degenerazione della politica inaccettabile perunpaese democratico.

14 settembre 2009
da unita.it


Titolo: È il momento di un neofemminismo. Ripartiamo dall’autostima
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 10:30:40 am
Il caso

- Alcune parlano di un senso di umiliazione collettiva, altre invocano una fase di intolleranza attiva

Veline, escort, maschilismo Lettera aperta alle donne

È il momento di un neofemminismo. Ripartiamo dall’autostima


Care donne italiane, o meglio ca­re donne italiane che cominciano a discutere di deriva maschilista-mi­sogina nel nostro Paese e dell’im­broglio sesso-politica che sta im­bambolando la nostra repub­blica, che si preoccupano della video-velinocrazia che condiziona le nostre vite di mature (invisibili) e giovani (preferibilmente scollate); care tutte, che si fa? Finora qualcuna ha parlato di «silenzio delle donne»; molte altre, non ita­liane, si sono chieste perché da noi non ci si ribella; altre ancora han­no obiettato che la chirurgia plasti­ca è più popolare in Spagna, che le sceme da reality sono ovunque, che le ragazze che fanno carriera grazie ai potenti sono un fenome­no globale. Altre sono d’accordo sulle critiche alla mercificazio­ne- cooptazione come unico mezzo femminile per emergere, ma si di­vidono sulle iniziative: manifesta­re, rompere le scatole in modo ca­pillare, o inventarsi dell’altro. Han­no iniziato frange avanzate di stu­diose e polemiste. Continueranno, forse, donne normali. Grazie alla diffusione virale, più che di edito­riali, di documentari.

Corpi vili?
Perché è da vari mesi, dall’inizio del caso Berlusconi-Noemi-e poi al­tre, che parecchie donne provano un senso di umiliazione collettiva. È da ancora prima che qualcuna mo­stra segni di intolleranza attiva. Al­l’inizio dell’anno è uscito un docu­mentario, Il corpo delle donne di Lo­rella Zanardo, prima presentato in eventi semicarbonari, poi mostrato da Gad Lerner all’ Infedele , ora feno­meno sul Web: è un rapido e terrifi­cante montaggio-sovrapposizione di immagini tv che lascia tramortite davanti a un evidente modello di Femmina Unica raggiungibile solo a furia di diete, reggiseni e chirurgia ( vedere Il corpo delle donne online e poi correre al cinema per Video­cracy di Erik Gandini può produrre gravi stati depressivi bipartisan, at­tenzione). Poi i corpi sono diventati veri, di ragazzine che dicevano papi, di escort nel letto grande, eccetera. Poi ci sono le ragazze della tv, va da sé.

Studiose all’attacco
Ma ci sono anche le quasi-ex ra­gazze dell’università, in genere espa­triate.
Come Nadia Urbinati, che in­segna teoria politica alla Columbia di New York. E ha scritto: «Le don­ne sono sempre lo specchio della so­cietà, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro Paese: quando muoiono per le vio­lenze perpetrate da un potere tiran­nico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla... È urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne». E poi Michela Marzano, apprezzata filoso­fa a Parigi: «Perché tante donne cre­dono che il solo modo per emergere sia quello di ridursi a oggetti di pul­sioni, contemplate per il corpo-fetic­cio che incarnano, e ridicolizzate per la loro incompetenza professio­nale davanti alla telecamera? Quale libertà resta oggi alle donne in un Paese in cui il potere in carica propo­ne loro un modello unico di riuscita e di comportamento?». Conclude Marzano: «Facciamo, allora, in mo­do che il ventunesimo secolo, col pretesto di essere 'alla moda', non sia la tomba di tutte le conquiste femminili del secolo scorso». C’è chi dice «allora scendiamo in piaz­za ». E chi ironizza.

Veline e velini
Come Nicoletta Tiliacos, femmi­nista storica e penna del Foglio , che attacca «la piattezza di questa ver­sione vittimistica e irreale della “donna italiana silenziosa”». Inter­pellata, Tiliacos precisa: «Altro che silenzio, sono anni che non sentivo discutere tanto. Se dobbiamo pole­mizzare sulla cooptazione in politi­ca, parliamo di veline ma anche di velini. E poi non stiamo parlando di donne passive, ma di donne che fanno delle scelte. Intorno ai palaz­zi del potere ci sono sempre state le garçonnières . Se ora le ragazze vo­gliono uscire e diventare deputate, non mi scandalizzo». Anche se sui media di centrodestra però c’è chi si scandalizza, e come. C’è Sofia Ventura, professore di scienza della politica a Bologna, autrice di un ar­ticolo sul velinismo per la fondazio­ne finiana FareFuturo che in prima­vera ha scatenato risse. Ventura vorrebbe più indignazione, e più trasversale: «Ho visto Il corpo delle donne insieme a un gruppo di stu­denti di Sciences-Po a Parigi. Erano tutti inorriditi. Ho discusso alla Fe­sta democratica di Bologna. E tra le dirigenti Pd ho trovato molto benal­trismo, molto conformismo detta­to dalla fedeltà ai leader. Che in Ita­lia sono maschilisti».

L’autostima bassa
Sono maschilisti, di sicuro. Ma le donne italiane, sembrano registra­re il più basso tasso di autostima nel mondo occidentale. Tengono la tv accesa, non badano alle bellezze bipartisan, non si arrabbiano per non passare per matte. Anche le po­litiche. Secondo una ricerca della so­ciologa Donata Francescato, le no­stre parlamentari hanno enormi dif­ficoltà a pensarsi come leader. Quel­le di sinistra ancor più di quelle di destra. Dice Ventura: «È un dato tra­gico. È un problema di tutte. Forse bisognerebbe partire da un’analisi collettiva. E iniziare a parlare. Nella vita quotidiana e nella vita politica, superando le divisioni di partito. Per smetterla col conformismo veli­naro. Se non lo facciamo, se non li­beriamo i talenti femminili, questo Paese è condannato a una lenta ago­nia ». Ma di nuovo: come si fa?

Un nuovo femminismo?
«Io non sono pessimista», cerca di tirar su il morale Eva Cantarella, storica del diritto. «Perché ricordo il vecchio femminismo. Si era in po­che, e bisognava convincere la stra­grande maggioranza delle donne, quelle che erano chiuse in casa e di­cevano “ma io non sono discrimina­ta”. Ed è successo, e molto è cambia­to. Certo, ci vuole molto tempo, e un’attività capillare. Per questo non sono contraria a scendere in piazza. In una fase in cui siamo tutti incate­nati agli schermi, la parola pubblica sarebbe la vera novità. Mi viene in mente la canzone di Giorgio Gaber, che invitava ad andare nelle strade e nelle piazze. Il diritto universale non passa per le case, continuereb­be Gaber. Anche perché, nota Tilia­cos che pure non è d’accordo, «guar­dare troppa tv rallenta il metaboli­smo ». Forse le donne italiane sareb­bero più contente del loro corpo se si dessero una mossa, di questi tem­pi, vai a sapere.

Maria Laura Rodotà
15 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: NADIA URBINATI Il Cavaliere e la dignità violata
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2009, 04:25:10 pm
LA POLEMICA

Il Cavaliere e la dignità violata

di NADIA URBINATI


Berlusconi ripete spesso che "la maggioranza degli italiani è con me". Ma forse pensa che quando parla di donne la totalità degli italiani (uomini ) è con lui. Il silenzio protratto di molti, troppi uomini su come il premier tratta e descrive le donne, sembrerebbe provare che egli rappresenta davvero il costume di una gran parte dei maschi. Anche alcuni leader dell'opposizione, quando si cominciò a sapere di escort e festini, dissero che erano affari privati e che la politica non doveva infilarsi sotto le lenzuola. Poi però si seppe che spesso le lenzuola vennero usate come trampolino per poltrone, affari e clientele e allora la tesi giustificativa del "privato" non tenne più.

Naturalmente, il ricorso al privato è ancora l'arma più brandita dal leader e da chi lo sostiene anche con la strategia del dileggio contro chi la mette in discussione. E tutto viene liquidato con l'accusa dell'invidia, la quale è un vizio privato non giustificabile; é un vizio e basta.

La donna, dice il Signor Berlusconi, è il più bel dono che il creato ci (leggi: a noi uomini, non al genere umano) ha dato. La logica è vecchia come il mondo ma sempre nuova: noi siamo state create ed educate per alleggerire il peso di chi ha potere e responsabilità. Noi siamo solo privato. Se proviamo a essere noi, né doni né veline, allora siamo niente, oggetto di offesa e di attacco: brutte, vecchie, e via di seguito. Anche in questo caso l'accusa di invidia viene usata per squalificare le nostre ragioni: perché, presumibilmente, se fossimo giovani e belle non ci offenderebbe essere trattate come un dono. Se ci offende, ecco la conclusione della filosofia dell'invidia del signor Berlusconi, è perché nessuno ci vuole più come un dono. Risultato: a bocca chiusa siamo accettate sempre, da giovani o vecchie, se belle o brutte; ma se usiamo il cervello siamo offese sempre: se belle perché pensare non si addice alla bellezza, se brutte perché pensare è germe di invidia.

La logica è chiara: il leader del nostro paese usa le armi del maschilismo più trito per azzerare nelle abitudini la cultura dei diritti e dell'eguale dignità che generazioni di donne e di uomini hanno con durissima fatica costruito. Si potrebbe dire che la sua è una logica controrivoluzionaria da manuale, una truculenta reazione contro una cultura che ci ha consentito di essere cittadine uguali fra cittadini uguali. Con una precisazione importante: non è la presenza nel pubblico che ci viene tolta; molto più subdolamente, è l'autonomia, la scelta competente di poter essere parte del pubblico che ci si vuole togliere (le poche ministre del governo sono lì perché sono gradevoli al capo, per ragioni tutte private e soprattutto per volontà altrui). È anche per questo che la distinzione tra pubblico e privato oggi non tiene: perché questa distinzione ha valore solo se riposa su un presupposto di eguaglianza di dignità; diversamente il privato è un serraglio e il pubblico uno spazio dispotico e di fatto un'estensione del privato, dei suoi interessi e delle sue pulsioni.
Viviamo un tempo in cui i diritti dell'eguaglianza sono sotto attacco: dall'istituzione della carta di povertà, alla demolizione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale, al trattamento di privilegio rispetto alla legge che i potenti pretendono: tutto va nella direzione di una maggiore diseguaglianza. E l'offesa che subiscono le donne - l'insulto alle ragazze veline, a Rosy Bindi e a tutte noi - è la madre di tutte gli arbitri e di tutte le diseguaglianze. E per troppo tempo questo fenomeno è stato digerito come cibo normale, come se, appunto, il Signor Berlusconi fosse davvero rappresentativo della mentalità generale di tutti gli italiani. è vero che troppo spesso si vedono platee di convegni o di eventi pubblici popolate di soli uomini, come se il genere femminile non contemplasse anche studiose oltre che intrattenitrici. Ed è vero che purtroppo è quasi sempre solo l'occhio delle donne a vedere questa uniformità al maschile.

Certo, è bene non generalizzare. Tuttavia non è fuori luogo ricordare anche a chi lo sa già che la dignità violata delle donne è dignità violata per tutti, anche per gli uomini. I quali, in una società compiutamente berlusconiana non sarebbero meno subalterni e più autonomi delle loro concittadine.

© Riproduzione riservata (10 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Paola Gaiotti De Biase ... il silenzio si rompe (anche) il 25 ottobre.
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2009, 10:25:06 pm
Il mio appello alle donne: il silenzio si rompe (anche) il 25 ottobre

di Paola Gaiotti De Biase


Cara Concita, sotto la tua direzione l’Unità ha aperto una campagna «Rompere il silenzio delle donne» che ha segnato forme e modi della stessa emergenza democratica che il nostro paese sta vivendo, fino a un legame che mi pare evidente fra quella campagna e la richiesta abnorme di risarcimenti da parte del Presidente del Consiglio contro L’Unità. È in primo luogo per questo che mi sembra giusto rivolgere a te la proposta di lanciare, come prima firmataria, un appello alle donne italiane perché vadano a votare alle primarie del Pd. Rompere il silenzio è ormaiunoslogan che ci riguarda tutte. Ma non si può rompere il silenzio solo con le parole, anche quando sono forti, anche quando sono condivise, anche quando sono straordinariamente esemplari, comequelle di Bindi a Porta a Porta. Così come non bastano a dominare la storia la misura dei sondaggi (variabili a seconda del campione o del committente) l’affollarsi nelle piazze (con la contesa suinumeri anche quando bloccano mezzo centro di Roma) il moltiplicarsi di firme, che lasciano fuori quelle che non navigano o si bloccano alla prima difficoltà, come spesso capita anche a me. In politica rompere il silenzio è raccogliere le sfide che si presentano, individuare gli strumenti adeguati, nonperdere le occasioni giuste per dire la propria; e la politica ci riguarda - se ricordi era il senso del mio contributo legare rispetto delle donne e crisi generale della democrazia - insieme come donne e come cittadini toutcourt, che si fanno carico dei problemi del loro paese Le primarie del PD sono di per sé finalizzate alla scelta del nuovo segretario, passaggio chiave e importante (rispetto al quale anch’io sono formalmente schierata) e tuttavia perfino riduttivo, rispetto alla fase che stiamo vivendo - vorrei dire grazie a Dio perché comunque tutti e tre i candidati sono persone degne - e perché il partito ha comunque dimostrato di esserci, con i suoi ottomila circoli e circa mezzo milione di votanti.

Ma non possiamo ignorare che in realtà nelle primarie si gioca molto di più. Vorrei dirlo per ordine d’importanza. In primo luogo di gioca intorno all’affluenza alle primarie il futuro di una forma partito che non decide la selezione dei suoi dirigenti entro le prassi tutte interne, che rischiano di riprodurre oligarchie; è ilnumero degli affluenti alle primarie che deciderà se ci saranno ancora, se sapremmo costruire un soggetto altro da quella deriva partitocratica che sta alle nostre spalle. In secondo luogo si gioca intorno alle primarie la conferma della rappresentatività forte, del radicamento nel paese di un’opposizione costituzionale, che sta stretta nel confinamento dell’impotenza parlamentare e della delegittimazione istituzionale perseguiti dal governo Berlusconi in nome di un consenso datato e nel concreto non verificabile. Da questi punti di vista non ho difficoltà ad affermare che, quand’anche si andasse alle primarie tanto incerti da votare scheda bianca, non per questo si farebbe qualcosa di irrilevante, perché la novità politica decisiva di quest’appuntamento non dovrebbe essere il numero dei voti, ma il numero dei votanti. Ma c’è un quarto elemento che come donne ci riguarda direttamente. Da trent’anni e più scrivo - nell’ assoluto silenzio e indifferenza della storiografia maschile sulla Repubblica - che il voto delle donne ha determinato praticamente sempre gli equilibri politici del paese: nell’immediato dopoguerra verso laDCe nella variante regionale emiliana; dal 1975-76 rovesciando gli equilibri ereditati; negli anni Novanta trasferendo sulla transizione politica il mutamento di culture operato dalla televisione commerciale, anche attraversounacaricatura disastrosa del messaggio culturale del femminismo impegnato, nei termini della banalizzazione sessuale, e dunque col suo esito berlusconiano.

Ebbene noi ora vogliamo poter ancora contare. Quale forza contrattuale migliore possiamo inventare che non sia il nostro essere, come possiamo, determinanti, nella occasione che stiamo vivendo? So bene che la battaglia femminile nonsi vince solo nel rapporto politico; si decide nella creatività culturale, nella qualità delle relazioni personali, negli stili di vita, nelle strategie formative delle nuove generazioni. Ma se parliamo di squilibri nella rappresentanza è anche perché sappiamo che questo non è un passaggio irrilevante: ed è una contrattazione che potremmo comunque condurre alla pari per domani, solo se siamo in grado di documentare che siamo state decisive anche per dare forza oggi alla politica democratica. Ai gazebi del centrosinistra, ma nessuno lo dice, la maggioranza dei volontari erano sempre donne: se saranno donne la maggioranza dei votanti lo urleremo sui tetti. Naturalmente so bene le difficoltà e gli ostacoli della proposta che ti faccio. Andiamo alle primarie in un rinnovato spirito di fastidio per la politica che fa di ogni erba un fascio e allontana ulteriormente i cittadini dalla voglia di scegliere. In realtà anche questo fa parte di un problemadi adeguatezza dell’informazione, che non riguarda solo il rischio di non dare le notizie sgradevoli, ma riguarda anche la distrazione diffusa di fronte a quelle positive .

Farò qui un inciso: ho salutato con favore e sostenuto, l’uscita de “Il fatto quotidiano” come un giornale che poteva utilmente riempire un vuoto: ma resta irrisolto un altro vuoto (che ho vissuto come parlamentare anche sulla mia pelle) quello delle notizie sulla politica che lavora, fatica e s’impegna nelle commissioni parlamentari, nelle proposte di legge, nelle battaglie di merito e di cui non si parla mai, preferendo le battute del Transatlantico, il dato riservato suggerito a mezza bocca, l’ultimo legame trasversale. È non riempire questo vuoto che favorisce irresponsabilità, astensionismo, che regala al paese la vittoria del peggio. E ancora: moltissime donne di sinistra, indignate come noi dalla deriva berlusconiana, hanno altri referenti politici, non si considerano elettrici del PD. Non possiamo che rispettarne le scelte ma questo non può esimerci dall’esercitare una funzione insostituibile fra quelle che lo sono. Ecco lascio a te , a l’Unità, valutare le forme, i modi, il linguaggio, i consensi primi di questa iniziativa, che ritengo tu sia oggi, per il ruolo che hai svolto e svolgi, la più adatta per aprire fuori dalle parti in campo.

15 ottobre 2009
da unita.it


Titolo: MONDO DONNA Un rapporto rivela il prezzo pagato dalle soldatesse Usa
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:23:02 am
Molestie sessuali, aumento dei divorzi e meno assistenza sanitaria rispetto ai colleghi maschi.

Un rapporto rivela il prezzo pagato dalle soldatesse Usa

Dal fronte al ritorno in famiglia la doppia guerra del soldato Jane

di FRANCESCA CAFERRI


IL SERGENTE Selena Coppa la guerra l'ha combattuta tre volte: la prima quando è stata mandata in Iraq, come membro dell'intelligence dell'esercito americano. La seconda quando, nel 2007, ha scelto di entrare a far parte di un'associazione che si oppone a quella stessa guerra. La terza, e più difficile, l'ha vinta da poco: in questo caso il nemico aveva la faccia del suo ex-marito, da cui aveva divorziato dopo l'ennesima rotazione in Iraq e che in tutti i modi ha cercato di avere la custodia di Alyson, la figlia, imputando alle frequenti assenze della moglie il fallimento del matrimonio.

"È stato difficile. Il giudice non mi guardava con favore, a causa delle mie lunghe assenze. E durante la battaglia legale non ho ricevuto nessun aiuto dai miei superiori", dice oggi. Per un sergente Coppa che vince, migliaia di donne come lei perdono: figli, famiglia, assistenza sanitaria, una vita normale. A tracciare - per la prima volta in maniera così chiara, come ha ammesso lo stesso Pentagono - il quadro della situazione dei militari donne nelle Forze armate degli Stati Uniti è un rapporto appena pubblicato dalla Iraq and Afghanistan veterans of America (Iava), una delle principali associazioni di reduci americani.

Lo studio evidenzia che le donne ricoprono ormai un ruolo fondamentale nella macchina da guerra americana: l'11% del totale dei militari schierati dal 2001 a oggi in Iraq e Afghanistan sono donne (212mila). Nonostante esista ancora - sulla carta - il divieto di utilizzarle nelle prime linee, mai come in questi due conflitti le donne hanno svolto una funzione avanzata: combattendo fianco a fianco dei colleghi, occupandosi dei rifornimenti, programmando azioni militari e portandole a compimento. La morte di 120 donne in servizio e il ferimento di altre 600 sta a dimostrarlo. Eppure, evidenzia la Iava, nel trattamento di uomini e donne soldato ci sono ancora molte differenze. Troppe.

La prima, e più evidente, è la rarità di donne ai vertici della catena di comando: vedere un generale a quattro stelle come Ann E. Dundwoody - la prima a raggiungere questo traguardo - è un incoraggiamento, ma certo non la norma. È la quotidianità delle donne militari, sostiene Iava, a preoccupare. In cima alla lista delle difficoltà quella - eterna e non solo in campo militare - di conciliare lavoro e famiglia: di fronte a permessi maternità ristrettissimi - quattro mesi dalla nascita del bambino è il tempo concesso dall'esercito a una mamma prima di rimandarla in zona di guerra, e nelle altre forze è ancora minore - e a tempi di schieramento lunghi (12-15 mesi) e ripetuti, il tasso di divorzi delle donne in uniforme è di tre volte superiore a quello dei colleghi uomini (8.5% contro 2.9% nell'esercito; 9.2% contro 3.3% nei marines) e superiore di oltre il doppio alla media nazionale (intorno al 3.5%).

Un terzo delle militari - ma secondo fonti indipendenti sono molte di più - denuncia di aver subito abusi sessuali mentre era in servizio: la maggior parte degli aggressori erano loro superiori e non sono mai stati processati. Le donne hanno maggiore difficoltà nell'accesso alle cure sanitarie: solo il 14% delle cliniche per i reduci ha strutture specializzate in problematiche femminili. Infine le ex militari hanno più difficoltà degli uomini ad accedere al mercato del lavoro e ad avere una vita stabile: a parità di incarico guadagnano in media 10mila dollari l'anno meno dei maschi, 13.100 di loro sono senza casa e il 23% delle veterane homeless ha un figlio minorenne a carico.
Una situazione drammatica che non sembra destinata a migliorare nel breve periodo: "Non si può dire che il governo non stia provando a cambiare qualcosa", spiega Helen Benedict, docente alla Columbia university di New York e autrice di "The lonely soldier", libro sul problema degli stupri nelle forze armate che negli Stati Uniti ha fatto molto discutere e presto uscirà anche in Italia (Ed. il Saggiatore). "Ma è un'intera cultura misogina che va messa in discussione.

E due guerre, con tempi di schieramento lunghi ed estenuanti, non aiutano. Ogni individuo ne esce distrutto: ma agli uomini è concesso alle volte essere violenti e lunatici. Alle donne no. Per questo il conto per loro è più alto".

© Riproduzione riservata (22 ottobre 2009)
da corriere.it


Titolo: Il rispetto delle donne passa dalla Costituzione
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 11:20:50 pm
Il rispetto delle donne passa dalla Costituzione

di Gabriella Manelli


Siamo orfani di politica.
Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, …soldi, scambi di favori. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale. Dopo anni di partecipazione si è spenta nellamente dei cittadini la dimensione pubblica ». (Nadia Urbinati)Nonpiù cittadini, ma governanti e governati. E le donne? «Veline ingrate».
Le donne, secondo «loro», dovrebbero sempre ringraziare qualcuno delle proprie conquiste, e in larga misura anche lo fanno, espropriandosi non solo del proprio corpo, ma anche della propria capacità di scegliere e decidere. Tutto il contrario dell’autodeterminazione di buona memoria. Dunque il silenzio delle donne segno di un silenzio dentro. Silenzio interiore di chi ha perso i contatti con se stessa e silenzio politico. «Il personale è politico », si diceva quando si era decise a partire da sé per fare una nuova proposta politica; e si faceva autocoscienza. E così si inventavano una proposta politica e un pensiero politico diversi da quelli dei governanti e dei partiti , che si ispirano a una idea di politica asettica. Invece il grande impatto del movimento femminista, la sua grande capacità di essere metapartitico, al di là e al di sopra della volontà e della stessa analisi dei partiti (vedi divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia…) nasceva dalla capacità di mettersi in gioco, di non lasciare fuori dall’orizzonte politico le passioni, dall’audacia di esplorare vie nuove, «andare alla ricerca di terre e mari sconosciuti: sconosciuti, eppure già esistenti» ( Romitelli, «L’odio per i partigiani»).

«Solo osando, la politica riesce a fare storia»: è Machiavelli, citato da Romitelli, sempre a proposito di partigiani.
La stessa cosa si può dire delle donne, ieri e oggi: se vorranno tornare a incidere sulla storia, come è avvenuto negli anni 60-70 del secolo scorso, non potranno che affrontare in modo inedito, sperimentale, quanto di irrisolto, di incognito vi è oggi nei rapporti fra governanti e governati. Con passione e audacia. Che poi sono anche le risposte adunproblema, secondomedariformulare: come coinvolgere le «altre» donne? Con audacia e passione, appunto, empatia. Tra parentesi, sarebbe interessante dipanare il filo intrecciato di passione e audacia che lega donne e partigiani. Una cosa è certa: numerose furono le donneche, mentre combattevano insieme ai partigiani per i diritti di tutti, intrapresero il loro cammino di crescita personale e politica. Mettere al primo posto la relazione con le altre donne è stata un’altra scelta politica non solo delle femministe, ma, molto prima, delle «madri della Repubblica», le 21 donne che hanno preso parte all’Assemblea Costituente. Indicando nella relazione, cioè nella «via dell’amore», come dice Luce Irigaray, la dimensione fondamentale dell’individuo e quindi la via maestra per un’altra politica.

22 ottobre 2009
da unita.it



Titolo: Melzo, in tre chiedono di abortire il primario urla in corsia: "Assassine"
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 05:12:43 pm
Melzo, in tre chiedono di abortire il primario urla in corsia: "Assassine"

"Assassina, sta uccidendo suo figlio", ha urlato Leandro Aletti, responsabile di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Melzo (Milano) e noto antiabortista, simpatizzante di Comunione e liberazione, a ciascuna delle tre donne, dai 27 ai 36 anni, che avevano scelto quella struttura pubblica per abortire


di Ilaria Carra

Avevano deciso di abortire. Ma una volta all’ospedale, per gli accertamenti preliminari all’interruzione di gravidanza, il primario, obiettore di coscienza, le ha umiliate nel corridoio del reparto, davanti al personale e alle degenti. «Assassina, sta uccidendo suo figlio», ha urlato Leandro Aletti, responsabile di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Melzo e noto antiabortista, simpatizzante di Comunione e liberazione, a ciascuna delle tre donne, dai 27 ai 36 anni, che avevano scelto quella struttura pubblica per abortire.

L’aggressione verbale è riportata nella denuncia per ingiuria presentata al giudice di pace di Cassano d’Adda: «Il primario, noto antiabortista, ci ha insultate e diffamate — denunciano le donne — offendendo il nostro decoro e arrecandoci un danno morale». Dopo due rinvii, a dicembre si terrà l’udienza sul caso. Anche se entrambe le parti stanno cercando un accordo per evitare di arrivare al processo. Con il primario che, sebbene il suo avvocato Mario Brusa parli di un «fraintendimento tra le parti», sarebbe pronto a firmare una lettera di scuse e chiarimenti per archiviare l’accaduto. La direzione sanitaria ha già presentato le sue scuse.

Sotto accusa è anche la procedura che prevede di compilare la cartella clinica, preliminare all’aborto, in un atrio lungo la corsia del reparto. Pratica a cui nella struttura, si dice, si ricorre quando la sala visite è occupata, ma che in sostanza comporta la violazione della privacy delle donne. «Mentre iniziavamo il colloquio con il medico di turno venivamo accostate dal primario che ci aggrediva con insulti ad alta voce — si legge nel ricorso — così tutti i presenti venivano edotti della ragioni della nostra presenza nel reparto rendendo di pubblico dominio una scelta delicata e assolutamente personale».

Un episodio «lesivo della nostra dignità», tanto che una delle tre donne sarebbe stata anche identificata da una conoscente che passava di lì. «Le muove l’umiliazione subita in un momento delicato che nessuna donna affronta a cuor leggero», commenta l’a vvocato delle denuncianti, Ilaria Scaccabarozzi. La direzione dell’o spedale di Melzo precisa che in tema di accoglienza a chi vuole abortire «la paziente viene sottoposta alla raccolta dei dati sanitari e di degenza all’interno degli spazi deputati come previsto dal regolamento sulla privacy».

(27 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: La moglie di Marrazzo, modera un dibattito sulle donne al vertice
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 05:13:30 pm
La moglie di Marrazzo, modera un dibattito sulle donne al vertice

Grinta e ironia, platea femminile. E una ragazza le offre un mazzo di rose

La Serdoz torna al lavoro "La mia vita va avanti"

di ALESSANDRA PAOLINI


ROMA - Non ci ha pensato due volte. Dicono che quando all'ultimo momento, per la malattia di una collega, le hanno proposto di moderare il dibattito per la presentazione dell'associazione "Valore D le donne al vertice", Roberta Serdoz abbia subito detto sì. Semmai lo scrupolo, per la moglie di Piero Marrazzo, è stato quello di non creare ulteriori imbarazzi. "Se non è un problema per voi...". E di fronte a un "ci mancherebbe altro", ha accettato: "Va bene. Sono una professionista e la mia vita va avanti. Punto".
Un punto, sì, per continuare a testa alta dopo la bufera che si è abbattuta sulla sua vita, su quella di figlia e marito. Così ieri, a palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, la scena è stata tutta sua.
Roberta Serdoz ha i tacchi alti, un tailleur pantalone nero, top verde come gli occhi, e un viso più stanco di come siamo abituati a vederla a "Linea notte" su RaiTre. Ma sfodera grinta. E ironia nel dare la parola ai relatori pronti a giurare che il "business e le aziende hanno bisogno più che mai delle donne". Perché "non è che noi siamo più brave o intelligenti dei mariti - spiega lei - è che durante la giornata abbiamo più cose da fare e sappiamo come ottimizzare il tempo". Applausi. E ancora applausi.

Gioca in casa Roberta Serdoz, davanti a una platea tutta al femminile: su duecento persone sedute in sala, gli uomini si contano sulle dita di una mano. E la solidarietà, mista a una certa ammirazione, è palpabile sul volto delle tante manager arrivate da tutta Italia per raccontare le storie di chi in azienda ce l'ha fatta. Un bimbo piange in quarta fila. "Ecco - dice Serdoz indicando il bebè, che ha quattro mesi o poco più ed è in braccio a mamma - per le donne c'è anche questo".
Non si rilassa neanche quando termina l'introduzione e la parola passa ai relatori. Mentre sul maxivideo scorrono le percentuali di una ricerca di McKinsey&Company, risponde con un sorriso a ogni sguardo puntato su di lei, e sono molti. Si assesta la giacca nera, si sistema il top e giocherella col cuoricino che penzola giù dal braccialetto Tiffany. Ma è pronta quando le luci si riaccendono . "Vedo che c'è anche qualche uomo", dice. E quando gli uomini, due relatori, arrivano sul palco, lei ironizza: "Va bene. Adesso li facciamo parlare, perché noi siamo sempre buone e disponibili ".

Pierluca Giuliani, e Gianluca Ventura, racconteranno di quanto in Johnson&Johnson e in Vodafone si stia facendo per aiutare le donne che lavorano. Ma Roberta Serdoz avverte: "Non scordiamoci degli asili nido". È il momento della scrittrice Avivah Wittemberg Cox. Un'ora in inglese sul suo ultimo libro. Finalmente, Roberta può rilassarsi. Si siede e a tratti sembra non seguire più il dibattito. Gli occhi verdi ora sono fissi. E tristi. A cosa stia pensando se lo sono chiesti in tanti: al marito, che ha deciso di andare in convento per riprendersi. Forse a quanta forza le sia rimasta per far quadrato attorno alla sua famiglia. Il convegno finisce. "Da queste parole abbiamo capito come andare avanti e non buttarci giù", dice al microfono una delle organizzatrici. Una ragazza regala alla moglie dell'ex governatore un mazzo di rose bianche e rosse. Lei sorride ancora, ringrazia. Poi, liquida con un "no" secco la richiesta dei colleghi giornalisti di farle domande. E esce alla chetichella da una porticina secondaria di Palazzo Valentini.

© Riproduzione riservata (28 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Margot Kaessmann, Guiderà 25 milioni di fedeli tedeschi
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 05:17:08 pm
Guiderà 25 milioni di fedeli tedeschi

Germania: per la prima volta una donna eletta a capo della chiesa evangelica

Margot Kaessmann, vescovo di Hannover, 51 anni, è divorziata e madre di 4 figli


BERLINO (GERMANIA) - Non era mai successo dai tempi di Martin Lutero. Il Sinodo della Chiesa Evangelica tedesca, riunito a Ulm, ha eletto come presidente il vescovo di Hannover, Margot Kaessmann, una 51enne divorziata e madre di 4 figli. La nuova «papessa» è molto nota in Germania, tanto per la sua grande abilità oratoria che per il suo notevole talento mediatico.

PRIMA VOLTA NELLA STORIA - La signora Kaessmann, che negli anni scorsi ha vinto una battaglia contro il cancro, è adesso a capo di 25 milioni di protestanti tedeschi. L'avvento di una donna alla guida della Chiesa Evangelica tedesca è una novità assoluta: la Kaessmann è infatti il primo capo donna della Chiesa protestante dai tempi della riforma luterana.

La Kaessmann è entrata nella Chiesa evangelica tedesca, nel 1981 con il suo primo incarico; dieci anni fa fu nominata vescovo, e si ribellò al tentativo di inquadrarne la carriera religiosa nella cornice delle "quote rosa": «Fu un passo verso la normalità, come fu percepito da tutte le donne impiegate nella Chiesa», commentò all'epoca. A proposito della fine del suo matrimonio ha detto, secondo quanto riporta il quotidiano tedesco «Hamburger Abendblatt»: «Il dono del matrimonio mi è stato tolto dopo 26 anni, e ho divorziato. Non volevo mantenere un matrimonio di facciata, ma vivere in modo sincero». La nuova guida dei luterani ha a cuore innanzitutto la questione sociale e il recupero delle fede: «Per me è una tragedia che tante persone in Germania non conoscano più la Bibbia», ha dichiarato. La Kaessmann è anche attenta al valore della dimensione ecumenica: «Ci unisce più di quello che ci divide», ha commentato parlando dei cattolici. Sulla funzione della sua Chiesa, ha aggiunto: «Noi siamo la Chiesa nel mondo con il compito di diffondere il Vangelo, di celebrare la messa, e di sostenere i più deboli».


28 ottobre 2009
da corriere.it


Titolo: Isabella Bossi Fedrigotti La famiglia dimenticata
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2009, 10:30:15 am
GRANDE ASSENTE NEL DIBATTITO PUBBLICO

La famiglia dimenticata


Il dibattito politico, al di là di qualche flebi­le voce non raramen­te del tutto formale e superficiale, ignora la fa­miglia. Ma la ignora an­che dal punto di vista eco­nomico, nel senso che so­no spariti dall’agenda i provvedimenti tesi a so­stenerla. E questo quan­do la famiglia sembra og­gi più indispensabile che mai, tant’è vero che, se l’Italia riesce alla meno peggio a resistere alla cri­si, è merito, in buona par­te, proprio di questa «im­presa » tradizionalmente pronta a soccorrere i suoi membri in difficoltà.

Per non parlare della te­levisione, voce che urla, spesso sovrasta le altre e che la evita se non addirit­tura la irride, per esem­pio intitolando «La fami­glia » una trasmissione condotta da quattro per­sone fintamente giovani, che tra canzoni e musi­che si scambiano lazzi pe­santi e volgarità varie sui fatti del giorno. Oppure mettendo in scena la fal­sa famiglia allargata del «Grande fratello», il cui vero cuore casalingo è co­stituito da una doccia tra­sparente dove vedremo al­ternarsi — soli o in com­pagnia — i suoi vari e sempre più volutamente strampalati componenti.

Ma siamo sicuri che tut­to ciò corrisponda davve­ro alla realtà del Paese? Siamo sicuri che la mag­gioranza degli italiani — perché speriamo sia una maggioranza — ancora non del tutto prona al ma­gistero televisivo, non del tutto sconfitta nella gran­de guerra che ci vorreb­be, fin da piccoli, consu­matori fervidi prima di es­seri umani, condivida il suggerimento, sublimina­le certo, però diffuso e forte, secondo il quale la famiglia è cosa buona giu­sto per i nonni? E che, a prescindere dalle eventua­li convinzioni religiose, sia indifferente al destino dell’istituzione familiare in un tempo come questo di evidente disagio giova­nile oltre che di minaccio­sa recessione?

L’appello alla famiglia di un ormai ex politico ca­duto forse lungo la via dell’improvviso ed ecces­sivo potere è suonata — è vero — un po’ come un’in­vocazione lanciata da un moribondo alla Croce ros­sa. Tuttavia la risposta ab­bastanza imprevedibile della moglie ha in un cer­to senso confermato che, alla resa dei conti, anche per le cosiddette élite e non solo per gli strati più semplici della popolazio­ne, la famiglia non è affat­to istituzione da rottama­re bensì rete preziosa, a volte davvero unica e ulti­ma. E noi che avevamo spesso ironizzato sulle mogli di politici inglesi e americani, in piedi, con un sorriso amaro, però mano nella mano accan­to al fedifrago reo confes­so, dobbiamo riconosce­re che quella solidarietà forse non era legata sol­tanto alla paura di perde­re uno status.

Resta da chiedersi per­ché la famiglia tenda re­golarmente a passare per ultima nella vita pubblica italiana, dimenticata se non svillaneggiata dai mezzi di comunicazione. La risposta ce la può dare forse il diritto romano se­condo il quale il matrimo­nio è per prima cosa un contratto che, come tutti i contratti, costringe i con­traenti a delle responsabi­lità. Ma parlare di respon­sabilità nel Paese dell’eter­na giovinezza oggi pare a volte quasi un affronto. Per parte loro, politica e media si affrettano a con­validare questa tendenza, a metterci il timbro e far­la loro. Se non a promuo­verla.

Isabella Bossi Fedrigotti

29 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Caro Fini, promuova l’intelligenza delle donne. Ho fiducia in lei
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 11:37:55 am
Caro Fini, promuova l’intelligenza delle donne. Ho fiducia in lei

di Mariella Gramaglia


Gentile Presidente Fini,

verrò subito alla ragione per cui le scrivo, ma prima qualche parola sull'esperienza da cui le mie righe nascono. Sono femminista e di sinistra da sempre. Per quanto riguarda la prima definizione, porto con me soprattutto il gusto e il desiderio di vedere esprimersi nel mondo la libertà, l'autorevolezza e l'intelligenza femminile. Per quanto concerne la seconda, invece, sono decisamente interessata a nutrire di senso la democrazia e le riforme e a esercitare quel po' di creatività che coltivo per rendere flessibili le istituzioni e le regole. Affinché includano, si trasformino, non si dissecchino per diventare puri paraventi del potere. È con questo spirito, e con il talismano degli insegnamenti di Norberto Bobbio, che ha offerto potenti antidoti all'estremismo, che ho scelto di diventare socia fondatrice di Reset. Perché scrivo a lei? Per almeno tre motivi. Perché appartengo a quel genere di antifascisti che non vivono nel sospetto, che sono contenti di non avere più in lei un nemico ideologico, e che considerano la sua parabola anche come un esito delle proprie battaglie. (...) Perché non mi dispiace il modo in cui lei incarna la terza carica della Stato: è capace di autonomia, talvolta di solitudine, di rispetto - oggi non ovvio - verso le istituzioni. Insomma,nonè raro che lei stupisca. E che lo stupore, e talvolta la freddezza, siano più intensi in chi le è stato vicino in passato. Infine - glielo dico francamente, anche se con imbarazzo - perché temo che il mondo politico a cui mi sento più affine sarà scosso, almeno fino a novembre prossimo, da una tensione di cui è difficile pronosticare gli esiti. Facilissimo invece prevedere che le sue voci, troppo arrochite dalla polemica interna, faranno fatica a conquistare prestigio nell'opinione pubblica. E le sue voci femminili ancor di più, come spesso accade in politica quandola situazione si fa claustrofobica. (...) Io mi rivolgo a lei, invece, perché non sopporto più che il corpo sia in questo momento l'unico protagonista del rapporto fra donne e politica. Non ho nulla contro il corpo che anima una vita: è lo stereotipo che mi soffoca. Dunque non ho nessuna voglia di rivolgeredomandeal presidente del consiglio: ogni incursione nella sua vicenda implica, persino inavvertitamente, un giudizio sulle donne che hanno scelto di assecondarlo. Non vedo perché darlo. (...)Mi è venuta l'idea di fare dieci proposte a lei, invece che dieci domande al presidente del consiglio. Dieci proposte per tener viva l'idea, preparando tempi migliori, che l'intelligenza femminile nella dimensione pubblica può e deve essere vista e coltivata. (...)

Veniamo dunque alle proposte.

1)Nomini un board di giuriste, undici al massimo. Le scelga fra le migliori d'Italia nei diversi ambiti, dal diritto di famiglia, a quello del lavoro, a quello costituzionale. Chieda loro di spulciare le norme senza dimenticare il proprio genere. Chieda loro di fare proposte nuove, ma anche di abolire anacronismi e paternalismi che ancora esistono. Valorizzi le loro differenze. Non tema che si dividano fra maggioranza e minoranza ogni volta che occorre. Chieda loro un rapporto nel giro di un anno e impegni tutti i gruppi parlamentari a discuterlo. Nel lontano 1961John Kennedy istituì un'analoga commissione di indagine sulla “status delle donne” presieduta all' inizio da Eleanor Roosevelt. Fu la nota d'avvio di una nuova stagione per le donne americane. (...)

2) Mi pare di ricordare che lei sia favorevole alle pari opportunità nelle cariche elettive. O, come volgarmente si dice in Italia, alle quote rosa. Lo sono stata anch'io e mi pare che abbiano portato buoni frutti, non solo nelle democrazie europee, ma persino in India (33% di donne al parlamento federale). Tuttavia temo che oggi nel nostro paese si siano bruciate le messi e inquinati i campi. Il problema è più profondo: riguarda i meccanismi di selezione, le leggi elettorali, il modo in cui si forma e si consolida il ceto politico. Tuttavia non credo che lei debba lasciar dimenticare che nel2003 il Parlamento votòunariforma costituzionale per le pari opportunità nelle cariche elettive e che nel 2005 unaministra della repubblica, Stefania Prestigiacomo, venne umiliata in aula perché tentava di trasformarla in legge ordinaria. Né può ignorare i modesti risultati delle nostre liste anche alle ultime elezioni europee. Chieda anche su questo un rapporto e una presa di posizione di gruppi e partiti. Se dobbiamo seppellire le quote facciamolo con onore, ma non rinunciamo ad altre strategie: ad agire, per esempio, sulle leggi elettorali e sui meccanismi di selezione dei candidati.

3)Scelga tre grandi donne parlamentari del passato, di aree politiche diverse, e dedichi alla loro memoria un fondo per un ragionevole numero di borse di studio alle studentesse e alle neolaureate di maggior talento degli atenei italiani. Esca in questo caso dalle discipline giuridiche, dia ossigeno a quelle coraggiose che studiano fisica, matematica, genetica e spesso approdano dall'altra parte dell'oceano malgrado i loro desideri.

4)Organizzi una scuola di formazione politica peruncentinaio di ragazze brave che studino le discipline adatte. Ma vera, per carità. Non come fanno i partiti: quattro giorni con le star intellettuali del momento per far notizia ai telegiornali della sera. Penso a mesi di lavoro autentico, con dossier seri, impegnativi. Sfrutti la professionalità dei funzionari della Camera che sono un patrimonio straordinario e poco noto ai più.

5)Prepari ogni anno, con grande impegno formale oltre che sostanziale, una lectio magistralis di colei che a suo giudizio è la più eminente del nostro paese. Inviti tutti, dal presidente del consiglio ai segretari dei partiti. Chissà che dover ascoltare per 45 minuti una donna intelligente non faccia loro del bene.

6)Adotti una protagonista delle lotte per i diritti umani nel mondo. Ha solo l'imbarazzo della scelta. Ma non si limiti ad affiggerne il ritratto. Si faccia carico del suo patrocinio legale se occorre, delle sua rappresentanza nelle sedi internazionali, delle moltiplicazione dei suoi sforzi comunicativi e operativi. Le fornisca, insomma, una sorta di staff a distanza.

7)Proponga, anche in base alle utilissime ricerche di Fare futuro, ai gruppi parlamentariundibattito serio sulla cooperazione allo sviluppo che metta in primo piano – come ormai suggeriscono tutti i grandi esperti del mondo – l'insostituibilità delle energie femminili per uscire dalla povertà. Suggerisca con determinazione al governo una politica più coraggiosa e chieda che una quota definita e consistente dei fondi per la cooperazione sia destinata a progetti caratterizzati da una leadership femminile. Lei non ha al momento alcuna funzione esecutiva, dunque tutto ciò che fin qui ho elencato ha un valore soprattutto simbolico, di segnale, di messaggio. Non lo sottovaluti, però: abbiamo imparato ancora una volta in questi mesi quanto i simboli ci avviluppino. Talvolta per il peggio. Dunque perché non affidare qualche speranza anche al meglio? Proprio per questo gli ultimi tre sono più suggerimenti che proposte. Hanno a che fare con il suo comportamento, il suo stile e sono altrettanto importanti.

8)Tenga sempre uno sguardo libero e aperto sulla differenza di genere. Stia lontano da certi stereotipi della retorica politica. Le donne avrebbero maggiori doti di cura anche nei confronti della vita sociale, ledonne porterebbero un'anima più pulita e disinteressata nella dimensione pubblica: sono ingredienti classici da campagna elettorale. Le donne hanno diritto a esserci in quanto cittadine. Chi sono,comesono, lo diranno loro, ciascuna a suo modo.

9)Lei ha dichiarato meritoriamente, al congresso di fondazione del partito delle libertà, la sua affezione allo stato laico. Ottimo. Non viviamo più nel vecchio stato liberale: non si tratta quindi di negare il valore della religione come alimento del legame sociale, né di disegnare soltanto confini formali. Oggi spesso i problemi stanno in una sfera infinitamente più intima, fra corpo, responsabilità e consapevolezza. Una sfera che tocca l'aborto, la fecondazione assistita, la cura e il dolore, su cui le donne, sia laiche che credenti, hanno molto pensato e scritto, lungo sentieri inediti. Le studi e le consulti.

10) Ci faccia ignorare tutto di lei, tranne ciò che fa e dice in quanto presidente della Camera. Non vogliamo sapere né i suoi hobby, né i suoi amori, né i suoi gusti in fatto di vacanze,né le sue ire, né le sue debolezze. Tenga tutto per sé e per i suoi cari.Anche a costo di qualche sacrificio. È un prezzo che si può pagare all'esercizio di una funzione importante come la sua. E non creda che sia penalizzante o fuori moda. Quando il troppo è troppo anche la moda cambia.

06 novembre 2009
da unita.it


Titolo: Neda, la ragazza chiamata «grido»
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 04:45:38 pm
Diario iraniano

Neda, la ragazza chiamata «grido»

di Ali Izadi


Il Corano si chiede giustamente: «per quale peccato è stata uccisa?» (sura 81 versetto 9). Ma il regime non vuole che si chieda perché o come una persona è stata uccisa.

Neda in persiano vuol dire «richiamo» e «grido». Proprio quello che ha fatto questa ragazza, martire della libertà, uccisa per il suo grido contro la repressione.
E ora dopo la morte ci richiama. «Se perdo la vita mia e vengo colpita, se il proiettile mi colpisce dritto al cuore ancora continuerò a gridare per la libertà e la mia patria».

Sono le frasi che diceva in questi giorni Neda prima di venire uccisa.

Caspian, il fidanzato di Neda, ci ha raccontato: «Nel momento in cui è accaduta la tragedia, Neda era lontana dal luogo della manifestazione. Stava con il suo professore di musica in macchina, stanca per il traffico e il caldo. Poi è scesa, parlava al cellulare quando è stata colpita al cuore. L’ospedale Shariati era molto vicino, ma è stato tutto inutile».

Ai genitori di Neda non è stato permesso parlare con la stampa. La tv di stato ha detto che la ragazza è stata uccisa dai manifestanti. Caspian racconta: «La salma è stata portata in un centro di medicina legale fuori Teheran lontana dai suoi. Perché? I medici hanno solo detto al padre che hanno bisogno di alcune parti del corpo della ragazza compreso un pezzo di femore, senza dire per quale ragione».

Lui ha accettato, perchè voleva riavere il corpo. «Nel pomeriggio tardo eravamo nel cimitero principale di Teheran sotto gli occhi di un sacco di agenti in borghese e forze dell’ordine. Mentre la madre piangeva piano in un’aria soffocante, Neda viene abbracciata dalla terra», ha raccontato Caspian.

Nessuna moschea ha potuto celebrare i funerali di Neda. Ma oggi la grande famiglia iraniana vuole fare una commemorazione nazionale per tutti i morti di questi giorni. E per lei.

26 giugno 2009
da unita.it


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Oxford, una borsa di studio dedicata a Neda

La decisione dell'università di Oxford di istituire una borsa di studio in ricordo di Neda Agha-Soltan, la studentessa uccisa e divenuta il volto simbolo delle proteste iraniane dopo la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, ha scatenato l'irritazione iraniana.

In una lettera pubblicata dal Times, il regime ha accusato l'università di aderire a una campagna «orchestrata politicamente» che potrebbe «minare la credibilità scientifica» dell'istituzione. In questo modo -prosegue la missiva inviata al prestigioso college britannico dall'ambasciata iraniana a Londra- «Oxford rimarrà isolata rispetto al mondo accademico mondiale».

11 novembre 2009
da unita.it


Titolo: Eluana, la verità
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2009, 10:56:54 pm
Eluana, la verità

di Tommaso Cerno


La giovane aveva subito 'un danno irreversibile'.

I risultati della perizia encefalica sgombrano ogni dubbio.

E chiudono la porta alle polemiche
 

Eluana non poteva risvegliarsi. No, sarebbe rimasta per sempre prigioniera nelle tenebre del suo stato vegetativo persistente. La miracolosa ripresa che in molti hanno teorizzato, alla tv e sui giornali, non era possibile. Almeno non per la scienza. Ora si sa. Già quella notte del gennaio 1992, quando sbandò con l'auto sul ghiaccio tornando da una festa fra amici, Eluana subì un "danno irreversibile". Non sono più gli avvocati della famiglia Englaro ad affermarlo. E non sono i medici che l'hanno presa in cura per 17 anni a mostrare diagnosi tutte concordi nel confermare che non ci fossero speranze. Stavolta a dircelo è proprio lei, Eluana Englaro. Con l'unico, tragico messaggio che il suo cervello di ragazza, diventata donna senza saperlo, ha potuto trasmetterci dopo lo schianto. Parla attraverso gli esami encefalici, l'ulteriore indagine disposta a maggio dalla Procura di Udine per sgombrare ogni dubbio sulla morte del 9 febbraio alla clinica La Quiete. Dopo cinque mesi la perizia è pronta. Mette d'accordo tutti: i neurologi incaricati Fabrizio Tagliavini, primario al Carlo Besta di Milano, e Raffaele De Caro, docente all'Università di Padova; i periti di parte, Stefano Pizzolitto e Felice Giangaspero; così come gli esperti della Procura friulana guidati da Carlo Moreschi.

La relazione finale sarà consegnata in questi giorni al procuratore capo Antonio Biancardi. Ma l'ultimo incontro a Padova ha scandagliato tutto: lesioni, atrofie, danni al talamo, al corpo calloso, ai due emisferi. Una miriade di paroloni medico-legali che confermano una semplice e drammatica verità: "I danni neuropatologici osservati sono morfologicamente irreversibili", rivela a 'L'espresso' chi quegli esami li ha condotti e studiati. Vuol dire che quel cervello non poteva guarire. E che Eluana non poteva riemergere dal suo stato vegetale, smentendo così scienziati, giuristi, sacerdoti e onorevoli che giuravano il contrario. Il premier Berlusconi in testa.

È l'ultimo tassello di una storia che ha spaccato l'Italia, infiammato lo scontro fra governo e Quirinale, riaperto la ferita fra laici e cattolici. Un documento che va a sommarsi alle migliaia di altre pagine, già nelle mani dei magistrati. Perizie, diagnosi, cartelle cliniche, richieste di ricovero, verbali del Nas e dell'Asl, che dicono tutti la stessa cosa: Eluana era lì, ma non c'era davvero. Non rispondeva al dolore, non percepiva le presenze attorno. Non aveva caldo, né freddo. Mancava solo una cosa. Rispondere alla domanda più importante: c'era o no una luce in fondo a quel tunnel?

È su questo aspetto che lo scontro è stato più duro. Le accuse piovute su Amato De Monte, l'anestesista che staccò il sondino, furono pesantissime. L'hanno apostrofato come "boia", accusato di "uccidere una persona cosciente, che poteva riaprire gli occhi da un momento all'altro". Quando Beppino andò per l'ultima volta da sua figlia in Friuli, si trovò di fronte uno striscione gigantesco: "Assassino!". Tutto mentre una tenda bianca impediva ai fotografi di profanare la stanza di Eluana. Il neurologo Gianluigi Gigli parlò di "persona dal corpo resistente, che non ha mai avuto bisogno di farmaci particolari". Senza mai averla visitata. E quando le prescrizioni ne elencano a bizzeffe, somministrati per anni: Dintoina, Pantopan, Supradyn, Adalat, Ciproxin, Norvasc. Giuliano Dolce, anche lui medico, vide Eluana a Lecco e spiegò che "alcune funzioni restavano, in particolare la deglutizione". Un'eventualità negata dalle stesse suore misericordine che l'accudirono dal 1994. Berlusconi si spinse a ipotizzare che potesse "generare un figlio, in uno stato vegetativo che potrebbe variare, come diverse volte si è visto". Il ministro Angelino Alfano dichiarò che era "morta per sentenza", perché quella donna in fondo stava bene.

Nulla di tutto questo trova più conferme. Né nel diario clinico degli ultimi giorni trascorsi a Udine o nell'autopsia di febbraio, e neppure adesso negli esami dell'encefalo. Benché non possano trattare le funzioni vitali di Eluana, essendo eseguiti dopo la morte, studiano l'entità dei danni morfologici. E da quelle analisi giunge una seconda, importante conferma. La situazione del cervello era "coerente con lo stato vegetativo persistente". Fin dal primo giorno, dal ricovero in terapia intensiva il 18 gennaio 1992, con la diagnosi di "coma e paraplegia in trauma cranico midollare". Così è stato sempre, anche quando aveva ripreso a respirare senza le macchine. Durante gli anni trascorsi all'istituto Beato Luigi Talamoni, e dopo l'arrivo a Udine, lo scorso 3 febbraio, nella stanza isolata e protetta che avrebbe ospitato il suo ultimo viaggio. Come dicono le carte, era un corpo vuoto. Una prigione, appunto, come ha ripetuto papà Beppino, convinto che sua figlia non avrebbe mai accettato quelle terapie, e pronto a rispettare la promessa che le aveva fatto quando uno dei più cari amici di Eluana finì in un letto di ospedale, con un sondino nello stomaco, immobile come un vegetale: "Papà, promettimi che se capitasse a me, tu mi libererai".

Forse, stavolta, l'incrocio di tutte queste analisi basterà a chiudere il caso. E ad archiviare l'indagine per omicidio che ancora pende su papà Beppino e sul primario De Monte. L'avvocato Giuseppe Campeis lavora alla memoria con cui chiederà al tribunale di far cadere le accuse. Ora che Eluana riposa a Paluzza e che cresce il dossier delle cause civili per danni contro chi attaccò ingiustamente, disse menzogne, parlò senza conoscere i fatti. I proventi andranno tutti alla fondazione Per Eluana, formalizzata lo scorso lunedì. "Vogliamo batterci fino in fondo per il biotestamento, perché una vicenda come quella di mia figlia non si ripeta", dice Englaro. Che la parola fine non la conosce più.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Storia di Agnes Okot «Così in Uganda ho ucciso per non essere uccisa»
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 06:52:31 pm
Storia di Agnes Okot «Così in Uganda ho ucciso per non essere uccisa»

di Claudia Giampietri


Agnes Okot ha appena 22 anni. Nel nord dell'Uganda sono un'età sufficiente per avere vissuto in prima persona la paura generata dalla guerra che per più di vent'anni ha afflitto la terra degli Acholi, teatro di scontri tra le forze del governo (UPDF)e i ribelli dell'Esercito della Resistenza del Signore (LRA). Agnes ha lasciato sua mamma e la figlia di cinque anni nel campo di rifugiati di Pader a 100 chilometri da Gulu dove lei si trova da più di un mese. Sta frequentando la Santa Monica Tailoring School, una scuola di taglio e cucito costruita grazie ai fondi del Centro Missionario Magentino che ospita più di duecento ragazze da tutta la regione Acholi. Come molte altre giovani, Agnes sta cercando di voltare pagina e guardare al futuro. Spera che il passato sbiadisca come un vecchio ricordo, ma la sua primogenita - che ha gli stessi occhi del padre, l'ex vice comandante dei ribelli - é la prova vivente che quello che ha vissuto non é stato soltanto un incubo. I ricordi diAgnes sono scanditi dal suono degli spari, sono impregnati della paura di essere la prossima vittima, segnati dal dolore per la perdita del padre ammazzato con un colpo di pistola davanti agli occhi di Agnes-bambina, e reso cenere dai ribelli che ne bruciarono il corpo senza vita prima di dileguarsi come fantasmi. E come fantasmi riapparvero all'improvviso la notte in cui Agnes fu rapita insieme ad altri che non fecero mai ritorno.

Temendo il peggio ma sperando che fosse ancora viva, la madre di Agnes aspettava e pregava. Pregava e aspettava. Tre anni di preghiere e attese fino a che Agnes ritornò dopo dieci giorni di cammino, stremata nelle forze, spaesata ma felice di essere salva. Aveva17annila notte in cui venne rapita. Con la madre e i fratelli si stavano incamminando verso il posto dove passavano la notte. Camminando tra i cespugli nel monotono paesaggio della savana dove anche un gatto perderebbe l'orientamento, a decine procedevano nel buio, cauti e silenziosi quasi trattenendo il respiro fino a destinazione per paura di fare rumore. Ma quella notte i ribelli li sorpresero ed insieme ad Agnes rapirono altri. Dopo averli legati e caricati di pesanti bagagli, il gruppo fu costretto a procedere per giorni senza sosta. A tutti veniva insegnato a sparare, maschi e femmine, bambini e adolescenti. «Durante gli scontri a fuoco tra UPDF e ribelli, anche noi ragazze combattevamo. Non si poteva fare altro. Le forze del governo non distinguevano se chi sparava erano bambini, ragazze o ribelli. Diventava un modo per difenderci e chi sparava più veloce aveva una giornata di vita più». Ma i compiti delle ragazze rapite non si esauriscono con il provvedere al cibo e combattere fianco a fianco con i ribelli. «Non passò molto tempo che i ribelli misero le ragazze in fila.Dopoavere controllato che fossimo sane, ci sceglievano come “mogli”. Dal momento in cui un ribelle ti sceglie come moglie, significa che devi comportarticome tale, devi essere ubbidiente e non negarti quando lui vuole avere rapporti sessuali».

Agnes fu scelta da Vincent Otti, un uomo che lei ricorda come vecchio e severo,ma di cui conosce poco altro. Infatti Agnes ignora che il padre della sua primogenita era il secondo in comando dell'Esercito della Resistenza del Signore, braccio destro di Joseph Kony - leader dei ribelli - e contro cui la Corte Penale Internazionale emise un mandato di cattura per crimini contro l'umanità. Privata della libertà di scegliere e in balia degli umori del comandante, Agnes ha eseguito ordini per tre anni: ha combattuto con i ribelli, ha messo almondoun figlio, ha ucciso per non essere uccisa. Nonostante la paura costante di essere punita o di rimanere ferita mortalmente in uno scontro a fuoco, Agnes non ha mai smesso di sperare che un giorno sarebbe tornata a casa. «Quel giorno arrivò inaspettato. Stavamo dirigendoci verso il sud del Sudan quando le truppe dell'UPDF ci colsero di sorpresa. Imbracciammo le armi e rispondemmo al fuoco, ma poco dopo l'inizio dello scontro presi mia figlia e cominciai a correre ». Agnes corse per ore fino a che le forze vennero meno e dovette rallentare il passo.

Temendo di essere raggiunta dai ribelli ed essere uccisa per avere tentato la fuga, continuò a camminare per giorni senza sosta, ignorando la fame e la sete che la indebolivano e rendevano i pianti di sua figlia sempre meno udibili. «Non sapevo la direzione esatta e mi orientavo con il sole. Dopo dieci giorni di cammino raggiunsi Pader». Con la madre e la figlia, Agnes si stabilì nel campo per rifugiati di Pader dove vivono ancora oggi. Il conflitto nel nord dell' Ugandaè stato il più lungo nell'intero continente Africano post-coloniale e ha costretto due milioni di persone ad abbandonare i propri villaggi e vivere congestionati nei campi che ospitano molte più persone di quante potrebbero contenerne. «La vita nei campi è precaria, è come essere prigionieri nella nostra stessa terra». L'accordo di cessazione delle ostilità, firmato dai ribelli e dal governo Ugandese a Juba nel sud del Sudan ad agosto 2006, ha segnato l'inizio di un periodo di pace e stabilità per il nord dell'Uganda, e da un anno molti rifugiati hanno cominciato a lasciare i campi e ritornare ai propri villaggi. La casa di Agnes, purtroppo, é stata distrutta e non ha i soldi per ricostruirla. Agnes rimarrà a Gulu alla scuola Santa Monica per tre mesi. Impara più che può e spera di poter lavorare come sarta. «Non ho mai pensato di fare la sarta, anzi da piccola volevo fare la maestra. Ma ora non desidero altro che comprare un macchina da cucire e guadagnare abbastanza per ricostruire la mia casa e garantire a mia figlia un futuro con più scelte di quelle che ho avuto io».

16 novembre 2009
da unita.it


Titolo: «Siamo in tante e diverse quello che si vede nei media non ci rappresenta mai»
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2009, 06:08:53 pm
«Siamo in tante e diverse quello che si vede nei media non ci rappresenta mai»

di Bianca Di Giovanni


Per lei il complimento più bello è non rientrare in uno stereotipo. I clichés non le piacciono, se non altro perché ce ne sono troppi per donne del suo calibro. Manager, quindi «in carriera», quindi «di potere», quindi «anche un po’ uomo», quindi, quindi...Tutto sbagliato. A incontrare Simona Scarpaleggia, numero due (di certo questa definizione non le piacerebbe) di Ikea Italia, nonché presidente di Valore D, associazione impegnata nella valorizzazione dei talenti femminili, l’intera «architettura» del potere al femminile crolla. Per lei non esiste un’icona: l’importante sono le sue battaglie, nel lavoro e nella vita, è la sua riflessione sulle cose, il suo intuito, la semplicità con cui decritta la realtà. «Le donne italiane non hanno reagito allo scandalo escort? Ma chissà cosa vorrà dire quel silenzio - si chiede - Non parlare può significare molte cose: anche condannare. Ioho vissuto questo scandalo con molta sofferenza. Perché da noi il vero problema che si ripropone sempre un unico modello di donna procace. Invece le donne sono tante e diverse, fanno mille lavori e contribuiscono alla crescita del Paese. Ma quelle non si vedono mai.

Quello che si vede nei media non rappresenta il mondo delle donne italiane ». La incontriamo mentre è ospite di un seminario dell’Abi, l’associazione delle banche italiane. «Tutti uomini - si lascia sfuggire - Gliel’ho detto: quando ai vertici Abi incontrerò una donna?». Ai banchieri italiani Scarpaleggia racconta lo «stile» Ikea. Parla di «fiducia e semplicità», di risparmi fatti «insieme con i clienti», di «persone schiette e oneste» che lavorano insieme, di «etichette senza parole che possano comunicare in tutto il mondo come si costruisce una libreria», di accoglienza, di contratti part-time per consentire una vita migliore ai dipendenti, infine di «flessibilità generosa».
Tutti termini che si attaglierebbero bene a una persona, magari proprio a una donna.

Da come ne parla la sua azienda sembra proprio strutturata per le donne, un’azienda femminile. O ha avuto dei problemi?
«Mai avuti. Io sono entrata dieci anni fa come responsabile delle risorse umane, poi ho aperto e gestito un punto vendita, e poi sono diventata vice amministratore delegato».

Lei dove ha studiato?
«A Roma alla Luiss scienze politiche, poi un master alla Bocconi».

Tutta italiana per formazione...
«Sì. Curriculum prevalentemente italiano, ma con esposizioni internazionali perché mi è capitato per lavoro di passare dei periodi all’estero. È importante avere un occhio sul mondo, e le multinazionali offrono questa opportunità. Comunque è interessante quello che diceva prima: Ikea azienda donna».

Dalle parole che usa, sembra proprio così.
«Intanto abbiamo il 56% di clienti donne. Poi l’atteggiamento di cura che noi abbiamo in qualche modo corrisponde alla psicologia femminile. Da noi c’è anche un modo di relazionarsi che è poco gerarchico. Abbiamo naturalmente le nostre gerarchie, ma anche una modalità di relazione più orizzontale: ci diamo tutti del tu, dal primo all’ultimo entrato in azienda, e questo atteggiamento informale non è soltanto un codice di comportamento posticcio, ma è molto sentito.
Per noi è importante che i nostri collaboratori stiano bene. Le nostre rilevazioni annuali ci confermano un buon clima aziendale e una forte motivazione. Questa soddisfazione interna, poi, ha anche un riscontro di business, perché fidelizza anche i clienti».

Gestire il potere per lei che vuol dire? Spesso per le donne quella parola ha un senso solo negativo.
«In Ikea, proprio per questa modalità partecipativa, anche l’esercizio del potere è vissuto in modo diverso. Si fa molto leva sulla responsabilità, e questo si addice probabilmente di più a come siamo allevate noi donne.
È uno sbaglio che si interpreti il potere solo in senso negativo: il potere serve per portare avanti un’azienda, per portare avanti il Paese. Sicuramente non è un fine, come purtroppo nella storia si è visto tantissime volte.
Però non è una parolaccia. Dipende dal senso di responsabilità che si ha nell’usarlo ».

Davvero nessun problema con i capi uomini, o con i suoi sottoposti?
«Le faccio un esempio: in Ikea Italia quando io sono entrata eravamo due. Oggi siamometà nel comitato di dirigenza, e nei ruoli direttivi altrettante. È stato fatto un grande percorso, fatto con poco rumore e devo dire anche in modo positivo da questo punto di vista. Perché soprattutto in Italia ci sono due grandi miti che sfaterei. Il primo è che non ci sono donne di qualità alle quali far fare carriera. Assolutamente non è così, ce ne sono tante qualificate che entrano in azienda con laurea, master e specializzazione, e poi improvvisamente si perdono per li rami. Statisticamente questa è un’obiezione superabile molto facilmente».

E l’altro mito?
«L’altro mito è che alcune donne debbano essere promosse solo perché sono donne. Anche questa è una cosa che eviterei categoricamente. Noi abbiamo cominciato a promuovere le donne sulla base del merito e improvvisamente ci siamo resi conto che metàdel management era femminile e che quindi questo metodo aveva giovato».

Quindi solo con il merito come bussola le donne sono aumentate?
«Sì, certo c’è un passaggio importante che è la consapevolezza. Ci siamo resi conto che c’erano molte donne da inserire nelle liste: lo abbiamo fatto e loro sono state promosse ».

E tutto il discorso lavoro-famiglia?
«Se dicessi che è stato tutto facilissimo, direi una balla. Io lavoro da tanti anni e in Ikea sono approdata quando avevo già tre figli, avevo già i miei tre figli, avevo già fatto una gran fatica. Mi piacerebbe che le mie figlie non dovessero più fare tutta questa fatica e magari non dovessero più sentire questa domanda. Ma è utile dire che per le donne della mia generazione che sono arrivate a posti di responsabilità alta non è stato facile, è stato faticoso. Questo va ripetuto e ricordato sempre. Oltre al normale impegno, studio e lavoro, in più bisogna pensare alla famiglia ».

Ci sono donne che risolvono il dilemma scegliendo la famiglia.
«Ci sono donne che a un certo punto dicono: alla fine non vale la pena. Se il costo, non solo personale ma anche economico, è così elevato, allora meglio uscire dal circuito produttivo. Il fatto è che poi rientrare è difficilissimo.
E questa è un’altra cosa da sfatare».

In che senso?
«Se abbiamo 40 anni di vita lavorativa, cosa saranno mai 5 anni di assenza se una donna vuole farlo? Mettiamo dalla prospettiva aziendale o del sistema economico: se una donna esce dal circuito per un periodo di tempo, e poi rientra con dei meccanismi di riqualificazione professionale che potrebbero essere messi in pista con interventi imprese- stato, che cosa è successo in termini di danno? Non è più dannoso tenere fuori dal circuito produttivo queste persone?».

In Ikea cosa accade a chi si assenta?
«Da noi mediamente le persone che vanno in maternità stanno fuori un anno e poi rientrano tranquillamente. Abbiamo messo in moto anche percorsi di riqualificazione professionale in cui le donne sono state promosse quando sono tornate. Dovevano esserlo prima, perché nonavrebbero dovuto ottenere la promozione al ritorno?».

Anche i rapporti tra donne spesso non sono facili sul lavoro.
«Questo si deve soprattutto al fatto che ce ne sono poche e che ottengono risultati solo a fronte di grandi rinunce e sacrifici. Quando io sono entrata nel mondo del lavoro la mia difficoltà è stata quella di non rientrare nei due stereotipi vigenti: o virago, o cocquette. Era difficilissimo non essere classificata in questo senso. Oggi forse è diverso».

da unita.it



Titolo: Ru486 Veronesi: la sospensione è una vergogna
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 07:41:50 pm
Ru486, Sacconi: uso solo in ospedale

Veronesi: la sospensione è una vergogna

Turco: basta con gli equivoci, la 194 non prevede obbligo di ricovero
 
                   
MILANO (27 novembre) - Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha inviato oggi al presidente dell'Aifa Sergio Pecorelli il parere del governo: uso della pillola abortiva Ru486 in ospedale e attento monitoraggio del percorso abortivo in tutte le sue fasi, per ridurre al minimo le reazioni avverse (effetti collaterali, emorragie, infezioni ed eventi fatali) e per disporre di un rilevamento di dati di farmacovigilanza che consenta di verificare il rispetto della legge. Il parere è stato richiesto dalla commissione sanità che aveva bocciato la pillola abortiva

Non c'è «una volontà di sospensioni infinite sulla Ru486», ha assicurato il sottosegretario al Welfare Roccella, ricordando che dall'indagine della Commissione del Senato «si è visto che l'Aifa ha saltato un passaggio fondamentale», ha spiegato il sottosegretario. In pratica l'Agenzia non avrebbe comunicato con il governo per chiarire se l'uso del farmaco rispetta i criteri per l'aborto fissati dalla legge 194.

La polemica.
Intanto c'è chi parla di un «autentico colpo di mano», e di una vergognosa «sentenza politica», e chi rivendica un sacrosanto intervento a favore delle salute delle donne. Entrambi, in ogni caso, si accusano reciprocamente di oscurantismo. E questa volta se il centrosinistra è arrivato a una posizione comune in difesa dell'Aifa ma senza scontentare la componente cattolica, se si eccettua la presa di posizione della radicale eletta nelle file del Pd Donatella Poretti che ha presentato in commissione una mozione alternativa a quella dell'opposizione, è nelle file del Pdl che si registrano dei distinguo. Non solo da parte dei “finiani”, come Benedetto Della Vedova, secondo il quale «è pericolosa l'idea che sui farmaci decida il Parlamento», ma anche da parte del capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Francamente non condivido il blocco della commissione Sanità nei confronti della pillola RU486, che l'agenzia italiana del farmaco, del tutto tecnica e neutrale, ha ammesso all'uso con vincoli assai rigorosi».

Turco: basta con gli equivoci.
«Basta con gli equivoci. Il ministro Sacconi e il sottosegretario Roccella stanno impedendo l'utilizzo della pillola Ru486 in modo surrettizio con il pretesto della salute delle donne e il rispetto della stessa 194». Lo ha detto Livia Turco, capogruppo del Pd in commissione Affari sociali della Camera, spiegando che la legge 194 sull'aborto non prevede l'obbligo del ricovero. «L'art.8 della 194, prosegue Turco, stabilisce che l'aborto può avvenire “presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati” ma anche presso case di cura. Inoltre gli articoli 8 e 10 dicono che la degenza ospedaliera per l'aborto è una eventualità». Obbligare le strutture sanitarie al ricovero, come ha detto il ministro, «non è, secondo Turco, una garanzia maggiore per la tutela della salute delle donne. Sacconi e Roccella dicano apertamente che vogliono cambiare la 194 imponendo il ricovero per l'aborto farmacologico per tutto l'arco di tempo necessario all'espulsione del feto e che vogliono rendere difficile il ricorso alla pillola e scoraggiarne l'uso». La «crociata della destra è in realtà un atto di sfiducia verso le donne e i medici», conclude, in quanto «già la delibera dell'Aifa (Agenzia italiana del farmaco), in modo chiaro, prevede che sia il medico a valutare caso per caso, insieme alla donna, l'eventuale permanenza nella struttura sanitaria». Critico Maurizio Gasparri, presidente del gruppo del Pdl al Senato che accusa la turco di aver aggredito Sacconi proprio nel giorno in cui «Napolitano invita al senso di responsabilità».

Veronesi: è una vergogna.
Oggi torna ad esprimersi sulla vicenda l'ex ministro della Sanità Umberto Veronesi: «È una vergogna, una vergogna nazionale». Tra l'altro, ha sottolineato il professore, lo stop arriva dalla commissione sanità, «che sono quattro gatti. Non credo che la cosa andrà avanti, è assurdo, non possiamo andare fuori dall'Europa». Veronesi ha anche spiegato che l'Agenzia del farmaco (Aifa), che aveva già dato parere positivo alla commercializzazione, «è un organo ufficiale del Ministero della sanità, e quindi del Governo, e il suo presidente è nominato politicamente: non è un organo indipendente, quindi ora il Governo è imbarazzato. Il parere dell'Aifa è un atto dovuto - ha spiegato - perchè c'è una regola europea secondo cui se un certo numero di Paesi accetta una cosa gli altri devono uniformarsi, perché è assurdo, farebbe ridere pensare che se un farmaco è sicuro in Francia non lo sia anche in Italia». Per la commercializzazione della RU486, ha concluso Veronesi, «il parere dell'Aifa sarebbe sufficiente, ma adesso questa commissione del Parlamento vuole bloccarne la commercializzazione perchè dice che è incompatibile con la legge sull'aborto. Dove sia l'incompatibilità, non lo so».

da ilmessaggero.it