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Autore Discussione: MONDO DONNA N° 1  (Letto 148893 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Febbraio 04, 2009, 11:00:19 pm »

La forza potente del dolore

di Luigi Manconi


Ora che la vicenda di Eluana Englaro – una sorta di parabola per credenti e laici – si avvia all’epilogo, risultano più nitide le figure dei diversi protagonisti. Da una parte, sgangherate manifestazioni di fanatismo: quello di chi grida «assassini» verso l’ambulanza che porta via Eluana e quello di chi (qualche prelato e molti politici) definisce «un omicidio» la pietosa scelta dei suoi familiari. Dall’altra, il volto nobilissimo, nella sua scavata essenzialità, di Beppino Englaro che ha saputo fare del solo sentimento che lo muove, l’amore per la figlia, una testimonianza civile e morale.


UNA NOVITÀ CULTURALE
Sullo sfondo, una straordinaria novità culturale e religiosa: a favore del diritto all’autodeterminazione come espressione della libertà di coscienza e della “libertà dei cristiani” si sono espresse le intelligenze più acute del cattolicesimo italiano: Vito Mancuso e Roberta De Monticelli, Vittorio Possenti e Giovanni Reale.
Tutto ciò ha lasciato traccia persino all’interno della Conferenza episcopale italiana, le cui più recenti parole sono state diverse da quelle precedenti: si parla di eutanasia, ma precisando che ciò accade “al di là delle intenzioni” e ci si affida “alla preghiera” (che è dimensione propria dell’espressione di fede più di quanto lo sia l’accalorato dibattito pubblico-politico).


IL DIRITTO RICONOSCIUTO
Ma ciò si deve al fatto che l’intera giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di Beppino Englaro a decidere sulla sorte ultima della figlia.
Per una volta il diritto si è espresso in modo limpido e inequivocabile: e questo è accaduto perché la famiglia Englaro solo a esso si è appellata e solo di esso si è fatta scudo. Come nelle tragedie greche e come nella storia delle vittime di tutti i tempi, il dolore più intimo – se trova il coraggio di manifestarsi nello spazio pubblico – può farsi forza potente, capace di fondare nuove norme e di tutelare le libertà collettive.

04 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #121 inserito:: Febbraio 06, 2009, 10:02:53 am »

6/2/2009 (7:24) - TENDENZE

Sex & 40
 
"Il vero piacere comincia adesso" Merito di ormoni e autostima

FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA LONDRA


Almeno metà delle nostre clienti sono signore grandi», ammette Sally, giovane commessa di Ann Summer, il popolare sexy shop di Oxford Street, nel cuore di Londra. Rosa H., avvocato, 44 anni come la mamma di Sally, curiosa tra le offerte di San Valentino, l'essenza di feromone, un paio di manette rosa, il «Kit Lapdance» completo di palo e tuta in latex. «Il sesso è divertente», dice sfogliando il manuale per la ricerca del punto G. La chiave è la complicità col partner: «Da ragazzina mi sarei vergognata ad assecondare certe fantasie, ora con il mio compagno è uno spasso».

E' finita l'epoca delle vittoriane severe narrate da Virginia Woolf: il Sex nella City migliora con l'età. Parola della rivista Health Plus Magazine che ha pubblicato una ricerca sull'erotismo femminile: il 77% delle 2000 donne intervistate ha scoperto la libido dopo il 40° compleanno. Con buona pace di rughe intorno agli occhi e qualche impertinente capello bianco.

«E' uno dei nostri segreti più belli, la consapevolezza che il piacere fisico non è legato a una certa stagione della vita», nota Susan Quilliam, psicologa e coautrice del pamphlet The New Joy of Sex. Nel romanzo The Summer before the Dark, il nobel per la letteratura Doris Lessing indaga il percorso interiore della protagonista, agée, che sulla via dell'autocoscienza incontra un uomo e rinasce fanciulla.

«L'idea che le donne mature non fossero idonee al sesso risale all'Ottocento, quando i medici prescrivevano canfora per smorzare eventuali voglie», spiega al Daily Mail la storica Louise Foxcroft. Nel volume «A History Of Modern Menopause» documenta i tabù «ginecologici» del secolo scorso sistematizzati da tal dottor Heinrich Kish, che si meravigliava del desiderio riscontrato nelle donne in menopausa. E dire che, secondo il New Hite Report, il rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 2000, «la possibilità di provare orgasmi multipli aumenta dopo i 40 anni».

Quello che le donne non dicono è che l'oggetto del desiderio rinnovato non è necessariamente il partner. Anzi. «Molte delle mie amiche quarantenni hanno un amante», rivela al Daily Mail Marcel d?Argy Smith, ex direttrice di Cosmopolitan. Uno studio dell'università del New Hampshire conferma che la maggior parte dei tradimenti extramatrimoniali riguarda mogli over 45 (per gli uomini il momento d'oro è dopo i 55).

La primavera dei sensi ha una ragione medica e una psicologica. Quella medica, spiega Peter Bowen Simpkins, del Royal College of Gynaecologist, dipende dall'organismo: «Dopo la menopausa si produce più testosterone, l'ormone del desiderio». La seconda è mentale. Sentite la psicoterapeuta Jane Polden intervistata dal Guardian: «Madri, mogli, tutte si rilassano. Non sono più ossessionate dal corpo, la bilancia, il lavoro, i figli avuti o quelli che non avranno più». Donne sensuali nella pienezza della maturità come quelle dipinte dal pittore Jack Vettriano, il cui catalogo Lovers& Others Strangers campeggia nella libreria Waterstone's.

Il tempo delle mele torna a cicli. Anche solo per segnare i tempi della vita, chiosa Susan Quilliam: «Nella libido della seconda giovinezza c'è la tensione tra eros e tanatos. La menopausa ci ricorda che la possibilità di riprodursi è finita». Tanto vale approfittare di quel che si è.

da lastampa.it
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« Risposta #122 inserito:: Febbraio 06, 2009, 06:29:38 pm »

Reportage esclusivo di «io donna» dallo Stato africano dove si combatte da dieci anni

Congo, l'inferno nel nostro corpo

La donna è un campo di battaglia. Lo stupro una strategia di guerra


«Devo proteggermi» sussurra l’uomo in camice bianco. «Ho imparato a essere insensibile per poter curare pazienti che perdono urina e materia fecale dopo che lo stupro di gruppo le ha lacerate. Donne torturate con bastoni, coltelli, baionette esplose dentro i loro corpi rimasti senza vagina, vescica, retto. Ragazze alle quali devo dire: mademoiselle, lei non ha più un apparato genitale, non diventerà mai una donna». Dieci anni fa, una giovane violentata a cento metri da qui si è trascinata da lui. Da allora, nel suo ospedale Panzi a Bukavu, il ginecologo Denis Mukwege ha operato 25 mila vittime di stupri efferati e ne ha medicato altrettante nei villaggi, condannato a leggere nei loro corpi gli scempi di questo cruciale lembo d’Africa, l’est della Repubblica Democratica del Congo.

Si combatte dal 1998 nel Nord e nel Sud del Kivu, fuori dalle città di Goma e Bukavu, sulle rive di un lago beffardamente incantevole a ridosso della frontiera con il Ruanda. Cinque milioni di morti dal ’98 al 2002, nel conflitto più sanguinoso del globo dopo la seconda guerra mondiale. Poi i ribelli impazziti, i villaggi cancellati, la missione dell’Onu Monuc - la più imponente, con 17 mila caschi blu - capace solo di contare i morti dopo battaglie sbrigativamente attribuite a faide etniche e che invece mirano al controllo di immense e maledette ricchezze minerarie: oro, tantalio, diamanti. Lo stupro, qui, è l’arma affilata di una guerra che da tempo ha perduto la linea del fronte. La strategia primordiale di tutte le sigle paramilitari che annidano plotoni assassini nel cuore di tenebra della foresta equatoriale. Stuprano i ribelli del Cndp del generale Nkunda, appena messo fuori gioco dai suoi storici alleati ruandesi, e forse - mentre scriviamo - già ammazzato o spedito in un esilio dorato. Stuprano le milizie della Fdlr, gli hutu responsabili del genocidio ruandese del ’94 fuggiti in Congo. Stuprano i Mai Mai, combattenti filogovernativi, allucinati da riti tribali. E stupra l’esercito regolare.

Violenza sistematica, compiuta davanti a figli e mariti: annientare le donne è un metodo veloce e sicuro per riuscire a mutilare intere comunità, spaccandole in un’invincibile vergogna. Il presidente congolese Joseph Kabila ha appena autorizzato l’esercito ruandese a entrare in Congo per sgominare gli hutu della Fdlr, come promessa di pace per il Kivu, ma la sua gente non si aspetta che altri morti, altri inferni. «Perché chiamare qui i ruandesi a risolvere un loro problema? » si chiede Mathilde Muhindo, che si è dimessa dal Parlamento disgustata dall’immobilismo di Kinshasa e da sempre assiste le vittime di stupro nel Centro Olame della diocesi di Bukavu. «Perché il governo è sceso a patti con Bosco Ntaganda, l’antagonista di Nkunda, ricercato dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità? È triste che nella nostra terra chiunque sia autorizzato a fare ciò che vuole, esattamente come i militari sul corpo delle donne».

Corpi sfioriti come quello di Elise Mukumbila, maschera di rughe e livore: nelle credenze tribali, forzare un’anziana porta ricchezza, così i Mai Mai hanno abusato di Elise per mesi, nella foresta a nord di Goma, lasciandole l’Hiv. La incontro a Goma, nel piccolo centro di Univie Sida, associazione locale che convince le donne sieropositive del fatto che la vita può, deve continuare. E corpi di bambine come Valentine, orfana dodicenne, perché violare una vergine rende immortali. Lei ha perso la parola dopo i ripetuti stupri di gruppo, ha la gonna fradicia di urina per una fistola mai curata: la sorella maggiore vuole nascondere la tragedia agli altri sfollati nel campo di Buhimba, poco lontano da Goma, dicendo a tutti che il sorriso vuoto della bimba non è che una pazzia senza nome. A Bukavu Janette Mapengo, 31 anni, mi si avvicina zoppicando. Gli otto hutu che l’hanno violentata nella sua capanna costringevano il marito a guardare, per poi seccarlo con una pallottola in fronte ed esplodere su Janette altri tre colpi, appena lei ha osato urlare.

Alza la gonna scolorita mostrando l’arto di plastica: all’ospedale Panzi le è stata amputata la gamba destra maciullata dagli spari. Janette piange piano: «Sono inutile». Françoise Mukeina ha 43 anni, undici figli, occhi color miele: «Cento hutu ci hanno prese in otto dal villaggio, a Shabunda, tenendoci schiave nella foresta per due anni, nutrite con gli avanzi, violentate a turno ogni giorno, marchiate col fuoco. Quando mi hanno mandato a fare legna sono fuggita. Ho dolori che non finiscono mai ma ringrazio Dio: io sono viva, le altre no». Solo nel Sud Kivu, da gennaio a settembre 2008, l’agenzia dell’Onu Unfpa ha censito 11.600 donne che hanno chiesto cure dopo la violenza carnale: per il 95 per cento di loro, gli autori erano miliziani. Nel Nord Kivu si stimano 30 mila vittime di stupro dal 98, ma quelle che tacciono per vergogna sarebbero molte di più.

«È un femminicidio: gli stupri aumentano, sembrano contagiosi» esplode Fanny Mukendi di Action Aid, organizzazione internazionale che tra Bukavu e Goma finanzia i gruppi locali più attivi nel ricomporre i brandelli di esistenza di queste donne. «Sono povere, sfollate dopo gli attacchi dei ribelli: la violenza è il colpo di grazia. Hanno bisogno di un sostegno psicologico e di entrate economiche: con noi fabbricano sapone, panieri, preparano dolci da vendere al mercato. Nulla di spettacolare, ma le aiuta ad accettarsi di nuovo». A Goma, Action Aid ha fondato un movimento femminile che a novembre, durante l’assedio di Nkunda, ha riempito lo stadio al grido “stop aux viols”. E per Fanny, «ogni donna del mondo dovrebbe essere solidale con loro». Pensava soprattutto all’est del Congo, l’Onu, quando l’anno scorso si è decisa a inserire lo stupro di guerra tra i crimini contro l’umanità, perseguibile dai tribunali internazionali.

Ma per ora, qui, domina l’impunità: «Con i militari si può solo segnalare l’esercito di appartenenza» spiega Julienne Mushagaluja, avvocatessa del gruppo Afejuco a Bukavu, che raccoglie testimonianze di vittime in vista di un appuntamento importante: «Sta per arrivare un inviato della Corte dell’Aja» rivela. «Dovrà capire se esistono prove sufficienti a denunciare per stupro i signori della guerra». Delle 58 condanne eseguite a Bukavu nel 2008 (su 353 denunce), solo 9 riguardavano militari, ma rispondevano anche di altri delitti. «Se a soffrire fossero gli uomini e non le donne» dice sommesso il dottor Mukwege «la comunità internazionale avrebbe già trovato una soluzione». Nel campo di Buhimba, durante il consueto acquazzone pomeridiano, siedo in una capanna buia sopra la terra nera del vulcano Nyiragongo, con un gruppo di donne e i loro neonati. I figli della violenza. In Congo l’aborto è illegale, per quello clandestino ci vogliono soldi, e non è il caso di Dativa Twisenge, 22 anni, scheletrica, bella, che disprezza il suo piccolo Oliver: «Che me ne faccio? Voglio solo morire. Due stupri sono troppi» mi gela. «Due anni fa in casa mia, a Masisi, con mia madre: a lei hanno spezzato le gambe. L’anno scorso qui vicino: tre militari del governo mi montavano come una cagna e intanto mi bastonavano la schiena: non ho fatto che urlare “uccidetemi!”». Agnès è un raggio di luce: 33 anni, sei figli, l’ultimo nato dallo stupro. Rapita vicino al campo con altre nove, legata e bendata dall’alba al tramonto, gettata tra i banani come spazzatura. Non riesco a non chiederle cosa prova per questo neonato paffuto, che per sempre le ricorderà la tortura. Lei sgrana gli occhi allungati: «Devi capire, è il mio bambino. L’ho chiamato Chance affinché, almeno lui, abbia la fortuna di conoscere un mondo migliore».

Emanuela Zuccalà
06 febbraio 2009

DA corriere.it
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« Risposta #123 inserito:: Febbraio 09, 2009, 11:54:41 am »

9/2/2009 (7:13) - LA STORIA

Diari segreti della regina del sesso
 
Decise di trasformare il sesso in lavoro su consiglio della madre

Vip in camera da letto: i segreti della maitresse

Da Belmondo a Dalí, la più grande maîtresse di Spagna racconta le perversioni dei vip

GIAN ANTONIO ORIGHI
MADRID


Per l’anagrafe della Barcellona natale è Lydia Artigas, casalinga. Ma tutti la conoscono come Madame Rius, la leggendaria meretrice e maîtresse catalana che cominciò il più antico mestiere del mondo a soli 15 anni. Questa Cleopatra dei lupanari di lusso, ancora sulla breccia a 70 anni, ha raccontato la sua boccaccesca biografia in un libro, «La Señora Rius. Con moralità disinibita». Sono 256 pagine che si leggono d’un fiato. Anche perché tra le sue braccia sono passati clienti defunti del calibro di Salvador Dalí, di Orson Welles, del Nobel alla letteratura Camilo José Cela, del re dell’Arabia Saudita Faisal, o vivi, come Jean-Paul Belmondo. E lei ne spiattella gusti e perversioni. La palma dell’eccentricità se l’aggiudica il famoso erotomane Dalí.

Siamo negli Anni 60, al raffinato bordello San Mario, quando si presenta il pittore, accompagnato da un codazzo di sventole alte e bionde che il geniale artista si porta dietro anche per farsi ripetere continuamente «Divino». E, dopo essersi seduto su di una poltrona, fa a Madame Rius una richiesta che la lascia di stucco: «Portami un’anatra». Quando l’oggetto del desiderio arriva, il maestro si eccita sgozzando la povera bestiola. «Il pittore mi parve altezzoso ed arrogante», ricorda la regina dei casini che ancora oggi riceve i clienti che si interessano per la sua celebre pubblicità, la stessa che compra sui giornali locali dall’87: «S.ra Rius. Se cerca tranquillità, le trovo signore e signorine non professioniste d’appartamento. Orario da convenire». Non sempre gli avventori sono così folli. Anche se le richieste non sono meno curiose.

Cela, l’autore della «Famiglia di Pascual Duarte», notissimo Casanova, arriva alla casa d’appuntamento e chiede un gruppo di lucciole per accompagnarlo in camera da letto. La ragione non ha niente a che fare con la potenza sessuale del romanziere: quasi tutte servivano per scagliare in terra servizi di piatti. La maîtresse chiede incuriosita la ragione della stramberia e le viene risposto che Cela si eccita pensando a quando sua madre sgridava una maldestra domestica a cui cadeva spesso tutto quello che le capitava per le mani. La tenutaria, figlia e nipote d’arte che diventò prostituta per consiglio materno dopo aver fatto la mantenuta per quattro anni con un facoltoso uomo d’affari catalano, è ormai una istituzione. Le tv se la contendono per farsi dire le scene più strane del libro. Lei, ancora piacente e biondissima, non si fa pregare, sottolinea che aborrisce la parola prostituzione, che considera volgare. E snocciola i segreti della sua affollatissima alcova. Da film l’incontro, nel ’65, con Orson Welles, di cui la Poppea barcellonese conosce tutta la filmografia. Il regista americano si trova nel capoluogo catalano per girare «Falstaff» e arriva al San Mario. Gli preparano la solita sfilata delle sette ragazze più desiderabili ma l’autore di «Citizen Kane» punta il dito verso di lei. L’amplesso avviene con il cineasta che non si spoglia nemmeno del suo elegante vestito scuro e l’attira verso di sé prendendola per i lunghi capelli. «Mi sono sentita Rita Hayworth», rimembra ancor estasiata la signora.

Ma non sempre questa ex Venere dell’amore mercenario fa incontri così eclatanti. Dalle sue memorie viene fuori anche un appuntamento con il mitico re dell’Arabia saudita Faisal, a Barcellona per una visita oculistica nella nota clinica Barraquer. Il San Mario manda il clou delle suo carniere, tra cui, inutile dirlo, Madame Rius, all’hotel Ritz. Le lolite arrivano, si spogliano a fianco della enorme suite del miliardario arabo ed entrano nel salone. Ci sono altre trenta prostitute che farebbero bollire il sangue ad un moribondo. Il monarca entra, con una veste filata d’oro, le guarda bene una ad una per 15 infiniti minuti, a volte le palpa, poi se ne va mentre i suoi servitori pagano una fortuna lo spogliarello. I suoi clienti venivano ribattezzati con nomi di personaggi celebri, come Al Pacino o Gandhi. Ma Belmondo no. «La notte con l’attore, nell’86, fu terribile. Per colpa sua non ho potuto lavorare tre giorni. Non capisco come Catherine Deneuve e Ursula Andress abbiano potuto vivere con lui», sbotta la donna che nell’ambiente della prostituzione di lusso si è guadagnata un proverbio: «Girerai, girerai, ma da Madame Rius tornerai».

da lastampa.it
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« Risposta #124 inserito:: Febbraio 10, 2009, 04:59:33 pm »

LA POESIA.

Una ballata di Ceronetti per "il coraggio di Eluana Englaro"

La ballata dell'angelo ferito


di GUIDO CERONETTI



Urlate urlate urlate urlate.
Non voglio lacrime. Urlate.
Idolo e vittima di opachi riti
Nutrita a forza in corpo che giace
Io Eluana grido per non darvi pace

Diciassette di coma che m'impietra
Gli anni di stupro mio che non ha fine.
Una marea di sangue repentina
Angelica mi venne e fu menzogna
Resto attaccata alla loro vergogna

Ero troppo felice? Mi ha ghermita
Triste fato una notte e non finita.
Gloria a te Medicina che mi hai rinata
Da naso a stomaco una sonda ficcata
Priva di morte e orfana di vita

Ho bussato alla porta del Gran Prete
Benedetto: Santità fammi morire!
Il papa è immerso in teologica fumata
Mi ha detto da una finestra un Cardinale
Bevi il tuo calice finché sia secco
Ti saluta Sua Santità con tanto affetto

Ho bussato alla porta del Dalai Lama.
Tu il Riverito dai gioghi tibetani
Tu che il male conosci e l'oppressura
Accendimi Nirvana e i tubi oscura
Ma gli occhi abbassa muto il Dalai Lama

Ho bussato alla porta del Tribunale
E il Giudice mi ha detto sei prosciolta
La legge oggi ti libera ma tu domani
Andrai tra di altri giudici le mani.
Iniquità che predichi io gemo senza gola
Bandiera persa qui nel gelo sola

Ho bussato alla porta del Signore
Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare
Chiamami in cielo o dove mai ti pare
Soffia questa candela d'innocente
Ma il Signore non dice e non fa niente

Ho bussato alla porta del padre mio
Lui sì risponde! Figlia ti so capire
Dolcissimo io vorrei darti morire
Ma c'è una bieca Italia di congiura
Che mi sentenzia che non è natura

E il mio papà piangeva da fontana
Me tra ganasce di sorte puttana.
Cittadini, di tanta inferta offesa
Venga alla vostra bocca il sale amaro.
Pensate a me Eluana Englaro


(28 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #125 inserito:: Febbraio 11, 2009, 03:24:24 pm »

Migranti per amore

di Igiaba Scego


L’amore è il sentimento che ci tiene in vita, si dice. Certo, ci tiene in vita ma ci fa fare anche le cose più sciocche (vedi le vetrine di San Valentino) o ci porta alla disperazione più cupa. Tutti ci siamo passati! Fino adesso però non avevo mai pensato che l’amore potesse essere uno dei motori del viaggio dei migranti verso Occidente. Si parte dal Paese “x” attraverso il Sahara, la Libia, fino a Lampedusa su carrette fatiscenti anche per amore, o molto spesso a causa di una delusione d’amore o ad una paura incontrollabile di non essere amati.

Sono arrivata a questa conclusione dopo aver visto un film somalo fatto nel Somaliland ad Hargheisa. Il film si intitola «Dhoof baa i galay», che significa ho voglia di viaggiare (o letteralmente: un viaggio si è impossessato di me). Un film fatto da somali con l’aiuto di una Ong italiana e una norvegese. Quattro cortometraggi per dissuadere i giovani a fare il Tahrib, ossia il viaggio verso occidente. Le cause della partenza mostrate dal film sono diverse: la mancanza di prospettive, di futuro, di soldi, la paura della guerra che ti mangia vivo.

Ma nell’ultimo cortometraggio un ragazzo viene lasciato dalla sua ragazza perché lei alla fine preferisce sposare un somalo della diaspora venuto dalla Norvegia carico di soldi che alle parole romantiche (che il povero ragazzo le diceva) preferisce comprare l’amata come una mucca, infatti la dote non è moltissima ma vista dalla Somalia diventa stratosferica. Il ragazzo “cornuto & mazziato” non può competere con i soldi dell’africano occidentale e decide di intraprende il viaggio. Muore, solo, nel deserto con la foto di lei in mano e uno struggimento senza fine. Non ci avevo mai pensato, ma si può ancora morire per amore. Come Romeo.


11 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #126 inserito:: Febbraio 15, 2009, 11:17:12 pm »

LA SERATA FINALE

Berlino, trionfa il film sulla patata antistupro

Orso d'oro al peruviano «La teta asustada». La regista: «Siamo ossessionate dalla violenza»
 

DAL NOSTRO INVIATO


BERLINO — L'Orso berlinese si inchina davanti alle ossessioni antistupro. «All'unanimità», svela Tilda Swinton che era a capo della giuria del Festival di Berlino. Sul palco ieri sera sono saliti tutti gli artefici di un successo che spiazza: produttore, regista, attrice non si erano preparati discorsi. Cantano un folksong, fanno un elenco di ringraziamenti, sottolineano a braccio l'importanza dell'Orso d'Oro dato al film La teta asustada per il cinema peruviano: «Questo premio è per il nostro paese».

Sotto la crosta della fantasia bizzarra, il film va in profondità sul crimine più odioso e meno poco punito dalla legge. «Dietro la malattia della ragazza, trasmessa dal latte materno, che le causa il terrore di essere violentata, c'è il dramma del nostro tempo, l'ossessione della violenza», dice la regista Claudia Llosa. La protagonista, interpretata da Magaly Solier, dopo la morte della madre, mentre cerca di farsi con difficoltà una vita in un villaggio del Perù, deve lottare proprio con il costante terrore di essere stuprata. Si infila una patata nella vagina. Sarà un ginecologo a convincerla: dovrà togliersela perché potrebbe, secondo lui, pericolosamente germogliare.

Hanno vinto le donne, Tilda il presidente, Claudia la regista, e soprattutto il tema: diritti violati dell'universo femminile. E ha vinto il Sudamerica perché, dopo il Perù, l'uruguaiano Gigante si porta a casa tre riconoscimenti, quello che pesa è il Gran Premio della giuria (ex aequo con Alle Anderen, Everyone else). Il giovane regista Afrian Biniez alla fine esclama: «Voglio mamma!». È l'anno dei paesi poveri, Orso d'argento al regista iraniano di About Elly, Asghar Farhadi. Migliore attore, l'africano Sotigui Kouyate di London River sulle bombe del 2005 a Londra: si mette a cantare pure lui, alto come un giunco, si presenta come nel film, treccine e bastone, si siede e non si alza più, raccontando storie leggere del suo continente: «Non bisogna sempre essere seri, ridere fa bene alla salute, ringrazio tutti i festival, anche Cannes e Venezia, che mescolano le culture e le fanno incontrare, perché è la varietà degli alberi che fa la bellezza della foresta». Migliore attrice la tedesca Birgit Minichmayr per Everyone else.

All'ultimo giorno l'Italia fuori concorso piazza almeno un solista, Riccardo Scamarcio, il clandestino di Verso l'Eden. Pubblico tiepido. Costa-Gavras sfiora il grottesco d'autore nello sbarco del bel Riccardo in un club vacanziero con relativo corner per nudisti. Il club come metafora, parabola, bolla del falso Paradiso, eccetera. I turisti occidentali sono egoisti, indifferenti, cinici. Scamarcio è il ragazzo innocente «che ignora il nostro mondo». La meta è Parigi. Scamarcio è braccato dalla polizia, quasi una caccia all'uomo e tutti lo vogliono usare, anche sessualmente.

L'immigrazione senza regole, tema nobile ma la tensione non c'è.

Valerio Cappelli
14 febbraio 2009(ultima modifica: 15 febbraio 2009)

da corriere.it
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« Risposta #127 inserito:: Febbraio 16, 2009, 11:42:29 pm »

Libertà femminile.

Senza si arretra tutti

di Susanna Camusso


La nostra Repubblica attraversa probabilmente la più grave crisi istituzionale dalla sua fondazione.

Una notte buia in cui è messo in discussione l'equilibrio dei poteri e quindi il fondamento della democrazia.

Particolare orrore suscita la strumentalizzazione della vicenda Eluana Englaro, che avrebbe dovuto vedere da parte di tutti fare un passo indietro. Ma il silenzio dovuto non è stato la misura della politica e il presidente del Consiglio ha mostrato disprezzo per la Costituzione e per le donne. Bisognerebbe fare un passo indietro, rispetto alle vicende degli ultimi giorni, e domandarci se il crescere dell'attenzione mediatica e politica sulla violenza maschile contro le donne porti con sé, anche solo simbolicamente, un senso o sia, un'ulteriore regressione.

Le statistiche sono note ed ignorate, la violenza contro le donne si esercita prevalentemente tra le mura domestiche, nella cerchia famigliare o dei conoscenti. È un pensiero "molto maschile" quello che distingue per gravità diverse se la violenza è commessa da uno straniero, da un estraneo, o da chi ha un legame affettivo. Se una diversa gravità potesse essere individuata comunque rovescia quell'ordine. Per le donne ogni uomo che violenta è un violentatore, ma forse è ancor peggio (se vale l'idea che al peggio non c'è limite) se è amato, conosciuto, se c'è un legame affettivo. Quella rottura di sé che genera la violenza, la lacerazione della dignità, non può non essere "aumentata" dal vederla compiere da chi pensavi ti conoscesse, amasse, avesse condiviso con te un progetto.

Perché allora si opera questa gerarchia, perché si sconfina rapidamente in un razzismo che ha bisogno di vedere il diverso da sé? Perché è più semplice portare fuori e non interrogarsi? Perché non ci si vuole interrogare su una sessualità maschile che dà per scontato che la violenza è connaturata e quindi che noi, le donne, dobbiamo essere vittime per sempre? Questo significato hanno le affermazioni sulle donne belle da proteggere con i soldati, o quando si dice di Eluana: "Potrebbe fare un figlio, ha il ciclo mestruale". Si può dire che la traduzione è stupro, è concepire la donna come puro contenitore, è negare la procreazione come scelta libera e consapevole? Questa è la cultura che legittima la violenza maschile contro le donne, il clima che si respira. Non vogliamo essere vittime per sempre, allora devono tornare nel lessico quotidiano parole e valori che del rispetto, della dignità, della libertà femminile, fanno misura della democrazia e della civiltà del nostro paese.

Per questo, anche nei giorni della crisi, mentre con il presidente della Repubblica difendiamo la Costituzione, non ci possono essere dei non detti o dei temi secondari, senza libertà femminile si arretra tutte e tutti, perciò non ci può essere un tempo della democrazia e un tempo delle donne.


16 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 17, 2009, 05:34:24 pm »

17/2/2009
 
L'insostenibile altezza dei tacchi
 
 
CHIARA BERIA DI ARGENTINE
 
Giovanissime, graziose modelle issate su vertiginosi sandali dai lacci alle caviglie e imponenti plateau di legno sfilano su un lucido parquet. Una sfida alla gravità e all’ortopedia che ieri alla sfilata di Hervé Léger by Max Azria a New York per il prossimo autunno-inverno ha prodotto un vero record di cadute a terra. Una dopo l’altra, due ragazze sono precipitate dagli assurdi oggetti sui quali erano costrette a montare per presentare gli abitini di Léger, molto genere «bondage» (ovvero, schiavitù, soggezione). Bisogna dar merito alle poverette franate giù ai piedi della stampa, di averlo fatto con un certo stile.

Non è da tutti saper cadere bene. Del resto, da quando gli stilisti, ben consapevoli della femminea debolezza per le scarpe, hanno deciso di alzare sempre più in alto i tacchi (da alcune stagioni siamo anche sopra i 15 centimetri) e di proporre certe surreali zeppe che sembrano rubate dal rutilante guardaroba dei trans, le sfilate sono diventate una vera suspense per le modelle e gli spettatori. Cadrà o non cadrà? Franose cadute si ricordano chez Gucci quando Tom Ford fece sfilare giovinette dallo sguardo bistrato su un tappeto di bianca pelliccia con inciampo garantito; altra caduta di modella, causa tacco troppo alto e passerella d’ecologica ma fastidiosa erba, da Saint Laurent, stilista Stefano Pilati. Alle ultime collezioni di Milano si ricorda una caduta di gran tendenza: capitò a una modella che sfilava per Miuccia Prada, regina degli accessori, che ai tacchi fuori misura aveva abbinato anche calzini corti, certo molto trend ma che accrescevano le difficoltà per le modelle.

C’era una volta l’incedere elegante delle mannequin; le sensuali scarpe con la punta alla francese e ammiccanti tacchetti a spillo di Marilyn e Audrey Hepburn. Magre, magrissime con spalle larghe e testa piccola su una figura superallungata: nell’immaginario di certi stilisti (molto aiuta il fotoshop) la silhouette femminile oggi è più simile a una giraffa che a una pantera. Se non sono statuarie come Michelle Obama (delle ballerine di Carla Bruni si è parlato fin troppo) le fashion victim sono costrette a sacrifici (anche economici) immensi: pur di torreggiare comprando scarpe che più che calzature sono vere e proprie costruzioni architettoniche in stile gotico, spesso molto fetish. Il messaggio è chiaro: metti pure il vecchio e sobrio tubino nero da tempi di crisi ma esagera nei tacchi; mostrati sporcacciona fino alla punta del piede, costringiti a soffrire come se le scarpe fossero moderni cilici, a inciampare come una moderna schiava. E, soprattutto, ad avere molto presto l’alluce valgo. Sensualità di questi folli oggetti? Per le anime candide meno che zero; ma forse gli intorcinati sono ormai la maggioranza. Tutto serve a eccitare spiriti sempre meno bollenti; il gioco (e gli affari di una moda in crisi d’idee) val bene qualche caduta.
 
da lastampa.it
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« Risposta #129 inserito:: Febbraio 18, 2009, 11:06:25 am »

«Aumentano gli stupri commessi dagli immigrati»

di Maria Serena Palieri


Negli ultimi vent’anni la quota di stranieri sulle persone denunciate per stupro nel nostro Paese è passata dal 9 al 40%. Tenuto conto che gli immigrati restano solo il 6% della popolazione, è una cifra spaventosa. Ma, su questa cifra, dobbiamo ragionare» ci dice Marzio Barbagli. Sociologo, storico della famiglia, per Il Mulino a fine 2008 ha pubblicato la ricerca Immigrazione e sicurezza in Italia.

Professor Barbagli, la cifra è, diceva, allarmante. In che modo va letta?
«Primo, sapendo che la violenza sessuale è un argomento difficile. Perché è altissima la quota di vittime che non denunciano. Per questo ciò che è più significativo è appunto il “trend”. Ora, la prima annotazione che va fatta è che le violenze sessuali, in genere, avvengono all’interno dello stesso gruppo nazionale: gli uomini italiani violentano le donne italiane, i romeni le romene, i tunisini le tunisine. I giornali valorizzano le notizie che concernono stupri commessi da stranieri su italiane. Ciò che ci colpisce, i giornali lo sanno, è la ragazzina bolognese violentata dall’immigrato tunisino. Ma mettono la sordina quando avviene il contrario, o quando una donna romena è violentata da connazionali».

La maggior parte delle violenze avviene in famiglia o nella coppia. E questo collima con la bassa percentuale di violenze “interetniche”. Però la cifra iniziale resta: gli immigrati, 6% della popolazione, oggi sono il 40% degli autori di stupri denunciati. Perché?
«Continuiamo l’analisi dei dati. A commettere queste violenze sono al 60% immigrati irregolari, al 40% in regola. Rispetto ad altri reati, qui la percentuale di regolari è più alta: lo spaccio, per esempio, è praticato al 92% da immigrati irregolari. Ed eccoci al problema che, dopo due leggi, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, il nostro Paese ha tuttora: la difficoltà a rimpatriare. Nel discorrere comune si parla di “irregolari” facendo di ogni erba un fascio. In realtà magistratura e forze dell’ordine fanno ancora dei distinguo: quelli che andrebbero rimpatriati sono gli irregolari sospettati di fare lavori illeciti, non la badante col permesso scaduto. Ma il rimpatrio avviene solo per un quarto dei casi. C’è un numero di persone, come il cittadino tunisino arrestato l’altro giorno a Bologna, che commettono vari reati. Tra questi, stupri. Commettono anche omicidi: c’è un’alta quota di omicidi commessi da immigrati. Ci sono persone che vengono qui per compiere attività illecite. Ma se il meccanismo della giustizia funzionasse, non sarebbero qui».

Il permesso di soggiorno, però, non basta, visto che il 40% delle violenze sono commesse da «regolari». Il problema è culturale, allora?
«Molti di noi dell’immigrazione godono i vantaggi. Ma c’è uno scarso impegno pubblico nel prevenirne gli svantaggi. C’è difficoltà di controllo sul territorio. Siamo indietro nell’integrazione sociale. Dove non c’è una rete solida, parentale, amicale, è più facile succedano questi fatti. Poi, ci sono anche quanti hanno disturbi di personalità, ma qui entriamo in campo psichiatrico...».

Il nostro modello di costume può, in alcune culture, suscitare scandalo? E dunque paura, aggressività?
«Non credo sia questo un motivo. Oggi la nostra tv, i nostri film, circolano, gli immigrati arrivano qui sapendo dove vengono».
spalieri@unita.it

17 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #130 inserito:: Febbraio 18, 2009, 11:10:02 am »

«Senza sicurezza muore il diritto di cittadinanza»

di Massimo Franchi


Cofferati, un altro stupro nella “civilissima” Bologna. Questa volta una ragazzina di 15 anni.
«Un fatto gravissimo. Che si è reso possibile per un clamoroso vuoto nelle leggi italiane: quella persona non doveva stare lì, doveva essere già stata espulsa. La vicenda ripropone non solo il tema della violenza contro le donne, ancor più se si tratta di una ragazzina, ma lo scarto tra l’allarme lanciato dal governo e le leggi inadeguate che ci sono: la totale mancanza della certezza della pena, persone pericolose che ritornano in libertà troppo in fretta. C’è un aspetto trascurato, quello dei tempi dell’identificazione dei clandestini: per avere i dati da certi Paesi spesso servono due mesi, un tempo inaccettabile».

Nel caso di Bologna il tunisino arrestato era libero dopo un ricorso al Tribunale della Libertà. È un problema di leggi o di interpretazioni da parte dei giudici?
«In questo caso non vedo soluzioni tecniche che risolvano il problema. Le decisioni sono molto soggettive, non si può far altro che appellarsi al rigore dei giudici».

La ragazza ha detto che un passante non si è fermato: «Non mi interessa», avrebbe motivato. Ormai siamo assuefatti a questi crimini?
«No. Perché per fortuna gli episodi di questo genere sono pochissimi. Certo, anche un solo episodio non deve portare ad una sottovalutazione. Questi comportamenti, benché isolati, confermano il venir meno del senso civico nelle persone. In generale c’è una tendenza a chiudersi in sé, a considerare meno l’altro. Del resto i modelli di comportamento che ci vengono imposti sono volti sempre più all’individualismo: questo è l’inevitabile risultato».

L’altro caso di violenza è avvenuto a Roma. Alemanno e la destra hanno vinto le elezioni sul tema della sicurezza, ma niente sembra cambiato in quasi due anni.
«Da tempo sostengo che il problema della sicurezza sia il più importante per le società contemporanee. La mancanza di sicurezza è una privazione di un diritto di cittadinanza. È una questione che andrebbe sottratta dalle campagne elettorali, è inaccettabile sentir dire: “Io ti garantisco, gli altri no”. Poi capisco benissimo le differenze nelle politiche che devono garantire la sicurezza».

E quali sono, fra destra e sinistra, queste differenze?
«L’azione sul territorio prodotta da Amato e Minniti durante il governo di centro-sinistra ha dato ottimi risultati. L’idea alla base è quella del controllo del territorio e va fatta impegnando più uomini e più mezzi. Va invece evitata la propaganda che ha usato il centro-destra sull’uso dei militari: possono essere utilizzati, ma solo per il controllo di luoghi sensibili, liberando agenti di Polizia e Carabinieri per pattugliare ad esempio i parchi dove sono avvenuti gli ultimi stupri. Perché un militare non ha le competenze specifiche per intervenire in casi come questi. Se l’utilizzo delle forze è indistinto siamo alla pura demagogia».

A lei è stato affibbiato il soprannome di “sceriffo”. Da uomo di sinistra cosa deve venire prima, la legalità o la solidarietà?
«La sinistra deve avere ben fermo davanti agli occhi il desiderio della solidarietà, nel senso di azioni di prevenzione di qualsiasi pericolo. Dove però la prevenzione non basta, allora servono azioni repressive. La sinistra deve evitare giustificazioni sociologiche e non deve avere timore di azioni repressive. Se sta lontano da questi rischi, anche la solidarietà avrà più senso».

La mente va subito alla questione delle baracche sul fiume Reno.
«Abbattemmo le baracche perché quelle persone rischiavano di venire sommerse. Ma subito dopo demmo a donne e bambini una casa e una scuola da frequentare. Furono espulsi solo i clandestini».

Ma erano i loro mariti e padri...
«Non c’è dubbio. Non ci siamo fermati davanti a questo: la solidarietà non può essere indistinta. La solidarietà c’è stata. E tanta. Donne e bambini ora sono integrati».

mfranchi@unita.it

16 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #131 inserito:: Febbraio 20, 2009, 03:48:19 pm »

20/2/2009
 
Per dispetto
 
STEFANIA MIRETTI
 

«Dispetto» è una parola che, nell’uso quotidiano, nelle scaramucce tra amanti, nelle canzonette e nelle filastrocche per bambini dove sempre fa rima con «scherzetto», se n’è andata un po’ alla deriva, alleggerita del suo fardello etimologico. «Dispetto» è, tuttavia, una parola pesante, per adulti. Nomina un sentimento forte, di quelli che, una volta manifestati, non possono che innescare una catena di reazioni emotive altrettanto forti.

Despicere», guardare dall’alto in basso, insomma disprezzare: è di questo che stiamo parlando. Magari non ha troppo senso perder tempo a interrogarsi sulle parole, quando queste sono palesemente lost in translation perché a pronunciarle è persona che parla una diversa lingua, e a riferirle è il verbale di un interrogatorio presumibilmente agitato; non ha molto senso quando le parole si gonfiano nei titoli del tg della sera, tonfano sui giornali e si sciolgono nei rivoli di mille siti Internet; quando, soprattutto, restano impigliate nel groviglio di un dibattito politico umorale e sgangherato, là dove ogni tentativo d’accuratezza verbale pare destinato a fallimento certo. Però le parole esistono e talvolta si vendicano. Fanno, per l’appunto, i dispetti (quando meno te l’aspetti, direbbe la filastrocca), costringendo chi le ascolta, chi le legge, a chiedersi cosa vogliano, esattamente, dire.

E dunque: quale genere di dispetto avrà avuto in mente il giovane uomo Alexandru Isztoika Loyos, uno dei due stupratori romeni arrestati a Roma, quando ha usato la parola «dispetto» quale movente all’orrenda violenza inflitta a una bambina di quattordici anni? Cos’avrà voluto dirci? Forse che lui, lo stupro l’ha preso alla leggera, per incoscienza, per infantile senso di potenza e presunzione d’impunibilità, perché in fin dei conti in molti paesi e pure nel nostro almeno fino all’uscita di scena del Codice Rocco, la violenza contro le donne è sempre stata considerata alla stregua d’uno scherzetto un po’ più pesante?

Oppure, la parola dispetto l’avrà pronunciata nel senso più etimologicamente appropriato, per indicare disprezzo? In entrambi i casi - ed è quest’altra domanda a contare e atterrire - chi è il destinatario del dispetto di Alexandru? La fragile vittima sulla quale lui e il suo complice hanno così brutalmente infierito? Difficile crederlo. O magari il ragazzino di lei, invitato a osservare «come si fa con le donne», e in ultima analisi ogni giovane maschio ben curato di paese ludico e benestante? Qui, probabilmente, ci si avvicina di più al vero. Ma converrà prendere in esame pure questa terza ipotesi: che il dispetto di Alexandru sia per tutti noi. Di più: che il suo disprezzo sia il nostro disprezzo, patito e rispedito al mittente (al mittente sbagliato, al più debole e al meno dispettoso, come sempre è accaduto nella storia). Il suo e il nostro despicere, guardare dall’alto in basso.

Fosse così, sarebbe una cronaca fatta di dispetti, quella che quotidianamente ci tocca registrare: al despicere di Alexandru e del suo più maturo compare Karl, corrisponderà il despicere di un Mario o di un Gianluca di qualunque età che assalteranno il bar gestito da romeni o il campo rom abusivo (anche qui: dispetto restituito al mittente sbagliato), e naturalmente al despicere del ministro che esorta a essere «più cattivi coi clandestini».

Fosse così, il «dispetto» del quale stiamo parlando in queste ore, sarebbe null’altro che il disprezzo che sempre alimenta e chiama altro disprezzo in una spirale che solo un uso più adulto delle parole potrebbe spezzare. O a un uso meno maschio. Provare a interrompere il circolo vizioso è infatti interesse primario e urgentissimo per ogni donna, essendo la violenza sul corpo femminile una delle forme in cui si è storicamente radicalizzato il farsi i dispetti tra maschi: che si tratti dello stupro etnico e ideologico, inevitabile corollario d’ogni guerra, o delle spedizioni punitive indiscriminate al grido di «giù le mani dalle nostre donne». Stupisce qualcuno il fatto che la presenza di un maschio italiano, costretto ad assistere inerme, renda l’ipotesi dello stupro ancora più eccitante per la coppia, o il «branco» come piace dire, dei ragazzi romeni? Francamente: no. La violenza sessuale nasce nella logica della competizione e della rivalsa, dal voler sopraffare e umiliare il rivale, sia esso vicino («farsi» la donna dell’amico è pensiero dispettoso con pieno diritto di cittadinanza nell’immaginario maschile), sia esso lontano: «farsi» la donna dello straniero, violentandola appunto; o magari anche solo comprandola. Il corpo femminile come campo di battaglia, e quel che si cementa con le sgangherate reazioni agli stupri compiuti da romeni o tunisini, con l’infantile ricerca di giustificazioni per quelli compiuti dai connazionali, è sempre alleanza tra maschi contro maschi, non riconoscimento dei diritti femminili. A fare le spese di tanta dispettosità, ultima d’una lista che inizia nella notte dei tempi, la quattordicenne di Roma. Vittima del loro disprezzo, del vostro disprezzo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #132 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:46:28 pm »

Laura Specchio e Luciana Matarese

Donne di tutt’Italia, svegliatevi!


Milano: Si avvicina l’8 marzo e viene spontaneo fare brevi considerazioni sulle donne, chiedersi a che punto siamo, se siamo arrivate a un sistema di piena parità. Purtroppo, non occorre pensarci troppo ed appare evidente che siamo ancora ben lontane dall’aver raggiunto quella situazione tanto auspicata da un bel po’. Non è vittimismo o la solita retorica femminile: è, purtroppo, un dato di fatto. Basti pensare alla scarsa presenza delle donne negli organi apicali delle imprese, e pure in politica. A parte il gruppo delle solite note ed i grandi proclami, “quote rosa”, alternanza nei meccanismi di formazione delle liste, ecc. ecc., la presenza femminile è spesso relegata al ruolo di mera presenza, oppure di utile manovalanza durante campagne elettorali. Le più fortunate ricoprono incarichi di scarsa rilevanza, ma che possono fare molta “vetrina” (di qualche negozietto di periferia, quelli “tutto a 1 euro”) con scarse prospettive, ovviamente. Anche qui gioca l’antropologia: dalla pensionata volantinante, alla ex strega rivoluzionaria in carriera assetata di sangue (delle altre donne, non degli uomini), dall’intellettuale ben equilibrata, alla predicatrice mancata. Che vuoi siamo tante, ognuna fa la sua parte.

Napoli: Sempre da figurante di teatro di periferia, dici? L’argomento è scivoloso, rischia di far sbandare verso la retorica di genere. Di certo, ma sono considerazioni più proclamate che condivise, c’è che il contributo delle donne in tutti gli ambiti, e dunque anche in politica, è fondamentale e che per arrivare a darlo, quel contributo, al pari degli uomini, le donne devono sudare sette gonne e alla fine indossare i pantaloni. Poi c’è quella che i pantaloni preferisce sfilarli all’uomo sul quale ha puntato per fare carriera o quella che del lui capace di farla uscire dall’anonimato si innamora e riesce ad unire l’utile al dilettevole, ma queste sono altre storie. La parità, in politica come dovunque, continuerà ad esistere nei programmi da conventicole rosa o, al più, come sofisma da incartare insieme alla mimosa dell’8 marzo, fino a quando non si ragionerà sulle modalità attraverso le quali realizzarla. E non credo che l’offerta da supermarket dell’uno più uno in lista aiuti. O la riserva indiana delle quote rosa. Il problema, secondo me, è a monte ed è prima di tutto a carico delle donne, che, per stare alla politica, brandiscono la sottorappresentanza nei partiti e nelle istituzioni come l’arricciacapelli o l’ultimo tipo di lacca: per sembrare più interessanti. Agli occhi degli uomini.

Milano: Antropologia e altre amenità a parte, sono convinta che il criterio paritario possa essere il motore di un processo di rinnovamento della classe politica, in quanto elemento di discontinuità, facilitando lo smantellamento delle logiche di autoconservazione di un sistema autoreferenziale. Inoltre, potrebbe inserire risorse e competenze, sdoganando il Pd, ad esempio, dalla “carestia di personale politico nuovo”. Esiste la necessità di eliminare l’attaccamento a logiche e schemi di funzionamento inveterati e non più rispondenti alle aspettative degli elettori e degli iscritti al Pd? Ebbene ecco qui  le donne (non le raccomandate, parliamo delle donne impegnate veramente!).
Un ultimo slancio di creatività ed un avvertimento: “Tremate, tremate! Le Milanonapoli son tornate!”.

Napoli: Come si fa a non essere d’accordo con quello che dici? Il problema è che lo sappiamo io, te e qualcun'altra di buona volontà, abbastanza incosciente (parlo di me) da posporre il conto in banca e il matrimonio e i figli ai propri convincimenti ideali, alla volontà (ma forse è un’esigenza più profonda) di impegnarsi per cercare di capire un po’ di più la realtà in cui si vive e si muore. Alla maggior parte delle donne non interessa niente, preferiscono dormire o abbandonarsi alla corrente. Lo spazio è di chi se lo prende, in fondo, e non se ne può fare certo una colpa agli uomini se si accomodano sulle poltrone con tanta facilità. Uomo e donna: sono questi i poli dai quali ripartire. Ma devono essere gli uomini e le donne a farlo, insieme. E queste ultime la smettano di lamentarsi, che hanno stancato. Studino e si propongano se vogliono contare. E le strade da percorrere per realizzare la parità le aprano loro. Altrimenti, se ne restino a casa (dove pure c’è bisogno di donne, per carità) e infiorino i loro balconi. Una mimosa riusciranno sempre a guadagnarsela.

MilanoNapoli e ritorno

Dialoghi politicamente scorretti liberamente ispirati alla realtà


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« Risposta #133 inserito:: Marzo 07, 2009, 10:00:43 pm »

«Obama dalla mia parte. Vi racconto la lotta per i diritti delle donne»

di Marina Mastroluca


Per quasi vent’anni ha lavorato in un’azienda in cui le donne le potevi contare sulle punte delle dita di una mano. Capo-reparto alla Goodyear, mansioni di responsabilità, lavoro duro. Lilly Ledbetter è brava, sa come si fa. Glielo riconosce anche l’azienda, nel ‘96 la premia per l’alto rendimento. Finché un giorno qualcosa cambia. «È stato un biglietto anonimo. Un pezzetto di carta che qualcuno mi ha fatto trovare nella cassetta della posta. C’era scritta la paga di tre dei miei colleghi uomini, persone che svolgevano il mio stesso tipo di lavoro».

Per Lilly è uno shock. Non che non sospettasse di essere pagata di meno, ma non così tanto di meno: il 40 per cento in meno. È da qui che parte la storia di Lilly Ledbetter, la donna a cui è dedicata la prima legge firmata dal presidente Obama, il suo primo atto ufficiale da presidente: un provvedimento per l’equità salariale, dopo che la Corte Suprema dell’era Bush ha respinto la richiesta di risarcimento della donna, giudicandola tardiva e annullando una precedente sentenza che riconosceva a Lilly un risarcimento di 300.000 dollari.

Ledbetter in questi giorni è a Roma, oggi riceverà dalla Inca Cgil il premio simbolico «Non solo mimose». Perché la sua battaglia parla ai diritti di tutte le donne che lavorano.
La legge che porta il suo nome è stato il primo atto del nuovo presidente ed è sembrato un passo dal valore simbolico oltre che politico.

Molti hanno sottolineato anche che Obama deve a lei la vittoria in Pennsylvania, uno stato importante. Come ha vissuto questo momento?
«È stato sicuramente un messaggio, non solo un riconoscimento della mia battaglia che ha coinvolto anche tante altre persone. Ecco, credo sia stato un messaggio a tutte le donne degli Stati Uniti e anche del resto del mondo, sulla necessità di riconoscere diritti uguali alle donne e a tutte le minoranze. Per me è stato un grande momento perché la firma di Obama è stata come se avesse detto alla Corte suprema che aveva torto. È che la sua sentenza era un salto indietro, a prima delle leggi sul pari trattamento salariale approvate nei primi anni ‘60».

Perché è stato respinto il suo ricorso?
«Secondo i giudici avrei dovuto presentare il mio ricorso entro 180 giorni dalla prima discriminazione, cioè dalla prima busta paga. Il fatto è che io non lo sapevo. Potevo sospettarlo, ma fino a quel messaggio anonimo non avevo niente in mano. Alla Goodyear valeva la regola della massima segretezza sulla paga dei dipendenti. Non potevi chiedere, non dovevi sapere. È così che avvengono le discriminazioni: nel segreto. Se i giudici mi avessero dato ragione ci sarebbe stata una marea di cause».

Quando ha scoperto che il suo lavoro valeva meno di quello degli uomini, che cosa ha provato?
«Ero completamente scioccata. Persino uomini che avevano meno anzianità e meno competenze di me erano pagati di più. Allora ho parlato con la mia famiglia, i miei due figli, mio marito che oggi non c’è più. E loro mi hanno detto: vai avanti. I sindacati mi hanno sostenuto, la mia battaglia è arrivata al Congresso. Ma è stata molto dura».

Quale il momento più difficile?
«È stato tutto difficile, dall’inizio alla fine. Quando si è saputo che avevo fatto ricorso nessuno mi parlava più, in fabbrica mi evitavano. Poi mi hanno cambiato mansioni, mettendomi a spostare da una parte all’altra pneumatici pesantissimi. Volevano dimostrare che non ero all’altezza e che le mie mansioni erano più basse. In tribunale hanno portato gente che ha detto tante bugie su di me. È stata dura. Ed è per questo che credo che non sono poi così tante le donne che si mettono in questa impresa. Posso capirle. Una collega della Goodyear, con un figlio disabile, a suo tempo me lo disse chiaramente: vorrei, ma non posso».

Negli Stati Uniti 25.000 donne hanno seguito le sue orme, sono stati pagati risarcimenti per 135 milioni di dollari. Lei non ha avuto niente.
«È vero e probabilmente non vedrò niente, ho già 70 anni. Anche se certo la Corte Suprema, sotto la nuova presidenza, di qui ai prossimi anni potrebbe cambiare parere. Ma ho sempre pensato che anche se non per me, la mia battaglia sarebbe comunque servita. Per le nostre figlie, per le nostre nipoti. Un amico alla fine di questa storia mi ha detto: “Hai perso, ma hai anche vinto”. Ed è davvero così».

Com’è la sua vita ora?
«Mi sono battuta per questa legge e per un candidato democratico – non mi importava se Hillary o Obama - che potesse sostenerla. Il nuovo presidente mi ha invitato all’insediamento, ho persino ballato con lui. Ma resto una cittadina di serie B. La mia pensione non è quella che avrei meritato, non ho avuto i soldi quando mi servivano per far studiare i miei figli, non ne ho ora. Eppure in tutti questi anni neppure per un minuto ho pensato che non avrei vinto. Ed alla fine è così che è andata».
mmastroluca@unita.it


06 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #134 inserito:: Marzo 08, 2009, 03:50:45 pm »

La giornata della donna

Il femminismo trasversale e la parità che non c'è
 
 
«Questo 8 marzo dovrà essere una giornata di memoria e di lotta», l'ho sentito ieri alla radio. Non un'emittente zapatista del Chiapas, ero su Radio 24; la conduttrice e le sue ospiti, parlamentari Pdl e Pd, concordavano. Non pare una stranezza o un momentaneo impazzimento sovversivo. È la festa delle donne 2009, niente sembra più al sicuro, e tante femmine — soprattutto le femmine — non si sentono tanto bene. Ovvio, non sono più tempi da suffragette, roba di secoli fa. Né di quote rosa, la cooptazione di donne variamente selezionate dai nostri maschi politici continua a suscitare stupore bipartisan. E nemmeno da manifestazioni femministe anni Settanta, col cavolo che ci rimettiamo gli zoccoli. Non è neanche più tempo di postfemminismo colto e autoreferenziale, di riflessioni sullo «specifico femminile»; sono un lusso da società paritaria, e l'Italia non lo è.

E forse, a decenni di distanza, c'è di nuovo bisogno del buon vecchio femminismo emancipazionista. Perché non siamo davvero emancipate; né sul lavoro, né in famiglia, né per strada, né quando veniamo bombardate di spot e programmi tv con decerebrate svestite; né quando (orrore) pensiamo che il nostro corpo sia (parrebbe logico) nostro. Anche se le italiane lo tengono ben allenato. Il 77 per cento del lavoro domestico è a carico loro. Con un lavoro esterno la fatica è doppia. Avendone ancora uno: le cassintegrate aumentano, le precarie se va bene restano precarie, le lavoratrici di mezza età sono le prime a venir fatte fuori. Siamo penultimi nella Ue per occupazione femminile, probabilmente manterremo il primato.

E perfino le iper-occupate iper-abbienti vengono maltrattate se dicono cose realistiche: vedi la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Quando ha parlato di foschi scenari economici — poi confermati per difetto — il ministro Scajola l'ha attaccata parlando di «corvi». «Corve» non suonava bene, almeno quello. E poi non ce ne sono tante, di corve, la differenza retributiva tra uomini e donne resta del 23 per cento. D'altra parte, si sa, hanno la testa altrove, devono curare la casa e i cari. Sennò pagano donne straniere per farlo; di collaborazione maschile non si parla. Però. Approfittando dello stato attuale dei maschi si potrebbe trovare una via d'uscita emancipazionista e trasversale (non è necessario essere di sinistra, oggi, per essere imbufalite).

Il sistema italico ha prodotto uomini disastrati, tronfi ma inetti, egomaniaci e poi pavidi, viziati quindi fragili. E tiene in quarantena una minoranza di massa di donne formidabili; spesso occupate a tenere insieme contratti a termine-compagni insipienti-figli da accompagnare-lavatrici. Intanto — è una novità, ancora minima, ma succede — questo 8 marzo per la prima volta da anni è stato ricco di microincontri, discussioni in rete, creazione di network femminili. Qualcosa ne nascerà forse, anzi si spera. Anzi, per favore, sorelle, imponetevi ovunque, lavorate bene e fate meno lavatrici (le italiane fanno più lavatrici di chiunque al mondo, ora basta, infischiatevene delle lavatrici).

Maria Laura Rodotà
08 marzo 2009

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