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Autore Discussione: MONDO DONNA N° 1  (Letto 137921 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:19:12 am »

«Vi racconto mia figlia Eluana e il nostro patto»

Beppino Englaro *


Vi parlerò di Eluana. Questo ho fatto, con le mie limitate capacità, per oltre sedici anni infernali: vi ho voluto parlare di lei. Questo potrà servire a capire nel profondo cosa la Corte d’Appello di Milano ha reso possibile, il 9 Luglio 2008, con la sua pronuncia, se qualcuno vorrà farsene un’idea precisa e consapevole. È evidente che chi non abbia conosciuto Eluana possa non comprendere il suo desiderio e possa non comprendere la mia ferma volontà di procedere verso la liberazione da tutto quello che lei avvertiva come una violenza: la continua profanazione del suo corpo patita per mani altrui, in una condizione di totale inconsapevolezza, impossibilitata ad esprimersi, a compiere un qualunque movimento volontario, incapace di avvertire la presenza del mondo e di se stessa. Questo è il contrario del suo modo di vivere, del suo stile di vita, che emanava da tutto quanto faceva: dai modi di atteggiarsi, di fare, dal suo stesso essere. Questo è quanto ha esplicitato anche nelle due concretissime occasioni in cui si è parlato della eventualità che poi le è capitata.

Questo è quanto è stato giustamente riconosciuto dalla Corte d’Appello di Milano che ha seguito, nel caso di Eluana, i criteri fissati dalla sentenza n. 21748 della Corte di Cassazione, che rendono lecita la sospensione del trattamento vitale in caso di stato vegetativo permanente: l’irreversibilità della condizione - "prolungatasi per un lasso di tempo straordinario" come ha scritto la Corte d’Appello - e la presunta volontà di Eluana, che era proprio quella riferita dal tutore e confermata senza esitazioni, dopo un attento e scrupoloso supplemento d’indagine, dal Curatore Speciale avvocato Franca Alessio.Ciò che ho più apprezzato di questo provvedimento è stato lo sforzo di comprendere Eluana per quello che era: una giovane informata e consapevole, con idee e principi personali pieni di valore, almeno per lei. Ho apprezzato la tutela delle scelte personali che la Magistratura ha messo in atto pronunciandosi, il rispetto per l’autodeterminazione, l’altissimo valore riservato alla persona che Eluana aveva manifestato di essere prima dell’incidente e alle sue riflessioni individuali. Come ho affermato in questi giorni, c’è da essere fieri di una Corte così. Su tale pronunciamento sono state avanzate obiezioni, remore che, come padre attento, come uomo umile, sento in profondità non riguardare il caso specifico, unico al momento, di mia figlia Eluana. La sua natura indomita la rendeva testarda, contraria alle imposizioni, straordinariamente consapevole ed era inoltre libera, libera di virtù congenita, libera come natura propria.

Con lei, fatta così, io avevo fatto un patto e l’ho rispettato. Ho rispettato e onorato la parola che avevo dato a mia figlia. Non ho tradito la sua fiducia e non potevo fare altrimenti. Non me lo sarei mai perdonato. Se Eluana non voleva intrusioni di sorta nella sua vita - non parliamo poi nel suo corpo! - fossero anche di carattere "terapeutico", se non voleva vivere una vita contrassegnata dalla mancanza della possibilità di vivere, gliene possiamo fare una colpa? La dobbiamo obbligare a subire oltraggi - credo che anche le terapie e gli atti di cura, se indesiderati, si trasformano in aggressioni ingiustificate alla propria integrità fisica - e a vivere inconsapevole ancora per tanti anni perché altri più di lei sanno cosa avrebbe dovuto desiderare? Non è un segreto che il mio pensiero personale coincide con quello manifestato da mia figlia. Forse per questo ho compreso, giustificato e protetto la sua volontà dal principio, senza mai alcun dubbio. Siamo stati condannati dalla stessa insopprimibile inclinazione alla libertà.

Ma se anche non avessi condiviso il suo giudizio sul valore da attribuire alla vita e alla morte, come avrei potuto, da padre, rassegnarmi nel vedere la sorte volgere proprio verso ciò che - i genitori, le sue amiche, le insegnanti lo sapevano - Eluana aborriva? Non è stato facile per me dover ripetere un numero spropositato di volte cosa diceva Eluana e chi era Eluana, prodigarmi nel chiarire che io davo solo voce a lei che non poteva più esprimersi. Se avesse potuto parlare ve l’avrebbe spiegato da sé. Eluana era per noi una perla rara, un inedito inebriante di indipendenza, autonomia e buonumore, caparbia e pestifera. Se non accettava compromessi quando non veniva trattata da persona libera e responsabile delle proprie scelte di coscienza, potevo io ignorare la sua natura? Fare finta che non mi fosse capitata in sorte una purosangue della libertà? Le molte persone che hanno conosciuto mia figlia hanno realmente compreso che con questo pronunciamento si stava compiendo la sua volontà. Veglierò su di lei e ne avrò cura come non ho mai smesso di fare da trentasette anni a questa parte, fino alla fine della sua vita, che continuerà nella nostra e nell’altrui memoria. Il sentimento assoluto che ho provato per lei dal nostro primo incontro non le verrà mai meno. Ho perso mia figlia già sedici anni fa, adesso le permetterò quello che hanno interrotto in passato, quello che hanno ostinatamente impedito, ad oggi, per seimilatrentasei giorni: morire per non continuare a subire un’indebita invasione del suo corpo e per non vivere una vita che aveva manifestato reputare indegna di lei.
*Padre di Eluana, socio della Consulta di Bioetica (Sezione di Milano)

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.54   
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« Risposta #61 inserito:: Luglio 27, 2008, 11:11:49 pm »

Due bimbe rom, un sabato di luglio

Rosetta Loy


Vorrei parlare della fotografia di due coppie di piedi e di un uomo e una donna seduti un poco defilati sullo sfondo. Veniamo da un secolo, il Novecento, che ci ha abituato a cercare nel particolare la chiave per accedere alla verità nascosta sotto ineccepibili apparenze. Il primo a insegnarcelo è stato forse lo svizzero Morellini che riuscì a scoprire molti falsi in pittura attraverso l’analisi di particolari insignificanti: l’unghia di un mignolo, un ciuffo di capelli, l’ala di un fringuello. Il disegno di una pantofola. Ma ce l’hanno insegnato anche Conan Doyle e Sherlock Holmes sempre con la lente di ingrandimento a cercare quello che sfugge a occhio nudo.

La fotografia di cui voglio parlare è stata scattata una mattina di sole sulla spiaggia di Torrevegata vicino a Napoli, un sabato di luglio. La prima cosa che colpisce in questa fotografia sono quattro piedi che fuoriescono da due teli da spiaggia, uno verdolino e l’altro a disegni bianchi e blu. Quattro piedi divaricati. Forti. Ma anche morbidi, con ancora delle rotondità infantili. Piedi con la pianta rivolta al sole. Accanto un giovanotto in shorts blu e maglietta bianca ha il cellulare all’orecchio, probabilmente sollecita qualcuno a portare via i due corpi distesi sotto i teli. Ma lui è marginale alla foto. Centrali sono i piedi e la coppia in secondo piano, sullo sfondo. Sono un uomo e una donna seduti sulla sabbia a ridosso di una bassa scogliera formata da alcuni massi e ciottoli levigati dal mare. La donna tiene le mani intrecciate mollemente intorno alle ginocchia , è in costume da bagno e ha un cappellino in testa, appare graziosa e rilassata, la grossa borsa da spiaggia azzurra a distanza di braccio. Accanto a lei è seduto l’uomo con le gambe appena più allungate e un cappellino probabilmente celeste.

Questa fotografia in apparenza anonima e casuale assume a un tratto un significato agghiacciante. Accorpa in sé, involontariamente, non solo la storia di due morti per annegamento in un sabato di sole sulla spiaggia di Torregaveta ma ci svela nei suoi particolari meno appariscenti una realtà spaventosa, qualcosa che non vorremmo mai avere visto e mai vedere: Noi. Una realtà al limite della nausea. E non sono i corpi delle due bambine coperti dai teli da spiaggia, due teli trovati al momento per velare pudicamente la morte, ma i loro piedi che i teli non arrivano a coprire, ancora infantili ma anche densi, piedi che vanno, abituati a camminare. Eppure sempre e ancora piedi di bambini che si offrono allo sguardo in primo piano come se non fosse poi così importante nasconderli per coprire l’inguardabile della morte. Ma l’obbiettivo che li inquadra cattura sullo sfondo qualcosa che non ha niente a che vedere con quei piedi : la coppia venuta a trascorrere una meritata giornata di mare e sole, l’acqua e i panini, la frutta lavata al fresco nel borsone accanto. Una coppia che ci rappresenta in maniera da manuale; e così adesso quei piedi gridano, urlano, pesano come piombo. Quattro ragazzine venute a vendere tartarughe e braccialettini ai bagnanti del weekend di luglio. Sporche e impacchettate in vestiti lunghi, stracciosi, che subito le identificano come le infime degli infimi. Tredici, quattordici, dodici, undici anni. Ragazzine che a un tratto non ne possono più di quel caldo insopportabile e entrano in mare. Prima i piedi e i cavalloni che si sciolgono sulle gambe in un apoteosi di schiuma, e subito si ritraggono in un risucchio. Il resto si sa, ancora qualche passo e a un tratto un cavallone più alto degli altri gli si schianta addosso mentre il risucchio si tira appresso le gambe, quei vestiti che le imprigionano come corde, i piedi scivolano sul fondo loro annaspano per tenersi a ritte, vanno giù, poi ritornano su, poi ancora giù, qualcuno a un certo punto se ne accorge. Due le salvano, per le due più piccole è invece troppo tardi.

Ma lo scompiglio creato dalla tragica fine del loro goffo bagno si placa in fretta, noi abbiamo ripreso a goderci la nostra meritata giornata di vacanza, accanto la grossa borsa con i vari generi di conforto. Fra poco faremo un tuffo, magari stando un poco più attenti. Se non fosse per la visione di quei piedi così spaventosamente simili, identici a quando avevamo dodici o tredici anni, gli alluci e le piante appena rigonfie, le caviglie ancora morbide. Dei piedi che ci raccontano di come il nostro cuore sia diventato un sasso, la nostra testa una calcolatrice dotata di una mirabolante serie di tasti. La nostra anima? chissà dove . Questo ci dicono quei piedi e la serena coppia sullo sfondo.

Pubblicato il: 27.07.08
Modificato il: 27.07.08 alle ore 14.39   
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 29, 2008, 06:11:13 pm »

Inchiesta in 1.200 scuole: il fenomeno finora era stato solo sospettato

Sudafrica, studenti costretti a fare sesso da donne mature

Preoccupazione dei medici: i ragazzi violentati hanno un rischio più alto di contrarre l'Aids



LONDRA - Due studenti sudafricani su cinque dicono di essere stati costretti a fare sesso. Lo sostiene uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BioMed Central's International Journal for Equity in Health, che ha svelato una situazione endemica nelle scuole del Sud Africa. Il più delle volte l'abuso sui ragazzi è stato compiuto da donne mature. «Lo studio dimostra che l'abuso sessuale sui ragazzi ritenuto solo sospetto sino ad ora - dichiarano Neil Andersson e Ari Ho-Foster del Centre for tropical Disease Research di Johannesburg - è reale». I risultati sottolineano la necessità di sollecitare gli sforzi per impedire la violenza sessuale in Sud Africa.

RISCHIO AIDS - Un altro problema è che la violenza sessuale sta oscurando un'altro male del vecchio continente: l'AIDS. «Aumenta la relazione tra abusi sessuali e HIV - spiegano i ricercatori - i ragazzi violentati hanno un rischio più alto di aver contratto la malattia». L'indagine è stata condotta in 1.200 scuole in tutto il Paese. Sono stati intervistati 127mila ragazzi tra i 10 ed i 19 anni. Ai giovani è stato chiesto se fossero mai stati violentati, e se si da chi. Il 44 per cento dei 18enni ha confessato di essere stato costretto ad avere un rapporto sessuale. Un terzo è stato abusato da uomini, il 41 per cento da donne e il 27 per cento da entrambi. L'abuso da parte dei maschi è risultato più comune nelle zone rurali del Paese, mentre le donne «agiscono» principalmente nelle città».


da corriere.it/salute
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 29, 2008, 06:25:28 pm »

29/7/2008
 
Lasciamo Eluana al giudice
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
C’è un altro fronte di guerra tra politica e giustizia. Un fronte silenzioso, senza il rumor di sciabole che ha accompagnato il lodo Alfano; ma questa volta è in gioco la sopravvivenza stessa dell’esercito nemico. Oggi l’aula del Senato deciderà se aprire un conflitto tra poteri contro la Cassazione, dopo la sentenza che nell’ottobre scorso autorizzò lo stop all’alimentazione per Eluana Englaro, in coma ormai da sedici anni; e tutto lascia credere che quest’iniziativa senza precedenti otterrà il proprio battesimo ufficiale. Perché l’iniziativa è stata caldeggiata dal presidente del Senato, nonché dal presidente del Consiglio. Perché la commissione Affari costituzionali ha già acceso il verde del semaforo, accusando i giudici d’essersi sostituiti al Parlamento. E perché infine soffia un vento da resa dei conti, la voglia di mettere un cerotto in bocca alla «bocca della legge», come a suo tempo Montesquieu definiva il potere giudiziario.

Il caso Eluana, d’altronde, non è che l’ultimo grano del rosario. In maggio un giudice di Modena rese una decisione analoga nei confronti di Vincenza, attraverso un’interpretazione innovativa della legge n. 6 del 2004. Qualche anno prima, nel 2002, un altro collegio giudicante assolse l’ingegner Forzatti, che aveva staccato il respiratore da cui la moglie traeva un’esistenza artificiale. Allora come oggi, il nostro diritto nazionale non ospitava una regola sull’eutanasia, né sul testamento biologico. Se è per questo, non vi si rintraccia neppure una regola sull’uso di droghe per fini religiosi; ma due settimane fa la Cassazione ha assolto un rasta sorpreso con un etto di marijuana in tasca. E ovviamente la politica non l’ha presa bene: «Qualcuno fermi i giudici», ha detto il capogruppo Pdl in Senato.

Ecco, dal Senato sta adesso per scoccare l’altolà. Un conflitto dinanzi alla Consulta è un po’ come una sfida a duello, benché nella fattispecie l’arma prescelta sia del tutto impropria. In primo luogo la sentenza della Cassazione non è definitiva, e quindi non è idonea a innescare un conflitto tra poteri. In secondo luogo il Senato non detiene il monopolio della funzione legislativa, perché quest’ultima viene esercitata «collettivamente» da ambedue le Camere, a norma della Costituzione. In terzo luogo non si può certo trasformare la Consulta nell’ennesimo grado di giudizio, impugnando qualunque decisione su cui la maggioranza di turno sia discorde. Ma dopotutto queste sono tecnicalità, argomenti per gli addetti ai lavori.

La vera posta in gioco tocca il ruolo dei giudici nell’officina del diritto. Il centrodestra li vorrebbe nudi e proni, e almeno in questo è recidivo: durante la sua precedente esperienza di governo provò a castigare come illecito disciplinare ogni sentenza in contrasto con «la lettera e la volontà della legge». Magari non tutti i senatori ne saranno consapevoli, però oggi il loro voto rispolvera il Référé législatif, un istituto in auge nel secolo dei lumi. Perché a quell’epoca dinanzi a un’oscurità legislativa, oppure dinanzi a un vuoto del diritto, i giudici dovevano appellarsi direttamente al Parlamento, sospendendo la propria decisione.

Sennonché al giro di boa del secolo, nel 1804, entrò in vigore il Code Napoléon, che introdusse l’obbligo di rendere giustizia in ogni caso sottoposto alla magistratura. Questo principio è ancora valido e rappresenta la prima forma di tutela per i cittadini. Tant’è che le preleggi al codice civile contemplano l’ipotesi in cui manchi una precisa regola del caso; ma stabiliscono che il caso sia comunque deciso sull’onda di regole analoghe o dei principi generali.

Esattamente quanto ha poi fatto la Cassazione per i rasta o per Eluana, applicando rispettivamente il principio costituzionale della libertà di religione o quello di disporre della nostra stessa vita. No, non tocca al Senato la toga che hanno indosso i magistrati. Né del resto il Senato potrà mai far indossare ai magistrati una divisa da poliziotto, da esecutore inerte della legge. Ogni giudice è innanzitutto giudice d’un caso della vita, e nessun caso è uguale agli altri. Lasciamo perciò Eluana al proprio giudice, e così sia.

micheleainis@tin.it
 
da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 02, 2008, 08:59:55 am »

Quando la maternità diventa un boomerang

Adele Cambria


Le leggi che, in Europa, tutelano la maternità (non così negli Stati Uniti) sono un boomerang per il successo professionale delle donne, come ha dichiarato, creando scandalo, Nicole Brewer, responsabile della Commissione per le pari opportunità della Gran Bretagna? Forse la mia “antica” testimonianza al riguardo, potrà contribuire al discorso. E dunque: la prima gravidanza, nel remoto 1959, non mi creò nessun problema sul luogo di lavoro. Anzi, diventai giornalista professionista nella redazione del quotidiano il Giorno, ideato, fondato e diretto, a Milano, da Gaetano Baldacci, mentre ero incinta di quattro mesi e tutti lo sapevano. Semmai il problema fu che mi obbligarono, all’inizio del settimo mese, a smettere di lavorare, anche se stavo benissimo; ma la legge di tutela della maternità, mi spiegarono, lo esigeva. Così, un po’ malinconica, col mio pancione, trascorsi luglio e agosto sulla Riviera Ligure, a Nervi, guardando con invidia le mie coetanee che ballavano sulla già mitica «Rotonda sul mare», o andando a sentire i Platter’s in concerto («Only You»), ed arrabbiandomi un po’ perché non potevo scriverne. Ero, lo ammetto, molto attaccata al mio ruolo di cronista di costume - ma piangevo quando mi chiamavano “cronista mondana” - e le due o tre estati precedenti le avevo passate facendo chilometri sulle spiagge più alla moda o più popolari d’Italia, alla ricerca de «La Bella del Giorno», un concorso promozionale bandito dal mio quotidiano, in tutti i sensi modernizzatore rispetto alla seriosità dei quotidiani politici nazionali.

Nessun problema, dunque, per la prima gravidanza, i problemi semmai vennero dopo la nascita del bambino: non ebbi fortuna con le bambinaie, (che potevo permettermi), e la mia furia emancipatoria mi aveva ricondotto al giornale dopo 40 giorni. Non ero affatto una precaria, il posto di lavoro era garantito dalla legge a tutela della maternità, avrei potuto restare a casa anche un anno, ma una firma “giovane” e “femminile” (già allora ragionavo in questi termini) non sarebbe sparita per sempre? (Sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1963 il bellissimo libro di Natalia Ginzsburg, «Le piccole virtù», in cui lei racconta che, mescolando il semolino col pomodoro per preparare la pappa ai figli, piangeva pensando che non avrebbe scritto mai più . Ma lei era una scrittrice, ed io una cronista!).

La soluzione - e per tutta la vita ne avrei avuto rimorso - fu quella di “deportare” il bambino da Milano a Reggio Calabria, dove mia madre l’avrebbe accudito per un anno. Intanto mi ero dimessa da il Giorno per solidarietà con Gaetano Baldacci, fatto fuori dall’accoppiata Segni/Malagodi, e mi ero trasferita a Roma, a Paese Sera. Era un giornale “povero”. «Noi non possiamo pagarla come nei giornali borghesi», mi aveva annunciato l’editore Terenzi, ed io: «Non importa, ma vorrei fare la cronista asessuata!» (Per dire che volevo uscire dalla gabbia dorata della cronaca mondana). Perciò, quando scoprii di aspettare un secondo figlio, sentii, ad intuito, che era meglio non dirlo, almeno nei primi mesi. Così, accudita dall’autista de L’Ora di Palermo, spaventatissimo dalle mie nausee, feci la traversata della Sicilia in macchina fino a Testa dell’Acqua, per intervistare un ergastolano liberato dopo trent’anni con l’ottima ragione che suo fratello - per il cui assassinio era stato condannato all’ergastolo - era vivo.

Furono due anni felici, quelli a Paese Sera, ebbi il secondo figlio senza che nessuno mi dicesse che ero obbligata a prendere il congedo preventivo di maternità, e tornai al giornale anche questa volta dopo 40 giorni. Ma fui invitata a dimettermi... Le ragioni c’erano tutte: il 27 ottobre 1962 era caduto, per un incidente tuttora misterioso, l’aereo di Enrico Mattei, e il Presidente dell’Eni era l’unico manager che desse la pubblicità anche a un quotidiano di sinistra, e, negli stessi giorni, il Paese Sera di Roma era stato “raddoppiato” da un analogo quotidiano del pomeriggio a Milano. Il mio direttore, Fausto Coen, mi disse che sarebbero stati costretti a fare 80 licenziamenti: «Lei ha avuto un bambino da poco - mi suggerì - potrà goderselo per un po’, ed è così brava che qualunque giornale borghese la assumerà...». Non gli dissi - non osai - che preferivo comunque stare a Paese Sera, e lui aggiunse la stoccata finale: «Io non posso licenziarla perché lei ha appena avuto un bambino ma, se non si dimette, saremo costretti a licenziare un padre di famiglia...».

Mi dimisi, ma senza risentimenti per il mio bravissimo Direttore, non era colpa sua, era colpa dell’aereo, era colpa di un mondo - cominciavo a capirlo - in cui l’emancipazione della donna consisteva, nel migliore dei casi, soltanto in una emarginazione collettivamente taciuta.

I giornali borghesi almeno erano più espliciti... Ne ebbi la prova qualche mese dopo, quando Alba De Cespedes mi introdusse come collaboratrice a la Stampa di Torino, dove lei, la grande scrittrice che aveva fatto la Resistenza, dirigeva «La pagina della donna». Non avevo un contratto ma lavoravo moltissimo, pubblicando anche 25, 26 articoli al mese, in tutte le pagine del quotidiano torinese (escluse quelle politiche e quelle sportive). Ero invitata anche, una volta al mese, alle riunioni col mitico Direttore, Giulio De Benedetti; ed ero anche l’unica, oltre a lui, a stare seduta, in quanto donna. Tutti gli altri, anche il povero Casalegno e lo storico Paolo Serini, in piedi. Un giorno - probabilmente perché Michele Tito, il capo della redazione romana, gli aveva trasmesso le mie richieste di regolarizzazione - Giulio De Benedetti mi si rivolse direttamente con queste parole: «Signora Cambria, lei ci tiene all’indipendenza del giornale su cui scrive?». «Certo che ci tengo!», risposi. «Allora deve capire: lei è giovane, è sposata, ha già due bambini... E se ne fa un altro, sarebbe a carico dell’azienda, che per questa ragione perderebbe un po’ della sua indipendenza...».

Pubblicato il: 01.08.08
Modificato il: 01.08.08 alle ore 11.33   
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 04, 2008, 07:46:38 pm »

L’altra metà del Sud America

Maurizio Chierici


Nei 30 Paesi industrializzati le cattedre delle università sono cattedre al femminile: 74 per cento medicina e salute, 63 per cento scienze sociali e politiche, 59 scienze sperimentali. Percentuale che si abbassa in matematica e scende al 27 in ingegneria. Se l’insegnamento è la fabbrica del futuro, il presente resta nelle mani degli uomini. In politica, soprattutto, con l’eccezione delle donne ministro nella Spagna di Zapatero e della Germania della signora Angela Merkel. Dall’altra parte del mare le cose cominciano ad andare meglio ma col sospetto di una finzione. Storia e cronaca dell’America Latina raccontano un continente maschile; machismo violento, populismo decisionista di protagonisti imbalsamati nelle uniformi militari. Anche il doppio petto degli affari costringe alla miseria duecento milioni di uomini e donne che non riescono a diventare persone.

Ma le regole del potere invecchiano e la disattenzione degli anni di Bush cambia la scena. Mutazione rosa che vede tre signore protagoniste della politica. Due presidenti eletti senza gli intrighi dell’altra America com’era successo per la Moscoso di Panama e Violeta Chamorro in Nicaragua. Quegli anni novanta, un secolo fa. Invece Michelle Bachelet e Cristina Fermandez Kirchner sono state scelte da chi ne ascoltava i programmi e poi votava, sperando che le donne cambiassero il mondo. Non passionarie dal rimbombo retorico. Signore garbate in tailleur. Escono dai salotti delle cento famiglie da sempre protagoniste in Cile e Argentina. Un’ora di ginnastica al mattino, e via in ufficio: palazzo della Moneda (dove è morto Salvador Allende), Casa Rosada nella quale si aggira il fantasma di Peron ma anche di Videla e dei generali P2 che hanno sepolto una generazione di ragazzi argentini. Il passato sembra chiuso anche se Michelle e Cristina (nate nel ‘51) vengono da quel passato. Michelle torturata perché figlia di un generale d’aviazione fedele ad Allende. Il suo cuore si è arreso ai ferri dei carcerieri. Per ricominciare la vita, Michelle ha fatto il giro del mondo: profuga in Australia e Germania Est. Torna appena Pinochet declina.

Fa politica coi socialisti, diventa ministro della difesa in gonnella nel continente dei generali. Un po’ delle alte uniformi che l’avevano perseguitata sono costrette a giurarle fedeltà: fedeltà al ministro, fedeltà al capo dello Stato. Insomma, il Cile volta pagina senza ripulire gli angoli sporchi dell’alta borghesia. Tre anni dopo il trionfo, chi ha votato Bachelet si chiede se davvero è cambiato qualcosa o se le tragiche disuguaglianze sociali formalizzate dalla dittatura per conto degli impresari che continuano a far ballare i politici, sono solo un brutto ricordo. Se davvero la fatica del vivere della gente qualsiasi si è addolcita nelle nuove regole di un paese prospero, management che incanta Wall Street e i giapponesi. Purtroppo la Bachelet, come ogni altro presidente uomo della democrazia ritrovata, é prigioniera di interessi che non consentono di trasformare l’infelicità nella speranza.

La vecchia rete lega le mani di una transizione ormai più lunga della dittatura. Patricia Verdugo, giornalista e scrittrice che ha sfidato i militari ed è stata emarginata fino all’ultimo respiro da un establishement che non intende ridiscutere un solo privilegio; la Verdugo, raccontava nei libri e nelle chiacchiere con noi amici quando andavamo a trovarla per capire l’immobilità della società più moderna dell’America Latina; raccontava che ogni legge o progetto deve essere approvato dai grandi interessi prima di arrivare sui banchi del parlamento. Ammorbidita la volgarità di Pinochet, la sostanza non cambia.

Scuole sempre più private. Prosperano le università Cattoliche, di gran moda l’università delle Ande, Opus Dei, e poi laiche e massoniche (portacenere e tshirt con triangoli e compassi). La classe dirigente che coltiva ambizioni può studiare solo lì. Difficile far carriera se la laurea è pubblica. E dalla laurea si scende ai licei: il privato garantisce il futuro negato alle scuole di stato. Ma bisogna pagare e col 36 per cento della popolazione che tira la cinghia malgrado il trionfo di esportazioni e affari, chi paga sono sempre gli stessi. E le poltrone e i privilegi passano di padre in figlio. Ecco le rivolte dei “pinguini”, bianco e nero delle divise degli studenti. Cariche di polizia, ragazzi in galera o bastonati. Sindacati in allarme perché i conti non tornano.

Spariscono i letti dagli ospedali pubblici; si allungano i letti nelle cliniche private. E la povera Bachelet che con la laurea in medicina aveva governato la sanità, rincorre promesse che non può esaudire. Ogni sera radio e Tv dalle proprietà immutabili, e ogni mattina tutti i giornali (meno La Nacion la cui distribuzione non raggiunge la periferia di Santiago) la tengono d’occhio, buone maniere cilene subito dimenticate appena la signora presidente si avvicina troppo alla gente. E la popolarità si assottiglia. E la perplessità si allarga. Bachelet che sostituisce 9 ministri; Bachelet alla cui spalle si affaccia chi ne prenderà il posto a fine mandato: Soledad Alvear, sinistra della democrazia cristiana, l’altra donna della Concertazione socialisti-Dc. Con un passato da ministro degli esteri viene annunciata da un partito i cui contorni si sono spesso confusi con i soliti interessi. Il carattere di una signora che non si arrende dovrà fare gli stessi conti della Bachelet perché i registi ombra del paese non hanno cambiato nome. Non ci sta Gonzalo Meza Allende, figlio di Isabel (presidente della Camera dei deputati), nipote di Salvador Allende. Alla vigilia del voto che dovrà scegliere in ottobre il sindaco di Santiago e tutti i sindaci del Paese, annuncia un libro nel quale critica il modello cileno. Racconta la delusione davanti al governo Bachelet, delusione dei governi di prima e dei governi che verranno: «Bisogna cambiare questo tipo di democrazia altrimenti non cambia mai niente». Tant’è che Jaqueline, figlia piccola di Pinochet, si candida a sindaco della capitale.

Di là dalle Ande la popolarità di Cristina Kirchener è precipitata al venti per cento dieci mesi dopo il plebiscito dell’elezione al primo turno. Rispuntano le voci polemiche sulla candidatura a capo del governo decisa senza primarie, impiccio ritenuto inutile: l’ha scelta il marito-presidente che si è privato di altri quattro anni di Casa Rosada per riorganizzare a sinistra il partito dell’eterno Peron suscitando il sospetto di essere un presidente ombra. Cristina è simpatica, sorriso garbato e voglia di rendere civile il paese del grano, della carne e della soia, ma dove nel Chaco si muore di fame (non è un modo di dire) mentre le esportazioni volano verso il mondo che può. Cristina rimedia all’ingiustizia imponendo vere imposte alle holding agricole mai tanto prospere. Comincia il braccio di ferro nelle piazze. Blocchi stradali lunghi tre mesi. Adunate di descamisados contrastano la marcia delle impellicciate che rabbrividiscono nell’inverno australe. Paralizzano il paese, sgretolano il governo appena nato. La signora Kirchner non si arrende: «deciderà il Parlamento» dove la coalizione non ha problema di numeri. All’improvviso li ha: Julio Cleto Cobos, presidente del senato e vice presidente della repubblica, transfuga dal partito radicale, rompe la coalizione e vota a favore degli agrari. «Perché non è con le tasse che si risolvono i problemi sociali». Frana il governo, sostituzione di ministri. La signora presidente si arrende mentre tamburi a festa rimbombano nei quartieri eleganti di Buenos Aires e la quattro anime degli agricoltori si riuniscono in un comunicato: «La nostra lotta contro le imposte ha rafforzato il Paese che diventerà più ricco». Più ricco per chi? Mentre il 70 per cento delle tasse raccolte da Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone é pagato da persone fisiche e il 27 per cento dalle società, in Argentina e Brasile la percentuale si rovescia: 35 per cento dai redditi individuali, il 65 dalle aziende che poi scaricano le tasse sui consumatori. Storie dell’altro mondo, ma anche storie italiane. Soldi in fuga verso paradisi fiscali o villoni nella sabbia di Miami. Ingiustizia che alimenta le inquietudini. Ogni dieci anni scoppiano e ogni dieci anni qualcosa minaccia la convivenza e apre ipotesi pericolose: da Peron alla dittatura militare, da Menem allo sbando dell’economia, adesso tasse ed esportazioni. Il dubbio resta: di sicuro in Argentina comanda un Kirchner, ma Kirchner marito o Kirchner moglie? Il machismo non rappresenta solo la malinconia di ieri. Le signore presidenti vengono spesso usate come bella copertina di un potere che non si rassegna.

Della terza donna che accende il continente latino abbiamo parlato tanto. Il ritorno di Ingrid Betancourt sta aprendo attese e appetiti. Nelle vacanze all’Avana, Gabriel Garcia Marquez confida a Mauricio Vincente del Pais: «Il suo ritorno è l’inizio di qualcosa. Non so cosa. Tutti le stanno addosso per sfruttarne l’immagine con l’egoismo di chi vuole scalare, rafforzare, allungare le proprio fortune»: Uribe e Sarkozy. Gabo conosce Ingrid da quand’era bambina. Ma sa poco della donna ex candidata alla presidenza contro Uribe. Ha sfogliato il suo libro - «La rage au coeur», in italiano «Forse mi uccideranno domani» - ma non si è misurato con la passione di un’intellettuale che voleva trasformare la politica colombiana col radicalismo respirato a Parigi. Appena libera è volata in Francia e non è più tornata a Bogotà. Nessuno sa cosa potrà decidere quando, smaltita l’euforia della libertà, psicologicamente riemergerà dal limbo di sei anni di niente. Il Nobel per la pace (che l’Unità ha proposto aggregando altri Nobel, intellettuali, migliaia di persone) può trasformarla in ambasciatrice universale dei diritti umani. Sa cosa vuol dire prigionia e tortura, umiliazioni e lo sfinimento del cuore. La polemica imprudente è sempre stata la sua arma migliore. Ma l’imprudenza é ormai indispensabile perché non esistono solo le Farc e i loro prigionieri, i massacri di Darfur, Iraq, Iran, Cecenia. Non sono solo Cina e Birmania a tener sotto chiave milioni di incolpevoli e Guantanamo non è l’ultimo gioiello dell’eredità Bush. La prigione galleggiante del vice ammiraglio David Brewer - gigantesca nave d’assalto anfibio USNS-Stockam - è l’inferno delle torture appena rivelate ma ancora nascoste nella base Usa Diego Garcia, isola inglese dell’oceano Indiano. Scioglilingua dei misteri. Ad Ingrid Betancourt non basterà una vita per scoprire e cancellare il prontuario di queste barbarie. Se è rimasta l’Ingrid di prima non si darà pace e tante cose potrebbero cambiare. C’è chi spera che in autunno riprenda l’aereo per l’America Latina. La melma colombiana (narcos e corruzione paramilitare) soffoca la politica e se la Betancourt tornerà alla politica non accetterà ombre in doppiopetto alle spalle. Il suo coraggio può diventare l’esempio liberatore per chi é paralizzato da paura e poteri che soffocano. Sono in tanti ad aspettare una donna così. In fondo, illudersi non costa niente.

mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 04.08.08
Modificato il: 04.08.08 alle ore 11.34   
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« Risposta #66 inserito:: Agosto 19, 2008, 11:01:24 pm »

Stuprare una Donna

Elena Stancanelli


Ci sono crimini noiosi. Talmente noiosi che non hai neanche voglia di leggerti tutto l’articolo. Leggi il titolo e volti pagina. Tra questi, il più noioso è lo stupro. Una giovane donna è stata violentata per una settimana dall’uomo che le aveva offerto lavoro come colf. Un’altra? Non c’è neanche la possibilità di una bella foto. Le donne violentate non si mettono sui giornali. Che faccia avrà questa colf non lo sapremo mai. Di solito gli articoli sugli stupri i giornali li presentano con una ragazza rannicchiata a terra, la testa nascosta dentro le braccia intrecciate sulle ginocchia. Le gambe nude, la maglietta strappata sulle spalle. Sempre la stessa. Chissà chi è quella donna, la vittima per antonomasia.

Un’attrice? La figlia del fotografo che si è prestata a patto di non essere riconoscibile? Il fotogramma di un film degli anni settanta? Chiunque sia quella ragazza rannicchiata, rappresenta in maniera perfetta la maschera senza volto di un orrorifico carnevale, che ci sfila sotto gli occhi ogni giorno.
Ecco a voi lo stupro. Che può essere di due tipi: secco (l’uomo sconosciuto che si getta sulla sconosciuta) o subdolo (l’amico, il conoscente che approfitta di un varco e poi non si ferma più, ignorando il rifiuto). E basta. Che noia. Cambia la location, può cambiare il numero di partecipanti, cambia soprattutto la percentuale di efferatezza. Ma la dinamica è sempre la stessa, da migliaia di anni. Niente a che vedere con l’omicidio, la rapina, l’epica della truffa. Per stuprare una donna, non serve neanche un piano. E quasi sempre non c’è premeditazione.

Lo stupro ha a che fare col sesso? Non mi sembra. Si tratta di rabbia. Stuprano uomini senza donne, ma stuprano anche ragazzini giovani e belli, adulti che hanno già scopato ogni corpo possibile. Stuprano uomini di tutte le razze e di ogni età, stuprano i nostri padri e i nostri fratelli. Non serve neanche un’arma per stuprare una donna. Basta la rabbia.

Ma la rabbia non può essere estirpata. Una dose di rabbia e rancore è endemica tra uomini e donne. La questione è quindi come dirigere quella rabbia in una zona dove possa essere disinnescata, dove non diventi violenza. Nonostante si sbraiti il contrario per alimentare l’isteria sulla sicurezza, in Italia da qualche anno sono diminuiti i delitti e sono diminuiti persino i furti. La criminalità recede ovunque. Tranne che sul corpo delle donne. Il numero degli stupri non cala. Perché? È vero: culture diverse si danno battaglia dentro i nostri confini. L’immigrazione, imponente e repentina, ci costringe a ribadire ogni singola conquista, specie nei rapporti tra maschi e femmine. Ma a che tipo di cultura arcaica ed esecrabile dovrebbe ispirarsi una frase come questa: era ubriaca, voi che aveste fatto al posto nostro? Pronunciata da una banda di ragazzini decerebrati alla polizia, dopo esser stati colti a violentare una coetanea. Io credo che sia la nostra. Che i conti ce li dobbiamo fare tra di noi. Non è strano che non sappiamo amarci, se non sappiamo concederci reciprocamente le stesse debolezze di coscienza, alcool droghe o innamoramenti fatali. Come possiamo far bene l’amore se non sappiamo usare la violenza, metterla in campo e poi giocarci? Siamo noi che non abbiamo ancora imparato a concederci le stesse opportunità e gli stessi diritti, per poi, dentro questo spazio di serenità, poter tornare a essere maschi e femmine.

L’altro giorno ho visto su Italia 1 il concorso per Miss Maglietta Bagnata. Nella prova clou le ragazze dovevano saltare sul tappeto elastico, con la maglietta bagnata, per mostrare consistenza e autenticità delle tette. Uno spettacolo talmente degradante da indurre alla commozione. Come i cuccioli di cane abbandonati sul Raccordo. Ma il punto non è abolire Miss Maglietta Bagnata, o le Veline, o il presidente del Consiglio che deve ricorrere alle sue doti di playboy per convincere la presidente finlandese. Il punto è creare quello spazio di serenità. Là dentro, possiamo poi permetterci qualunque imbecillità.

Purtroppo gli esseri umani sono tanti e non vogliono affatto l’uno il bene dell’altro, ma il proprio. Al massimo siamo in grado di preservare il branco, di non attaccare il fratello. Lo stupro è un crimine dell’uomo contro la donna, nonostante qualche folcloristico esempio contrario. Per arginarlo, perché la sua incidenza prenda la stessa china discendente degli altri crimini commessi in Italia, serve che le donne siano più forti. Che abbiano maggiore rappresentanza politica, e rimettano in pari la bilancia. Non c’è un’altra soluzione. Pari oppurtunità e pari diritti non possono essere ricontrattati ogni volta. Solo allora, quando avremo pari rappresentanza al Governo e nei ruoli chiave della società, e qualcuna di noi inventerà Mister Membro d’Oro (dove gli uomini salteranno su un tappeto elastico, con le mutande bagnate, per mostrare consistenza e autenticità), solo allora, temo, gli stupri inizieranno a diminuire.

Pubblicato il: 19.08.08
Modificato il: 19.08.08 alle ore 8.22   
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« Risposta #67 inserito:: Agosto 26, 2008, 06:41:13 pm »

50 volte donna

di Sabina Minardi


Hanno già dato. Al lavoro, al marito, ai figli. E a cinquant'anni si riprendono la vita. Ripartendo dal sesso: finalmente giocoso, senza complicazioni emotive. Perché le catastrofi sentimentali sono alle spalle. E la nuova parola d'ordine è: vogliamo tutto  A 30 anni si prendono le misure e il futuro è un bungee-jumping: tra storie al capolinea o amori ai nastri di partenza, lavori da conquistare,maternità da assolvere. A 40 anni si corre sempre: dietro un progetto, dietro i figli, dietro un genitore, dietro un rimpianto. Il sesso? Una sosta refrigerante durante il viaggio. E il piacere dell'eros? Di allegre acrobazie non trattenute dai doveri, senza il pathos di fedeltà tradite e gelosie in agguato?

La vita (sessuale) ricomincia a 50 anni: l'età perfetta per la passione femminile. Donne che tornano alla carica, come mogli o amanti desiderate non solo dai coetanei ma anche da uomini più giovani di loro. Femmine indipendenti, che ripartono da fantasie in stand-by. Seducenti come Sharon Stone; spavalde e ironiche come Samantha-Kim Cattrall; modelli di energia anche per le più giovani, come Madonna; pronte a sovvertire forma ed esistenza, in nome dell'amore: come Cecilia, ex signora Sarkozy.

Avanguardie di un fenomeno limitato alla cerchia delle ricche e famose? Nient'affatto. La novità è proprio qui: dietro l'exploit erotico non c'è solo un'élite di fortunate. La rivoluzione dell'età di mezzo ha i volti e i corpi delle donne moderne: mamme con figli sufficientemente grandi da non destare più troppe preoccupazioni, professioniste affermate o comunque libere dal rampantismo di inizio carriera, casalinghe con hobby forti o impegni nel sociale, ex mogli che hanno avuto la capacità di rialzarsi dopo un abbandono, e di ricostruirsi una vita. A raccontare queste donne nuove, provocatorie nel loro stile di vita, e senza punti di riferimento nel passato, è la ricerca 'Donne a 50 anni e Sentimenti', condotta dal Gfk Eurisko per l'Osservatorio Differently del brand della bellezza Lancaster. L'indagine è stata svolta su un campione di 700 donne italiane tra i 46 e i 59 anni. "Dopo il femminismo è il momento di una nuova femminilità", esordisce la psicologa Irene Bozzi, che ha seguito i lavori della ricerca: "Le protagoniste sono le stesse: le donne che hanno condotto le battaglie degli ultimi trent'anni, e che ora stanno recuperando un'identità nuova. Facendo così da apripista a un modo inedito di intendere la menopausa: non più come la fine della sessualità e l'inizio dell'uscita di scena, anche estetica, ma il tempo di una nuova libertà: reso ancora più piacevole dall'assenza di timori di gravidanze. E dalla consapevolezza di essere ancora molto attraenti".


Le rughe non fanno più paura. Per le cinquantenni intervistate sono le malattie la fonte d'ansia (per il 70 per cento), ma non quelle connesse con l'ingresso in menopausa (3 per cento). La paura di invecchiare porta brividi solo al 6 per cento, e neppure lo spauracchio della solitudine turba una percentuale troppo alta (il 17 per cento). Il resto lo fanno palestre, spa, chirurgia estetica, trucchi del vestiario, ma soprattutto una sana alimentazione, uno stile di vita più attento e consapevole che in passato. La conseguenza è che una donna su due dice di sentirsi seducente, e lo è davvero. Pronta a rimettersi in gioco. "Il glamour non è un vezzo, ma una conquista", nota Alessandra Graziottin, direttore del Centro di Ginecologia dell'Ospedale San Raffaele Resnati di Milano: "Queste donne non abdicano al fascino e alla seduzione. L'alfabeto della loro autonomia deriva dalle loro madri, l'incoraggiamento del talento dai padri: le cinquantenni di oggi si distinguono per una migliore qualità dell'invecchiamento".

E dal momento che serenità e sicurezza aggiungono fascino, ad accompagnarle, in casi neppure rari, sono uomini molto più giovani: "Succede molto spesso", conferma Bozzi: "Come i maschi cinquantenni volgono lo sguardo verso le più giovani, a conferma della loro virilità, e non resistono alla tentazione di esibirla, le nuove cinquantenni svelano un'inclinazione verso gli uomini più giovani. Anche senza sbandierarla".

Non che stiano sempre a far sesso: la fotografia che emerge dalla ricerca mostra una generazione che al primo posto mette l'amore (per il 94 per cento). "Amarsi, alla mia età, significa rimanere con il mio compagno, appagata dal cammino che abbiamo fatto insieme", risponde una larga maggioranza. Ma è la stessa vita di coppia a cambiare, vissuta con la stessa intensità e passione dei 20 anni (per il 58 per cento); con una consapevolezza maggiore di quando ne avevano 30 (per l'80 per cento). E in forme decisamente più libere (l'82 per cento). Più esplicitamente, alla domanda se le donne cinquantenni tradiscono il loro partner, tre donne su 10 dicono di sì. Un dato persino prudente, se confrontato con un'altra ricerca condotta dall'Istituto di studi psicologici transdisciplinari di Roma, e riferito dall'Osservatorio Differently: una cinquantenne su due sarebbe 'fedifraga'. Di certo, la confessione della scappatella è assai più tipica in questa fascia di età che tra le trentenni.

"I 50 anni sono lo spartiacque tra la menopausa e la parte fertile della vita. Psicologicamente, non è un caso che una fase così rivoluzionaria si apra proprio in quel momento", dice il sessuologo Emmanuele A. Jannini, coordinatore del primo corso di laurea in Sessuologia all'Università dell'Aquila: "Dal punto di vista sociale, una cinquantenne di oggi non ha niente a che vedere col passato: è obiettivamente la trentenne di qualche generazione fa. Lo specchio le rimanda l'immagine di una donna giovane, capace di entusiasmi e sex appeal. Questa donna in passaggio, che deve fare i conti con il dato biologico della menopausa, ha una reazione di libertà: gli ormoni la privano di una certa parte di femminilità, e lei reagisce risottolineando la femminilità. Ecco perché credo che le cinquantenni siano un potente polo d'attrazione per maschi più giovani, con motivazioni diverse: c'è chi ricerca una sessualità meno aggressiva, chi è attratto dalle dolcezze di una donna che è passata dalla maternità, chi si sente più svincolato dagli impegni e dalle aspettative di una coetanea. Per questo sono convinto che queste donne tradiscano davvero più delle trentenni o delle quarantenni: quando si è giovani la fedeltà pesa molto nella costituzione della coppia. A 50 anni, invece, si può ripartire. Esattamente come molti maschi".

La parità arriva a 50 anni? Ad allargare la fotografia sulla versione contemporanea della mezza età, e a confermarla, è anche un'inchiesta sulla sessualità dei francesi, da poco realizzata dall'Institut national de la santé et de la recherche médicale e dall'Institut national d'études démographiques. Una mappatura dei comportamenti sessuali ricavata dalle risposte di 12 mila persone, dove tra età della prima volta scesa a 17 anni e numero di partner in aumento per tutti, le nuove abitudini delle cinquantenni si fanno ben notare: comprano sex toys, fanno incetta di lingerie sexy, usano Internet come teatrino degli incontri, o per raccontarsi e condividere questa seconda vita, come Sophie Bramly, 48 anni, ex responsabile Internet di Universal Music, oggi attiva sulla Rete con SecondSexe.com, evidente omaggio a Simone de Beauvoir. "Le mie pazienti di 50-60 anni rivendicano con forza una sessualità gratificante", osserva Gérard Salama, che ha pubblicato 'Confidences d'un gynécologue' (Plon): "Se quella di coppia non funziona più, la cercano fuori".

Che fine fa allora l'istinto sentimentale, destinato in faccende di sesso a marcare l'ultima differenza tra uomo e donna? Resta: ma in forma di scenario dal quale la sessualità femminile non sa prescindere. Romanticismo concordato, parole e gesti rassicuranti ed illusori, come quinte per il tempo di un rapporto o poco più. Il resto è la libertà di sperimentare. Senza timori: per la prima volta, l'Osservatorio Differently sottolinea, senza soggezioni verso le più giovani. "L'intraprendenza delle donne dai 45 anni in più, estremamente libere nei confronti del sesso, è uno dei dati che mi hanno colpito di più", racconta Alberto D'Onofrio, regista di Erotika italiana, una produzione di 12 documentari in onda su Cult (e presentati all'interno del Roma Fiction Fest) dedicati all'erotismo degli italiani: "Ho raccontato l'esperienza di due coppie di 45-50 anni, di Roma e di Torino, che si incontrano per passare un weekend insieme: sono le donne a guidare il gioco.

E le cinquantenni sono le più coinvolte da situazioni estreme: spesso per riaccendere la passione con il marito. Come si vede in una puntata dedicata alle gang bang, sesso tra una donna e almeno cinque uomini, con il marito, non partecipe, presente. Il sesso è un indicatore di fenomeni culturali: in questa fascia di età io riscontro anche il più alto numero di donne che hanno rapporti con gigolò: una delle mie intervistate, una 45enne di Torino con un importante incarico nell'editoria, ne ha chiamato uno dopo una lite con i colleghi. Costa sui 500 euro uscire con un uomo, ma è un fenomeno sempre più vistoso: perché si vuole eros senza destabilizzazioni emotive; perché si vuole far ingelosire qualcuno. Oppure per farsi vedere in compagnia di un uomo".

E mentre la cronaca segnala la presenza di un sospetto numero di 'jardineiros', sudamericani col fisico e l'abbronzatura giusta, assunti come domestici ma ad altro servizio di ricche signore in Canton Ticino, la sociologa Régine Lemoine-Dhartois, autrice del libro 'Un age nommé désir. Féminité et maturité' (Albin Michel), avverte: "Vigiliamo, o saremo vittime di un altro diktat: quello del piacere obbligatorio". Età della parità, d'accordo. Purché a ognuno il suo spensierato nirvana.

(21 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #68 inserito:: Agosto 28, 2008, 12:01:45 pm »

Un campus per la "decrescita felice"


Giovanna Nigi



Maurizio Pallante del Movimento decrescita felice «Ce n'è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l'avidità di ciascuno». Una frase di Ghandi che ben riassume la tragedia che ci troviamo a vivere, la cui consapevolezza, fino a qualche anno fa ristretta a una cerchia ridottissima di economisti, accademici e scienziati, si va ogni giorno di più allargando, anche grazie a iniziative come quella del Parco Regionale dei Monti Lucretili - "Sarà per amore o non sarà?" -, consigli su come agire il cambiamento dati dai massimi esperti italiani della decrescita e messi in pratica in un campus-laboratorio fino a domenica 31 agosto. Il cambiamento è inevitabile, grazie alla fine del petrolio e alla drammatica erosione dei beni comuni, come acqua, aria e terra. Bisogna imparare a fronteggiarlo, non come un nemico o un triste ritorno al passato, ma come un'occasione da non perdere per acquisire nuovi occhi, occhi felici, come la decrescita che viene proposta in lavori di gruppo, escursioni guidate, laboratori pratici.

Da decolonizzare, come sottolinea Peter Berg, c'è anche e soprattutto il nostro immaginario: «La nostra generazione è stata allevata con un mito che, nell'ultimo secolo, ha fondato l'immaginario sociale: il mito della crescita». Questa credenza, cui è connessa l'idea di uno sviluppo illimitato, ha portato con sé le parole d'ordine della massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti fino a consegnarci all'attuale religione del mercato globale. Eppure, di fronte alla percezione crescente dei limiti sociali ed ecologici dello sviluppo, del degrado indotto dai processi di mercificazione della vita, della crescente conflittualità internazionale attorno alle risorse fondamentali, oggi comincia a farsi strada l'idea che per imboccare sentieri veramente alternativi sia necessario proprio rimettere in discussione il mito fondativo. Almeno questa è la scommessa dei bio-campeggiatori. «È possibile oggi decolonizzare il nostro immaginario e provare a pensare una società non improntata a uno sviluppo fine a se stesso. Il rifiuto di indicazioni chiare su come fronteggiare la crisi planetaria è deludente e pericoloso» dicono gli organizzatori degli incontri. Del resto battaglie per l'uso e l'approvvigionamento di energia, limitazioni sull'acqua e altre risorse essenziali, carenza di cibo e aumento della popolazione sono già diventati la base di guerre che mettono a repentaglio approcci ragionevoli, contribuendo a squilibri ecologici sempre più vasti.

«Non si può aspettare oltre per invertire una rotta che ci porta verso la distruzione sicura e imparare a vivere integrandoci con il resto degli abitanti, vegetali o animali di questo pianeta», è allora il punto di partenza dell'esperimento del bio campus. Insomma, la sostenibilità ecologica non può continuare a essere vista come un lusso che possono permettersi solo le nazioni più ricche. Deve trasformarsi in un imperativo universale e anche un automatismo civile. «È un obiettivo essenziale per ogni società umana senza distinzioni di livello economico, localizzazione geografica o cultura», sui Monti Lucretili ne sono convinti.
Certo, imparare a trovare soluzioni a livello dell'intera biosfera può essere una meta troppo lontana da raggiungere per molte persone. Però almeno si può iniziare a capire come diventare ecocompatibili con il sistema di vita locale n el proprio luogo di residenza. Si tratta di obiettivi comprensibili e realistici, anche piccoli sforzi locali possono fare moltissimo a livello planetario.

«Due terzi delle risorse mondiali sono state sperperate, e l'ecosistema planetario non riesce più a metabolizzare le ingiurie che quotidianamente gli vengono fatte», dice il profesor Marco De Riu, uno dei relatori degli incontri. «Oggi che la razza umana vive al di sopra delle proprie possibilità, è tempo di tirare le somme, e il bilancio è drammaticamente in rosso: in anni recenti il flusso delle acque dei fiumi si è drasticamente ridotto, molti si seccano prima di arrivare agli oceani, abbiamo perso il 90% dei predatori degli oceani, il 12% delle specie degli uccelli, il 25% dei mammiferi, il 30% anfibi e la tendenza è in crescita, grazie anche al cambiamento del clima a cui non tutte le specie riescono ad adattarsi. La maggior parte degli eventi nazionali e internazionali dei quali siamo stati testimoni può essere direttamente ricondotta a cause le cui radici sono ecologiche.

Le giornate di Orvinio, dove sono previsti, fra gli altri, oltre all'intervento di Marco De Riu, quelli di Paolo Cacciari, Maurizio Pallante, autore del libro "La decrescita felice" e Raffaele Salinari, vogliono essere un punto di riferimento per conoscere le risposte pratiche - «e gioiose»- di chi ha già fatto scelte di vita diverse e vuole comunicarle a chi avverte il grande disagio di vivere questo tempo ma non sa che cosa fare materialmente per non sentirsi complice della comune follia distruttiva. La natura - dicono al laboratorio itinerante della decrescita, organizzatore dell'evento - non può essere solo un lusso da godere nei week end. Perché non si può mangiare il denaro. Né si può bere il petrolio.


Campodecrescita@gnail.it per informazioni 3382144489


Pubblicato il: 27.08.08
Modificato il: 27.08.08 alle ore 17.46   
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« Risposta #69 inserito:: Agosto 30, 2008, 11:33:59 pm »

Il dolore oltre il dolore


Beppino Englaro


C’è una tragedia nella tragedia che pochi capiscono. C'è una tragedia umana che, malgrado tutto, un senso ancora ce l'ha. E c'è una tragedia artificiale tutta dentro quella umana, cui è difficile dare un senso.

La tragedia umana cui la mia famiglia è stata sottoposta è quella che la sorte ci ha riservato il 18 gennaio 1992: un incidente stradale ad una figlia di ventuno anni è una disgrazia che capita alle famiglie sfortunate. È l'imprevedibile di cui è costellata l'esistenza dagli inizi del tempo, a cui siamo abituati perché contrappasso della stessa possibilità del vivere: accettare che accadano cose sulle quali non è possibile per l'uomo avere un controllo, un governo, che non è possibile prevedere né impedire. Mia figlia uscì da questo incidente in coma profondo, intubata, la testa piena delle lesioni subite, fogliolina muta a brandelli, malamente attaccata all’albero della vita.

Ci dissero di attendere le prime quarantotto ore, poi altre quarantotto, poi ancora. Noi genitori eravamo del tutto sgomenti per quello che vedevamo accadere, ma fin qui ci sembrava di vivere nell'umana consuetudine, cui fa la sua parte vischiosa e drammatica anche il dolore - quello che fa piangere nei corridoi degli ospedali, quello che ti lascia un senso di precarietà così acuto da avvertirlo sotto lo sterno, una vertigine da perdere il fiato, da perdere il senno.

La tragedia maestra, sfidando la legge dell'umana sopportazione e lasciandoci di stucco perché credevamo di essere già sul fondo della disperazione possibile, doveva ancora arrivare. Mia figlia, in piena salute, aveva avuto modo di vedere nel caso di un amico che cosa adesso le volevano fare, lo aveva visto con i suoi occhi ed aveva intuito che la strada intrapresa dalla medicina d'urgenza era piena di pericoli, o meglio ne sfiorava uno solo, ma profondo come un burrone.

Quando si interviene con i soccorsi e si salvano le persone dalla morte non va sempre bene. È questa una realtà di fatto quasi sconosciuta. I medici possono impedire il decesso ma creare un danno che è ben peggiore. Ben peggiore se viene sbarrata la porta di uscita, se non si può scegliere per la dipartita. Lo stato vegetativo permanente - SVP, è proprio ciò a cui mi riferisco. La sopravvivenza obbligatoria ad oltranza è poi la sua punta nauseabonda d'eccellenza.

Mi spiego: se i medici intervengono e grazie al loro soccorso qualcuno non muore ma entra in SVP, attualmente, non ne può più uscire. Anche se si era espresso in passato dicendo che non avrebbe voluto stare in vita senza accorgersene, con le mani altrui che violano ogni intimità, ogni distanza fra la sfera personale, il proprio corpo, e il resto del mondo, non ne può più uscire.

Mi accorsi con incredulità che i medici con cui parlavo e la gente tutta intorno, avevano un punto di vista antitetico al mio, avevano valori opposti ai nostri; guardando lo stesso punto vedevamo cose diverse. Eccola, la vera tragedia: la civiltà a cui appartenevo, in quel preciso momento storico, aveva fatto valere per tutti dei valori nei quali Eluana, sua madre Saturna ed io non ci riconoscevamo e non ci riconosciamo. Essa difendeva, con i suoi ordinamenti giuridici e deontologici, il dovere di far sopravvivere gli individui in SVP contro la loro volontà per rendere omaggio alla vita, a questo bene personalissimo. Che lo SVP sia eretto, come ora accade, a paradigma della difesa del valore della vita umana, che sia fatto strumento per innalzare osanna verso supposte divinità, mi sembra una follia. Che esso incarni lo stato dell'arte della medicina d'urgenza, dopo un prodigioso acceleratissimo sviluppo, anche.

«Ti strappiamo alla morte, non sei con i vermi», ho dovuto anche sentirmi dire dai medici «non ti basta»? No, non mi basta è la mia risposta. Non riesco a concepire che questa cultura del «non morto encefalico» (così mi fu definita questa condizione in cui non sei più come le altre persone e non sei in stato di morte cerebrale) si faccia chiamare «cultura della vita». E mi sconvolge la tenacia con cui vogliono difendere questa conquista dell'invasività tecnologica che, ai miei occhi, è un macroscopico fallimento e miete vittime in modo inaudito, come le guerre. Mi sembra di scorgere quello che è accaduto: la morale medica e religiosa dominante, nel nostro Paese e nella nostra politica, non è stata in grado di stare al passo dell'evoluzione medica e si è limitata a stazionare in quella che era la scelta consona per il secolo scorso, quando l'80% delle persone non moriva, come avviene adesso, nei letti ferrosi degli ospedali.

La tragedia nella tragedia è che Eluana sopravvive finora per il volere di alcune persone che si sono messe tra lei ed i fatti tutti suoi, tra lei ed il suo desiderio di essere lasciata morire senza prima sostare nel corridoio vuoto dello SVP. Mai e poi mai può essere dato ad alcune persone il potere di creare queste cose e ad altre il potere di imporle.

È di una violenza inaudita non poter rifiutare l'offerta terapeutica. Eluana, Saturna ed io sapevamo come evitarlo, avevamo ben presenti i problemi della rianimazione ad oltranza e lo sbocco possibile nello SVP. Tutto era stato chiarito. I nostri pensieri convergevano verso un'unica opinione: è preferibile rinunciare a questa insensata possibilità di sopravvivenza.

Vorrei fosse sempre chiaro che noi, al contrario di altri, non esprimiamo giudizi su chi nutre fermamente un'opinione diversa dalla nostra. Per la libertà che difendiamo, rispettiamo il desiderio di chiunque riguardo a se stesso. E nonostante gli scontri e le batoste ricevute non abbiamo mai smesso di cercare il dialogo, il confronto, perché sentiamo la nostra posizione umanamente e razionalmente sostenibile è sempre più condivisa.

Ho notato, con amarezza, che le persone restie ai condizionamenti - delle quali Eluana era una evidente esemplare - vengono mal tollerate dalla nostra società perché, reclamando l'esercizio delle loro libertà fondamentali, sovvertono l'ordine prestabilito, e questo infastidisce e spaventa. Non si coglie che essi sono una ricchezza per la collettività, uno sprone al pensare da sé, un contributo al pacifico e prezioso fermento civile. Forse si teme il contagio che la libertà, come l'allegria, sanno muovere tra le persone dalle sensibilità affini.

Con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 16 ottobre 2007 e con il decreto della Corte d'appello del 9 Luglio 2008, è iniziata la controtendenza: da randagio che abbaiavo alla luna son passato ad araldo di un diritto sentito da molti (diritto che, non dimentichiamolo, in alcuni paesi è stato riconosciuto trent'anni fa!). La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né «al posto» di Eluana. Nei fatti sono dovuti trascorrere 5750 giorni, 15 anni e 9 mesi, per poter intravedere la possibilità di decidere «con» Eluana, la stessa che ho osato rivendicare dal lontano gennaio 1992.

Ho sempre dato per scontato che la possibilità di rifiutare la sopravvivenza in SVP dovesse rientrare tra le nostre libertà ed i nostri diritti fondamentali. Credo che le Corti non tarderanno a ribadirlo nonostante l'ultimo ricorso della Procura della Repubblica della Corte d'Appello di Milano.

*Socio della Consulta di bioetica

Pubblicato il: 30.08.08
Modificato il: 30.08.08 alle ore 14.02   
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« Risposta #70 inserito:: Settembre 10, 2008, 04:34:26 pm »

10/9/2008
 
Com'è sensuale quel velo
 
 
NAOMI WOLF
 
Una donna vestita di nero fino alle caviglie, con la testa coperta da un foulard o dal chador, passeggia per una via dell’Europa o del Nord America, circondata da altre donne in top, minigonna o pantaloncini. Passa sotto enormi cartelloni sui quali altre donne vanno in estasi sessuale, saltellano con addosso solo biancheria intima o si stiracchiano languidamente, quasi completamente nude. Potrebbe esserci qualcosa di più appropriato di queste immagini per rappresentare il disagio dell’Occidente verso i costumi sociali dell’Islam, e viceversa?

Le battaglie ideologiche vengono spesso combattute con i corpi delle donne, e l’islamofobia occidentale non fa eccezione. Quando la Francia ha bandito i foulard dalle scuole, ha usato la hijab come emblema dei valori occidentali in senso lato, compreso un appropriato status delle donne. Quando gli americani si preparavano all’invasione dell’Afghanistan, i taleban furono demonizzati perché negavano alle donne i cosmetici e le tinture per capelli; quando i taleban furono rovesciati, i giornalisti occidentali sottolineavano spesso che le donne si erano tolte il velo.

Ma noi in Occidente non stiamo forse fraintendendo radicalmente i costumi sessuali musulmani, in particolare il senso del velo o del chador? Non siamo forse ciechi di fronte ai nostri marcatori di oppressione e di controllo delle donne?

L’Occidente interpreta il velo come repressione delle donne e soppressione della loro sessualità. Ma quando, viaggiando nei Paesi musulmani, sono stata invitata a partecipare a incontri con sole donne all’interno di case musulmane, ho imparato che l’atteggiamento musulmano verso l’aspetto e la sessualità femminile non ha le sue radici nella repressione, ma in un forte senso del pubblico rispetto al privato, di ciò che si deve a Dio e ciò che si deve al proprio marito. Non è che l’Islam sopprima la sessualità, è che ha un fortissimo senso di come vada incanalata in modo appropriato: verso il matrimonio, verso i legami che sorreggono la vita familiare, verso l’attaccamento che protegge la casa.

Fuori dei muri delle tipiche case musulmane che ho visitate in Marocco, in Giordania, in Egitto, tutto era modestia e decoro. Dentro però le donne erano interessate al fascino, alla seduzione e al piacere come qualunque altra donna al mondo.

A casa, nel contesto dell’intimità maritale, c’era abbondanza di biancheria sexy e di creme per la pelle. I video dei matrimoni che mi sono stati mostrati, con la danza sensuale che la sposa impara come parte di ciò che la rende una magnifica moglie, e che offre con orgoglio al suo sposo, suggeriva che la sensualità non è estranea alle donne musulmane. Piuttosto, piacere e sessualità, sia negli uomini sia nelle donne, non devono essere mostrati in maniera promiscua - e potenzialmente distruttiva - agli occhi di tutti.

Molte delle donne musulmane con cui ho parlato non si sentivano affatto asservite dal chador o dal velo. Al contrario, si sentivano liberate da quello che avevano sperimentato come lo sguardo occidentale intrusivo, oggettivante, bassamente sessuale. Molte mi dicevano: «Quando indosso abiti occidentali, gli uomini mi fissano, fanno di me una donna oggetto, oppure mi trovo a confrontarmi con le modelle sulle riviste, un livello difficile da raggiungere, e ancora più difficile a mano a mano che passano gli anni, per tacere di quanto sia faticoso essere continuamente in mostra. Quando ho il velo o il chador, la gente si mette in rapporto con me come individuo, non come oggetto. Mi sento rispettata». Il pensiero femminista non è molto lontano da ciò.

Questa liberazione l’ho sperimentata anch’io. Un giorno in Marocco ho messo un shalwar kameez e un velo per andare al bazar. Una parte del calore che ho trovato era probabilmente dovuto alla novità di vedere una donna occidentale vestita così, ma mentre giravo per il mercato - la curva del seno coperta, la forma delle gambe oscurata, i lunghi capelli che non svolazzavano intorno al viso - ha provato un insolito senso di calma e serenità. Mi sono sentita, in un certo modo, libera.

Le donne musulmane non sono sole. La tradizione cristiana occidentale dipinge tutta la sessualità, anche quella coniugale, come peccaminosa, mentre l’islam e il giudaismo non hanno mai avuto quello stesso tipo di separazione spirito-corpo. In queste culture la sessualità incanalata nel matrimonio e nella famiglia è vista come fonte di grande benedizione approvata da Dio.

Questo spiega perché sia le donne musulmane sia le ebree ortodosse non solo descrivono il senso di liberazione offerto dai loro abiti modesti e dai capelli coperti, ma esprimono anche, nella loro vita coniugale, livelli più alti di gioia sensuale di quanto non sia usuale in Occidente. Quando la sessualità è tenuta privata e diretta su strade considerate sacre - e quando il marito non vede sua moglie (o altre donne) mezza nuda tutto il giorno - quando il velo o chador cadono nella sacralità della casa, si possono sperimentare grande potenza e intensità.

Tra i giovani uomini sani dell’Occidente, cresciuti nella pornografia e nelle immagini sexy a ogni angolo di strada, la scarsa libido è quasi un’epidemia. È facile invece immaginare il potere della sessualità in una cultura più pudica, le esperienze positive che le donne - e gli uomini - possono avere in culture dove la sessualità è gestita in modo più tradizionale.
Non intendo condannare le leader femminili del mondo musulmano che considerano il velo come un mezzo per controllare le donne. La possibilità di scegliere è tutto. Ma gli occidentali dovrebbero riconoscere che quando una donna in Francia o in Gran Bretagna sceglie il velo, non è necessariamente un segno della sua repressione. E, cosa più importante, quando tu scegli la tua minigonna e il tuo top - in una cultura occidentale nella quale le donne non sono così libere di invecchiare e di ignorare i negozi del lusso in Madison Avenue, e non sono sempre rispettate come madri, come lavoratrici e come esseri spirituali - vale la pena pensare in modo più sfumato a che cosa sia davvero la libertà femminile.

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« Risposta #71 inserito:: Settembre 11, 2008, 02:35:36 pm »

11/9/2008
 
Englaro eroe e vittima della giustizia
 
 
MICHELE AINIS
 

Se il ministro Alfano insedierà una commissione di riforma per la giustizia riformata, a presiederla dovrebbe chiamare Beppino Englaro. Non tanto per la sua competenza sulle questioni etiche: materia per santi o per scienziati, e in Italia almeno i primi sono una falange. Quanto per la sua esperienza di labirinti giudiziari, dopo 11 anni trascorsi saltabeccando da un tribunale all’altro. Eluana, la figlia, è in stato vegetativo permanente dal 18 gennaio 1992. Nel ‘97 il padre s’è infilato per la prima volta in un’aula di giustizia, ottenendone la nomina a tutore. Lo scopo? Ricevere l’autorità legale per restituire alla morte quel corpo ridotto a uno zombie. Avrebbe potuto risolvere la faccenda all’italiana, portandosi Eluana a casa e «dimenticando» d’iniettarle la soluzione nutritiva. Nessuno avrebbe detto nulla, nessuno avrebbe mai saputo nulla. Avrebbe potuto scegliere un gesto di rottura, chiamando un anestesista al capezzale di famiglia, un altro Mario Riccio per un’altra Welby. Tanto a cose fatte nessun tribunale ti condanna. Ma lui no, non ha mai pensato di deragliare dai binari del diritto. Impartendoci una lezione: saranno pure fallaci e provvisorie le certezze che dispensa la giustizia umana, ma non ne abbiamo altre.

Sennonché la vicenda processuale di Beppino Englaro riflette come uno specchio deformante tutti i guai della giustizia italiana. Tre procedimenti autonomi, con un rimbalzo fra Lecco e Milano. Pattuglie d’avvocati. Due distinte - e opposte - decisioni della Corte d’appello di Milano, anche perché rese da due sezioni differenti. Altre due distinte - e nuovamente opposte - pronunzie della Cassazione, in attesa della terza. La nomina di un curatore speciale (l’avvocato Franca Alessio), dato che il papà come tutore non è abbastanza olimpico nelle proprie volizioni. Perizie, testimonianze (le amiche di Eluana), interrogatori come in un film di Perry Mason. Infine un decreto di 62 pagine, che autorizza il buon Beppino a interrompere il trattamento di sostegno, purché in un hospice e sotto vigilanza medica.

Fine della giostra? Macché. Il decreto della Corte d’appello di Milano reca la data del 25 giugno, ed è immediatamente esecutivo; ma sta di fatto che dopo oltre due mesi il suo destinatario non riesce a dargli esecuzione. L’ultimo in ordine di tempo è il «niet» della Regione Lombardia, che ha chiuso a chiave le proprie strutture sanitarie. Quel decreto giudiziario - ha detto il presidente Formigoni - viola le leggi, il codice deontologico dei medici, ma soprattutto offende «la mia personale convinzione». D’altronde se la giustizia è un’opinione, come negare la libertà d’opinione alla politica? E infatti da Toscana e Lazio, Regioni a maggioranza di sinistra, giungono profferte per accogliere Eluana. Mentre il Parlamento, dove la maggioranza pende a destra, spara un conflitto d’attribuzioni senza precedenti contro il verdetto della magistratura.

Deciderà perciò la Corte Costituzionale, trasformata in un improprio quarto grado di giudizio. Ma deciderà la stessa Corte d’appello di Milano, cui proprio ieri la Procura generale ha domandato di sospendere l’efficacia del decreto. E deciderà altresì la Cassazione, chiamata ancora in causa dal pg: e tre. Del resto ci sarà pure una ragione se nel 2006 i ricorsi civili pendenti in Cassazione hanno sforato il muro dei 100 mila. Se a quest’ultimo piano dell’apparato giudiziario - sulla carta aperto al pubblico solo in circostanze eccezionali - lavorano 350 magistrati, contro i 123 della Corte tedesca. Se in Italia gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono quasi 40 mila, in Francia meno d’un migliaio.

Scriveva Voltaire nel 1764: «Se a Parigi ci fossero 25 camere di giudici, ci sarebbero 25 giurisprudenze diverse». I 25 giudici di Eluana, nonché i 25 politici che baruffano coi primi, stanno lì a dargli ragione. Nel frattempo alla giustizia non ci crede più nessuno, tanto si sa che una sentenza non è mai una cosa seria. Ma almeno c’è rimasto lui, Beppino Englaro, a prenderla sul serio.

michele.ainis@uniroma3.it 


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« Risposta #72 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:21:45 pm »

15/9/2008
 
Il figlio preferito
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Tu vuoi più bene a lei/lui che a me!»: quale madre, esemplare o distratta, devota o sciagurata, non si è mai sentita rinfacciare da un figlio/a di preferirne biecamente un altro/a? Che scatti con rabbia o con ironia, la filiale provocazione lascia il tempo che trova: di solito si prende con un sorriso, una indulgente alzata di spalle. Almeno fino a ieri è stato così, a ogni latitudine e censo; ma non è detto che domani non sia tutto un altro giorno, al proposito.

www.Netmums.com, infatti, un sito Internet inglese che si occupa dei problemi connessi con l’allevamento dei figli, ha appena pubblicato un sondaggio alquanto interessante. Donde risulta che l’amore materno non è per niente uniformemente spalmato sulla prole plurale. Anzi: una mamma su sei, in una ricca campionatura composta da più di mille fattrici, ha ammesso di preferire un figlio all’altro. Ma, dato ancor più interessante, solo una su tre ha dichiarato con inequivocabile fermezza di non fare distinzioni affettive. Come a dire che la zona grigia, quel vasto e inafferrabile cono d’ombra che avvolge due buoni terzi dell’universo materno (almeno quello qui sondato), è delimitata dall’omertà e dal sospetto. Dal sapere e far finta di non sapere o non voler ammettere. Che i figli sì, si preferiscono. Anche se è magari l’ultima cosa che si sarebbe disposte ad ammettere sotto tortura.

Perché in un mondo come il nostro che ha scardinato certezze e luoghi comuni, che ha spazzato via come vecchia polvere i tabù più radicati, ce n’è ancora uno che tiene: l’intoccabilità dell’amor materno. O meglio, le aspettative che il mondo intero ripone in quel sentimento. Là dove ovunque vige il pressappoco, sull’amor materno si è rimasti esigenti. Rigorosi. Oltranzisti. L’amor materno è sconfinato, generoso, inestinguibile. In altre parole: perfetto. Non è soltanto immensamente buono, deve anche dimostrarsi assolutamente equo. Come se la giustizia ce l’avessimo incisa nel Dna, noi mamme. Come se mettere al mondo un figlio significasse ritrovarsi con la toga addosso. Fra le innumerevoli fatiche del mestiere di madre, l’esercizio di una sommaria magistratura è forse la più improba: hai sempre occhi e orecchie e corti d’appello puntati addosso.

E allora, invece di metter le mani avanti (comunque son mamme d’Oltremanica… mica come noi), diciamolo una volta per tutte: anche le mamme preferiscono. Qualche volta. Ogni tanto. In casi speciali. Per ragioni obiettive - fra un figlio scriteriato, sfaticato, debosciato e uno modello, ad esempio. Per altre ragioni, annidate nel subconscio (ebbene sì, ce l’abbiamo anche noi mamme). Là dove magari ammicca quel tanto di narcisismo che basta per contemplare il figlio/a che più ci somiglia, rispetto a quello/a che ha preso tutti i (molti) difetti di papà. O i suoi (pochi) pregi. Forse, di fronte a quest’ultimo totem che crolla miseramente al primo sondaggio che passa, non resta che ammettere l’evidenza. Sarà triste e scomoda, questa evidenza che proprio come tutto il resto a questo mondo nemmeno l’amore materno è perfetto. Ma che sollievo, poterlo finalmente dire.

Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
 
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« Risposta #73 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:43:08 pm »

Se le donne ci sono


Alessandra Bocchetti


«Nell’inverno del nostro scontento…» (generale) si parla molto di donne. E il succo dei discorsi è, nella stragrande maggioranza dei casi, che le donne non vanno bene, e che non si possono proprio sopportare. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo veramente, che sarebbe un vero sollievo e farebbe una grande chiarezza. Questo a leggere i molti articoli di commento sui nostri giornali, quasi ma non tutti a firma maschile, sulle ministre, sulle candidate e sulle ex candidate alla Casa Bianca, sulle donne al governo nel mondo o semplicemente le donne che fanno qualcosa che vada al di là della parte che l’immaginario patriarcale occidentale (ancora quello) le abbia assegnato. Male se sono incinte, se hanno figli, se non li hanno, se sono belle, se sono brutte, se sono buone, cattive, pacifiste, guerrafondaie, giovani, vecchie, malvestite, benvestite, tacchi a spillo, mocassini, allegre, tristi, di destra, di sinistra. Male, male, male. Tutto per negare il semplice fatto che le donne semplicemente «sono».

Verità fattuale "le donne sono" e quindi sono in tanti modi differenti. C’è chi ama la caccia e chi no, chi è per l’aborto e chi è contro, e così via. Essere donna non è una virtù, è semplicemente essere donna. E questo sembrerebbe una cosa dura da accettare. Ma ancora più dura quando si passa dall’essere all’ "esserci". Allora apriti cielo. Che fanno? Si candidano alla Casa Bianca?, dirigono giornali? Comandano i generali? Ma cosa è carnevale? con il servo in carrozza e il padrone in cassetta?

Nel femminismo, di onorata memoria, che oggi viene ricordato e raccontato così male, le donne avevano capito che per essere libere dovevano non essere più schiave delle loro virtù, ma essere padrone delle loro virtù, che significava il passaggio dal privato al pubblico, passaggio ahimè avvenuto imperfettamente. Passaggio imperfetto, debole, solo così si riesce a spiegare come mai in un paese che ha avuto il femminismo più politico del mondo, le donne si ritrovano in una condizione così misera sia materiale, sia simbolica. Nel nostro paese, nonostante la legge, ancora una donna è pagata meno di un uomo per lo stesso lavoro, la prostituzione impazza, e un canale pubblico, cioè pagato da tutti noi, dedica ben tre prime serate all’elezione miss Italia. Per limitarci a tre punti, ma l’elenco potrebbe essere sterminato. Che dire poi dei dibattiti assolutamente medievali che in questi anni si sono scambiati a proposito del corpo delle donne, dei suoi embrioni, delle sue tube, dei suoi desideri impropri ecc. a cui ha partecipato anche una sinistra compiacente, incerta, confusa, ambigua, complessata. E molti a dire ma le donne non dicono niente? ma le femministe dove stanno? Perfino Giuliano Amato che non è certo stato una amico del femminismo, di fronte a tanta indecenza si è ritrovato a dire «Quando c’era il femminismo questo non si sarebbe potuto vedere né sentire».

Ma il femminismo è stato un movimento e come tale ha avuto fine, un movimento vero non è mai eterno, è una scarica di energia, che produce pensiero nuovo, pensiero che va raccolto e tradotto per un cambiamento non solo delle coscienze ma anche dell’assetto del paese delle sue scelte, delle sue priorità, della visione di un futuro. E non sto parlando solo della "condizione delle donne", sto parlando della condizione di tutti. Un paese dove, nel tentativo impossibile di far quadrare il bilancio, si taglia sulla sanità, sui servizi, sulla scuola, sulla formazione, sulla ricerca è un paese dove le donne non esistono politicamente. Passaggio imperfetto.

È sempre incongruo andare a ricercare le colpe nella storia, tuttavia sarà possibile fare almeno un’analisi per capire parte delle ragioni della situazione in cui ci troviamo. Per prime le donne stesse, noi. È sempre meglio guardare dove avremmo potuto fare meglio. Per anni una parte di noi ha predicato quella che chiamo "l’aristocrazia del nulla" , cioè stare alla larga dalla politica istituzionale, grande successo se una donna usciva da un partito, congratulazioni se usciva dal sindacato e un premio speciale a chi assicurava che non ci avrebbe mai più messo piede.Tanta energia e intelligenza poi si sono investite nella ricerca di un Dio possibile anche per noi donne, ritenendo che per un soggetto non ci possa essere fondamento senza trascendenza. Tutto legittimo. Poi tante energie sono andate invece in un dialogo impossibile con una sinistra sorda e monolitica. Diciamoci la verità la sinistra che ha sempre sostenuto di "voler dare la parola alle donne" in verità si è ben guardata dal farlo e le donne, d’altra parte, si sono ben guardate dal prendersela. Eppure bisognerebbe ricordare che, in tante occasioni, la Sinistra non sarebbe stata veramente Sinistra senza le donne . Ne ricordo solo una: senza la pressione delle donne mai il Partito Comunista si sarebbe impegnato nella battaglia per la legge sull’aborto, lo fece obtorto collo, assolutamente costretto dalla forza delle sue donne, alleate in quella occasione - e fu una straordinaria occasione - con le donne del Movimento.

In quanto a misoginia i governi di sinistra sono stati a questo proposito esemplari. Alle pochissime donne sempre ministeri senza portafoglio, tranne poche eccezioni. O addirittura per loro i ministeri si inventavano, il capolavoro assoluto fu l’invenzione del Ministero della Famiglia che toccò alla povera Rosy Bindi a cui sarebbe spettato ben altro. Come, anni prima, Anna Finocchiaro piazzata in quell’altra bella invenzione che fu il Ministero delle Pari Opportunità. E come dimenticare, alle ultime elezioni amministrative romane, quel palco a Piazza del Popolo con Veltroni che presentava il candidato sindaco e il candidato alla Provincia e sul palco una sola donna su una sedia a rotelle. Piangere? Ridere? Una cosa è certa però: le donne si potrebbero sottrarre, non nel senso dell’"aristocrazia del nulla", ma nel senso dell’obiezione politica. Per esempio, le Ministre dell’ultimo governo Prodi, nel momento in cui - e ci deve essere senz’altro stato - si sono rese conto del piattino che era stato loro servito, tutte senza portafoglio tranne una, perché non hanno fatto un passo indietro? Perché non hanno detto «il Governo ve lo fate da soli», ben sapendo che un Governo ormai per "decenza internazionale" non si può più presentare senza donne?

Mi si potrebbe rispondere perché a quel tempo c’erano ben altre gatte da pelare. E proprio così arriviamo al nostro principale difetto, al re dei difetti: non considerarsi mai una priorità, non per se stesse ma per il proprio paese, incapaci di radicarsi nel pensiero di una verità tanto semplice, ma tanto semplice che dovrebbe essere superfluo nominarla: un paese di uomini e di donne non può essere governato da soli uomini, non per un astratto senso di giustizia, ma semplicemente perché funzioni meglio, perché sia più equilibrato. Non è vero che gli uomini e le donne sono complementari, si sono necessari per vivere insieme.

Devo dire la verità, da un po’ di tempo a questa parte vivo con la sensazione che questo paese abbia perso l’anima e che siamo tutti soli, orribile sensazione, ma se c’è qualcosa della scena pubblica che ancora mi commuove, che mi dà forza, che mi dà piacere, ma anche infinita rabbia delle volte, è guardare le donne che cercano di fare il loro meglio là dove hanno scelto di stare. Quindi coraggio e buon lavoro a tutte.

Forse perché sono proprio incorreggibile.

* filosofa, teorica del femminismo



Pubblicato il: 18.09.08
Modificato il: 18.09.08 alle ore 8.50   
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« Risposta #74 inserito:: Settembre 21, 2008, 12:04:16 am »

Donne e ragazze musulmane pongono domande e si danno risposte sul forum di un sito internet in italiano gestito da un giovane genovese convertito

Sessualità, moda, tecnologia 'Cosa può fare una donna islamica?'

Sì ai tacchi purché non "la camminata non diventi ondeggiante"

Sì anche al rossetto, ma chattare tra ragazzi e ragazze può essere sconveniente


di STEFANIA CULURGIONI


Le scarpe coi tacchi? "Una musulmana le può indossare. Basta che il tacco non sia troppo alto, sennò la camminata diventa ondeggiante e questo non sarebbe dignitoso". E i pantaloni? Li può mettere una donna? "Sì, basta che siano larghi e che non lascino intravedere le forme. Anzi, a volte vanno pure meglio del vestito lungo, che magari si sposta e lascia scoperte le caviglie". E le infradito? E lo smalto? E msn "per comunicare col mio ragazzo? E' lecito oppure è proibito"? Amore, sessualità, moda. E il tentativo di coniugarli con i precetti della religione.

Si chiama "Discussioni sull'islam" il forum che, lanciato un anno fa sul web, sta diventando un punto di riferimento per le donne musulmane italiane (o meglio italofone, visto che molte scrivono anche dall'estero). Studentesse e lavoratrici, donne sposate, fidanzate con un credente oppure single, già musulmane oppure fresche d'islam. Donne, insomma, che vogliono sapere come si fa, nel ventunesimo secolo, ad essere perfettamente praticanti e pienamente donne. Come si può continuare ad essere trendy senza però commettere peccato.

Lanciato un anno fa da uno studente genovese di 23 anni convertito all'islam (si chiama Umar Andrea Lazzaro, è anche titolare di un blog antiamericanista e per le sue posizioni radicali è stato più volte contestato all'interno di altri forum, non musulmani), il sito è una raccolta di pensieri, domande e risposte sulla religione e su come farla combaciare con la vita di tutti i giorni.
Più di 400 gli utenti, oltre 7mila i messaggi arrivati dall'apertura ad oggi, trenta i macro argomenti su cui chi si registra può intervenire e lasciare il suo post. Tra questi, appunto, la sezione dedicata alle donne: "Islam al femminile". E' dentro quelle pagine che, dal giugno dell'anno scorso, tante ragazze esternano i loro dubbi. Chiedono e si danno consigli facendo riferimento al Corano e cercando risposte nei siti di esperti accreditati che hanno interpretato le sacre scritture.

I topic più gettonati? "Vero", utente senior, ha chiesto dove poteva trovare parrucchiere per le donne che, anche durante il taglio, non possono mostrare i capelli a un uomo che, eventualmente entrasse nel negozio. Parrucchieri dotati di paraventi o "chiusi" al sesso maschile? "Sicuramente non ci sono strutture islamiche specifiche che offrano tali servizi - le ha risposto "Pensosa", la moderatrice - tuttavia puoi sempre cercare delle sorelle esperte nel campo". Oppure, le dice qualcun'altra, chiedere alla parrucchiere di non far entrare uomini mentre ti fai la piega.

"L'importante, infatti, è che orecchie, collo e capelli non vengano esposti ad estranei dell'altro sesso - chiarisce l'amministratore - oppure, secondo le interpretazioni più restrittive, di fronte a donne non musulmane".

Maria, che abita a Bologna, chiede invece dove si possono trovare negozi che vendono l'abbigliamento adatto. Dino vuole sapere se le donne possono indossare le infradito ("sì, purché il piede non sia nudo - fa sapere Talib - perché le uniche parti che una donna può tenere scoperte sono il viso e le mani"). Justroby si vuole mettere lo smalto, ma non è sicura che si possa fare ("Lo puoi fare - è la risposta - ma come ogni altro trucco e abbigliamento, non lo possono vedere gli estranei ma solo tuo marito. E comunque, lo devi togliere per le abluzioni").

Mouslima è una studentessa e dice che vorrebbe tanto indossare il velo a scuola ma ha paura delle battutine dei compagni, e teme di non riuscire ad affrontare le lezioni di educazione fisica. E poi c'è Ucaoe che, da Varese, chiede se secondo i precetti dell'Islam si può usare msn: "un ragazzo e una ragazza che abitano lontani, si vedono una volta alla settimana e vogliono sposarsi, possono usare msn per comunicare?".

Una domanda cruciale, di questi tempi, e anche insidiosa su cui il forum, per un attimo, ha oscillato. "Non credo ci siano problemi - le ha risposto Ummah - basta che sia usato in maniera costruttiva.. Ma le vostre famiglie lo sanno?". La drizzata è arrivata però dall'amministratore, con tanto di link a "sapienti" in lingua inglese a confermare le sue risposte: "L'utilizzo di msn, come di qualsiasi altro mezzo elettronico, la chat eccetera, tra estranei di sesso diverso è proibito - dice - ma capisco quanto sia difficile tra fidanzati. Sarebbe meglio allora utilizzare il telefono con lo scopo di conoscervi un po' ma senza esagerare nella durata, e mantenendo sempre una comunicazione modesta ed halal (cioé "che sta dentro le regole"; ndr). Premessa di tutto ciò: i genitori devono saperlo, ed il ragazzo aver fatto la proposta di matrimonio".

La domanda, però, nasce spontanea: e il forum? "Questo spazio - ha spiegato Andrea Lazzaro - grazie a Dio e al suo permesso è diventato il forum islamico in italiano più frequentato e visitato". Un modo, insomma, per diffondere la cultura islamica. Ma non è anch'esso un mezzo elettronico che fa comunicare estranei di sesso diverso?

(20 settembre 2008)

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