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Autore Discussione: MONDO DONNA N° 1  (Letto 138252 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:42:54 am »

20/3/2009 - LA STORIA
 
Intossicati nella testa

 
ELENA LOEWENTHAL
 
Sedici bambini di una scuola elementare a Torino sono stati intossicati dalle figurine. Per chi non è più bambino magari da un pezzo, quel diminutivo al plurale femminile è una scatola magica di ricordi lontani. Da che mondo è mondo o quasi, le figurine sono un gioco unico, perché lo si fa da soli ma anche con gli altri: c’è un album da completare, comprando e scartocciando i pacchettini, sfogliando e applicando quel che ancora manca. Ma il più bello, delle figurine, è che ce le si scambia, spartendo e confrontando quel che c’è e che non c’è. Non esiste un altro gioco così, che si fa da soli ma senza poter fare a meno degli altri.

Per colpa di questo gioco vecchio come il mondo, per il quale siamo passati tutti - maschi e femmine, con i calciatori e gli animali esotici, i cartoni animati e la storia antica - sedici bambini della «Altiero Spinelli» di Torino sono finiti in tre ospedali della città, intossicati nelle vie aeree, in preda ad acuti bruciori agli occhi. La colpa, a dire il vero, non è delle figurine in sé, un gioco innocuo anzi istruttivo come nessun altro perché si fa da soli ma anche e soprattutto con gli altri. È, piuttosto, del modo marcio d’intendere questo bel gioco d’altri tempi.

Il «marcio» va inteso in senso niente affatto metaforico, del resto: le figurine che hanno spedito all’ospedale sedici bambini e un’insegnante di una scuola elementare (che quasi per beffa porta il nome di chi ha contribuito come pochi altri alla costruzione dei valori in questa nostra modernità...), si chiamano infatti «Schifidol Puzz», e il loro album non schiera squadre di calcio né racconta la vita degli antichi romani. La loro particolarità, infatti, è quella di emettere odori nauseabondi. «Ancor più fetenti e sempre più potenti», decanta la, si fa per dire, invitante pubblicità. Di nauseabondo, però, questo quanto meno discutibile prodotto non ha soltanto i miasmi. Ci sono anche le parole e i nomi: «Bruce Pus», «Otto Sboccadibotto», e via di questo disgustoso passo, con dovizia di immagini repellenti. Il tutto condito di un senso dell’umorismo quanto meno discutibile: se questo è il modo per far ridere i nostri figli, c’è davvero poco o nulla di che stare allegri.

La particolarità di queste figurine, o meglio di questa degenerazione della specie «figurine», è quella di emettere un cattivo odore onomatopeico, che richiama il disegno di dubbio gusto e le parole inequivocabili, generando uno scatenamento chimico ad effetto immediato. Ma evidentemente un po’ sopra le righe in quanto a dose. L’avvertenza sui pacchetti dichiara che si tratta di un «gioco» non adatto ai bambini di età inferiore ai dodici anni, ma è un controsenso, dal momento che si tratta di figurine e non di oggetti da pornoshop. Si comprano comunemente in edicola, sempre che non siano già andate a ruba fra minori e maggiori di dodici anni. E così, scartocciando pacchetti e annusando puzze artificiali, sedici bambini di quinta elementare sono finiti all’ospedale accusando piccoli problemi respiratori e forte bruciore agli occhi. Certo, nulla di grave, se la caveranno alla faccia delle figurine «Skifidol Puzz». Il vero guaio è un altro, e non sta in gola o in trachea, ma più nel profondo: perché l’intossicazione di quei bambini, così come di tanti altri, sta nella testa e nel cuore. Nell’idea inculcata in loro che sia bello e divertente scartocciare figurine che puzzano con dei nomi volgari e dei disegni grossolani. Quelle figurine non sono solo nocive, sono anche e soprattutto brutte nel senso più ampio e preoccupante che la parola contiene.

Mentre i bambini non sono brutti, non lo sono mai. Possono diventarlo, se il mondo propina loro la bruttura, gliela fa sembrare divertente e desiderabile. Se li intossica così, a suon di fetenzie. Che non fanno solo male al naso, alla gola e giù per i polmoni o su per gli occhi. Fanno male soprattutto a quel che sta più nel profondo e che nei bambini è qualcosa di morbido e permeabile, come una spugna che assorbe quel che le sta intorno. Farli diventare matti per un album di figurine da schifo, capaci di intossicarli fuori e dentro, è una forma di manipolazione che sconfina nella violenza.

elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it

 
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« Risposta #136 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:25:12 pm »

ORA CHE l'Ue punisce gli omicidi dei clan, centinaia di casi soprattutto nelle zone curde

Turchia, la strage delle ragazze costrette al suicidio «per onore»

Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera
 

A Derya, 17 anni, la sentenza di morte è arrivata via sms: «Hai infangato il nostro nome — scriveva uno dei tanti zii — ora o ti uccidi o ti ammazziamo noi». A Nuran Unca, 25 anni, l'hanno detto i genitori, entrambi insegnanti. Lei ha resistito per un po', poi si è impiccata nel bagno di casa. Elif, invece, non ce l'ha fatta a togliersi la vita e ha deciso di scappare. Da otto mesi vive come una clandestina, costretta all'anonimato da un'assurda sentenza di morte emessa per aver rifiutato un matrimonio combinato. Sono solo alcuni dei tanti nomi di ragazze costrette al suicidio per motivi d'onore in Turchia. Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera, grazie alla sua età e alla legge che prevedeva forti attenuanti in casi del genere. Ma nel 2005, per avvicinarsi all'Europa, Ankara ha riformato il codice penale prevendendo l'ergastolo per il delitto d'onore. Così le famiglie sono corse ai ripari e, per non perdere due figli, hanno pensato di indurre le giovani ad uccidersi.

In poco tempo le percentuali dei suicidi si sono impennate. Soprattutto nel sud-est del Paese, l'area abitata dai curdi, profondamente influenzata dall'Islam più conservatore. Batman, una cittadina grigia e polverosa di 250mila anime, vanta il triste primato di morti sospette, tanto da essere citata da Orhan Pamuk nel romanzo Neve in cui un giornalista investiga sulla strana epidemia di suicidi tra le adolescenti. Ma il fenomeno dilaga ormai anche nel resto del Paese. Nella moderna Istanbul, per esempio, si conta un delitto d'onore a settimana. Sui suicidi dati certi non ce ne sono, si parla di centinaia di casi. Gli esperti sostengono che l'emigrazione dei curdi verso le grandi città porta a un'esasperazione del conflitto tra modernità e tradizione.

Le teenager scoprono Mtv, i jeans stretti, le feste, l'amore. Basta un'occhiata a un ragazzo o una gonna troppo corta e il loro destino è segnato: il consiglio di famiglia si riunisce e le condanna a morte. «Questo scontro di civiltà — ha spiegato a una troupe della britannica Channel Four Vildan Yirmibesoglu, capo del dipartimento dei diritti umani a Istanbul - sta rendendo la situazione ancora peggiore. Aumenta la pressione sulle donne perché rispettino i dettami conservatori della tradizione. E, chiaramente, ci sono più tentazioni». Ogni giorno decine di giovani bussano alla porta di Ka-mer, il centro fondato nel 1997 da Nebahat Akkoc per aiutare le donne in pericolo. La sede di Diyarbakir ha le pareti color corallo e una poltrona di pelle dove le ragazze sprofondano raccontando la loro storia. L'associazione le aiuta a trovare una casa-rifugio e a rivolgersi a un tribunale. Per rendere le cose più facili è stata creata anche un'hotline, ma telefonare e denunciare la propria famiglia può diventare improponibile nella regione curda dove, secondo i dati delle Nazioni Unite, si stima che il 58% delle donne sia vittima di abusi e che il 55% sia analfabeta. Vista da qui l'Europa appare ancora più lontana.

Monica Ricci Sargentini

28 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #137 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:42:32 pm »

Controcanto - iSTRUZIONI PER LA GIOVENTù

Meglio fare la Cancelliera che subire il tè per signore

Ragazze e ragazzine che cliccate sulle foto delle first ladies, fermatevi un mo­mento. E riflettete, voi che siete in tem­po: non è tanto, ma tanto più interessan­te essere Angela Merkel? La Cancelliera tedesca passa la giornata a discutere con Barack Obama, Gordon Brown, Nicolas Sarkozy e altri leader di come rilanciare l’economia.

Una media first lady a un me­dio vertice — o a uno grande, come que­sto — deve attenersi a un’agenda anacro­nistica e parecchio noiosa. Che attual­mente prevede: infiniti tè tra prime da­me con diplomatici e interpreti in cui è sconsigliato fare battute; photo opportu­nities in cui c’è sempre il rischio che sbu­chi Carla Bruni-Sarkozy e tutte le altre facciano la figura della signora Pina (soli­darietà tardiva a Sarah Brown, che dopo la visita a Londra dell’anno scorso ha det­to «che volete, con lei non avevo una chance»); sollievo relativo per il manca­to arrivo di Carla Bruni-Sarkozy che astu­tamente ha rimandato lo scontro con Mi­chelle Obama, la vedrà a Strasburgo, do­ve sarà padrona di casa; probabile crisi di inutilità di tutte le first ladies tranne Michelle Obama, assente Carlà i media si occupano solo di lei; altro tè con la regi­na, e chiunque abbia visto The Queen sa che a Buckingham Palace le first ladies vengono trattate malissimo; visite tanto caritatevoli quanto inutili a ospedali ed enti benefici, e a Londra può essere fru­strante perché c’è sempre qualcuno che decide «era stata più brava Lady D».

Ma Diana Spencer aveva studiato da principessa, e non si era neanche trovata bene. Le altre prime dame nella vita hanno fat­to altro; e al netto dell’adrenalina da ver­tice non devono divertirsi troppo. Ambe­due le mogli di Sarkozy hanno evitato il più possibile il «programma signore», finora, e ci sarà un perché. E poi: va bene, Sarah Brown aveva un’agenzia di public relations, e vede il lavoro di first lady come un proseguimento delle pierre con altri mezzi; Michelle Obama (che un ospedale lo amministrava) è comunque un’icona positiva, nera e ganzissima. Ma guardarle insieme sul portone di Downing Street travestite da spose di guerra (con completini di medio costo perché c’è la crisi; come da comunicati stampa), sentirle parlare di gravidanze e Pilates mentre a Londra succedeva di tutto era, sottotraccia, un po’ avvilente. Comunque la si pensi sulla recessione, meglio, molto meglio essere Merkel (che il marito lo ha lasciato a casa, un uomo nel programma signore fa sempre la figura del fesso, e ci sarà un perché).

Maria Laura Rodotà
02 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #138 inserito:: Aprile 07, 2009, 10:41:23 am »

«È il fallimento della nostra politica di prevenzione»

I viaggi per l’aborto in Svizzera

«Una donna su tre è italiana»

Su 682 aborti eseguiti nel 2008, più di 200 sono stati richiesti da italiane. Picco di interventi in Canton Ticino


MILANO - È italiana quasi una donna su tre, di quelle che hanno interrotto la gravidanza in Ticino lo scorso anno. A lan­ciare l’allarme sul «turismo abortivo» in Svizzera è stato Carlo Luigi Caimi, avvocato e deputato del Gran Consiglio per il Ppd (la corrente dei de­mocristiani), che giovedì scor­so ha presentato una interpel­lanza al Consiglio di Stato de­nunciando il totale fallimento della politica di prevenzione del Cantone. I dati sono stati elaborati dal­l’Ufficio statistica e dall’Ufficio del medico cantonale. Nel 2008 in Ticino sono stati fatti 682 aborti, con un incremento dell’11,25% rispetto all’anno precedente (la tendenza italia­na è -3,9%). Nel 33 per cento dei casi le donne erano residen­ti «all’estero».

Quelle che vive­vano nel nostro Paese erano 221. Ancora più nel dettaglio: 206 proprio di nazionalità ita­liana, le altre cinque straniere. Cinque anni prima, nel 2003, il «turismo» aveva interessato 78 donne. «Queste cifre ci colpiscono e non potevamo osservarle in si­lenzio. Sul fenomeno abbiamo avanzato diverse ipotesi: uno dei problemi è dato dalla Ru486, che in Italia o non c’è o se ne fa un uso molto limitato. Gioca poi a nostro vantaggio il di­scorso della privacy, ri­gorosissimo. A questo aggiungiamo l’efficien­za del sistema sanita­rio e la quasi totale mancanza di tempi di attesa». L’avvocato Ca­imi legge così le stati­stiche che ha anticipa­to nella sua interroga­zione parlamentare. La voce «pillola abortiva», dunque, è la più im­portante nella scelta di andare nel Canton Ticino. Stando alle ultime statistiche, l’interruzio­ne delle italiane è stata farma­cologica in 180 casi, chirurgica in 25, e in uno ha richiesto en­trambi i metodi. La fascia di età coinvolta va dai 25 ai 29 an­ni in misura più larga (106), poi dai 30 ai 34 (novantadue) e dai 35 ai 39 (settantotto).

Silvio Viale, il ginecologo del Sant’Anna di Torino che da anni si batte per introdurre nel nostro Paese il farmaco aborti­vo, sulla materia ha molte cose da dire. «Il fenomeno del turi­smo non è nuovo. Molte pie­montesi si spostano in Fran­cia, così come le liguri. Per la Svizzera ero rimasto fermo ai Cantoni tedeschi. Chi si muo­ve, trova comunque una rete di assistenza al suo rientro, ga­rantita magari dallo stesso me­dico che ha suggerito il viag­gio ». Chi sono queste donne? «Persone che trovano le infor­mazioni su Internet. Che prefe­riscono spendere da 400 a 600 euro oltre confine piuttosto che fare le code nei nostri con­sultori, dove c’è sempre qual­cuno che ti può riconoscere o ricordarsi di te. E poi sono don­ne che non vogliono rischiare la corsa contro il tempo dei po­chi ospedali che oggi importa­no l’Ru486. Dal momento della richiesta alla Francia, in gene­re, passano 4-5 giorni: basta un imprevisto per far saltare l’aborto con la pillola». L’argomento della discrezio­ne è quello che convince di più Basilio Tiso, direttore sanitario della clinica milanese Mangia­galli, dove negli ultimi mesi i tempi di attesa si sono allunga­ti da 7 a dodici giorni a causa dell’aumento delle richieste. Commenta: «In quei numeri ci vedo semplicemente la voglia di abortire lontano da casa, di nascosto». Ancora, nel 2009.

Elvira Serra
07 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #139 inserito:: Aprile 07, 2009, 10:36:23 pm »

Il terremoto - il reportage dal cuore della devastazione

Onna, il paese raso al suolo «Qui non ci sono più bambini»

Viaggio nei centri più colpiti. Morta anche la badessa del convento di clausura

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


ONNA (L’Aquila) — È straziante guardare la signora Tiziana mentre si inginocchia sul prato e invoca il nome delle sue figlie. Lei sa che Susanna e Benedetta non ci sono più. Ma continua a chiamarle. Appena i vigili del fuoco si avvicinano trasportando corpi senza vita, va veloce verso di loro, chiede subito di spostare il lenzuolo. Poi scuote la testa, si ritrae. Però non riesce a fermare le lacrime. Si accascia sull’erba e piange anche Anna Rita. Lei aspetta Fabio, il suo ragazzo di 21 anni che era andato a dormire dalla nonna. La accudiva, le faceva compagnia per la notte. E adesso fa impressione vedere questa donna che non vuole farsi illusioni. «Il padre l’ha visto in quel letto, non c’è speranza», sembra quasi consolare le donne del paese che la sorreggono, le stanno intorno e le accarezzano il viso stravolto da una smorfia di dolore che non può attenuarsi. È una disperazione senza conforto quella delle madri di Onna. Perché sono sopravvissute ai loro figli e adesso hanno quasi paura a sollevare quei lembi di stoffa per guardare i cadaveri e scoprire che non c’è più speranza, che mai potranno più abbracciarli, oppure soltanto sfiorarli. Quando le bare vengono chiuse e caricate sui furgoni dei vigili del fuoco loro si guardano attorno, terrorizzate per quello che d’ora in poi saranno costrette a sopportare.

Non ha più un filo di fiato la giovane donna, già fiaccata da un male incurabile, che sotto le macerie ha perso i suoi bimbi, due maschietti di 2 e 3 anni, e suo marito Antonio. Non ha più parole Pina Parisse — moglie di Giustino, il giornalista del quotidiano Il Centro — inconsolabile per la morte di Maria Paola, 15 anni, e Domenico, 17. Questo paesino con 300 abitanti è il centro della catastrofe, il luogo simbolo di una tragedia spaventosa. Perché qui si parla di 20 morti e 40 dispersi, ma i vigili del fuoco dicono che le stime riguardano soltanto le case della cinta, «invece nel centro nessuno è ancora riuscito ad arrivare e contare chi non risponde all’appello».

Le palazzine sono venute giù in pochi secondi e sono soprattutto i grandi ad essersi salvati, mentre i piccoli non hanno avuto scampo. Piccoli anche se sono come Susanna che aveva 16 anni e sua sorella Benedetta, 27 compiuti da poco. La minore viveva con la famiglia, dormiva nell’ala che si è sbriciolata. Katya, la sua amica del cuore ora piange mentre la macchina escavatrice rimuove macerie alte 10 metri. «Eravamo cinque compagne di scuola, stavamo sempre insieme. Ora sono sola», grida mentre la madre cerca di afferrarle le mani e calmarla.

I corpi vengono ammassati sul campo, spesso sono le ambulanze a portarli via. I feriti da soccorrere qui sono una decina, quando le squadre di volontari e specialisti sono arrivate poco prima delle 8, si è capito subito che ci sarebbero stati pochi superstiti da aiutare. Perché la scossa delle 3.32 è stata devastante e riuscire a mettersi in salvo era difficile, con le scale crollate, la luce saltata, il gas che fuoriusciva dai rubinetti. Dall’altra parte della strada, arroccato sulla montagna c’è il paese di San Gregorio, poco più di 200 abitanti. È raso al suolo, anche qui ci sono pochissimi sopravvissuti. Nessuno sa dire quale fosse la casa che ospitava una mamma francese con la sua bimba arrivate per trascorrere le vacanze di Pasqua e rimaste vittime del terremoto.

E invece tutti conoscono la villetta dove vivevano Massimo Calvitti e sua moglie. Lui faceva il poliziotto, era in servizio alla prefettura de L’Aquila. Sono stati i suoi colleghi a trovarlo. Quando hanno estratto dalla macerie il comodino con la pistola nel cassetto, hanno capito che per lui non c’era più nulla da fare. Hanno facce segnate dal terrore gli uomini rimasti nella piazza di Paganica. Guardano la chiesa che potrebbe crollare, i vicoli ostruiti dai detriti. Entrare con le gru e le escavatrici non è facile, bisogna aspettare i mezzi più piccoli. E provare ad arrivare al primo piano di quella casa che affaccia sul corso dove vive un gruppo di albanesi, con la bimba di 3 anni che tutti coccolavano e adesso non si sa dove sia.

Ugo De Paulis, delegato del sindaco, non riesce neanche a digitare i tasti del telefonino per avere notizie dei suoi compaesani. Ha le mani che tremano, la voce si spezza quando pensa ai morti da contare e ai vivi da sistemare perché nessuna di queste case sarà dichiarata agibile e migliaia di persone finiranno sfollate per mesi, forse per anni. La badessa del convento di clausura è tra le vittime, altri due anziani mancano all’appello. Gli abitanti di Tempera, frazione distante due chilometri, sono tutti ammassati nel parcheggio. Ci sono i piccoli da accudire e così provano a collegare le bombole del gas ai fornelli da campo per scaldare il latte, attrezzarsi per una giornata che si preannuncia lunga e difficile. A Poggio Picente i bimbi morti sarebbero tre. A Fossa è venuta giù la montagna ed è franata una delle strade di collegamento. Gli abitanti sono in fuga, il paese è spettrale nella sua desolazione. Ma è quando si torna verso Onna che la tragedia si manifesta nella sua dimensione perché soltanto il calare della notte e la grandinata convince i volontari a interrompere la ricerca dei cadaveri.

Fiorenza Sarzanini
07 aprile 2009

da CORRIERE.IT
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« Risposta #140 inserito:: Aprile 10, 2009, 09:25:06 am »

10/4/2009
 
Le donne cancellate
 
 
TAHAR BEN JELLOUN
 
Ah, se si potessero soddisfare i complessi e perversi desideri dei fanatici del mondo! Questi vogliono prendere le donne contro la loro volontà.

Quelli vietano contraccezione e preservativi. Tutti sono ossessionati dalla femminilità.

Se nel mondo le donne lottano per la loro dignità e per migliorare le loro condizioni di vita, ci sono Stati come l’Afghanistan che vanno in soccorso degli uomini proponendo una legge che obblighi la donna a soddisfare il desiderio del marito anche se è un eiaculatore precoce o ha l’alito cattivo o più semplicemente se non stimola in alcun modo la sua libido. Contro il rifiuto, la violenza.

I fondamentalisti hanno un vero problema con la donna e la sua sessualità. Vale per l’ebraismo, per il cristianesimo come per l’islam: l’integralismo trema davanti al corpo femminile, ha paura del suo sesso e reagisce con la violenza alla frustrazione o al turbamento. Tutto ruota lì attorno. Non si capisce nulla delle motivazioni degli integralisti se non si considera questa dimensione essenziale della loro psicologia e della loro esistenza.

Ciò si traduce nell’imposizione del velo, del burqa o della djellabah. La donna deve essere celata, invisibile, deve essere allontanata dagli sguardi e dalla vita. L’uomo dice: «Non toccare mia moglie, mia figlia, mia sorella, mia madre». Ovvero, detto altrimenti «Questi corpi mi appartengono e nessuno ha il diritto di avvicinarsi!». Bisogna veramente avere un cattivo rapporto con se stessi per appropriarsi il corpo degli altri. E per giustificare questa mentalità si ricorre alla religione che di per sé non dà affatto un simile diritto. Anche se tutte le religioni in genere non sono molto giuste nei confronti delle donne.

I taleban, ad esempio, immaginano un mondo dove la donna è assente. Esiste, ma è segregata in casa e non ha il diritto di uscirne. Questo non vuol dire che disprezzino il piacere sessuale, anzi, lo amano a tal punto da voler essere certi di essere i soli a gioirne. È il senso del progetto di legge presentato dal presidente Hamid Karzai. Un progetto che voleva rendere legale lo stupro compiuto sulla propria moglie e vietarle di uscire di casa senza l’autorizzazione del marito. Questo provvedimento avrebbe riguardato le donne sciite, che rappresentano il 10% della popolazione. Karzai contava su questo disegno di legge per attirarsi le simpatie e i voti degli sciiti alle prossime elezioni. Dopo le proteste di molti Stati, Karzai ha finito col ritirare il progetto, ma gli uomini continueranno a comportarsi da bruti con le donne, con o senza legge.

In ogni caso, questa ipotesi legislativa, degna dell’epoca della jahilya (il periodo preislamico quando alcuni beduini seppellivano vive le loro figlie per evitare che il loro onore un giorno potesse essere macchiato) è stupida e grottesca. Che va a fare la legge nella camera da letto di una coppia? Cosa può aggiungere all’intimità tra un uomo e una donna? Che piacere ne ricaverà l’uomo che si sentirà forte grazie a questa legge?

Un piacere dettato dalla norma e una violenza legittimata da un diritto che ha un senso dell’equità e della realtà ben singolare. In Afghanistan ci sono donne che si battono, che si organizzano e sono aiutate dalle femministe di diversi Paesi. Ma che un uomo come Hamid Karzai abbia potuto mettere la propria firma su questo progetto di legge la dice lunga sulla fame di potere, sull’ambizione divorante che lo possiede. Con che faccia può presentarsi agli occidentali che frequenta avendo aperto la porta allo stupro legale nel matrimonio? Vorrebbe forse che i taleban lo considerassero vicino a loro? Ma i taleban vogliono di più. Non si accontentano di una legge sulla pratica sessuale. Vorrebbero spadroneggiare su tutta la società e introdurvi una barbarie che va al di là dell’immaginabile. Dunque Karzai ha fatto un passo falso e ha sbagliato i suoi calcoli. E quindi ha fatto marcia indietro. Per ora, almeno.

Una donna che prova piacere è una «porca», è pari a una prostituta (tranne il fatto che le poverette che fanno sesso per mestiere non ne godono affatto, è un lavoro, una fatica necessaria per guadagnarsi da vivere). Sarebbe interessante far leggere agli uomini che parlano di questo godimento qualcuna tra le testimonianze di queste donne che raccontano la loro vita sessuale. Ma non arriveremo a tanto.

L’importante è far sentire la propria voce contro questa iniziativa afghana che non farebbe altro se non aggravare la situazione nel Paese e potrebbe favorire il ritorno sulla scena politica dei taleban. Perché quel che è in gioco in questa regione martoriata da troppe guerre è una scelta di società e anche di epoca.

Sfortunatamente io sono pessimista: gli eserciti occidentali non riusciranno a eliminare il pericolo talebano. Il terreno è difficile, i metodi asimmetrici e la popolazione divisa. Solo gli afghani medesimi potranno farla finita con i taleban. Ma fino a che questa guerra è legata al traffico di oppio, fino a che il guadagno facile è a portata di mano, la lotta sarà dura e impari.

Nel film dell’afghano Siddiq Barmak Opium War (2008) si vede una lunga fila di donne coperte dal burqa avanzare all’orizzonte dirette verso un campo di papaveri da oppio. Quando arrivano al campo sollevano il velo e si scopre che sono taleban armati venuti a prendere la loro parte sull’incasso della vendita di droga. I contadini pagano per non essere uccisi. Questa immagine riassume la situazione: la guerra in Afghanistan ruota attorno all’oppio e alle donne. Bisogna controllarli entrambi, pena la fine di una tragedia innescata dalla barbarie nel nome di un islam totalmente estraneo a queste pratiche.

© Le Monde
 
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« Risposta #141 inserito:: Aprile 12, 2009, 11:04:16 am »

REGISTI TRA LE MACERIE

Il racconto di Francesca Comencini

Viaggio in una frazione dell'Aquila completamente rasa al suolo

Le ragazze di San Gregorio "Ricostruiremo il nostro paese"


di FRANCESCA COMENCINI


ARRIVO nella conca dell'Aquila di notte e ho paura. Mi accosto con l'auto a un piccolo gruppo di persone per chiedere come arrivare a San Gregorio, dove mi aspetta Chiara, una ragazza del paese che desidera parlarmi. Al rumore della macchina le persone sussultano, terrorizzate, poi si scusano e ridono, nervose. "Abbiamo paura di tutto".

Alla tendopoli di San Gregorio la notte fa freddo. Ci si muove alla luce della torce. Chiara somiglia al suo nome, ha un incarnato pallido e sottili capelli biondo rame. È esile, nervosa, sorridente, euforica. Fuma una sigaretta dopo l'altra. Ha ventinove anni, è stata eletta rappresentante del paese, che vuol dire sindaco. San Gregorio non è un comune a sé ma l'ultima frazione dell'Aquila. È stato completamente raso al suolo, ci sono state dieci vittime. Chiara vuole parlare del suo paese, vuole farlo insieme alle sue amiche.

Mentre camminiamo per arrivare alla roulotte dove dobbiamo incontrarci con le altre le chiedo se la notte riesce a dormire, e mi dice, a mezza bocca, di no, che ha paura di un'altra scossa, più forte, che squarci la terra. Ma lo dice a denti stretti. La paura e il disagio non vanno nominati, si deve avere forza, e lei, come le altre, mostra euforia, ride spesso. Sono in piedi le donne di San Gregorio, vogliono farlo sapere.

Ci sediamo intorno ad un tavolo di plastica vicino alla roulotte della signora Gloria, ci raggiungono le altre, si forma un gruppo, sempre più numeroso, tutto al femminile. Solo dopo, silenziosi, arrivano anche i fratelli, i fidanzati, i padri, ma rimangono in disparte, sono più timidi. Sul tavolo spuntano bottiglie di liquore di genziana fatto in casa, salvato da una cantina. Sarebbe vietato farlo, la pianta è protetta, ma loro lo fanno ancora, perché così facevano i loro nonni.

Posano sul tavolo pezzi di scottex a mo' di tovaglietta e vi tagliano la pizza pasquale, fatta nel forno a legna. "Iniziamo a prepararla quindici giorni prima della Pasqua, per questo era già pronta prima del terremoto", spiega Marianna, giovane laureata in geologia che di mestiere qui a San Gregorio fa la commessa. "Mio padre è andata a riprenderla in casa, la pizza di Pasqua, anche se è pericoloso".

Iniziano a parlare del legame con il loro paese, e mai, in vita mia, mi pare di aver capito così bene come il perimetro di un luogo, le proporzioni di una piazza, la facciata di una chiesa, la prospettiva di una montagna vista dalla cornice di una finestra siano necessarie all'anima, come la bellezza semplice e umile, possa avere un ruolo così primario, come il cibo, come un tetto sulla testa, nel definire la geografia interiore delle persone.

Sono ragazze giovani, non sono nostalgiche. Ma rivogliono il loro paese, disperatamente. Non vogliono nuove città, lo dicono e lo ripetono, rivogliono San Gregorio, non così com'era, è ovvio, ma con la sua anima salvata, custodita e riconosciuta. Lorella, un'altra ragazza laureata in Storia dell'arte e che di mestiere fa la cameriera, dice che ha fatto la sua tesi su un manoscritto antico ritrovato a Paganica. Tutto riporta alle radici, sempre. Michela, che vive a Milano, è tornata qui il giorno seguente il terremoto, e ora vive nella tendopoli, con le altre. Si conoscono da quando sono nate, e stanno insieme ogni minuto, non riescono a separarsi mai, da quella notte tremenda.

La notte è sempre più gelida, ma le lingue si sciolgono, i racconti si fanno più allegri. La tendopoli è stata montata nel luogo dove ogni anno in agosto si svolge la sagra del paese. Anche allora, come adesso, si mangia tutti insieme intorno a grandi tavoli, seduti sulle panche, e una vecchina dopo due giorni di tendopoli ha chiesto: "Ma quando finisce 'sta festa?".

Ridono, mostrano un'allegria nervosa, e quando spuntano le lacrime, non si mostrano. Parlano del nipote di una di loro che ha due mesi e verrà battezzato nella tendopoli. Poi di un'altra nipote, rimasta sotto le macerie. Parlano dei vivi e dei morti, uguali, insieme. Mi chiedono di aiutarle a far adottare San Gregorio, di parlarne, e lo faccio, ora, come posso, come so.

Mi dicono che nel pomeriggio sono state messe in salvo le campane della chiesa, completamente crollata. La signora Lola, mamma di Marianna, mi racconta che è stato suo nonno, tornato dall'America dove era emigrato, a pagarne una, rinunciando a comprare i vestiti e le scarpe per i suoi otto figli. L'ha battezzata Concetta, perché qui ogni campana ha un nome.

L'indomani le vedo, le due campane messe in salvo, adagiate con delicatezza dai pompieri sul suolo di questa piazza dove non ci sono che ammassi di pietre. Sembrano due neonate stese in una culla, tenere e fragili. Nel paese solo macerie, polvere nell'aria. Lo starnazzare impazzito di una gallina, l'abbaiare di un cane, il cinguettio assordante degli uccellini, riempiono un silenzio che rendono ancora più immenso. È qui che le ragazze vogliono essere filmate, qui vogliono parlare di loro, di San Gregorio, della loro forza e del loro attaccamento indomito a questo luogo.

Chiedo come mai gli uomini siano così silenziosi, forse sono intimiditi da una regista donna, azzardo, o forse sono più schivi, forse San Gregorio è un paese di donne forti. Chiara dice che non lo sa, ma sorride e mi fa l'occhiolino, sussurrando, fiera: "Chissà come mai sono stata eletta io rappresentante del paese". Le loro voci di donne riempiono questa piazza distrutta, i loro sorrisi ricuciono le pietre, i loro piedi tengono insieme la terra che continua a tremare.

Io le ascolto e le filmo meglio che posso, ammiro il loro struggente amore per questa terra, così privo di nostalgia, così attuale, complesso e intelligente. Mi fanno pensare all'Arturo de "L'isola di Arturo" di Elsa Morante quando parla della sua isola e ripenso all'incipit del libro: "Quello che tu credevi un piccolo punto della terra,/ fu tutto. /E non sarà mai rubato quest'unico tesoro /ai tuoi occhi gelosi dormienti.../ Stella sospesa nel cielo boreale / Eterna: non la tocca nessuna insidia".

San Gregorio, Onna, Paganica, L'Aquila, stelle sospese tra un cielo boreale e un suolo di rocce cattive, piccoli punti sulla terra che oggi per noi sono tutto, che si sparga ovunque il coraggio delle vostre donne, e che vi benedica il loro amore.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #142 inserito:: Aprile 12, 2009, 03:52:47 pm »

Sitara Achikzai è stata avvicinata da due killer che hanno fatto fuoco, mentre tornava a piedi dal lavoro a Kandahar

Uccisa parlamentare in Afghanistan attivista per i diritti delle donne

 

KANDAHAR - E' stata uccisa da due uomini armati una donna impegnata nella difesa dei diritti femminili, eletta parlamentare provinciale a Kandhar, nel sud dell'Afghanistan. Lo ha riferito il capo del Consiglio provinciale e fratello del premier, Ahmad Wali Karzai. Sitara Achikzai stava tornando a piedi del lavoro quando i due killer l'hanno avvicinata a bordo di una moto e hanno aperto il fuoco.

Achikzai era nota per la sua lotta in favore delle donne. Negli ultimi giorni è tornata a infuriare in Afghanistan la polemica sui diritti femminili, dopo l'approvazione da parte del parlamento nazionale di una legge, fortemente voluta dagli ambienti religiosi, in cui si stabilisce la subordinazione della moglie al marito e in pratica se ne autorizza lo stupro. Karzai su pressione degli occidentali ha promesso di rivedere il testo ma ieri un eminente esponente religioso è tornato sull'argomento affermando che ogni ripensamento sarebbe inaccettabile oltre che anticostituzionale.

Oggi l'Afghanistan è stato squassato dalla violenza: 22 talebani sono morti in scontri con l'esercito afgano e le forze della missione internazionale. Sempre nel sud, a Helmand, un kamikaze è stato ucciso mentre cercava di entrare in una stazione di polizia; l'esplosivo è scoppiato quando gli agenti gli hanno sparato.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #143 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:00:09 pm »

A proposito di femminismo

di Serena Palieri

Quando muore un essere umano, finisce un tempo: il «suo» tempo. Quando una donna, Roberta Tatafiore, che è stata protagonista di un tempo collettivo - il femminismo - decide liberamente che il suo tempo è finito, è facile che si sentenzi che anche quel tempo collettivo, quella cultura - il femminismo - è suicida. Eccoci qui, il giorno dopo l’addio a Roberta Tatafiore, con Alessandra Bocchetti, figura grande del neofemminismo italiano - dei suoi tanti scritti ricordiamone qui almeno uno, quello magistrale e incandescente sulla guerra datato 1984 - a passare al setaccio un quarantennio di storia. Di storia «matria»: storia, cioè, e cronaca, e quotidianità delle donne italiane. Per capire cosa del femminismo - per esempio di quelle parole che oggi a molti e molte sembrano archeologia, come «autocoscienza» - sia vivo e cosa sia morto.
Per cominciare, del femminismo italiano, stabiliamo una data di nascita: «1970, "Sputiamo su Hegel"> di Carla Lonzi. Il femminismo, come avviene per i movimenti, è risultato dalla somma di tanti rivoli che si univano. Ma se devo trovare una data è quella dell’uscita di questo libro. E del passaggio fondamentale dal concetto di emancipazione a quello di differenza. Altro passaggio, dalla ricerca di libertà in senso generico alla liberazione. Per cambiare bisognava cambiare noi stesse. Da qui la domanda “che cosa è una donna?”. Sembrava una domanda assurda da rivolgerci, invece è stata fondamentale» risponde.
Classe 1942, da sempre a sinistra, da ragazzina militante nella Fgci romana, laureata in Lettere, lei, ricorda, femminista lo è diventata in un certo senso tardi, appunto quando la parola d’ordine è diventata «differenza». «Perché» dice Alessandra Bocchetti «il pensiero dell’uguaglianza mi sembrava misero. Mi sembrava umiliante andare dietro gli uomini, ripetere i loro passi. Pensavo che bisognasse cercare una strada originale e guadagnarla attraverso il nostro pensiero».

Se scriviamo «neofemminismo» - chiariamolo per le più giovani - è perché si considera che quello degli anni Settanta sia una riapparizione carsica - e una fase inedita - d’un movimento delle donne che ha percorso l’intero Novecento: di femminismo si parlava già a fine Ottocento. Ma, appunto, la svolta è il passaggio da una lotta emancipazionista, per l’uguaglianza e la parità, a quest’altra. Oggi, guardando indietro, è possibile individuare, dal 1970 in poi, delle fasi del neofemminismo: infanzia, adolescenza, maturità, senescenza? «No, perché la fase della differenza è appena cominciata. Nella struttura della società c’è uno scarsissimo segno della presenza femminile. Facciamo un esempio concreto: il ministro Brunetta polemizza con le impiegate statali che fanno la spesa durante l’orario di lavoro, e non ci si rende conto che è l’organizzazione sociale stessa a obbligare a questa trasgressione. Se la presenza delle donne fosse registrata, i negozi sarebbero aperti il sabato e la domenica. Molte donne hanno studiato la questione dei tempi e degli orari, ma la traduzione è mancata».

Nei primi anni Novanta le donne del Pds elaborarono in effetti una «legge sui tempi» ambiziosa, una specie di «programma fondamentale» come si diceva ancora all’epoca col residuo linguaggio del Pci. Ecco, il rapporto con la politica maschile può farci leggere delle fasi del movimento femminista? Pensiamo alla fragorosa rottura con Lotta Continua nel 1975, pensiamo subito dopo alla legge sull’aborto. «Sull’aborto successe questo: che ci alleammo con l’Udi, l’Unione Donne Italiane, questa grandissima e articolata associazione, legata soprattutto al Pci, ma anche al Psi. L’Udi pose un aut-aut e, obtorto collo, il Pci abbracciò la lotta. Anni dopo, per tramite della figura della responsabile femminile Livia Turco, ci fu l’avvicinamento del Pci al femminismo, nacque la “Carta delle donne” ed ebbe un successo grandissimo. Le elezioni successive, nel 1986, furono quelle in cui la sinistra mandò più elette in Parlamento. Ma poi con amarezza, con amarezza personale mia, ci accorgemmo che l’interesse del partito per il movimento era puramente strumentale. Non ne seguì nulla. Ancora adesso continua a non seguirne nulla. La sinistra, alle donne, la parola l’ha tolta, non gliel’ha data. Il tema della libertà delle donne, classico della sinistra, è il più disatteso in assoluto, il più deluso».

Ci si può chiedere se si può ottenere qualcosa quando un movimento - di massa, forte - non esiste più. Secondo Alessandra Bocchetti quand’è che quello delle donne ha dato l’ultimo segnale di vita? «L’ultima volta che siamo state tante, tantissime, è stato a giugno del 1995, quando scendemmo in piazza col documento “La prima parola e l’ultima”. Perchè c’erano le elezioni politiche e ci eravamo accorte che la sinistra cominciava a contrattare la sua andata al governo, cedendo le conquiste delle donne. Vedi, l’aborto. Cominciava insomma quel tragico dialogo che le avrebbe fatto perdere la sua identità. Per tre mesi quel documento nostro tenne banco e condizionò l’agenda politica».

Tre anni fa, di nuovo in difesa dell’autodeterminazione in tema di procreazione e aborto, ci fu una nuova, brevissima fiammata: l’autoconvocazione sotto l’insegna «Usciamo dal silenzio». Ma, appunto, un seguito non s’è visto. Il movimento si è inabissato? Alessandra Bocchetti legge, nella nostra scelta del termine, un giudizio palese. Replica: «No, non si è inabissato. Il movimento è - di per sé - una scarica di energia che lascia sul campo delle idee. Che, poi, devono essere portate avanti nella società. E questo semmai è mancato in Italia. Strano, perché il nostro era un femminismo fortissimo. Però molto rivolto a se stesso, molto nel segno di una profonda ricerca di sé. La vulgata dice che il femminismo era la lotta delle donne contro gli uomini. Niente di più falso. Era una ricerca del pensiero di sé, la nascita di un soggetto. Certo, poi saltavano i matrimoni. Ma per effetto indiretto. Il fine non era quello. Il femminismo italiano degli uomini proprio non si è occupato. Ecco, oggi il femminismo forse non c’è più, ma ci sono le femministe». Quarant’anni dopo sul terreno sono di più le macerie o le speranze? «La conquista fondamentale che è avvenuta è questa: tutte le donne oggi, del Nord e del Sud, casalinghe o superlaureate, pensano di avere diritto alla ricerca della propria felicità. Quest’idea le nostre madri non ce l’avevano data: mia madre mi parlava di dovere, di bontà. La parola ”felicità” non l’usava mai. Che cosa vuole una donna, appunto? Ma è contro quest’idea che assistiamo a una tremenda controriforma. Io non me la sento di dire che le donne oggi sono felici. La società vive un momento durissimo, tremendo, di infelicità grande. Tra il diritto di ricerca della propria felicità e l’essere felici, c’è ancora un mare. Però è questa l’idea che alla lunga rovescia il mondo».

16 aprile 2009
da unita.it
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« Risposta #144 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:01:02 pm »

Educhiamo i bambini a essere liberi (anche dalla pubblicità)

di Malcom Pagani


Un aereo in partenza per gli Stati Uniti, il computer sempre acceso, un’intervista epistolare fatta di parole precise.
Strano tipo di rivoluzionario, il fiorentino Paolo Landi. Creativo al centro della piramide Benetton, laurea con Mario Luzi, Landi è tra i più lucidi critici dei meccanismi pubblicitari. Nella guerra combattuta sotto il sole nero della competitività, Landi propone una terza via. Tra industrie e marchi concorrenti, c’è un filo di umanità che tenta di preservare. È quello delle intelligenze ingrassate davanti al filtro dell’esperienza virtuale, dei bambini trasformati in obbiettivi di mercato, lo stesso che faceva di ciò che eravamo, un’irripetibile esperienza di scoperta.

Accadeva quando della televisione non sapevamo nulla. Quella di Landi da anni è in soffitta. Ne La pubblicità non è una cosa per bambini, (La scuola), il professore del Politecnico di Milano traccia un ritratto senza sconti. Le soluzioni semplici, quando il contesto è disgregato, latitano.
Nella scuola steineriana di suo figlio, la tv è bandita...
«Una madre mi ha raccontato che non manda il figlio al parco per paura di pedofili e drogati. Preferisce il centro commerciale. Mi pare sia urgente domandarsi che tipo di bambini stiamo crescendo, che direzione stiamo dando al loro futuro. Più che all’omologazione, qui bisogna attrezzarsi per sfuggire all’idiozia che ci assedia».

Fin dagli anni ’50 i bambini sono stati considerati come essenziale veicolo di messaggi pubblicitari. Vere e proprie aree da fertilizzare con nuovi prodotti, per vedere a quali mutazioni potessero giungere.
«L’inquinamento delle coscienze non tiene conto della psicologia umana che reagisce ad ogni eccesso con azioni uguali e contrarie. I consumatori cominciano a non poterne più di donne nude e bambini usati per vendere l’automobile al papà. Siamo ormai perfettamente alfabetizzati alla lingua del consumo. La pubblicità che pretende di indicare nuovi comportamenti, è in ritardo sull’evoluzione della società».

Consumare è l’imperativo sul quale si basa la nostra società. Fin da bambini si assorbe una sola regola: «Chi perde è perduto». Che impatto ha avuto e continua ad avere una simile condizione d’ingaggio?
«La competitività mi pare una nuova religione fondamentalista. E il paradosso è che, ad emergere, alla fine, sono quelli che non ne hanno mai fatto il loro dogma. In un mondo dove tutti sembrano essere quello che consumano, vincerà chi punterà su se stesso invece che sulla sua immagine. E le intelligenze, anche quelle timide, se sono vere si rivelano. Sono quelle allenate alla competizione sterile a mostrare la corda, la frustrazione, la stanchezza. Certi “vincenti” sembrano prigionieri di un ruolo e mostrano tutta la loro malinconica fragilità».

La pubblicità si camuffa. I territori si allargano. I confini si dilatano. C’è una guerra. Quale rivoluzione possibile, per salvare generazioni condannate in partenza?
«C’è un’infanzia che deve essere lasciata stare, bambini che devono restare tali fino a 14 anni e adulti che possono misurarsi col denaro e il consumo. Nel migliore dei mondi, i bambini restano bambini e gli adulti si comportano da adulti. Nella sfera dei bisogni indotti, resiste uno spazio di azione intelligente che non relega i consumatori nel ruolo di greggi pilotate. La rivoluzione è una cosa semplice, basta dare ad ogni cosa il suo tempo».

Da Carosello alle televendite, in tv è passata la nostra storia recente...
«È solo una fetta molto piccola di umanità, a meno che non si voglia ricondurre tutto alla fenomenologia di Mike Bongiorno. Berlusconi ci ha ricordato che se 15 milioni di italiani vedono Sanremo, ce ne sono altri 45 che non lo guardano. Fuori dalla tv c’è un mondo da scoprire. In futuro l’offerta sarà talmente ampia che perderà la centralità che sembra avere oggi».

La discrepanza tra desideri e mezzi, in una società che ha elevato l’iperconsumo a religione unica, produce infelicità. È parodistico disegnare un futuro fatto di depressione generalizzata?
«Credo si avvicini alla realtà. Il paradosso della società iperconsumista è che sono i poveri a cedere di più alle lusinghe del consumo. Faticano a pagare la bolletta ma non rinunciano a Sky. Sono preda dell’orrore del vuoto e tendono a riempirlo di merci. Una produzione di frustrazione e infelicità».

Lei sintetizza lo sviluppo economico del futuro secondo tre direttrici: responsabilità, sostenibilità, solidarietà. Cercare una politica che riduca la pressione al consumo rappresenta l’ultima scialuppa?
«Sarebbe un importante primo passo. Per ridare forza al circolo virtuoso della domanda e dell’offerta, bisogna tornare a dare valore alle cose. Troppa pubblicità non comunica nulla. La bulimia di merci provoca il rigetto».

La deriva culturale molto deve all’approccio consumistico. «Se si aspira al sapere - suggerisce - bisogna liberarlo dagli scaffali del supermercato». Non teme le diano dello snob?
«Niente snobismi ma, soprattutto, niente retorica. Anche il sapere, come l’infanzia, se diventa merce perde il suo valore».


24 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #145 inserito:: Aprile 27, 2009, 11:46:04 pm »

Duro attacco di FareFuturo dopo le candidature volute dal Cavaliere

"Le donne non sono gingilli da usare come specchietti per allodole"

"Basta veline in politica"

L'altolà della fondazione di Fini

Il presidente della Camera non sconfessa ma frena: "Comprensibile, ma eccessivo"

di MATTEO TONELLI

 
ROMA - I distinguo tra Fini e il Cavaliere non sono una novità. Ma stavolta l'affondo di FareFuturo, fondazione animata dal presidente della Camera, punta su donne e televisione. Ovvero due dei punti nevralgici della visione del mondo berlusconiana. "Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi, le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse". Parole come pietre, firmate da Sofia Ventura sul magazine della fondazione. Al punto che, alcune ore più tardi, lo stesso Gianfranco Fini deve puntualizzare definendo "copmprensibili, ma eccessive e non totalmente condivisibili" le opionioni della Ventura.

Da tempo, la ricerca dello smarcamento dal premier è strategia quotidiana del presidente della Camera. E, come in passato, Farefuturo è lo strumento per mandare precisi segnali. Ora è il turno del personalissimo modo con cui il premier utilizza le donne in politica, le procedure di scelta e il retroterra da cui provengono. Veline, velinismo e simili, insomma.

Una scelta rilanciata con forza dal premier per l'ultima infornata di candidature del Pdl per le Europee. Nell'ordine ci sono Barbara Matera, già "letteronza", Angela Sozio, ex del Grande Fratello, Camilla Ferranti, reduce da Incantesimo, Eleonora Gaggioli, direttamente dai set di Don Matteo ed Elisa di Rivombrosa. "Volti nuovi e freschi" nelle intenzioni del Cavaliere. Destinati a rappresentare l'Italia in Europa. In quel Parlamento europeo che con le ribalte televisive ha poco da spartire. O almeno dovrebbe.

Il giudizio di Farefuturo è duro. Si parla di "una pratica di cooptazione di giovani signore con un background che difficilmente può giustificare la loro presenza in un'assemblea elettiva come la Camera dei deputati o anche in ruoli di maggiore responsabilità".

E che nessuno parli di ricerca di volti nuovi, di nuove pratiche di selezione. Di rottura con le liturgie partitiche. "Qui assistiamo ad una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto a che fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento - continua Farefuturo -. Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con estrema disinvoltura, denota uno scarso rispetto da un lato per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro, dall'altro per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima".

Nessuna valorizzazione, insomma, semmai un uso spregiudicato del "corpo delle donne" che ottiene l'effetto opposto. A fronte di numeri che fotografano una presenza femminile in politica ancorata a livelli minimi, infatti, la risposta del Cavaliere è un "velinismo" che "rilancia uno stereotipo femminile mortificante, accuratamente coltivato dalla nostra televisione (che è, a questo proposito, un unicum nel contesto europeo-occidentale) e drammaticamente diseducativo per le nuove generazioni".

(27 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #146 inserito:: Aprile 29, 2009, 12:12:41 am »

«Potere senza ritegno offende le donne»

Veronica Lario: «L'uso delle donne per le Europee? Ciarpame senza pudore»

La moglie del premier: «Voglio che sia chiaro che io e i miei figli siamo vittime e non complici»



ROMA - «Ciarpame senza pudore». Così, Veronica Lario definisce, in una dichiarazione all'Ansa, l'uso delle candidature delle donne che a suo avviso si sta facendo per le elezioni europee. La signora Berlusconi ha deciso di mettere per iscritto in una mail - in risposta ad alcune domande sul dibattito aperto dall'articolo pubblicato lunedì dalla Fondazione Farefuturo - il suo stato d'animo di fronte a ciò che hanno scritto martedì i giornali sulle possibili candidate del Pdl alle europee. «Voglio che sia chiaro - spiega - che io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione. Dobbiamo subirla e ci fa soffrire».

LA DONNA IN POLITICA - Alla domanda su cosa pensa del ruolo delle donne in politica, alla luce delle polemiche di queste ore, Veronica Lario risponde che «per fortuna è da tempo che c'è un futuro al femminile sia nell'imprenditoria che nella politica e questa è una realtà globale. C'è stata la Thatcher e oggi abbiamo la Merkel, giusto per citare alcune donne, per potere dire che esiste una carriera politica al femminile». «In Italia - aggiunge la moglie del presidente del Consiglio - la storia va da Nilde Jotti e prosegue con la Prestigiacomo. Le donne oggi sono e possono essere più belle; e che ci siano belle donne anche nella politica non è un merito nè un demerito. Ma quello che emerge oggi attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, e che è ancora più grave, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte e questo va contro le donne in genere e soprattutto contro quelle che sono state sempre in prima linea e che ancora lo sono a tutela dei loro diritti».

DIVERTIMENTO DELL'IMPERATORE - «Qualcuno - osserva Veronica Lario - ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell'imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere». La signora Berlusconi prende anche l'iniziativa di parlare della notizia, pubblicata martedì da la Repubblica, secondo cui il premier sarebbe stato domenica notte in una discoteca di Napoli a una festa di compleanno d'una ragazza di 18 anni: «Che cosa ne penso? La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perchè non è mai venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo stato invitato».


28 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #147 inserito:: Aprile 29, 2009, 11:26:00 pm »

I figli, i gossip. Così è nata l'ultima rottura in famiglia

Le candidature delle veline e la festa della diciottenne a Napoli le nuove micce

Lo strappo politico della first lady "Mio marito come Napoleone"

di DARIO CRESTO-DINA

 
UNO sfregio familiare. La risposta è un attacco politico. Come due anni fa, quando, dopo i complimenti di Berlusconi alla Carfagna ("Se non fossi sposato, ti sposerei"), Veronica scrisse a Repubblica spiegando che lei non voleva essere la metà di niente.

Anche questa volta le sue parole all'Ansa sembrano concordate con i figli, soprattutto là dove, commentando la partecipazione del presidente del Consiglio alla festa di compleanno di una ragazza napoletana, Veronica Lario manifesta uno stupore che è una stilettata: "Che cosa ne penso? La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perché non è mai venuto a nessun diciottesimo compleanno dei suoi figli pur essendo stato invitato".

Non pronuncia le parole "mio marito". Mai. Una scelta precisa dietro alla quale c'è una nuova rottura. Una bufera davvero inattesa. "Mi spiace che Veltroni si sia dimesso. Mi sembra che il centrosinistra non ci sia più", mi aveva detto un mese fa a Macherio Veronica Lario. Poi aveva aggiunto: "Mio marito insegue lo spirito di Napoleone, non quello del dittatore. Il vero pericolo è che in questo paese la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica come temo stia succedendo". Voleva dire che il Cavaliere stava correndo su una strada senza ostacoli. Senza opposizione. Che il suo obiettivo era il Quirinale. Scherzando le avevo fatto notare che la paura più grande del premier poteva essere ancora lei. Lei e l'effetto Veronica. "Le cose vanno un po' meglio - aveva risposto - Io faccio soltanto la nonna, seguo Alessandro, il bimbo di Barbara e devo riconoscere che anche mio marito si è innamorato di lui. Trascorre ore a farlo giocare, spesso anche da solo".

Aveva ribadito che le voci di divorzio erano infondate, ripetendo ciò che aveva spiegato un anno prima: "Potrei dire che ci sto pensando da dieci anni e che sono lenta a prendere le decisioni. Non avere compiuto questo passo ha dato risultati molto positivi per i miei figli. Ora sono serena, non ho pensieri di questo tipo. Voglio stare fuori da tutto e non fare nessun tipo di dichiarazioni". Aveva preferito parlare della crisi, dei contrasti tra Tremonti e Draghi sugli interventi anti-recessione ("Chi sbaglia dovrà dimettersi, credo"), dell'azione del governo che non la convinceva fino in fondo. Delle polemiche sul testamento biologico: "La tecnica oggi ci impone dubbi più grandi di noi". Della lotta di Beppino Englaro: "È stato linciato. Non doveva essere permessa una cosa del genere".

Insomma, era serena. Fino a ieri sera. A farla scattare sono state le critiche sulle liste elettorali del centrodestra per le europee avanzate dalla Fondazione "Fare futuro" e l'articolo di questo giornale sulla notte napoletana del premier. Veronica è scesa in campo, trasferendo la dignità sua e dei suoi figli dentro il teatro della politica. Come in quel giorno di fine gennaio di due anni fa. Quarantotto righe che fecero il giro del mondo: "Con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili".

Una festa, una donna. Mara Carfagna. Veronica Lario continuava così: "Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l'età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito e all'uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente". E ancora: "Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sue dimensione extra familiare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli.

Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l'esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un'importanza particolarmente pregnante, almeno quanto l'esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro".

(29 aprile 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #148 inserito:: Aprile 30, 2009, 10:14:57 am »

La first lady «Sono una donna oramai abituata alla solitudine»

Veronica, tormento e affondo «Prima o poi penserò a me»

Lo sfogo: lotto per i ragazzi. La «sorpresa» di Marina e Piersilvio
 

MILANO - È l’ora, in parti­colare, ad aver stupito tutti: le 22 e 38. Chi la conosce bene, sa che i colpi di testa non appartengo­no a Veronica Lario. E invece, quel comunicato inviato all’An­sa a tarda sera, dimostrerebbe l’esatto contrario. Ecco perché molti si sono chiesti che cosa possa aver scate­nato l’irritazione improvvisa del­la moglie del presidente del Con­siglio. Arrivati a questa fase del­la vicenda, sono rimasti in pochi a credere al movente della gelo­sia. Al di là delle foto ufficiali e dei servizi posati e concordati— come quello a Portofino con tut­ta la famiglia allargata — per i Berlusconi il Mulino Bianco sem­bra essere un’idea oramai sbiadi­ta. D’altronde, da anni Veronica Lario coltiva con passione la sua immagine di donna forte, anti­conformista e intellettualmente indipendente, anche rispetto al marito. Basta ricordare le sue di­chiarazioni su alcune vicende pubbliche, come la fecondazio­ne assistita o il caso Englaro. E per questo appare difficile imma­ginare che possa ancora ingelo­sirsi per le boutade o le iniziati­ve folcloristiche di Silvio Berlu­sconi. Lei stessa nella sua lettera pubblica del 31 gennaio 2007 scriveva: «Nel corso del rappor­to con mio marito ho scelto di non lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i suoi comportamenti ne hanno creato i presupposti».

Allora la lite fu composta con le pubbliche scu­se del consorte, che misero a ta­cere anche le insistenti voci di di­vorzio. Poi arrivò la «trasforma­zione » di Veronica: capelli mossi e non più lisci, abiti colorati neo-folk, l’adorato nipotino Ales­sandro, il figlio di Barbara, esibi­to con orgoglio. E spesso accan­to, per un improvviso restyling familiare, Silvio Berlusconi. Tutto inutile. La tregua appa­rente è stata rotta l’altro ieri da quel comunicato carico d’ira e d’indignazione. E nulla esclude che Veronica possa rendere an­cora più esplicito il conflitto e abbandonare le convenienze. Sa­rebbe nel suo stile. A infastidir­la, stavolta, l’improvvisata di Berlusconi a Napoli, alla festa di 18 anni di Noemi Letizia. In un momento delicato in cui forse lei avrebbe preferito che il mari­to rimanesse a casa, magari ac­canto alla figlia Barbara, al setti­mo mese di gravidanza, in atte­sa del secondo bambino. Ma in­tanto chi conosce bene i Berlu­sconi sa che vivono da anni in case diverse: Veronica a Mache­rio, Silvio ad Arcore. Difficili da credere, dunque, le frequenti battute del premier su episodi di quotidianità familiare.

Alle amiche più care, poche e selezionate, la riservatissima Ve­ronica avrebbe più volte confida­to la sua solitudine: «Abbiamo esistenze separate. Io sono una donna oramai abituata alla soli­tudine. Ma per fortuna mi onora e mi rafforza il mio ruolo di mamma e di nonna. È per i miei figli che vivo. E combatto. A me? Ci penserò solo quando tutto sa­rà a posto». Una frase sibillina. Che però, chi la conosce bene, interpreta nell’ottica della grande questio­ne, tuttora irrisolta, della sparti­zione ereditaria. Aspetto che sa­rebbe pesantemente dietro la sua esternazione di martedì se­ra. Il futuro manageriale e patri­moniale dei suoi tre figli — Bar­bara, Eleonora e Luigi — sta par­ticolarmente a cuore a Veronica Lario. Che spesso avrebbe mani­festato i suoi timori di vederli pe­nalizzati rispetto a Marina e Pier­silvio, nati dal primo matrimo­nio del Cavaliere con Carla Elvi­ra Dall’Oglio. È la Fininvest, la «cassaforte» di famiglia, ad esse­re al centro della contesa. C’è poi da definire l’eredità patrimonia­le di Berlusconi. Nel 2006 è stato assegnato a ognuno dei tre figli avuti da Veronica Lario il 7,6 per cento di Fininvest. Ma c’è anco­ra da fare. Sia per quanto riguar­da il 63 per cento del gruppo an­cora in mano al Cavaliere, sia per stabilire chi comanderà dav­vero domani. Ciò nonostante, se­condo indiscrezioni, Marina e Piersilvio ieri avrebbero accolto con sorpresa la dichiarazione al­l’Ansa di Veronica.

Infine, un’altra questione di fondo riguarderebbe l’esito di un’eventuale separazione. Di qui quel «poi penserò a me», spesso ripetuto alle amiche. Si dice in­fatti che la sua lettera pubblica del gennaio 2007 avrebbe dato il via a una sorta di «lodo» (smenti­to dall’avvocato del premier, Nic­colò Ghedini) che prevedereb­be, in caso di separazione, una diversa e più cospicua sistema­zione patrimoniale per Veronica Lario. Fin qui le ipotesi. Resta il ge­sto di grande rottura scelto dalla signora Berlusconi.
Rispetto al quale sono arrivati, naturalmen­te, apprezzamenti da sinistra. Ad esempio quello di Giovanna Me­landri. Ma il «popolo» azzurro ha gradito davvero poco.
Ieri, in­fatti, il sito del Pdl è stato bom­bardato con email d’ira e di pro­testa. Il bersaglio, si capisce, era lei, Veronica. Il capo d’imputazio­ne: ha danneggiato l’immagine del premier. E così c’è chi, come Andrea, scrive: «Caro Presiden­te, dica a sua moglie di compor­tarsi da vera first lady e di accom­pagnarLa nei suoi viaggi istitu­zionali come fanno le altre. Altro che comunicati indignati».

Angela Frenda
30 aprile 2009

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« Risposta #149 inserito:: Maggio 03, 2009, 05:27:59 pm »

Il primo incontro nel 1980. La vita pubblica del Cav, quella monastica della «signora»

Silvio e Veronica, tutto iniziò nel camerino

Trent'anni di vita, dal primo incontro dietro le quinte del Teatro Manzoni alla crisi coniugale a mezzo stampa
 
 
MILANO - Diceva Veronica il 21 luglio 2008: «Da anni leggo notizie che riguardano il mio prossimo divorzio. Per quel che ne so io, non è nei miei piani». Aggiungeva Silvio, un paio di settimane dopo, il 5 agosto: «Non si può fare pace se non c'è stata guerra». E' un po' come una gravidanza che si cerca di tenere nascosta, anche se a un certo punto il pancione non passa inosservato. E a distanza di nove mesi, i primi vagiti annunciano quello che ormai era noto a molti: la «signora» ha annunciato di voler dare un taglio alla vita a due con il presidente del Consiglio.

L'INCONTRO NEL CAMERINO - Si è detto e si è scritto molto della lunga storia di Silvio e Veronica. Una storia più che trentennale, iniziata nel 1980, quando lui era un imprenditore di successo sulla scena milanese (ma ancora lontano dall'impegno politico in prima persona) e lei un'attrice impegnata perlopiù in pieces teatrali. Ed è proprio sotto le luci della ribalta, o meglio dietro le quinte, che è scoccata la scintilla. Le vite di Veronica Lario (al secolo Miriam Bartolini) e di Silvio Berlusconi si sono incrociate per la prima volta in un camerino del Teatro Manzoni di Milano - di cui il Cav. era diventato proprietario - alla fine di una sua interpretazione senza veli ne «Il magnifico cornuto» di Fernand Crommelynck, con la compagnia di Enrico Maria Salerno. Ne nacque una relazione in «clandestinità», in quanto a quel tempo Berlusconi era ancora unito in matrimonio con Carla Dall'Oglio, madre di Marina e Piersilvio. I due si sono poi sposati nel dicembre del 1990, quando avevano già tre figli. Nel 1990 le nozze, celebrate quasi in segreto, con ricevimento a Palazzo Rovati, sede della Fininvest.

DA ARCORE A MACHERIO - Veronica ha sempre tenuto un basso profilo, evitando di apparire in pubblico al fianco del marito. Poche le occasioni in cui ciò è avvenuto, come ad esempio in occasione della visita di Bill e Hillary Clinton a Roma nel 1994, con Berlusconi fresco della sua prima vittoria elettorale e relativa ascesa a Palazzo Chigi; o, dieci anni più tardi, durante il passaggio nella capitale di George W. e Laura Bush. Il 26 gennaio di quello stesso anno, quando il Cavaliere annuncià la «discesa in campo», in un' intervista a Paris Match la Lario dichiarava di trovarlo «irresistibile». «Nessuna parola - aveva aggiunto - lo descriverebbe meglio». Lei, però, non ha mai manifestato grande entusiasmo per le apparizioni in pubblico al fianco del marito, preferendo dedicarsi alla crescita dei figli nella riservatezza di Villa Belvedere, la residenza di Macherio diventata la nuova casa dei Berlusconi, dopo che villa San Martino ad Arcore, a cui è invece legata l'adolescenza dei figli di primo letto Marina e Piersilvio, è stata trasformata nella sede di rappresentanza del Cavaliere, soprattutto per le questioni legate alla politica. Le due ville distano tra loro pochi chilometri in linea d'aria, ma sono un po' il paradigma delle due vite dei coniugi Berlusconi. Il leader del Pdl non aveva mai espresso particolare disagio nel presentarsi da solo agli appuntamenti istituzionali internazionali, diversamente dagli altri capi di Stato e di governo, quasi sempre accompagnati dalle rispettive first lady. «Apprezzo e molto la sua riservatezza» diceva Berlusconi ai cronisti che gli facevano notare la posizione defilata di Veronica Lario.

CARFAGNA E DINTORNI - Le difficoltà coniugali della coppia sono diventate pubbliche soprattutto negli ultimi anni e, in particolare, dopo gli apprezzamenti pubblici a Mara Carfagna nel gennaio 2007, quando il leader di Forza Italia si rivolse all'allora neodeputata ancora ignara del fatto che sarebbe diventata ministro dicendole: «Se non fossi già sposato, la sposerei subito». Ne era seguita la famosa lettera aperta con cui Veronica aveva chiesto pubbliche scuse al marito, intimandogli di fatto di smetterla con le umiliazioni pubbliche al suo ruolo di moglie e di madre. Berlusconi era stato allora costretto a delle scuse altrettanto pubbliche: «Custodisco la tua dignità come bene prezioso. La battuta spensierata, il riferimento galante, la bagattella di un momento». Era stato però, quello, un punto fermo. «Un ultimatum» lo definisce Maria Latella, direttrice di «A» e autrice di «Tendenza Veronica», la biografica di Veronica Lario.

L'HAREM E LE BARZELLETTE - Ma a quell'ultimatum il Cavaliere non ha dato seguito. Già pochi mesi dopo, nel luglio 2007, la pubblicazione su Oggi delle foto che ritraevano Berlusconi mano nella mano con cinque giovani attiviste di Forza Italia (titolo del servizio: «L'harem di Silvio»), tra cui l'ex «rossa» del Grande Fratello Angela Sozio di cui si era paventata la possibile candidatura anche alle prossime Europee, aveva creato nuovi malumori. Che però lo stesso Cavaliere aveva minimizzato raccontando una barzelletta in pubblico: «Amore, erano cinque ragazze, ma ho fatto la corte solo a quattro di loro...". La sua risposta? E’ andata in camera a fare le valigie. Allora io le ho chiesto: "Torni da tua madre?". "No, sono le tue valigie..."». Non era la prima volta che il Cavaliere faceva la consorte oggetto di una battuta pubblica. Tra le più note, quella con cui nel 2002 si rivolse all'allora premier danese Rasmussen: «Lei è il primo ministro più bello dell'Europa. Penso di presentarlo a mia moglie perchè è anche più bello di Cacciari (a cui il gossip attribuiva un flirt con la first lady, nda). Con tutto quello che si dice in giro... Povera donna...».

NOEMI E L'ULTIMO AFFRONTO - Poi si arriva alle ultime settimane. La notizia di veline e donne di spettacolo probabili candidate nelle liste del centrodestra alle prossime europee, la replica di Veronica che parla di «ciarpame», la notizia della partecipazione alla festa per i 18anni di Noemi, una ragazza napoletana che sarebbe solita rivolgersi a Berlusconi chiamandolo «papi». E' stata probabilmente questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso, quell'affronto di troppo che ha spinto Veronica a dire basta e a mettere tutto nelle mani di un avvocato.

Alessandro Sala
03 maggio 2009

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