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Autore Discussione: Marco DAMILANO -  (Letto 64746 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Gennaio 07, 2018, 11:39:45 am »

Previsioni politiche per il 2018, l'anno della grande incognita
Gli anni che si concludono con l'otto portano con sé novità e rivolgimenti: la Costituzione del '48, le rivolte degli studenti e l'immaginazione al potere del '68, la tragica fine di Aldo Moro nel '78 e l'inizio della Grande Crisi nel 2008. E questo non fa eccezione: ecco le elezioni, con un governo in carica che potrebbe resistere agli umori delle urne

Di MARCO DAMILANO
02 gennaio 2018

«Vi ringrazio per queste due ore di inesistenza», così il maestro Nicola Piovani ha ringraziato il pubblico romano che il giorno di Santo Stefano aveva affollato il suo concerto, ironizzando su chi aveva detto anni fa che solo le cose accadute in televisione esistono davvero. Quel signore che la pensa così lo conosciamo tutti bene e nel 2018, forse, tornerà, se non alla guida del governo, ad avere un ruolo centrale nella politica italiana. Ma l’idea dell’inesistenza, o meglio di ciò che non esiste all’apparenza ma che ha una dura sostanza nella realtà, mi sembra la sintesi perfetta dell’anno che si chiude e di quello che si apre.

Nel 2017 quel che non si è visto, e che dunque non esiste per il sistema mediatico, ha avuto una sua forza, la forza delle cose. Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio italiano che si è tornato a chiamare così dopo anni in cui tutti ci eravamo abituati a chiamarlo premier, un altro caso di non-esistenza (quella carica in Italia non c’è), non ha rilasciato in dodici mesi una sola intervista a un giornale e si è concesso solo un paio di uscite televisive.

"Questa legislatura travagliata è stata fruttuosa. La verità è che l'Italia si è rimessa in moto dopo la più grave crisi dal dopoguerra". Così Paolo Gentiloni durante la consueta conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio dei ministri, che sarà anche l'ultima di questa legislatura
   
Ha governato con l’invisibilità, il non apparire, eppure ha scalato i sondaggi di gradimento. Il suo governo, nato per durare pochissimo, scavalla la legislatura appena finita, resta in vita anche a Camere sciolte, le sue sono non-dimissioni che lo mettono in condizione di dirigere il timone nei mesi della campagna elettorale. In Europa quello presieduto da Gentiloni non è certo il governo più instabile o provvisorio. Nel quartetto dei grandi paesi Ue, la Francia vive la stagione del presidente jupitérien Emmanuel Macron, il personaggio politico dell’anno, in compenso però la Germania dell’ex invulnerabile Angela Merkel è senza un nuovo governo da settembre e per la grande coalizione più piccola della storia se ne riparla dopo le feste, e la Spagna è nella spirale centrifuga della secessione catalana, aiutata dagli errori di Mariano Rajoy, un premier che vive in uno stato di sospensione.

L’Italia, abituata a convivere con la crisi, si appresta al voto con il governo Gentiloni non-sfiduciato, non-dimissionario, non-candidato a essere riconfermato o meno dal voto degli italiani, eppure baciato dal favore dei pronostici: se dopo il voto di marzo non fosse possibile un’altra maggioranza e un altro governo resterebbe in carica lui, almeno fino a metà 2018, e poi chissà.

L’inesistenza, o meglio esistere senza apparire, diventa una virtù. È andata al potere, giusto mezzo secolo dopo quello che si diceva dell’immaginazione, lo slogan più citato, imitato, sbeffeggiato, tradito del 1968, anno di cortei, manifestazioni, scontri di piazza, contestazioni studentesche, lotte operaie, sogni spezzati. Il sogno di Martin Luther King, ucciso a Memphis il 4 aprile, quello di Robert Kennedy, assassinato il 6 giugno mentre festeggiava a Los Angeles la vittoria delle primarie in California che lo avrebbe lanciato verso la nomination democratica per la Casa bianca, quello di Alexander Dubceck sul versante opposto di Jalta, il blocco sovietico intangibile e stritolato nella morsa del muro di Berlino (costruito sette anni prima) e dei carri armati del partito fratello di Mosca.

È l’irresistibile fascino degli anni che si concludono con il numero otto. L’anno spaccatutto, l’anno fine del mondo, almeno dal 1848 che si apre con la pubblicazione del manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels a Londra il 21 febbraio e da quel momento in poi gli spettri della rivoluzione cominceranno ad aggirarsi in tutta Europa, compresa l’Italia divisa in staterelli. Nel 1918, un secolo fa, di nuovo lo spettro torna a volteggiare tra la Russia appena conquistata dai bolscevichi e la Germania. Per noi è anche l’anno della fine della Grande Guerra e della retorica sulla vittoria mutilata che anticipa il reducismo e il fascismo. Termina in otto l’anno della vergogna, quello delle leggi razziali (1938), e dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948) con il primo grande scontro elettorale (18 aprile 1948).

In tutti questi eventi c’è sempre stato un palazzo di inverno da espugnare, un potere da conquistare, un cielo cui dare l’assalto. La pretesa della politica di avere l’egemonia sul resto della società che aveva incontrato il sarcasmo di Pier Paolo Pasolini sui sessantottini che da allora in poi sono rimasti in servizio permanente effettivo: «generazione sfortunata!/Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore/dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,/una presunzione di eroi destinati a non morire - /oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano /una meravigliosa vittoria che non esisteva!».

Una presunzione ferita in modo irrimediabile nel 1978 italiano, quando tutti insieme, padri e figli, si ritrovarono di fronte al trauma del cadavere infilato in un bagagliaio dell’uomo politico più influente e importante (non il più potente, aveva provato a spiegarlo Moro alle Brigate rosse che vedevano in lui il capo italiano del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali). «Questo fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto parcheggiata in via Caetani è il corpo di Aldo Moro», scrisse quel giorno nel suo pezzo Miriam Mafai su "Repubblica", come farà anni dopo il poeta Mario Luzi: «Acciambellato in quella sconcia stiva, crivellato da quei colpi, è lui, il capo di cinque governi, punto fisso o stratega di almeno dieci altri, la mente fina, il maestro sottile di metodica pazienza: lui - come negarlo? - quell’abbiosciato sacco di già oscura carne...». In quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, la mafia fece uccidere a Cinisi Peppino Impastato.

Poche settimane dopo, si dimette il presidente della Repubblica Giovanni Leone, sostituito dal partigiano Sandro Pertini, chiamato a 82 anni a salvare di nuovo la Repubblica. Ma il potere si sta spostando, non appartiene più ai partiti e alla politica, in Italia e nel resto dell’Occidente. C’è il potere del corpo che ribalta l’assunto sessantottino del privato è pubblico: la rivincita della vita sulla politica, i diritti civili che entrano nell’agenda delle priorità, con la legge sull’aborto e sulla chiusura dei manicomi, ma anche l’introduzione del servizio sanitario nazionale che nonostante tutto mezzo Occidente invidia all’Italia. E c’è il potere dell’anima, il ritorno del Dio morto, frettolosamente sepolto e poi risorto come motore geopolitico in Medioriente con l’Iran dell’ayatollah Khomeini e in Europa con l’elezione del papa polacco Karol Wojtyla.

Spinte che fanno naufragare e crollare le ideologie novecentesche, i progetti di palingenesi, il mito dell’uomo nuovo e della società nuova, lasciando in campo un unico sistema vincente, il modello della globalizzazione finanziaria che abbatte i confini degli Stati e le appartenenze identitarie. Ma nel 2008, un altro anno con l’otto, anche questo mito è caduto, quando i dipendenti della Lehman Brothers sono usciti dai loro uffici di Manhattan con gli scatoloni pieni delle loro cose. Quello che abbiamo vissuto in Occidente nel decennio successivo e che stiamo vedendo nell’ultimo anno, da quando Donald Trump ha fatto il suo ingresso alla Casa bianca, è il periodo della fragilità dei potenti. Sempre più ansiosi di visibilità, in mostra sui social, e sempre più inadeguati a fronteggiare le dinamiche che loro stessi hanno scatenato. Dietro i fenomeni di populismo o di anti-politica c’è l’incapacità di governo e la frustrazione generata dall’impossibilità per la politica di realizzare anche soltanto in parte le promesse messe in circolo nelle campagne elettorali. Mentre trionfano gli autocrati, da Putin a Xi Jinping a Erdogan, che rispondono almeno a un bisogno di sicurezza e di certezze.

È l’Ottovolante, il circuito senza via di uscita e pericoloso delle democrazie occidentali: la politica è fallita e in tanti non ne avvertono più la necessità, gli elettori scelgono di votare sempre di meno e se nonostante tutto vanno alle urne si dice che il loro responso è stato sbagliato. Ma solo la politica può gestire il mostro che ha creato, la frammentazione degli interessi, la polverizzazione degli elettori in mille questuanti ciascuno con il suo desiderio da reclamare. E la trasformazione dei leader in followers, inseguitori delle mode del momento, depositari del senso comune.

L’immaginazione è arrivata al potere nel momento in cui il potere della politica non c’era più o stava svanendo. Ma ora va ricostruito, è questa la lezione che arriva anche dall’in-esistente Gentiloni. Che resterà tale anche in campagna elettorale e farà bene: per tenersi in riserva della Repubblica se non dovesse uscire dalle urne una maggioranza pronta a governare e perché non è scontato che il gradimento nei sondaggi possa trasformarsi automaticamente in consenso.

La campagna elettorale sarà il momento di quanti esistono, mediaticamente. Matteo Renzi ha la squadra, i ministri del governo Gentiloni, ma non ha il capitano, perché lui è meno spendibile di un anno fa. Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle si ritrova nella situazione opposta: è un capitano che si atteggia a candidato premier ma non ha una squadra. Infine c’è Silvio Berlusconi, il massimo teorico della regola di cui ha parlato Nicola Piovani (ciò che non va in tv non esiste): lui non ha né la squadra, perché l’alleanza con Matteo Salvini è un cartello elettorale e i nomi che circolano per la guida del governo, da Antonio Tajani all’ex comandante generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli, per ora sono virtuali, e non ha il capitano, perché non può candidarsi in prima persona. Berlusconi è l’inesistente al potere: non c’è ma c’è, è un non-candidato ma conterà molto di più di quasi tutti gli altri candidati.

La sconfitta di tutti sarebbe il crack del sistema. In una campagna elettorale cominciata nel peggiore dei modi, con il Parlamento uscente che ha cancellato dal suo angolo visuale gli ottocentomila bambini in attesa della legge sullo ius soli e ius culturae, come sono spariti dalla visibilità mediatica, ma non dalla realtà, i migranti che continuano a sbarcare sulle coste italiane, i ragazzi protagonisti e vittime della criminalità a Napoli e in Campania che non sono creati dalla fantasia degli sceneggiatori di “Gomorra”, i lavoratori dei fast job usa e getta, le periferie chiamate a fare da fondale per i talk sulla crisi. Tutti in apparenza non-esistenti, eppure reali. Siamo tutti sull’Ottovolante, appena partito e già vengono le vertigini. Non si può neppure dire: fermate il 2018, voglio scendere! Si può solo sperare che non succeda un grande 8.

© Riproduzione riservata 02 gennaio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/01/02/news/previsioni-di-inizio-anno-qui-succede-un-grande-8-1.316636?ref=RHRR-BE
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« Risposta #91 inserito:: Marzo 19, 2018, 10:46:59 am »

EDITORIALE

L'Italia fratturata dove sono in crisi anche i corpi intermedi

Chiesa, industriali, sindacati, magistratura. Dopo il voto anche la società è divisa.
Specchio della politica paralizzata. E del governo impossibile

DI MARCO DAMILANO
16 marzo 2018

Tutti aspettano le consultazioni, quel momento informale in cui le delegazioni dei partiti sfilano davanti al presidente della Repubblica nello studio della Vetrata al Quirinale, quando prendono forma indicazioni, decisioni, veti e si compone la maggioranza che sosterrà il futuro governo di fronte alle Camere. C’è da chiedersi, però, se questa volta sia una prassi superata, o da rivedere, alla luce del terremoto elettorale del 4 marzo.

Comporre la maggioranza: una politica (impossibile, per ora), una di scopo, una à la carte. Una maggioranza qualunque. È l’impasse del sistema politico provocata dal trionfo elettorale dei due vincitori, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini, non così forti però da produrre una maggioranza autonoma, auto-sufficiente, in grado di governare senza alleanze spurie e sgradite. Uno stallo e una situazione inedita che potrebbero estendersi già dalla prossima settimana al livello istituzionale: l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, il ruolo del Quirinale come motore per far partire la legislatura e il nuovo governo, le scadenze del nuovo Parlamento di cui in pochi sono disposti a parlare in pubblico e che invece nei palazzi tengono banco perché sono imminenti.

A due settimane dal voto i partiti usciti vincenti dalle urne si ritrovano impossibilitati nel formare un governo. Ma nel Paese ci sono fratture ancora più profonde, come quelle tra l'elettorato e i cosiddetti "corpi intermedi" come i sindacati, la Chiesa, il mondo delle imprese, la magistratura. Mondi travolti dal voto e ora divisi, spaccati, rimescolati. Nuove alleanze si formano e vecchi sodalizi sono stati sciolti. L'Espresso racconta queste fratture, simbolo di un'Italia spezzata e di un governo forse impossibile. Il direttore Marco Damilano spiega cosa trovate sul nuovo numero in edicola da domenica 18 marzo

L’elezione di un giudice della Corte costituzionale al posto di Giuseppe Frigo, che si è dimesso quattordici mesi fa. L’elezione dei membri laici del nuovo Consiglio superiore della magistratura che dovrà governare le toghe nei prossimi quattro anni, con tante nomine importanti, a partire dalla designazione del successore alla guida della procura di Roma di Giuseppe Pignatone, in scadenza per limiti di età. La nomina del nuovo Consiglio di amministrazione Rai, quello attuale termina il suo mandato in estate, il nuovo sarà formato con i criteri della nuova legge voluta dal governo di Matteo Renzi: quattro membri eletti da Camera e Senato, due scelti dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Economia, più uno votato dai dipendenti della Rai. Anche questa, come tante, era una legge che presupponeva maggioranze forti, leader stabili pronti ad prendersi tutto, con poche garanzie nei confronti delle minoranze, e oggi potrebbe rivelarsi una beffa per chi l’ha voluta, il premier venuto da Rignano. In gioco, ci sono il controllo della magistratura e dell’informazione pubblica. E poi Cassa depositi e prestiti, i cui vertici sono a fine corsa. E non è finita: nel 2019 ci sarà il grande risiko degli incarichi europei, dopo le elezioni del nuovo Parlamento Ue. Presidenza del Parlamento, presidenza della Commissione, nuovi commissari. E, infine, l’addio di Mario Draghi alla presidenza della Bce con la necessità di proporre un nome italiano per il Comitato esecutivo della Banca.

In ciascuno di questi passaggi servono maggioranze semplici, maggioranze qualificate, governi in grado di prendere decisioni. Ma le parole maggioranza e governo sembrano un miraggio in questa convulsa fase post-elettorale. Nessuno sembra in grado di raggiungere il magico numero che porta alla fiducia parlamentare di un nuovo governo, tutti hanno voglia di potere e di comando, ma in pochi desiderano davvero governare.

Per molti anni la maggioranza parlamentare è stata lo specchio di una maggioranza nel Paese, di un blocco sociale di riferimento. Un reticolo di associazioni, categorie, mondi di rappresentanza di valori e di interessi, lobby che come per incanto, come per effetto di una mano invisibile simile a quella del mercato di Adam Smith, tutte insieme componevano la Maggioranza. A tutto questo si riferiva l’espressione maggioranza silenziosa, evocata dal presidente Usa Richard Nixon negli anni Settanta: quel centro della società che è stabile e governativo per sua natura, gli elettori moderati che non si iscrivono a partiti, che non militano e che non si mobilitano, che restano a casa quando le piazze si riempiono, ma che fanno la differenza alle urne. La maggioranza silenziosa cui si è appellato Renzi per ben due volte, in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 e del voto politico del 4 marzo, uscendone drammaticamente sconfitto.

La novità di questi anni è infatti che non solo in Italia ma in tutta Europa la maggioranza silenziosa non esiste più. O meglio, si rivolge verso i valori opposti da quelli frequentati in passato: la rivolta al posto della moderazione, l’instabilità in luogo della stabilità, l’opposizione invece del governo. Si è visto in Inghilterra con la Brexit e in Usa con la vittoria di Donald Trump: anche se poi i risultati delle urne, con queste motivazioni, consegnano al sistema più problemi che soluzioni.

A venire meno, in questa condizione inedita, sono tutti i canali di collegamento tra politica e società, i mediatori sociali, i corpi intermedi, come si sarebbe detto un tempo. Se non c’è più la Maggioranza, sono loro i primi a essere scossi, scissi, colpiti al cuore nella loro funzione di rappresentanza: i sindacati, le cooperative, le associazioni di categoria di lavoratori e di imprenditori, e di commercianti, coltivatori diretti, pensionati, studenti.

Attraversati da una crepa che li divide all’interno, una separazione, una frattura tra i vertici, i dirigenti che si sentono ancora parte dell’antica classe dirigente, istituzionale per definizione, e la loro base che invece non si riconosce più nella mediazione, usufruisce di vantaggi e servizi garantiti dall’appartenenza all’associazione, ma vota e si comporta in modo autonomo, indipendente, solitario, al contrario di quanto avveniva in passato, quando candidare un esponente di Confindustria o della Cgil o della Compagnia delle Opere di Comunione e liberazione significava per un partito conquistare in partenza milioni di voti. Cuius regio, eius religio, si diceva un tempo. Se conquistavi il principe, o un presidente di categoria, convertivi al voto un intero popolo.

I corpi intermedi sono finiti sotto tiro negli ultimi anni, anche in un Paese come l’Italia che ha sempre potuto vantare una presenza e una vivacità della società civile, e un suo protagonismo politico, superiore per numeri e per qualità rispetto ad altri paesi europei. Una società civile che in molti casi ha svolto una funzione di supplenza della politica: vertici sindacali (Sergio Cofferati, Guglielmo Epifani, ma anche Sergio D’Antoni) e confindustriali (Alberto Bombassei, Federica Guidi) chiamati a ruoli politici, i progetti agitati da parti opposte (Italia futura di Luca Cordero di Montezemolo di cui era motore organizzativo il ministro Carlo Calenda, la coalizione sociale dell’allora capo della Fiom Maurizio Landini) destinati a fallire ma significativi di un movimento. I magistrati entrati in politica per fondare un partito e sostituirsi ai politici di professione: Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris, Antonio Ingroia. Il serbatoio inesauribile di figure politiche e di voti prodotto dal mondo cattolico nelle sue varie sfumature, dopo la fine della Dc venticinque anni fa.

«Il messaggio di accoglienza di papa Francesco non è stato accolto. E per questo anche noi dobbiamo fare una lettura profonda». Parla Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio. E sull'Espresso in edicola da domenica 18 marzo, l'inchiesta sulla crisi dei "corpi intermedi"

La disintermediazione ha colpito al cuore questo sistema di consenso e la prima vittima è stato proprio il leader che di questo nuovo verbo aveva fatto una bandiera, Matteo Renzi. È stato lui il presidente del Consiglio che ha sbarrato la sala verde di Palazzo Chigi alla concertazione delle parti sociali, lui a disertare sistematicamente le assemblee di Confindustria e dei sindacati, lui a dichiarare chiusa quella stagione a sinistra. Uno strappo compiuto nel momento di massima mediocrità delle organizzazioni sociali, prive di leadership forti e riconosciute, di agganci con le loro basi sociali, in mezzo a una sfida senza precedenti nel mondo del lavoro. Il risultato, in ogni caso, è l’atomizzazione dei legami, la solitudine di imprenditori, lavoratori, autonomi, precari, tutti votano da soli, senza essere rappresentati da nessuno.

Il voto può essere letto anche così. E questo spiega perché i vertici sindacali e confindustriali si sono affrettati, dopo il voto, a inseguire i loro elettori che erano andati da una parte opposta rispetto alle indicazioni della vigilia. Un caso di collateralismo alla rovescia.

Resiste meglio di altri il mondo cattolico nelle sue varie ramificazioni. Forse perché in quel caso la crisi è arrivata prima. Forse perché questo voto è il vero, effettivo debutto sulla scena della Chiesa italiana formato Bergoglio, coincide con i cinque anni di pontificato di papa Francesco. La Conferenza episcopale ha scontato anni di sbandamento: il dopo-Ruini, il cardinale che muoveva i politici come pedine e ha prodotto il conformismo di associazioni e centri culturali, con i loro esponenti appassiti e esangui.

Il vecchio establishment ecclesiastico è stato spazzato via dalla rivoluzione di Bergoglio, prima che dalla tempesta del 4 marzo, e ha già attraversato (non ancora concluso) il suo passaggio nel deserto. La Chiesa si ritrova all’appuntamento del dopo 4 marzo più debole e più sola, sconfitta almeno nel nord chiuso alle ragioni dell’accoglienza e della solidarietà verso i migranti, sfidata dal vento di destra nazionalista e clericale che Salvini ha agitato in piazza Duomo giurando sul Vangelo. Il distacco dalla propria base di fedeli domenicali, nel Nord della Lega e nel Sud dei Cinque stelle, coinvolge anche le gerarchie ecclesiastiche e i cenacoli intellettuali che si sono fatti sempre più ristretti.

Ma la Chiesa può tentare di interpretare la società italiana meglio di altre agenzie, il Paese reale contrapposto al Paese legale, che in fondo è una delle eredità del cattolicesimo italiano del secolo scorso, però Viste dalla società, le fratture del 4 marzo sono più profonde perfino di quelle che dividono gli schieramenti politici oggi in Parlamento, come raccontano le pagine che seguono, un’inchiesta sull’Italia sconvolta e lacerata del dopo-voto, in cui è svanita la stessa idea di Maggioranza, ma resta irrisolta la questione della rappresentanza. È l’altra faccia di questa stagione di individui soli, che si affidano ai social network nell’anonimato della loro esistenza per far sentire la loro voce.

Ricostruire, ricucire le fratture, era un’urgenza non soltanto metaforica già due anni fa, all’epoca della terrificante sequenza di terremoti nell’Italia centrale. Oggi è più che mai un’emergenza, come sa bene chi per dovere istituzionale ha il compito di trovare un percorso nelle macerie, l’inquilino del Quirinale Sergio Mattarella.

Sull'Espresso in edicola da domenica 18 marzo l'inchiesta sulla crisi di rappresentanza d Chiesa, associazioni di industriali, sindacati e magistratura
© Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/03/15/news/l-italia-fratturata-dove-sono-in-crisi-anche-i-corpi-intermedi-1.319650?ref=HE
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 19, 2018, 10:50:51 am »

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Ritrovare Moro: a 40 anni dal sequestro l'Italia è di nuovo in un momento cruciale
I quarant'anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora.
Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte del leader della Dc

DI MARCO DAMILANO     
15 marzo 2018

Moro tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali, vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci.

Scorro per ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro, dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta, con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti, via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno 1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve ancora compiere quarant’anni.

L’immagine pubblica esisteva già anche in una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica, sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica, la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa cupezza e depressione.

Quando il grigio era il colore dominante si intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica che l’Italia non aveva mai avuto. Fino ai due ultimi scatti, quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi, invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo progetto, il suo metodo.


I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975.

Dopo Moro è finito il suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile, insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse, la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi.


Nessuno può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio, un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla fine del colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un braccio di Scalfari.

Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani, il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana...».

Nel quarantesimo anniversario del rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sfida di cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini. Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato.

Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la politica era vissuto e infine morto e che nella politica, tuttavia, non aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità».

Negli ultimi giorni della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a quadretti e una penna come sola arma a disposizione per farsi sentire, con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità. Ciò che manca oggi a una politica che si percepisce come onnipotente, forte di consensi e successi, che si auto-celebra per i milioni di voti raccolti, ma che non possiede un atomo di verità sul Paese e su se stessa. E dunque è destinata a essere perdente, sempre.
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Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/03/14/news/ritrovare-moro-a-40-anni-dal-sequestro-l-italia-e-di-nuovo-in-un-momento-cruciale-1.319553?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #93 inserito:: Aprile 17, 2018, 09:00:41 pm »

La sinistra che sta facendo finta di niente dopo la batosta elettorale deve cambiare
Lo sconquasso non è cominciato con Renzi ma ha radici più lontane.
Eppure gli ultimi anni sono stati una grande occasione perduta

DI MARCO DAMILANO
09 aprile 2018

Il mare calmo non ha mai fatto buoni marinai, ha scritto il segretario reggente del Pd Maurizio Martina su Repubblica (4 aprile) riportando le parole che gli ha detto un compagno. Il compagno ha ragione: mai il mare è stato così burrascoso per il centrosinistra italiano, arrivato al minimo storico della sua lunga storia. Ma è anche vero che mai, invece, è stato così tranquillo nella classe dirigente del partito, che al di là di qualche articolo e proclama si sta rivelando incapace di affrontare una crisi così grave, potenzialmente letale, in termini culturali prima ancora che politici.

Una grande bonaccia delle Antille, come quella che descrisse Italo Calvino nel 1957 a proposito dell’immobilismo e della paralisi del Pci togliattiano. È lo spettacolo stupefacente di queste settimane: l’analisi del voto inesistente, la reazione dei gruppi dirigenti burocratica, i capicorrente che continuano a operare nelle loro manovre esiziali come se nulla fosse successo, intellettuali di area silenti, l’incapacità di sfuggire alla morsa della domanda che rimbalza nei talk televisivi, allearsi o no con uno dei vincitori del 4 marzo. Un dilemma posto dallo stesso segretario dimissionario Matteo Renzi all’indomani del voto, per sfuggire a un più pesante quesito: che fare ora del Pd? Domanda che va allargata al resto della sinistra: i fuggiaschi di Liberi e Uguali, gli scissionisti e i paladini della nuova sinistra, tutti insieme hanno raccolto una miseria elettorale, ancor più evidente in presenza di milioni di voti in uscita dal Pd, ma per nulla disponibili ad accasarsi in un’altra formazione di sinistra, nuova, vecchia, post o ex che sia. E dopo il voto sono spariti.

I democratici dovevano rinnovare la sinistra e invece l’hanno riportata al passato tenendola bloccata su divisioni figlie di tradizioni superate. E no, non possono stare insieme quelli che vogliono dar voce ai nuovi sfruttati e quelli che cercano voti nell’elettorato filo berlusconiano
È questo paesaggio mutato nella società, prima ancora che in Parlamento, che nessuno vuole vedere e che dovrebbe essere il punto di partenza. Guardiamoli da vicino, i numeri spaventosi del voto del 4 marzo che in tanti vorrebbero dimenticare. Tra gli italiani in cerca di occupazione o disoccupati, il 9 per cento ha votato per il Pd, il 6 per cento per la formazione guidata da Pietro Grasso, il 47 per cento per il Movimento 5 Stelle (il 18 per cento per la Lega di Matteo Salvini). Tra i dipendenti del pubblico impiego, tradizionale roccaforte della sinistra, il 19 per cento ha votato per il Pd, il 6 per Liberi e Uguali, il 27 per M5S, percentuali che si ripetono con stacchi ancora maggiori per i dipendenti del settore privato. L’unica categoria in cui il Pd supera M5S sono i pensionati.

Ricavo questi dati dallo studio curato dai ricercatori di Youtrend Matteo Cavallaro, Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti (“La nuova Italia”, Castelvecchi) appena pubblicato. «Dall’analisi dei flussi risulta che solo la metà degli elettori del Pd nel 2013 e nel 2014 ha confermato il voto nell’ultima tornata elettorale. Questo calo è omogeneo in tutti i settori sociali, ma il Pd vede il suo consenso ridimensionato soprattutto tra i dipendenti pubblici, storicamente una componente fondamentale del blocco sociale degli schieramenti di centrosinistra», si legge nell’analisi. «L’impatto di questo cambiamento non deve essere sottovalutato: è per natura, se non per portata, comparabile a quello del dissolversi delle Zone Rosse del Paese affrontato nel capitolo sull’analisi geografica del voto. Si definisce così un nuovo equilibrio nel blocco sociale del Pd: il tradizionale “tridente” costituito da pensionati, dipendenti del settore privato e dipendenti del settore pubblico esce dalle elezioni 2018 vistosamente ridimensionato nelle sue due componenti attive nel mercato del lavoro. Di converso, la categoria socioprofessionale presso la quale il Pd riesce a contenere meglio le perdite è quella degli imprenditori e dei lavoratori autonomi. In questo modo il Pd si avvicina maggiormente, seppur attraverso una dolorosa cura dimagrante, all’equilibrato interclassismo che si potrebbe supporre essere adeguato a un vero “Partito della Nazione”; ma ciò sembra verificarsi al - carissimo - prezzo della perdita dell’egemonia politica su importanti componenti della società italiana, sia in termini territoriali che in termini socio-professionali». Una conclusione amara e beffarda: il partito della Nazione alla fine è nato, ma per sottrazione, non per espansione. In formato bonsai: una piccola nazione.

È l’effetto di un doppio sconquasso: uno più recente e un altro di più lungo periodo. Quello recente porta il segno e il volto di Matteo Renzi e si riassume in un pugno di settimane, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, tra la sconfitta al referendum sulla Costituzione (4 dicembre 2016) e la scissione di Pier Luigi Bersani (19 febbraio 2017, con l’uscita dei bersaniani all’assemblea nazionale dell’hotel Parco dei Principi, nonostante gli ultimi tentativi, compreso l’accorato appello del fondatore Walter Veltroni).

In quelle settimane è finito il sogno del Pd come soggetto in grado di riunire tutte le anime del centrosinistra italiano e di fare da motore di un cambiamento del sistema politico italiano in senso europeo, un confronto tra due riformismi, uno di sinistra e uno di stampo liberale, conservatore, popolare. Il terremoto di più lungo periodo ci dice che quel sistema europeo da tempo non esiste più. È entrato in crisi ovunque, nei suoi elementi fondanti. È in crisi il centrodestra di governo, resiste in Germania con Angela Merkel, ma solo trasformando la grande coalizione Cdu/Csu-Spd in un centrosinistra all’italiana, la formula inventata da noi da democristiani e socialisti fin dall’inizio degli anni Sessanta che ha retto con alterne vicende la politica nazionale per più di cinquant’anni.

Ovunque il vecchio polo conservatore è assediato dalle voci più radicali, quello che è successo oggi in Italia, con la Lega di Matteo Salvini che ha superato Forza Italia, potrebbe riproporsi domani in altri paesi europei. I nuovi vincitori, ed è la seconda novità, conquistano consensi nei tradizionali territori sociali della sinistra. Effetto della globalizzazione e dei suoi esiti malgestiti, come l’immigrazione, l’impossibilità per un’intera generazione di inserirsi in modo stabile e dignitoso nel nuovo mercato del lavoro e l’impoverimento del ceto medio, e dell’afasia della sinistra europea sulle urgenze del nuovo secolo.

Il Pd è finito perché travolto da un cambiamento epocale, eppure era stata l’unica forza politica riformista del continente ad avvertire la tempesta in arrivo. Nella lunga stagione dell’Ulivo di Romano Prodi e di Arturo Parisi che aveva preceduto la fondazione del Pd, e poi nel 2007 con la nascita del partito di Veltroni, l’intuizione che fosse necessario andare oltre la socialdemocrazia europea e mettere insieme culture politiche tradizionalmente divise, poteva rappresentare un modello nuovo e vincente, com’è sembrato essere il giovane principe arrivato da Firenze per conquistare il cuore del potere. Gli ultimi tre anni rappresentano un’enorme occasione perduta. Neppure un istante di attenzione è stato dedicato da Renzi e dal suo gruppo di comando a costruire un’elaborazione culturale, un’organizzazione territoriale, una classe dirigente locale e nazionale, i tre fondamenti di qualsiasi impresa politica. Mentre molto tempo si è perduto nell’eliminazione delle voci scomode, nel formare una militanza cieca e conformista, agitata sui social con i metodi peggiori della Casaleggio associati, per poi perdere di vista ogni progetto di cambiamento e ridursi al ristretto gruppo dei fedelissimi del Capo.

Oggi è necessario cancellare l’equivoco, scrive Massimo Cacciari sull’Espresso. Sciogliere il Pd, questo Pd. E affrontare la questione più drammatica, l’assenza di un partito socialista, riformista, laburista, liberal, democratico, chiamatelo come volete, nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, quando si fa più drammatica una doppia emergenza, quella economica, con il ceto medio-alto coinvolto negli effetti della crisi dell’ultimo decennio, e quella democratica, di una rappresentanza ormai avvertita come lontanissima dai cittadini comuni.

Non bisogna lasciar passare la vergogna invano, aggiunge Paola Natalicchio, una delle giovani voci più interessanti della nuova sinistra, amministratrice di un grande comune del Sud, la Molfetta di Gaetano Salvemini e di don Tonino Bello, nella Puglia che ha rappresentato un laboratorio di innovazione tra il 2005 e il 2015 e che oggi è passata in blocco con il Movimento 5 Stelle.

Non si può perdere anche questa dolorosa occasione, l’irrilevanza e lo spettro dell’estinzione, per provare almeno a ricostruire qualcosa. L’idea di fare il partito dell’establishment restando all’opposizione non sembra una trovata brillantissima. Allearsi con quel che resta di Forza Italia contro il blocco populista Lega-M5S è la soluzione finale per perdere anche quei milioni di voti rimasti. Restare all’opposizione e non vedere l’ora che nasca un governo Salvini-Di Maio, come si è spinto a dire un capogruppo del Pd, significa agire per istinti autolesionistici.

Non sciogliere per non scegliere è la blindatura di gruppi dirigenti sconfitti in tutte le versioni, quella rottamatrice renziana, quella arcaica del culto della Ditta degli scissionisti, quella vetero-ideologica, piagnona e protestataria. Proviamo a ripartire con qualche provocazione e con quel tanto di spregiudicatezza che la situazione richiede. E perfino, se lo scenario non fosse così malinconico, con il divertimento di immaginare che la politica sia ancora un regno delle possibilità e non della necessità.

© Riproduzione riservata 09 aprile 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/04/09/news/la-sinistra-che-sta-facendo-finta-di-niente-dopo-la-batosta-elettorale-deve-cambiare-1.320333
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 10, 2018, 09:08:37 pm »

4 MAGGIO 2018

'Un atomo di verità', Damilano ricorda Aldo Moro: "Senza di lui la democrazia è diventata più debole"
"Un atomo di verità" (Feltrinelli) è il titolo dell'ultimo libro di Marco Damilano, direttore de l'Espresso, che dal palco del Teatro Argentina di Roma ha ricordato Aldo Moro come uomo e come politico, rapito e ucciso dalla Brigate Rosse. Il suo corpo fu ritrovato il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia. A 40 anni dalla sua morte, Damilano, con la regia di Antonio Sofi e in collaborazione con l'Archivio Flamigni, ha voluto rendere omaggio a una figura politica che ha segnato la storia dell'Italia. Un viaggio nella memoria raccontato attraverso parole, documenti inediti, fotografie, immagini, musiche e letture. "Questa serata è necessaria per liberare Moro -  ha detto Damilano -. Dobbiamo raccontare cosa ha perso l'Italia senza di lui, cosa è stato spezzato in quella giornata del 16 marzo 1978, la giornata in cui noi che eravamo bambini e siamo diventati improvvisamente grandi e la democrazia italiana è diventata più debole".

Da - https://video.repubblica.it/politica/un-atomo-di-verita-damilano-ricorda-aldo-moro-senza-di-lui-la-democrazia-e-diventata-piu-debole/303818/304449?ref=tbl
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« Risposta #95 inserito:: Maggio 12, 2018, 05:46:53 pm »

La Brutta Estate della Repubblica: i tre fallimenti che portano alla svolta traumatica

Moderare la Lega, costituzionalizzare il M5S, cambiare la strategia del centrosinistra: erano le ipotesi per una conclusione razionale della crisi. Non sono andate in porto. Sull'Espresso in edicola da domenica 13 maggio, un'ampia analisi sulla situazione politica

DI MARCO DAMILANO
11 maggio 2018

La coda delle auto impazzite lungo il Corso, a soffocare i palazzi della politica come un cappio, la pioggia insistente e sporca, l’odore acre del fumo di un autobus in fiamme non ancora sparito dal cielo sopra Palazzo Chigi e Montecitorio, i parlamentari appena nominati e già a rischio di estinzione, a caccia di un taxi con le scarpe immerse nelle pozze.

Sono le scene che anticipano la svolta politica epocale, l’incubazione del governo Lega-M5S, in un clima cupo degno di “Blade Runner”, in cui - finalmente si può dire - stiamo vedendo cose che voi umani non potete immaginare, come direbbe un androide piombato nei palazzi della politica italiana nei giorni in cui si dissolve il sistema.

Il parlamentare del Movimento 5 Stelle che si informa sullo stipendio. I deputati del Pd che vanno dai colleghi di Forza Italia supplicandoli di pregare Silvio Berlusconi a cambiare idea e permettere di far partire il governo. La massa dei neoeletti che si aggira, si accalca, ruota su se stessa, anime in pena, una folla di peones, ignavi, inconsapevoli, terrorizzati dai giochi di guerra dei loro stessi capi. «Ho spinto il pulsante del seggio con cui si vota una sola volta, ma almeno mi sono tolto la soddisfazione», mi racconta Nicola Pellicani, giornalista, deputato del Pd, animatore del festival della politica di Mestre, non sai se più ironico o amareggiato. Intorno a lui, volti inquieti, il presidente della Camera Roberto Fico trascinato dai commessi, il leghista Giancarlo Giorgetti astuto come una volpe nel deserto, stratega di rotture e ricuciture, i berlusconiani che chiedono a Berlusconi la grazia di non portarli a nuove elezioni imprevedibili, dalle conseguenze incalcolabili, per il sistema e per loro...

Siamo alla settimana chiave, quella che potrebbe portare alla fine della crisi politica e alla creazione di un governo Lega e M5S. L'Espresso dedica la copertina, firmata da Makkox, proprio alla situazione politica con il titolo "Odio l'estate" che mostra 4 leader politici come bambini in spiaggia, sorvegliati dall'occhio vigile dell'unico adulto, il presidente Mattarella. All'interno trovate un'ampia analisi sulla stagione di fuoco che attende il nostro Paese e sui pericoli di un esecutivo giallo-verde. Il nuovo numero de L'Espresso lo trovate in edicola domenica 13 maggio con Repubblica e il resto della settimana da solo
   
Lo scenario del “tutti a casa”, come nell’estate del 1943. Qui per fortuna non ci sono bombardamenti di Roma, solo un autobus in fiamme a pochi passi da via Rasella con i muri ancora bucati dalle schegge dell’esplosione, e il vertice dello Stato è saldamente presidiato dal galantuomo Sergio Mattarella. Un presidente lasciato solo anche dal partito che ne volle fortemente l’elezione al Quirinale nel 2015, il Pd, e dal leader di allora e di oggi, Matteo Renzi, al momento decisivo, quando si trattava di difendere l’equilibrio delle istituzioni da una doppia sciagura, il governo Lega-M5S o nuove elezioni anticipate. Un presidente lasciato solo come non mai, in una situazione senza precedenti, tra veti e minacce, impossibilitato di costruire un sentiero di ragionevolezza.

Ho visto Mattarella la mattina del 9 maggio, nelle ore decisive della scelta, in via Michelangelo Caetani, nel luogo dove quaranta anni prima era stato ritrovato cadavere il suo maestro politico, Aldo Moro. Quarant’anni fa quell’omicidio segnò la fine della Prima Repubblica, quel corpo ha continuato a pesare come un fantasma sulle degenerazioni successive e sul vuoto di questi ultimi anni. Ho visto Mattarella salutare Paolo Gentiloni, nelle ultime ore del suo governo, con qualcuno che già gli chiedeva sottovoce di prendere in mano il Pd, e poi Fico e la presidente del Senato Elisabetta Casellati, in verde oliva abbagliante.

Questi politici sono troppo piccoli per gestire una crisi del genere
Il nostro Paese è arrivato all'ultimo atto di una catastrofe istituzionale che matura da anni. E sarebbe troppo facile prendersela solo con i "nani" che occupano la scena oggi
Ho visto questo uomo dai capelli imbiancati, carico di emozioni trattenute e di pudori segreti, con quella riservatezza che lo porta a tacere del suo dolore personale - è il fratello di Piersanti Mattarella che cadde sotto i colpi di un killer mai punito, uno di quei «progetti eversivi, finalizzati a destabilizzare le istituzioni e a disarticolare la nostra convivenza» di cui ha parlato il presidente nella sede più toccante, di fronte ai parenti delle vittime nella giornata del 9 maggio. Difficile intuire i pensieri del presidente di fronte alla lapide che ricorda Moro, «il tenace costruttore dei tempi nuovi nella stagione dell’imbarbarimento della vita politica e civile», come lo ha definito, impossibile sfuggire alla tentazione di chiedersi di fronte a quali segni di imbarbarimento ci troviamo di fronte oggi, in questa nuova prova della democrazia italiana, la crisi politica che si avvita fino a diventare crisi istituzionale, crisi di sistema, con la messa in dubbio del patrimonio più rilevante che la Repubblica custodisce: la fiducia, la certezza dei cittadini che la loro partecipazione e il loro voto contano qualcosa. Senza il rispetto, la cura di questo patrimonio, la democrazia è una regola vuota.

Sono stati questi i pensieri del presidente Mattarella, lasciati intuire nelle parole dedicate ai parenti delle vittime del terrorismo rosso e dell’eversione nera, della mafia e degli apparati dello Stato deviati. Al termine di questi due mesi che hanno visto cadere una dopo l’altra tutte le ipotesi che avrebbero consentito un’uscita dalla crisi rispettosa del voto degli italiani, ma anche di una esigenza di continuità repubblicana, costituzionale, europea.

La prima era la cosiddetta “costituzionalizzazione” del Movimento 5 Stelle. Una strada che è stata percorsa con pazienza e con tenacia, e che fino a un certo punto aveva dato i suoi frutti. Una strada coerente con la nostra storia nazionale che ha visto più volte l’ingresso in scena di forze anti-sistema dotate di grande consenso e che poi sono state incluse nelle responsabilità di governo. Era evidente già prima del voto del 4 marzo che il dopo-elezioni sarebbe stato vinto da chi sarebbe riuscito a costituzionalizzare il Movimento 5 Stelle.

Luigi Di Maio, strappando con la fase embrionale di M5S dominata da Beppe Grillo, si era messo l’abito buono per incamminarsi in questo percorso: la moderazione, la scelta dei candidati, l’ostentato rispetto istituzionale nei confronti del Quirinale, il silenzio imposto alle voci più estremiste del movimento dovevano coronare la sua marcia trionfale verso Palazzo Chigi. Dopo settanta giorni di quel Di Maio resta un leader imbronciato, costretto a confessare la sua ingenuità, in stato di totale inferiority complex, avrebbe scritto il sommo Gianni Brera, nei confronti della squadra della Lega e del suo bomber Matteo Salvini. È stato lui, il leader leghista, a costituzionalizzare alla fine il Movimento 5 Stelle, o meglio a trascinarlo in un rapporto di collaborazione e di competizione che nell’uno e nell’altro caso ha come posta in gioco la distruzione e l’irrilevanza di tutte le altre forze in campo.

La seconda ipotesi riguardava la Lega. Un’evoluzione dell’ex partito di Umberto Bossi in senso europeo, più sul modello dei governi di Lombardia e Veneto che su quello del capo nazionale Salvini. Anche in questo caso, però, il successo elettorale della soluzione più radicale impersonata dal leader leghista spinge nella direzione opposta. Oggi la Lega è un partito che punta a occupare l’intero polo di centrodestra, qualcosa di impensabile nell’Europa occidentale, con un sistema di alleanze internazionali ribaltato rispetto alla fedeltà atlantica e al cammino di integrazione europea.

La crisi del sistema Italia
Il Parlamento è stato svuotato da anni, 
il governo è assente, la presidenza della Repubblica è coinvolta nell’impasse. 
Lo stallo politico è diventato istituzionale. E può avere effetti gravissimi
Dagli Stati Uniti alla Russia di Vladimir Putin. E dal rapporto privilegiato con Angela Merkel e Emmanuel Macron a un occhio di attenzione verso l’internazionale No Euro composta da Marine Le Pen, Alternative für Deutschland, Orbán, austriaci, olandesi, che già vede nell’Italia il modello di successo, il brand di riferimento. In un momento delicatissimo, in cui il futuro governo dovrà presiedere a tutte le scelte e le nomine Ue dei prossimi mesi: la commissione, il membro italiano del board della Banca centrale europea mentre Mario Draghi è in uscita, il turno elettorale della primavera 2019, con il nuovo Parlamento da indicare.

Negli ambienti economici si guarda con qualche fiducia a Giancarlo Giorgetti, nome conosciuto da anni, rassicurante per banca e finanze, autonomo nei giudizi e per nulla appiattito su Salvini. Ma le rassicurazioni si fermano qui, su tutto il resto c’è allarme rosso: i decreti attuativi delle ultime riforme dei governi Renzi e Gentiloni, come quella sul diritto fallimentare, la legge di bilancio, la debolezza dell’Italia nelle sedi europee.

La terza ipotesi di razionalità del sistema prevedeva la presa d’atto del declino berlusconiano, rimasto invece fino all’ultimo in campo a dare o a togliere le carte.

E, infine, un ripensamento radicale delle politiche e degli uomini all’interno del Partito democratico. Una riflessione sui cinque milioni persi alle elezioni. Un vero passo laterale del leader di ieri Renzi. Un dibattito reale sui motivi della sconfitta, i ceti sociali di riferimento, l’identità programmatica e ideale, i mondi che da anni si sentono abbandonati dal principale partito del centro-sinistra italiano. Quello che abbiamo cercato di fare con L’Espresso in queste settimane con gli interventi raccolti nella sezione che abbiamo chiamato “La traversata nel deserto”. Invece, dopo qualche giorno di smarrimento, è ricominciata l’illusione di sentirsi il centro del mondo. La mancanza di una comunicazione adeguata alla gravità del momento, per continuare sulla strada delle battute, la gara del tweet più acuto, e soprattutto l’assenza di una strategia politica che vada oltre l’autocompiacimento.
Per la prima volta, in questi due mesi, i capi del principale partito della sinistra italiana, architrave per anni del sistema politico, hanno lavorato non per dividere e separare il fronte avversario, come avrebbe fatto di istinto qualunque dirigente politico alle prime armi, ma addirittura per saldare, per fondere due partiti che almeno in partenza non sembravano una cosa sola, Lega e M5S. E, al tempo stesso, hanno lavorato in modo autolesionistico per isolare il Pd, mai come oggi senza alleati, dopo averlo separato da un bel pezzo dell’elettorato, in compagnia dei masochisti raggruppati sotto le insegne di Liberi e Uguali. Hanno tutti ottenuto il risultato che volevano: chi il suicidio, chi la nascita del fronte unico Lega-M5S, complimenti. Ci sarà ben poco da godere in questo spettacolo, però.

L’ultima ipotesi, questa non ancora smentita dai fatti, riguarda la società italiana. Che si ritrova due mesi dopo dimenticata dalla classe politica, vincitori e vinti, e sottoposta a nuovi stress. Nei prossimi giorni, con la formazione del nuovo governo, sono in arrivo altre prove micidiali. In questi casi si usa fare un omaggio alla maturità del popolo italiano, e non è un atto rituale perché il giudizio non può dipendere dal fatto che la scelta elettorale ci sia piaciuta o no.

Tuttavia ci saranno nuovi stress, nuove delusioni, scenari imprevedibili e in ognuno di questi passaggi ognuno di noi sarà chiamato ad attingere al serbatoio di valori di cui dispone.

Resistere alla tentazione di difendere un vecchio sistema indifendibile, ma anche alle sirene, le lusinghe e le minacce del nuovo. Per far passare anche questa estate che assomiglia molto a un inverno della Repubblica.

© Riproduzione riservata 11 maggio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/05/11/news/la-brutta-estate-della-repubblica-i-tre-fallimenti-che-portano-alla-svolta-traumatica-1.321769?ref=RHRR-BE
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