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Autore Discussione: Marco DAMILANO -  (Letto 65423 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Dicembre 16, 2011, 05:08:42 pm »

Ma B. è ancora al potere

di Marco Damilano

Niente legge sul conflitto di interessi. Niente asta per i canali tivù. Un suo uomo al Tg1 dopo Minzolini. Un altro suo uomo, Catricalà, ai vertici di Palazzo Chigi. E l'ex ministro Paolo Romani rimasto al fianco di Passera...

(14 dicembre 2011)

Se ne sta lì, seduto disciplinatamente al suo banco, terzo emiciclo da destra, quarta fila, infilato tra il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto e il segretario del partito Angelino Alfano. Il deputato semplice Silvio Berlusconi prende appunti, vota la fiducia al governo, si astiene dalle polemiche. Nel Pdl, vedendolo così mansueto, lo paragonano al dottor Hannibal Lecter, il cannibale. In apparenza diventato buono, ma sempre pronto a colpire.

L'ex premier ha festeggiato, si fa per dire, il primo mese di lontananza da Palazzo Chigi in modo tradizionale: presentando l'ultimo libro di Bruno Vespa nella solita cornice del teatro di Adriano a due passi da Montecitorio. Ed è sembrato che nulla fosse cambiato. Anche sul sito del Pdl va tutto come prima: in home page c'è un Silvio rassicurante ("L'Italia ce la farà") con "i risultati del nostro governo", come se fosse ancora in carica quello Pdl-Lega. Anche se i rapporti con l'amico Umberto Bossi sono ai minimi storici e il leader della Lega si è spinto a osare l'indicibile, "Berlusconi comunista", una contraddizione in termini, una bestemmia. Ma l'ex alleato non sembra preoccuparsi più di tanto. Se il Carroccio intende tornare a cavalcare la secessione si accomodi, lui, Berlusconi, si sente ancora il leader della maggioranza. Dal suo punto di vista, non ha mai abbandonato il governo. E non ha tutti i torti.

Nei primi anni Novanta, il Cavaliere non era ancora ufficialmente sceso in politica ma dettava la linea al pentapartito, stabiliva l'agenda dei lavori parlamentari e arrivava a sostituire i ministri: quando, per esempio, cinque ministri dc si dimisero contro la legge Mammì e furono sostituiti in poche ore, o quando il repubblicano Giuseppe Galasso fu eliminato dal ministero delle Poste e al suo posto entrò il socialdemocratico Carlo Vizzini (destinato, nella seconda Repubblica, a una bella carriera parlamentare con Forza Italia).

Oggi Berlusconi torna a questo modello antico e collaudato: in più, rispetto a vent'anni fa, può vantare il gruppo parlamentare più numeroso, riconvertito in partito-azienda, con la missione di difendere la ragione sociale dell'impegno del Cavaliere in politica, gli affetti più cari: Mediaset e le sue tv.

Un fronte su cui ad Arcore non si aspettano nessuna sorpresa negativa, in realtà. L'ultima conferma è arrivata la scorsa settimana, quando il neo-presidente dell'Authority sull'Antitrust Giovanni Pitruzzella, nominato il 18 novembre al posto di Antonio Catricalà, amico e avvocato del presidente del Senato Renato Schifani, nella sua prima uscita pubblica si è affrettato a garantire che niente sarà toccato sulla fusione tra Mediaset e la Dmt, la società di torri per le trasmissioni tv che controlla quasi 3 mila stazioni e 2 mila siti sul territorio nazionale. La nuova società controllerà l'80 per cento del mercato, insieme a Raiway: un duopolio, o meglio un monopolio privato, che ricalca alla perfezione il mercato televisivo e pubblicitario instaurato in Italia dalla legge Mammì in poi. L'Antitrust, assicura Pitruzzella, si limiterà a prendere atto delle decisioni precedenti, "troveremo la via più saggia e giuridicamente ineccepibile", ha dichiarato alla "Stampa" l'11 novembre. Ad Arcore possono stare tranquilli.

Il fattore B. pesa ancora di più sulla questione del beauty contest per le frequenze televisive. Sull'assegnazione dei sei multiplex a Mediaset e Rai senza gara, valore stimato almeno un miliardo di euro (ma c'è chi ipotizza che le entrate per lo Stato sarebbero molto più consistenti: 4-5 miliardi di euro), il super-ministro Corrado Passera per ora non si è espresso. Al suo posto ha parlato un finto Passera su Twitter, ripreso da agenzie e televisioni, ancora più evasivo dell'originale. E soprattutto è intervenuto il diretto interessato, cioè Berlusconi: "L'asta non si può fare, andrebbe deserta". Un diktat che lascia ben poche illusioni agli operatori concorrenti, da Sky a Ti-media, sulla possibilità che il governo Monti decida di riaprire il pacchetto e di mettere in gara le frequenze. "Un'eventuale asta", dicono, "non potrebbe esserci prima della primavera 2012: viene a cadere l'argomento di chi vorrebbe inserire i ricavi attesi dallo Stato nella manovra in discussione alle Camere in questi giorni".


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« Risposta #61 inserito:: Dicembre 26, 2011, 04:14:59 pm »

« Hallelujah

Che cos’è l’Anti-politica »

La normalità al potere

Marco DAMILANO

Si è presentato nelle case degli italiani all’ora di cena, nei tg delle otto, con un semplice buonasera. Niente retorica, neppure un sorriso, solo alla fine una battuta in puro stile anglosassone. Buonasera, eccomi qua, sono il professor Mario Monti: l’Ufo del Palazzo romano, il Supermario di Bruxelles, descritto nei giorni scorsi come il salvatore della Patria sceso in terra (dagli adulatori, già schierati in forze) o come il capo del complotto demo-pluto-ecc. (dalla ridotta della Valtellina berlusconiana), si è mostrato infine con il volto dell’italiano normale chiamato a fare uno sforzo straordinario.

Il cambio di stile è rivoluzionario. Bastava vedere, qualche minuto prima, il videomessaggio del premier uscente. E dire che Silvio Berlusconi, almeno in questo caso, aveva tentato di indossare i panni dello statista buono che per generosità e amore nei confronti del Paese fa un passo indietro. Niente da fare: sia pure moderato nella forma, il Cavaliere del congedo era il solito Berlusconi che abbiamo conosciuto in questi anni. Ego straripante, tutto un ripetere la parola Io, diminutivo di dio, assolutamente convinto di sé e della propria funzione provvidenziale per l’Italia, anche quando i fatti si sono incaricati di smentirlo così pesantemente. «Quando si sente dire che serve un governo tecnico al Consiglio dei ministri ci mettiamo a ridere. Non vedo nessun tecnico in giro che abbia la mia stessa autorevolezza personale e politica», aveva ridicolizzato la sola ipotesi di essere sostituito l’uomo di Arcore il 9 settembre, appena due mesi fa, ad Atreju, la festa dei giovani del Pdl a Roma. Ieri sera, forse, avrebbe voluto ripeterlo. E invece gli toccava ripetere meccanicamente responsabilità e generosità, termini a lui ignoti.

La parola io non esiste, invece, per il professor Monti. Non perché sia privo di autostima: anzi, se c’è una cosa che unisce il premier incaricato a quello uscente è proprio la certezza di essere un numero uno, un’eccellenza. Ma oggi è il tempo dell’emergenza, per affrontarla servono gli uomini normali, come altre volte nella storia. L’entrata in scena di Monti fa la stessa impressione che dovette fare nel 1945 l’arrivo al Viminale dopo il ventennio fascista di personaggi come Ferruccio Parri, il comandante partigiano Maurizio, l’azionista che fu il primo presidente del Consiglio dopo la Liberazione, o come Alcide De Gasperi, che era stato deputato del Parlamento austriaco. Austeri, sobri, anti-retorici, non a caso marchiati all’epoca come stranieri, o addirittura invasori, da una parte del Paese. I nostalgici del lungo e tragico carnevale mussoliniano, i qualunquisti di Guglielmo Giannini, progenitore dei Feltri, dei Sallusti, dei Ferrara di oggi.

Anni fa il filosofo Remo Bodei in “Il noi diviso” le definì passioni grigie, le virtù degli eroi borghesi, inevitabilmente minoritarie, eppure essenziali nei momenti di emergenza: «scarsamente diffuse in Italia, respingono il fanatismo e l’estremismo, prediligono l’efficienza e la normalità. Pongono in primo piano i diritti e i doveri, la ragionevolezza, l’onestà, la serietà. Si presentano grigie e impiegatizie, modeste e di routine soltanto a coloro che considerano la democrazia un regime orientato dai gusti volgari e dalle opinioni superficiali delle folle o retto da potenti lobbies che manipolano spregiudicatamente il consenso». Eroi come Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giorgio Ambrosoli che nella lettera-testamento alla moglie Anna aveva lasciato detto di educare i figli al dovere verso il loro Paese, «si chiami Italia o si chiami Europa».

Italia e Europa sono oggi la posta in gioco. E già ieri sera il professor Monti, con sobrietà e severità, senza darlo a vedere, ha dichiarato chiusa l’era del Truman Show, il mondo a parte dei ristoranti pieni propagandati fino a una settimana fa. Via all’operazione verità, a una cura dolorosa ma necessaria. Con «un’accresciuta attenzione all’equità sociale», un modo garbato per dire che in questi anni l’attenzione è stata nulla. E «un futuro concreto di dignità e di speranza», un cammino faticoso da compiere tutti insieme, non la scorciatoia virtuale di un miracolo che non c’è mai stato.

Un cammino pieno di ostacoli, di serpenti sotto le foglie. La prima mina da disennescare spetta allo stesso Monti, quando presenterà la lista dei ministri: il suo sarà il governo dei competenti, per fortuna, ma i competenti – si spera – non si trovano solo alla Bocconi o alla Cattolica ma anche in qualche università pubblica, non sono solo di sesso maschile, non sono solo uomini di una certa età. Il governo Monti non può nascere lontano, troppo lontano dal vento di cambiamento che ha soffiato in questi ultimi mesi: il movimento delle donne, le elezioni di Milano e di Napoli, i referendum, il modello Pisapia, l’esigenza di ritrovare una partecipazione civile. Il secondo rischio è legato al primo: la cessione di sovranità della politica, con pesanti ripercussioni sulla democrazia. Un pericolo ben presente nell’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: oggi c’è bisogno di uno sforzo comune, poi le forze politiche torneranno a dividersi alle elezioni, senza confondersi e senza perdere la loro identità. La scelta di Monti arriva dopo la dissoluzione del Pdl (mesi di «rotture e tensioni», ha fatto notare il capo dello Stato), l’arbitro Napolitano ha fischiato la sospensione della partita per inagibilità del campo, troppi fallacci, troppe scorrettezze, troppo fango. Ora arriva il Commissario, a ripulire, a ricominciare, a ricostruire. E poi, dopo la tregua, la partita dovrà riprendere: si spera con magliette pulite, regole del gioco rispettate, squadre rimaneggiate con nuovi acquisti, nuovi allenatori, nuovi giocatori.

È questa la sfida che si apre da questa mattina. Per l’Italia è «la sfida del riscatto», come ha detto ieri sera Monti. Per la politica la tregua è la grande occasione: dimostrare di essere all’altezza, trovare la capacità di autoriformarsi, quella che i partiti non sono riusciti a mettere in campo da soli, senza essere costretti dalla forza dei fatti. Quanto sta accadendo è poco rassicurante: paletti, condizioni, veti reciproci, veleni, tentazioni di delimitare la sfera di azione del nuovo governo. Sul ministero della Giustizia, ad esempio, ieri sera circolava addirittura la voce che il Pdl avesse proposto come nome tecnico il magistrato Augusta Iannini, capo dipartimento di via Arenula, la moglie di Bruno Vespa. La solita partita sulla Giustizia, il ricatto berlusconiano su cui andò a infrangersi anche la Bicamerale. E il Cavaliere ha già avvertito: senza di me il governo non ha la maggioranza.

Si vedrà nelle prossime ore. Lo scontro è tra chi vuole un governo forte che consenta ai partiti di rinnovare la politica prima di ridare la parola ai cittadini e chi lo vuole fin da ora trasformare in un governicchio natalizio, un decreto sui conti pubblici e via. Se fosse così, il tentativo Monti si ridurrebbe a ben poca cosa: una manovra salva-Italia, qualche mese di governo dell’economia e poi si tornerà a votare. Ma le ambizioni del Professore sembrano ben altre. Sono le ambizioni straordinarie di un uomo normale. La normalità al potere.

da - http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/11/14/la-normalita-al-potere/
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« Risposta #62 inserito:: Dicembre 26, 2011, 04:16:39 pm »

L’Otto Novembre

Hallelujah »

L’Ufo Monti e il fantasma di Hammamet

Marco Damilano

Il Fantasma si è materializzato ieri notte, alle undici e mezzo passate, nella sala di Palazzo Madama in cui da più di due ore andava avanti il confronto tra Silvio Berlusconi e i senatori del Pdl. Un dialogo duro, drammatico, finalmente sincero. Tra un premier febbricitante, confuso, eppure deciso a resistere, e i colonnelli e i peones che, dopo anni di silenzio, prendono la parola e provano a dire come la pensano.

“Presidente”, esclama Domenico Nania, ex An, contrario al governo Monti come i suoi capicorrente La Russa e Matteoli, “non dare retta a quelli che ti chiedono un passo indietro. Ricorda cosa capitò a Craxi nel 1992: rinunciò alla guida del governo a favore di Amato e firmò la sua fine. Guarda cosa gli successe: le inchieste, le condanne, l’esilio, Hammamet”.

Eccolo il fantasma, l’incubo di Berlusconi che non si può evocare in queste giornate di passione: lo spettro di Bettino, Hammamet, la stazione di vacanze tunisina che è diventata sinonimo di fuga, spoliazione del potere, malattia, morte. La paura di Berlusconi di fare la fine di Craxi: perdere il governo, le aziende, il potere, tutto.

Chiede la parola il senatore Ferruccio Saro, favorevole alle larghe intese. Lui nel 1992-93 c’era, era il vice-presidente socialista della giunta regionale del Friuli. “Presidente, non ascoltare chi ti consiglia di resistere a tutti i costi. Se Craxi avesse cercato una soluzione politica finché era in tempo avrebbe salvato il Psi e forse anche se stesso. Invece si fece condizionare da chi lo spingeva a non mollare, chi lo trascinò sulla strada del capro espiatorio, con il poker d’assi contro Di Pietro e i giudici di Milano. Gli stessi che negli anni successivi non sono mai andati a trovarlo ad Hammamet”.

Berlusconi china il capo. Tra quelli che non hanno più rivisto Craxi c’è anche lui: volò ad Hammamet solo per i funerali del capo socialista, nel 2000. E forse ricorda che accade sempre nella storia, chi è stato traditore sarà tradito, e chi ha beneficiato dell’amico in rovina sarà lasciato da chi gli sta vicino.

La riunione si scioglie a mezzanotte con la proposta del premier di mettere in pista il nome del sempreverde Lamberto Dini. All’uscita dal Senato il fantasma Craxi torna ad agitarsi: una piccola folla riconosce Berlusconi, gli gridano “vergogna, buffone” mentre sale in macchina. L’hotel Raphael, quello delle monetine del ‘93, dista pochi metri. Quel giorno di un crudele aprile l’imprenditore Berlusconi andò a portare la sua solidarietà all’amico Bettino, e fu una delle ultime volte che si videro.

Questa mattina i fantasmi non erano ancora del tutto spariti a Palazzo Madama. Ma intanto è apparso l’Ufo. Alle 10 e 42 è entrato in aula il neo-senatore Mario Monti. Accolto dall’assemblea con un timido applauso, con l’eccezione dei leghisti rimasti fermi, quasi a rispettare l’understatement del nuovo collega. L’Ufo in visita nei palazzi del potere romano era vestito di blu e moderatamente sorridente. Il primo a stringergli la mano è stato, guarda caso, l’ex socialista Saro. Poi il leghista Castelli, i democratici Soliani, Del Vecchio, Procacci e Sanna, l’udc Serra. L’Ufo si è mosso, impercettibilmente, per salutare il novantenne Emilio Colombo, senatore a vita come lui. Si è acceso solo quando ha visto arrivare Emma Bonino, commissaria europea insieme a lui dal ‘94 al ‘99. C’è stato un abbraccio e perfino un bacio. Allora anche la senatrice Maria Pia Garavaglia del Pd ha preso coraggio e si è slanciata tra le braccia dell’Ufo, stampandogli sulla guancia due baci. Parla con Gasparri e bacia pure Dini. Alle 10.49, sette minuti dopo, l’Ufo è uscito, mentre Ciarrapico, il senatore nostalgico del Duce, inveiva contro “cento figli di puttana” che la sera prima l’hanno fischiato, con Berlusconi. Sette minuti senza sedersi, senza sfiorare un seggio del Senato, senza mostrare emozioni: l’Ufo è planato, ma non ancora atterrato.

In queste ore c’è chi a Palazzo Grazioli si illude di far fallire l’operazione Monti mettendo in campo un nome alternativo: Angelino Alfano o Giuliano Amato. Napolitano parla con i grandi del mondo, da Obama a Sarkozy, Monti parla con il governatore della Banca d’Italia, Berlusconi parla con La Russa e con Baccini. Come previsto il Pdl si sta sfaldando nel peggiore dei modi: arrivano notizie di senatori che vengono alle mani nella mensa di Palazzo Madama, Frattini chiama fascista La Russa, Ignazio replica: “Frattini chi?”.

Finisce ingloriosamente una storia, ma non è terminata l’agonia del Pdl. C’è ancora una notte e l’intera giornata di domani. Ore tormentate, durante le quali il fantasma di Craxi ad Hammamet continuerà a turbare i sonni di Berlusconi. E l’Ufo Monti aspetta di atterrare tra noi, poveri abitanti del pianeta Italia.

DA - http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/11/11/lufo-monti-e-il-fantasma-di-hammamet/
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« Risposta #63 inserito:: Febbraio 02, 2012, 10:44:25 am »


Silvio mi disse: sono più forte di Craxi

(19 gennaio 2012)

Il nuovo libro di Marco Damilano (Laterza)


"Nel '90 Berlusconi aveva cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie tv, lo faccio fuori in cinque minuti"". Carlo De Benedetti, il presidente del gruppo Espresso-Repubblica, nel 1992-93 è considerato da Craxi e Andreotti il capo del partito trasversale che sponsorizza l'azione dei magistrati. "Pensavano che fossi il diavolo", spiega l'Ingegnere nel libro di Marco Damilano. "E invece avevano il nemico in casa: Berlusconi è l'unico che ha tratto vantaggio dall'operazione Mani Pulite".

Un sorprendente racconto sulla fine della Prima Repubblica. Le confidenze di Gianni Agnelli, l'incontro con Bossi ("Gli chiesi: "Voglio sapere da lei una sola cosa, dove lo mette il debito pubblico?" Mi rispose: "A Roma". Capii che non valeva più la pena di parlargli"), la guerra sulla Mondadori: "Andreotti mi chiamò a Palazzo Chigi e mi disse: "Che cosa perdete tempo e soldi con gli avvocati? Ci pensiamo noi. Quando lei uscirà da questa stanza troverà nell'anticamera chi le può dare una mano". Uscii, ad aspettarmi c'era Luigi Bisignani".

Giudizi spiazzanti: "Consideravo Craxi un bandito con atteggiamenti fascistoidi. "Guardi", ti diceva, "lei di politica non capisce un cazzo". Ma negli anni Ottanta era difficile dargli torto nell'esigenza di modernizzazione del Paese". Le inchieste che travolgono l'intero establishment: "All'improvviso è crollato il sistema delle alleanze. Ognuno ha cominciato a giocare per sé perché ognuno aveva la coscienza sporca. Ci siamo trovati di fronte a Di Pietro che faceva paura". Il dramma di Gardini: "Lo incontrai tre giorni prima che si sparasse, si confidò: "Non posso pensare a finire in carcere, non credo che reggerei"". La conclusione amara: "Cos'è rimasto di Tangentopoli? Niente. La bufera è passata. E in questa Italia immutabile, a lungo ha vinto Berlusconi".


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« Risposta #64 inserito:: Marzo 10, 2012, 04:14:33 pm »

La sentenza

Dell'Utri esulta, Berlusconi no

di Marco Damilano


La Cassazione ha deciso: processo da rifare per l'ex cofondatore di Forza Italia accusato di mafia.

Resta quindi il buio sul presunto patto iniziale tra Cosa Nostra e Fininvest.

Ma tra l'Italia di Borsellino e quella che considera Mangano un eroe la partita ormai è chiusa da anni

(10 marzo 2012)

Raccontano che il senatore Marcello Dell'Utri negli ultimi anni ha preso l'abitudine di leggere i giornali saltando le prime venti pagine e andando direttamente al calcio. Probabilmente per evitare di imbattersi in notizie sgradite, quelle che lo hanno riguardato in questi lustri. Ora potrà immergersi nelle prime pagine, finalmente positive. Come la sentenza della Cassazione che ha annullato le due condanne di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il clan berlusconiano esulta e Maristella Gelmini, forse ignorando il significato della parola, invoca la restituzione dell'«onore» a Dell'Utri. Lasciamo perdere l'onore e la Gelmini e andiamo al punto: se il senatore fosse stato condannato l'intera storia del berlusconismo sarebbe stata riscritta. Una sentenza della Cassazione, definitiva, avrebbe certificato che alle origini dell'Impero del Biscione c'era stato un patto occulto con Cosa Nostra simboleggiato da Dell'Utri e dalla presenza dello stalliere Vittorio Mangano ad Arcore. Per Berlusconi sarebbe stato qualcosa di peggio della condanna su Mills, almeno sul piano simbolico. L'annullamento del processo consente invece di tenere in piedi il mito dell'imprenditore che si è fatto da sé, per i suoi tifosi. Ma non cancella, anzi, aumenta il mistero di quegli anni Settanta in cui Berlusconi circolava con baffetti e basette, con una pistola sul tavolo, e il futuro senatore era il suo solerte assistente personale. «Come ha fatto i soldi?», si chiede Nanni Moretti nel "Caimano". La domanda continua a restare senza risposta.

E' Mangano, defunto da molti anni, il vero vincitore. E' stato il suo silenzio a salvare Dell'Utri. E il senatore, riconoscente, lo ha sempre definito il mio eroe. Per il Dottore, al contrario, la condanna era arrivata già molti anni fa. Quando Berlusconi, con l'aria di promuoverlo, lo aveva scaricato. Molti anni fa, nel 1994. Eppure Dell'Utri era stato il più convinto sostenitore della necessità di scendere in politica. L'ex dc milanese Ezio Cartotto ha raccontato che il capo di Publitalia gli parlò per la prima volta di un partito guidato da Berlusconi addirittura nell'estate 1992, quando l'amico Craxi era ancora in sella. E toccò a lui, nel 1993-94, mettere in piedi la prima ossatura di Forza Italia. Ma dopo la vittoria elettorale, quando arrivò il potere, Dell'Utri fu tenuto lontano da tutti i posti che contavano. Non divenne ministro, al contrario di Cesare Previti che fu proposto addirittura per il ministero della Giustizia e finì alla Difesa. E non divenne neppure segretario o coordinatore di Forza Italia, come sperava. Berlusconi lo tenne lontano da tutto. E con il passare degli anni, e con l'arrivo dei processi, aumentava la distanza. Dell'Utri scelse la via della difesa nel processo, e questo gli va sicuramente riconosciuto. Mentre Previti, al contrario, pretese leggi ad personam e si fece scudo del mandato parlamentare fino alla condanna definitiva. In comune, raccontano, i due hanno l'odio per Gianni Letta: l'ultimo arrivato che è riuscito a prendere il loro posto come braccio destro del Cavaliere.

Così, piano piano, la figura di Dell'Utri si è rimpicciolita. In molti si sono quasi dimenticati di lui. Con i suoi circoli inesistenti, i suoi falsi diari di Hitler, le sue iniziative destinate al fallimento. Fino al coinvolgimento nella P3, dove appariva come un mediocre affarista, dedito al piccolo cabotaggio, più che una sofisticata mente criminale.

Giganteggiava, per paradosso, solo nell'aula del tribunale di Palermo, nei racconti dei pentiti. E Berlusconi di lui ha parlato solo una volta, anzi ha taciuto: quando nel 2002 i giudici andarono a Palazzo Chigi per interrogarlo. E il premier sull'amico si avvalse della facoltà di non rispondere. Nessun tentativo di difesa, neppure una parola. Perché? Perché Dell'Utri è stato tenuto lontano, al contrario di Previti o di Verdini? Come se il berlusconismo fosse capace di affiancarsi a chiunque e di digerire tutto: da Cosentino alle Olgettine. Ma Dell'Utri no. Dell'Utri è rimasto lì, come un'Ombra. Il custode dei segreti. La cattiva coscienza della storia italiana di Silvio. Il Mistero Dell'Utri continuerà, anche dopo lo stop della Cassazione. Perché non spetta ai magistrati riscrivere la storia né guidare le rivoluzioni politiche, almeno questo l'abbiamo capito in questi venti anni di Tangentopoli. Proprio per questo, però, non abbiamo bisogno di un processo per decidere da che parte stare. Non abbiamo bisogno di restare nella dinamica delle assoluzioni e delle condanne. Non è una sentenza in tribunale che può cambiare il giudizio storico e politico. Non è un processo annullato che può mutare la sostanza. Tra l'Italia di Paolo Borsellino e quella che considera Mangano un eroe la partita è chiusa, da molti anni. Sentenza di condanna o no.

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« Risposta #65 inserito:: Aprile 02, 2012, 12:07:31 am »

Politica

Adesso Monti è un po' nei guai

di Marco Damilano

Per il governo è ufficialmente finita la luna di miele. E non stiamo parlando solo della riforma del lavoro: a ostacolare il premier ci sono anche la Rai, la giustizia, la legge sulla corruzione e le nomine. E al professore non basta attaccarsi ai sondaggi

(29 marzo 2012)

Spero che restino leali...", ripete in privato Mario Monti a proposito dei partiti che sostengono il governo, ora che la luna di miele dei primi cento giorni è finita e che si trova ad affrontare la crescente insofferenza dei suoi sostenitori. Premier in bilico tra la Prima e la Terza Repubblica. Tra gli elogi di Barack Obama al vertice internazionale di Seul e una petulante telefonata da Roma di Fabrizio Cicchitto che minaccia sfracelli del Pdl sulla giustizia e che lo obbliga a uscire dalla sala del summit impedendogli di ascoltarli.

Tra il fantasma di Giulio Andreotti che riappare sul palcoscenico con il suo maledetto "tirare a campare" ("un illustrissimo", lo definisce il suo successore a Palazzo Chigi in Asia, identico al Divo Giulio per calma zen e ironia sferzante) e la spinta a procedere con rapidità verso il futuro: riscrittura della Costituzione formale, nella seconda parte che regola il funzionamento delle istituzioni, da assegnare ai partiti, e cambiamento della Costituzione materiale, fine dell'obbligo di concertazione con le parti sociali, l'eliminazione dell'articolo 18 che, ha fatto notare il vecchio socialista Rino Formica sul "Foglio", senza proclamarlo svuota di senso il caposaldo della Carta del 1948, la Repubblica fondata sul lavoro. "Forse troppi fronti aperti, in un colpo solo", si allarma un deputato del Terzo Polo tra i più legati a Monti. "Sfidare insieme sindacati e partiti è nel carattere del professore, fermamente convinto delle sue posizioni. Ma fossi in lui proverei a evitarlo".

Non c'è molto tempo. Alla fine della legislatura manca meno di un anno, ma il governo capirà quali sono i suoi margini di manovra nel prossimo mese. Quanto basta per spedire il disegno di legge Fornero in Senato, e vedere che effetto fa. "Se c'è la volontà della maggioranza la riforma si può approvare in tempi brevi", garantisce il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento Giampaolo D'Andrea, unico politico di esperienza della compagnia governativa, area Pd. Non sarà facile, però, in un mese che sarà interrotto da festività religiose e civili e soprattutto dalla campagna per il voto amministrativo, con il Pdl che ha scelto la modifica dell'articolo 18 come terreno di scontro elettorale con il Pd. Recita Angelino Alfano, come fosse una filastrocca: "La Fiom condiziona la Cgil, che trascina il Pd, che blocca il governo Monti. Dunque, Monti rischia di vedere frenate le sue scelte dalla Fiom. Non possiamo accettarlo". Viste da Pier Luigi Bersani le cose stanno all'opposto: "Non credo che Monti sia la Thatcher, come ha scritto qualche giornale straniero. Deve sapere che porterà a casa la sua riforma, ma che in Parlamento sarà modificata. E' la democrazia".

Come se non bastasse lo scontro sul lavoro, c'è l'urgenza dei partiti di battere un colpo sulle riforme istituzionali, dopo il diluvio di parole senza risultato degli ultimi anni. Il 16 febbraio i leader di maggioranza, l'Abc (Alfano, Bersani, Casini) si incontrarono e poi annunciarono la fumata bianca: raggiunto l'accordo, in 15 giorni partirà l'esame della riforma costituzionale al Senato. Da quell'annuncio è trascorso oltre un mese e mezzo, nel frattempo non è successo nulla, e ora ci risiamo: altro vertice tra i big e gli esperti capeggiati da Luciano Violante, nuovo comunicato congiunto, tabella di marcia invariata. "Tra 15 giorni la riforma della Costituzione andrà in discussione a Palazzo Madama", tornano a giurare i capipartito. Sicuri di riuscire ad approvare in prima lettura la riduzione del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo, come ha promesso Renato Schifani a Giorgio Napolitano. Per poi passare al piatto forte, la riforma elettorale. Col grande ritorno della proporzionale che fa esultare Pier Ferdinando Casini.

Finito? No, perché per il governo in arrivo ci sono almeno altre due scadenze impossibili da evitare. Il 28 marzo è terminato il mandato del consiglio di amministrazione Rai presieduto da Paolo Garimberti. E alla Camera c'è in discussione il disegno di legge anti-corruzione che suscita le ire del Pdl, al punto da mettere in discussione il ruolo del ministro Paola Severino. Perché l'articolo 18 sarà pure materia negoziabile, ma non si possono toccare queste materie senza gli uomini del Cavaliere: giustizia e informazione, le due grandi ossessioni dell'epoca berlusconiana. E nel Pdl temono che il premier voglia riequilibrare l'impopolarità a sinistra provocata dal dissenso con Cgil e Pd con un intervento sulla Rai e con l'introduzione di nuovi reati contro la corruzione politica. "Non vorrei che Monti si comportasse come quell'arbitro che concede un calcio di rigore inesistente contro una squadra e poi, per compensare, si inventa un altro rigore, questa volta nell'area opposta. Sarebbe un doppio errore", spiega il vicecapogruppo Osvaldo Napoli.

Lo scambio, riequilibrare lo scontro con il Pd sull'articolo 18 con un provvedimento sulla Rai indigesto al Pdl, magari con un decreto che commissariasse l'azienda, era stato in effetti consigliato al premier, ma in questa situazione è sembrato un azzardo. Meglio rinunciare, in questo ingorgo di decreti, provvedimenti, voti di fiducia. In questo revival di Prima Repubblica, in cui tornano di moda spettacoli andreottiani: dall'estero il premier che minaccia la crisi, a Roma i partiti della maggioranza che sgomitano per allargare i propri spazi. E con lo spread tra Monti e i partiti che aumenta.

"Nonostante alcuni giorni di declino a causa delle nostre misure sul lavoro questo governo sta godendo un alto consenso nei sondaggi, i partiti no", sibila il professore da Tokyo. Non esattamente un complimento. Ma il premier avverte la grande voglia dei professionisti della politica di riportarlo a quote più umane. Magari attribuendogli disegni politici da manovratore di Transatlantico. "C'è un Willy il coyote che aveva preparato una trappola contro di noi del Pd e contro la Cgil, ma ha mancato l'obiettivo di dividerci", ha scandito Massimo D'Alema all'ultima direzione del Pd. E' a lui che molto probabilmente si riferisce, a Monti. E' lui, secondo D'Alema, che ha provato a separare il Pd dalla Cgil.

Eppure, fino a 20 giorni fa, i partiti stavano bene attenti a non attaccare frontalmente il premier tecnico, osannato dalle più importanti cancellerie e dalla stampa internazionale. E sfogliavano con un certo spavento le rilevazioni su una futuribile lista Monti. Con l'avvicinarsi delle amministrative, però, Bersani e Alfano sentono il bisogno di uscire dalla paralisi. La bozza di nuova legge elettorale, con l'addio al maggioritario e al bipolarismo, riflette l'equilibrio del terrore tra i partiti, la grande paura di sparire, o almeno di crollare rovinosamente nel 2013. Ecco una legge che agli occhi dei segretari ha un pregio indiscutibile: nessuno vince, ma nessuno perde. E dopo il voto la parola tornerà ai partiti, come nella Prima Repubblica. Con la differenza che nel primo cinquantennio di vita repubblicana il 40 per cento del Parlamento restava fuori dall'area di governo: il Pci a sinistra, il Msi a destra. Mentre ora che i partiti sono ridotti in gran parte a cartelli elettorali senza identità precise e senza barriere ideologiche, ogni alleanza, ogni gioco è possibile. Sarà un tripudio di fantasia.

Basta parlare con il terzo partner della maggioranza, Casini, il più soddisfatto del trio, per capire dove si andrà a parare. Il leader dell'Udc sminuisce perfino i pochi, timidissimi elementi di maggioritario sopravvissuti nella bozza. Il premio di 36 seggi per il partito che arriva primo (forse attribuiti anche al secondo)? "Non lo chiamerei premio, sarà al massimo un premietto...".

L'obbligo per i partiti di indicare il nome del loro candidato premier, una novità spuntata negli ultimi giorni e interpretata da qualcuno come un altolà a Monti che come senatore a vita non può correre alle elezioni? "Ragazzi, ma è solo un dettaglio!", minimizza Casini. "Sì, se il Pd fosse il primo partito Bersani potrebbe ricevere dal capo dello Stato l'incarico di formare il nuovo governo. Ma se non riuscisse a trovare una maggioranza si farebbe un bel giro e poi sarebbe costretto a rinunciare. I giochi si faranno tutti in Parlamento, punto". Mani libere, maggioranze variabili, aghi della bilancia: un armamentario da prima, primissima Repubblica. Che però, per paradosso, potrebbe aprire la strada alla conferma della Grande Coalizione anche nella prossima legislatura. Altro che "breve eccezione", se nessuno vince le elezioni i partiti potrebbero ritrovarsi con Monti a Palazzo Chigi forever. E il problema di tirare a campare diventerebbe tutto loro.

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« Risposta #66 inserito:: Maggio 11, 2012, 12:00:09 am »

Prodi: 'Dove sbaglia Bersani'

di Marco Damilano

«Il segretario del Pd dice di voler fare come Hollande, ma la riforma elettorale che lui stesso ha proposto ci farebbe finire come la Grecia, non come la Francia». Parla l'ex premier: dei partiti, di Grillo e di molto altro

(10 maggio 2012)

La rivolta contro l'Europa tedesca, la vittoria di Beppe Grillo, la legge elettorale elaborata dai partiti della maggioranza in Italia "che rischia di allontanarci dalla Francia e di portarci verso la Grecia: come fa Bersani a dire che vuole fare come Hollande, con la legge elettorale che lui ha proposto e che sostiene?". Romano Prodi si muove su scala globale, salta da un aereo all'altro: la scorsa settimana un viaggio nell'Africa profonda, ad Addis Abeba per la conferenza internazionale organizzata dalla fondazione per la Collaborazione dei popoli da lui presieduta, a Wolisso, quasi tre ore di auto dalla capitale dell'Etiopia, per visitare l'ospedale del Cuamm-Medici per l'Africa, l'ong cattolica di Padova, un gioiello italiano. Ritorno a Bologna e nuova partenza: a Vienna per un dialogo con il cardinale Christoph Schönborn, a Bruxelles per un meeting con i focolarini, a Oxford dai gesuiti per la prestigiosa John Henry Newman Lecture con un intervento su "Christianity and Globalization", appuntamenti cui il cattolico Prodi tiene moltissimo. Senza perdere di vista l'Europa elettorale in tempesta: in Francia, in Grecia, in Germania. E in Italia.

C'è un filo che lega la Francia, le elezioni in Grecia e il nostro voto: una rivolta contro l'Europa targata Merkel?
"In Grecia la spiegazione del voto è chiarissima. C'è un livello di sofferenza della popolazione molto elevato, si poteva porre rimedio al dissesto dei conti molto prima, non è stato fatto per esclusivi motivi di politica interna tedesca. Una preoccupazione per il futuro che arriva dopo anni in cui in Europa la ricetta per vincere le elezioni è stata cavalcare tutte le paure. La paura degli immigrati, la paura della Cina... Non parlerei di rivolta anti-europea. C'è una reazione contro la politica, contro l'establishment e dunque anche contro l'Europa".

Beppe Grillo ha girato le piazze chiedendo l'uscita dell'Italia dall'euro...
"Sì, ma l'attacco all'euro è solo una carta in più, in un pacchetto di fuoriuscite ci metti anche la moneta. L'Europa è l'osso aggiunto, ma la carne del successo di Grillo è un'altra, è la polemica contro i partiti. Si cominciò con gli attacchi alla Casta, poi sono arrivati gli scandali legati ai rimborsi e al finanziamento pubblico che hanno allargato l'indignazione della gente e lo spazio di Grillo".

E' solo anti-politica? Oppure sono umori che vanno ascoltati?
"Io Grillo l'ho ascoltato, l'ho incontrato quando ero a Palazzo Chigi. Lui poi buttò tutto in ridicolo dicendo che dormivo mentre lui parlava... Non solo in Italia ma in tutta Europa la reazione dell'opinione pubblica va ascoltata nella parte propositiva. La sofferenza comune è troppo forte. Certo, non bisogna cedere alla demagogia o a chi vuole tornare allo Stato spendaccione, alla spesa pubblica fuori controllo. Ma la sofferenza della gente va ascoltata da chi fa politica".

A Parigi c'è stato un presidente eletto pochi minuti dopo la chiusura dei seggi, ad Atene c'è il caos. A chi si avvicina di più l'Italia: alla Francia o alla Grecia?
"Nella sostanza, nella tenuta del Paese siamo più vicini alla Francia. Nell'anarchia dei partiti, nel ribollire del sistema politico siamo più vicini alla Grecia. Per decidere in che direzione andremo dipende tutto dalla legge elettorale: è quella riforma che ci porta verso la Francia. O verso la Grecia".

La proposta di legge elettorale fin qui studiata dai partiti della maggioranza prevede il ritorno alla proporzionale, la fine delle coalizioni obbligate, il modello tedesco. In che direzione ci porta?
"Il modello tedesco ormai non regge più neppure in Germania. Un tempo entravano nel Bundestag tre o quattro partiti, adesso sono sei, otto, ci sono i Pirati che superano la soglia di sbarramento, ci saranno ripensamenti anche lì. Più in generale, le leggi elettorali non sono fatte per fotografare gli equilibri politici tra i partiti, servono per trasformare il voto dei cittadini in un progetto di governo. Momenti di frammentazione politica come quello che stiamo vivendo, con l'esplosione delle liste, obbligano i partiti a cercare l'unità, un riaccorpamento. O con il doppio turno alla francese o con altri meccanismi. La riforma elettorale di cui si è parlato per mesi invece ci avvicina alla Grecia. Come fa il mio amico Bersani a dire che vuole fare come Hollande, guardare ad alleanze di centro e di sinistra, con la legge elettorale che lui ha proposto e che sostiene?".

 
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« Risposta #67 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:55:36 am »

Intervista

D'Alema: 'Grillo porta al crac'

di Marco Damilano


"Se nel 2013 il fenomeno esplodesse a livello nazionale con parole d'ordine come l'uscita dall'euro o il rifiuto di pagare il debito pubblico, per il Paese sarebbe il disastro. E L'Italia nella sua storia non è aliena dal buttarsi nel caos". Parla l'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri

(23 maggio 2012)

Pubblichiamo qui di seguito ampi stralci dell'intervista di Marco Damilano a Massimo D'Alema. La versione integrale è in edicola sull'Espresso di venerdì.

All'indomani delle elezioni amministrative Massimo D'Alema, il più tenace difensore del sistema dei partiti, alza la diga contro l'anti-politica: «E' stato un voto tra il rischio greco e la possibilità francese. Non ci sfuggono i segnali di malessere e le domande di cambiamento che sono rivolte anche a noi, ma quello che più mi ha impressionato è vedere come gran parte dell'informazione abbia assegnato la vittoria a Grillo. Non dovrebbero esserci dubbi su chi ha vinto le elezioni: il centrosinistra e il Pd sono passati da 54 a 98 sindaci. E invece questa notizia è stata completamente occultata da una parte della stampa».

Parma non conta nulla? Eppure sembra una metafora dell'Italia: un Comune governato dalla destra, in dissesto e sotto inchiesta. Chi voleva l'alternativa avrebbe dovuto rivolgersi al Pd. E invece...
«Parma non è un caso esemplare, è l'eccezione. A Parma non governavamo da dieci anni e dietro al candidato 5 Stelle si è schierato tutto il centrodestra. Personalmente non sono affatto stupito di quel voto. Noi abbiamo vinto a Brindisi, Alessandria, Lucca, nel resto del Paese. E c'è qualche eccezione che deve far riflettere».

Tutto bene, dunque? Non la preoccupa che un elettore su due sia rimasto a casa? La crisi del sistema non riguarda anche il Pd?
«Certamente c'è una crisi del sistema politico, c'è un distacco preoccupante tra cittadini e istituzioni, ma noi rappresentiamo l'unica forza nazionale, l'unica possbilità di dare una guida politica al Paese. Naturalmente non da soli, in una situazione estremamente difficile, con un grave malessere sociale e con forze che agiscono per smantellare l'unica prospettiva politica in campo».

Quali forze?
«Una parte della borghesia italiana. Quelli che dicono: meglio Grillo del Pd. Quelli che giocano sul patto tra gli industriali e gli indignati. Per quale prospettiva è difficile dirlo. Ci sono molti progetti velleitari, accorati appelli in direzione di Montezemolo, c'è chi attende l'arrivo del Cavaliere bianco, tutto purché non si esca a sinistra dalla crisi del berlusconismo. Anche Berlusconi fu un modo di non uscire a sinistra dalla crisi della Prima Repubblica. L'errore politico che commettemmo allora, nel 1994, fu l'illusione dell'autosufficienza della sinistra. Non ci accorgemmo che il mondo conservatore e anticomunista non aveva più rappresentanza politica ma non per questo aveva smesso di essere la maggioranza dell'elettorato. C'era un vuoto e fu riempito da Berlusconi. Per evitare di ripetere l'errore dobbiamo costruire un asse di governo basato sull'alleanza tra progressisti e moderati».

Lei ha definito Grillo «un impasto tra Bossi e il Gabibbo». Dopo Parma lo ripeterebbe?
«Guardi che non è un insulto... Bossi ha fondato un grande partito che ha governato l'Italia per dieci anni. E il Gabibbo è un personaggio che ha attecchito... Mi riferisco alla violenza verbale, all'uso dell'insulto. E comunque il populismo non è un caso solo italiano. La radice culturale è l'anti-politica, ma adesso che il grillismo esprime sindaci, diventa un fenomeno politico. Ora, dobbiamo renderci conto che noi siamo un grande Paese europeo, con vincoli economici internazionali. E dobbiamo immaginarci cosa potrebbe succedere se nel 2013, nel compiacimento generale, un fenomeno di questo tipo dovesse esplodere a livello nazionale con parole d'ordine come l'uscita dall'euro o il fatto che non dobbiamo pagare il debito pubblico. Capisco che tutto questo faccia divertire i media e che la sinistra vecchia, noiosa e burocratica venga presa a ceffoni... Ma dobbiamo tutti renderci conto che se dovesse vincere una forza di questo tipo per l'Italia sarebbe il crac».

Al crac ci siamo già arrivati, per colpa - anche, non solo - della classe politica...
«Questo lo può dire il cittadino arrabbiato, che fa bene a esserlo, anche se magari dovrebbe arrabbiarsi con se stesso se ha votato per Berlusconi o per Bossi. Il governo Prodi nel 2008 ha lasciato l'Italia con un debito al 103,5 per cento e 34 punti di spread, come la Germania. E' profondamente ingiusto e non onesto verso la storia reale del nostro Paese mettere nello stesso mazzo tutti i politici. In questo modo si colpisce la democrazia, che consiste nella capacità di distinguere e nel diritto di scegliere. Quando viene meno questo, scatta il qualunquismo e si apre la strada a ogni tipo di avventura. Con tutta la saggezza di questo mondo, con l'equilibrio e l'apertura alla società civile e alle competenze che abbiamo sempre dimostrato, chiedo alla borghesia, agli imprenditori, ai grandi editori: con chi volete governare l'Italia? Qual è il disegno? Dove si vuole arrivare? Prima di bombardare l'unica prospettiva di governo bisognerebbe pensarci bene».

O noi o il crac: è una Maginot. Avete detto per anni che non si vince con l'antiberlusconismo e ora vi buttate sull'anti-antipolitica?
«L'Italia nella sua storia non è aliena dal buttarsi nel caos. E noi abbiamo l'unico progetto positivo per governare il Paese. Collegare il nostro Paese al nuovo corso della politica europea, aperto dalla vittoria del socialista Hollande. Noi siamo una grande forza responsabile che rappresenta il nesso tra il centrosinistra europeo e l'Italia. E poi occorre un programma di lungo periodo che non è fatto soltanto di riforme liberali, ma di giustizia sociale, valorizzazione del lavoro, riequilibrio della pressione fiscale per ridurre quella che grava sulle famiglie, perché se non ripartono i consumi non riparte l'economia. Qualcosa di sinistra».

Alleanze: pensa a una coalizione che vada da Casini a Vendola?
«Il tema non è assemblare consensi e dissensi, ma mettere in campo la nostra prospettiva di governo. Il tempo è ora. E' un obbligo per noi e per tutti. Se Montezemolo o Passera pensano di candidarsi devono dirlo adesso, con chiarezza. Non è più la stagione delle furbizie. Ora governa Monti, poi ci sarà un dopo Monti che va preparato da adesso, con senso di responsabilità. Dobbiamo dire fin da ora innanzitutto ai cittadini italiani, ma anche ai nostri partner internazionali e ai mercati, dove vogliamo andare, quali sono le opzioni in campo. Noi siamo la principale».

Attorno alla candidatura a premier di Bersani? Oppure si scalda qualcun altro?
«Abbiamo un partito in cui il segretario viene eletto dal popolo tramite le primarie, è la regola più importante dello Statuto, ed è il nostro candidato premier. Ci sono due possibilità di derogare: o dall'interno, chiedendo un nuovo congresso, o dall'esterno, se resta il Porcellum e un altro partito ci contesta la guida della coalizione. In quel caso, si farebbero le primarie di coalizione».

A D'Alema, cresciuto nei partiti di un tempo (sezioni, organizzazione, funzionariato), uno per cui la politica coincide con la vita, che impressione fanno i grillini che spendono poche centinaia di euro, che non hanno una sede e che non conoscono il loro leader?
«Anche nella politica che ho fatto io c'erano i sacrifici... Quella politica dei partiti era fatta da cittadini, il Pci aveva due milioni di iscritti, non erano tutti funzionari, la struttura professionale organizzata era necessaria per consentire di fare politica soprattutto a gente che veniva dagli strati più umili della popolazione. Il che è molto più difficile quando non ci sono i partiti. Io guardo al fenomeno del Movimento 5 Stelle con sincera curiosità intellettuale. Tolte le volgarità e le violenze, anche con simpatia. Mi interessano tutte le forme di passione politica, l'unica cosa che mi spaventa è l'apatia, la rinuncia. Chiunque fa politica è un patrimonio e poi preferisco avere queste energie dentro le istituzioni anziché averle fuori. Se governi sei obbligato al realismo. E io aspetto i 5 Stelle alla prova del governo».

     Massimo D'Alema

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« Risposta #68 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:29:39 pm »

Politica

Nasce l'alleanza No Monti

di Marco Damilano

Di Pietro. La Fiom. I delusi di Sel. I movimenti. Forse anche Grillo. L'area d'opposizione all'attuale governo inizia a organizzarsi per dire no alla grande coalizione. Obiettivo: 150 deputati, per diventare decisivi in Parlamento

(27 agosto 2012)

L'alleanza è stata conclusa mesi fa, nella casa molisana di Antonio Di Pietro, davanti a un piatto di arrosticini. Nessun problema per l'ex pm venuto dalle campagne intendersi con un altro personaggio di estrazione popolare, sudore e maglietta della salute sempre in vista sotto la camicia, il reggiano Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom, guida delle tute blu, la bestia nera di Sergio Marchionne. Lo si è visto a Taranto, nei giorni del caso Ilva, quando Di Pietro e Landini hanno parlato lo stesso linguaggio. «Siamo con i lavoratori e con la magistratura», ha provato a disegnare la quadra il capo dell'Idv. «Difendiamo i posti di lavoro, ma mai faremo uno sciopero contro la magistratura», ha fatto eco il leader dei metalmeccanici. E ora che le elezioni sono davvero vicine il Patto degli arrosticini assomiglia a qualcosa di più di una semplice sintonia: l'embrione di un partito, destinato ad allargarsi. Quelli che la Grande coalizione mai. Gli indignados di casa nostra: contro i partiti, il governo tecnico, l'Europa dello spread e della finanza. E contro il Quirinale di Giorgio Napolitano, accusato di voler guidare la transizione anche dopo il voto. Il partito dei No Monti. In crescita.

Gli ultimi sondaggi prima della pausa ferragostana quotano questa area stabilmente sopra il 25 per cento, più di un quarto dell'elettorato, con l'Idv intorno al 6-7 per cento e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che sfiora il 20. Nella rilevazione Ipsos datata 10 agosto tra i ceti produttivi la lista del comico genovese supera il 21,7 per cento, a un'inezia dal Pd (21,8). Segno che nonostante i passi falsi della giunta Pizzarotti a Parma e le prime crepe tra militanti e eletti, l'appeal elettorale del logo grillino resta intatto. E che lo schieramento ostile al governo Monti sia in ascesa (senza contare, sul fianco destro, la Lega e la Destra di Francesco Storace) lo ha riconosciuto lo stesso premier al meeting di Rimini quando ha segnalato l'avanzata dei partiti no euro, e non sembrava riferirsi soltanto al resto del continente. Per i partiti della strana maggioranza, il Pdl, l'Udc e soprattutto il Pd, è il convitato di pietra, l'ospite sgradito di qualsiasi discorso futuro: la legge elettorale, il nuovo Parlamento, le alleanze che verranno. E l'elezione del prossimo presidente della Repubblica.

Per ora è un fronte eterogeneo, liquido, in cui convivono tante cose contraddittorie. I frequentatori del blog di Grillo, gli arrabbiati contro la casta dei politici, con i comunicati del Leader che si fanno sempre più minacciosi («Il Movimento 5 Stelle è il cambiamento che non si può arrestare, è il segno dei tempi...»). I firmatari dell'appello del "Fatto quotidiano" di solidarietà con i giudici di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia (in testa il pm Antonio Ingroia) sotto attacco dopo il ricorso del Quirinale presso la Consulta sulle intercettazioni del presidente Napolitano con Nicola Mancino: 150 mila firme solo nella settimana di Ferragosto, intellettuali, artisti, giornalisti, tantissimi cittadini comuni, nessun politico. Ma anche i metalmeccanici della Fiom. I professori che lavorano per dare vita a un soggetto politico sotto la bandiera dei Beni comuni con il nome di Alba (Marco Revelli, Paul Ginsborg, Ugo Mattei). Di Pietro e i suoi, unica opposizione parlamentare a Monti (oltre al Carroccio). Ma nella polemica contro l'accordo tra Pd-Pdl-Udc rientrano anche figure importanti del Pd, come il fondatore dell'Ulivo Arturo Parisi. "Il partito della Costituzione", lo ha definito qualcuno. E c'è già chi si esercita sui nomi dei possibili leader. «E se fosse il pm di Palermo Antonio Ingroia il candidato premier di 5 Stelle, Idv e di qualcun altro ancora?», si è chiesto ad esempio via twitter l'ex presidente della Rai Claudio Petruccioli alludendo al presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky che su "Repubblica" ha criticato l'iniziativa del Quirinale contro la Procura di Palermo. «Una minchiata», gli hanno risposto (sempre su twitter). Ma intanto il dubbio è stato lanciato.

Alleanze mobili, rimescolamento di carte a sinistra. L'intesa tra Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola di un mese fa sembrava mettere a rischio la sopravvivenza di Idv, già minacciato dalla concorrenza grillina. Invece ha aperto sorprendenti spazi di manovra. «Nichi ha firmato l'annessione di Sel da parte di Bersani. E l'unica forza in campo non subalterna alla destra montiana diventa l'Idv di Di Pietro». Parola di un insospettabile, il direttore di "Altri" Piero Sansonetti, storica voce della sinistra radicale e garantista doc, feroce critico del protagonismo politico delle toghe. «Sì, sono contro il manettarismo. Ma Di Pietro è rimasto l'unica forza cui la sinistra possa guardare». Nel partito di Vendola, manco a dirlo, si è aperto il dibattito. Con il consigliere regionale lombardo Giulio Cavalli in rivolta contro Vendola: «Il voto utile in salsa postveltroniana non ci interessa. Qualcuno alzi la voce per chiedere l'unità della sinistra con la parte (di sinistra) del Pd, con Fds, Verdi e Idv». E poi c'è la Sicilia: in vista delle elezioni regionali di autunno (la prova generale delle politiche) Sel e Idv potrebbero ritrovarsi ad appoggiare Claudio Fava contro il candidato del Pd-Udc Rosario Crocetta. Ingroia? Corteggiatissimo, da più parti: anche Fabio Granata di Fli gli ha chiesto di candidarsi, ottenendone un rifiuto.

A Vasto, un anno fa, fu scattata la foto dell'alleanza Bersani-Vendola-Di Pietro, destinata a trasformarsi in un tormentone e infine stracciata dai contraenti. A fine settembre l'ex pm scatterà la nuova istantanea. Nel manifesto della festa di Idv Di Pietro figura in mezzo a una riedizione del "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo, lui con la giacca sulle spalle, accanto un operaio con il casco in testa, una mamma con figlia, alle spalle una coppia gay. Sul palco sarà con il leader della Fiom Landini e con il vice-presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Per Tonino è lo sbocco di una strategia che va avanti da anni, oltre trecento assemblee con gli operai davanti alle fabbriche, da Nord a Sud.«Il governo Monti è un fallimento, il premier fa come Berlusconi, si rivende che siamo fuori dalla crisi», spiega l'ambasciatore dipietrista presso la classe operaia Maurizio Zipponi, ex Fiom. «Noi siamo un partito nuovo, la parola sinistra non parla più ai lavoratori, al ceto medio impoverito». Ma anche Landini sta pilotando la sua organizzazione fuori dal recinto sindacale: all'ultimo incontro della Fiom in un albergo romano c'erano anche intellettuali come Stefano Rodotà e Paolo Flores D'Arcais, applauditissimi. Il leader non intende entrare in politica ma chiede «una rappresentanza per il mondo del lavoro» e tesse la tela a tutto campo. Alla festa della Fiom di Torino ci sarà Maurizio Pallante, fondatore del movimento per la Decrescita felice (più anti-montiano di così!), indicato da Grillo come il professore che deve svelare i segreti delle macchine amministrative ai consiglieri comunali eletti con 5 Stelle.

Grillo è il potenziale leader dello schieramento No Monti. «Con Di Pietro si sono parlati, c'è un accordo di non belligeranza, non spararsi addosso», raccontano, «anche perché i due crescono insieme nei sondaggi».Marceranno divisi, giurano, non ci sarà nessuna lista unitaria dei No-Monti alle elezioni. Ma tutto può cambiare, e rapidamnente: con una riforma elettorale per andare al voto in autunno che premi i partiti di governo e penalizzi le forze anti-sistema. Oppure con una richiesta di aiuto dell'Italia all'Europa che renderebbe indispensabile il proseguimento della grande coalizione che regge il governo Monti. «Né Grillo né Di Pietro sono sprovveduti: l'esigenza di fare qualcosa insieme diventerebbe irrefrenabile», ragiona chi li conosce bene. Obiettivo: mettere su un fronte che alle elezioni potrebbe valere 150-160 deputati e 80 senatori. Una forza in grado di condizionare il Parlamento appena eletto quando si tratterà di prendere le decisioni più importanti, all'inizio della legislatura: il nuovo governo e il successore di Napolitano al Quirinale. Pro o contro Monti, pro o contro le euro-ricette, pro o contro il presidenzialismo di fatto che ha caratterizzato l'ultima fase del settennato di Napolitano: da queste scelte passerà il bipolarismo prossimo venturo.

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« Risposta #69 inserito:: Dicembre 08, 2012, 05:43:09 pm »

Analisi

Quattro avversari per Bersani

di Marco Damilano


Vinte le primarie, restano un po' di ostacoli. A iniziare da Renzi, che ha perso ma non scomparirà affatto. Poi c'è Grillo, che l'altra sera ha brindato. E D'Alema, l'oligarchia che non vuole mollare. Infine Monti, o meglio il partito del governo

(03 dicembre 2012)

Pier Luigi Bersani ha vinto, stravinto, Matteo Renzi ha perso, è apparso «un ragazzetto ambizioso», parole sue. Ha vinto, ancora una volta, chi partecipa, chi fa la fila per votare, chi ha montato i gazebo e chi li ha smontati. E ha vinto una concezione della politica che ha tenuto insieme per tutta la durata della campagna per le primarie i duellanti: in politica si rischia, vince chi ha coraggio, chi non resta nell'angolo già assegnato ma prova a fare un passo oltre.

Per Renzi era una possibilità, per Bersani una necessità. Non si poteva restare aggrappati a un articolo dello statuto mentre intorno il mondo crollava. Merito del segretario averlo capito ed essere riuscito a cambiare strada con convinzione.

Nel 2007 il primo leader venuto dall'Emilia aveva rifiutato di candidarsi alle primarie contro Veltroni, «si rischia di disorientare l'elettorato», si era giustificato. Nel 2009, quando ha corso per la segreteria, ha lasciato che gli uomini della sua mozione dichiarassero che la prima cosa da fare era smantellare il metodo delle primarie per la scelta del segretario, «si rischia di consegnare a cittadini estranei il potere di eleggere il nostro leader», dicevano. Ancora oggi, a vittoria acquisita, Bersani ha ripetuto di non voler essere «un uomo solo al comando».

Le intenzioni sono ottime, nel Paese di Berlusconi, ma il candidato premier sbaglia il bersaglio: in una democrazia matura le idee camminano sulle gambe delle persone, una democrazia che funziona ha bisogno di leader, di capi. «Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finchè sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo». Parola di Antonio Gramsci, in un articolo su "Ordine Nuovo" del primo marzo 1924, intitolato "Capo".

Bersani, da stasera, non può e non deve nascondersi. E' lui il Capo del centrosinistra. Sua la responsabilità di programmi, alleanze, candidature. E' il Capo grazie a un sistema che nella cultura da cui proviene non esisteva: le primarie, la competizione, il conflitto tra persone. Mitterrand negli anni Sessanta aveva combattuto contro il presidenzialismo di De Gaulle, definì la Quinta Repubblica «un colpo di Stato permanente». Però fu grazie al presidenzialismo che la sinistra francese potè andare al potere nel 1981 e Mitterrand regnare all'Eliseo per quattordici anni.

Similmente l'incolore Hollande è diventato presidente e governa la Francia dall'Eliseo. Così oggi Bersani deve ringraziare le primarie se può puntare a Palazzo Chigi dopo le elezioni del 2013. Se avesse fatto un congresso per riaffermare la sua leadership ne sarebbe uscito in realtà indebolito, l'avrebbero masticato e sputato. Grazie alle primarie inventate anni fa dal tenace, testardo, solitario Arturo Parisi e sostenute da Romano Prodi, grazie a quell'intuizione avversata dall'intero gruppo dirigente, grazie ai milioni di votanti dei gazebo il segretario-candidato potrà domani sfidare i suoi avversari. I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse.

Il primo Cavaliere, il rivale delle primarie Matteo Renzi si è rivelato l'avversario migliore, perché il più leale e coraggioso. Fino al discorso di questa sera, un unicum nella politica italiana. Un giovane politico che chiede scusa, che dice: ho sbagliato io, che non ci gira intorno e ripete: non volevo fare testimonianza, volevo vincere e invece ho perso. Basta questa dichiarazione per spiegare perché Renzi non esce stasera di scena, anzi. Avesse vinto il sindaco di Firenze staremmo a commentare un terremoto. Invece, pochi minuti dopo la chiusura delle urne, il sistema ha rifiatato. Tirano un sospiro di sollievo la Camusso e Casini che hanno scelto al primo e al secondo turno le interviste in tv della domenica pomeriggio per denunciare il pericolo Renzi, con sintonia sospetta. Respirano i berlusconiani che già stasera tornano sul classico di sempre: attenzione, tornano i comunisti. L'onda del cambiamento non è riuscita a buttare giù la fortezza, ma c'è e ha già modificato in profondità il volto del Pd. «Ho tre cose dalla mia parte: l'entusiasmo, il tempo, la libertà». L'entusiasmo l'abbiamo visto, il tempo c'è tutto, Renzi ha 37 anni e può aspettare il prossimo giro che non tarderà ad arrivare, la libertà è già il rifiuto di infilarsi in un ticket o in un organigramma romano. L'annuncio di mani libere, in vista delle battaglie future. Gli altri cavalieri non combattono a viso aperto. Anzi, in qualche caso, si travestono da amici, da alleati. C'è il Cavaliere Nero dell'anti-politica: stasera anche Beppe Grillo può rallegrarsi, temeva una vittoria di Renzi e lo aveva dimostrato, con Bersani torna tutto sui binari prestabiliti. Il partito contro il movimento, la casta dei politici di professione contro i cittadini, le sezioni contro l'on line. Sbaglierebbe chi leggesse nella bella giornata delle primarie la soluzione a tutti i mali di cui soffre la politica. Il calo di votanti si è visto anche nei gazebo. E se non cambia la legge elettorale nelle prossime settimane Bersani sarà chiamato a nominare i suoi gruppi parlamentari: uno spettacolo che se gestito male da solo può ridare spazio alle truppe dell'antipolitica.

E qui arriva il Cavaliere Rosso: il gruppo dirigente del Pd, la vecchia guardia del partito. Ieri sera ballavano e si toccavano e si trattenevano a stento dalle risate, sembravano naufraghi scampati a un disastro. Massimo D'Alema riemerso dall'esilio sparava a zero sui giornalisti che hanno creato Renzi, come se tutte le energie che è riuscito a mobilitare il sindaco fossero un prodotto dei media. «La parola rottazione non gli ha portato bene», ha sogghignato il leader Massimo. Ma non è vero: Renzi ha perso le primarie, forse, il giorno che ha vinto la sua battaglia, quando Veltroni e D'Alema nel giro di poche ore hanno annunciato il loro ritiro dal Parlamento. Se avessero resistito, se Bersani avesse dovuto fare la sua corsa con D'Alema arrampicato sulle sue spalle non ci sarebbe stata partita. E ora, di nuovo, tocca a Bersani arginare le spinte di una classe dirigente che passata la paura spingerà per tornare ai riti antichi. Le liturgie correntizie, i bilancini tra le correnti, gli organigrammi concordati tra i notabili.... Per un mese al Nazareno non ci sono state più riunioni, grazie alle primarie. Per quaranta giorni Bersani ha assaporato il gusto della solitudine del potere, Miguel Gotor, il suo consigliere numero uno, non l'ha scelto nessuno e non ha nessun ruolo nel partito, esattamente come i ragazzi Moretti, Speranza e Giuntella, la guardia scelta del segretario. E ora? Si ritornerà ai balletti della solita nomenclatura?

Infine c'è l'ultimo Cavaliere da affrontare, il più insidioso perché si presenta con il mantello bianco. Ne ha parlato Eugenio Scalfari su "Repubblica": «L'ideale sarebbe Monti presidente del Consiglio di un governo guidato dal Pd». Difficile da vedersi, perché un governo Monti bis non sarebbe affatto guidato ma subito dal Pd. Il partito del Monti bis, dei Casini e dei Montezemolo, tifava paradossalmente per Bersani: perché un partito che resta nei suoi confini, nella tradizione della vecchia sinistra incapace di allargare i consensi e per di più alleata con Vendola, fa comodo a tutto l'establishment che punta a costruire una terza forza. Il Partito del Governo che stabilisce chi è legittimato a stare in maggioranza e chi no. Il Partito della Palude, pronto a entrare in azione già nelle prossime ore quando il Senato sarà chiamato a votare sulla nuova legge elettorale. E si vedrà lì, a Palazzo Madama, se il popolo dei gazebo è in grado di modificare le scelte politiche. Oppure se dopo aver votato per primarie all'americana ci ritroveremo invischiati in un sistema all'italiana.

Il Quinto Cavaliere, quello non c'è, speriamo. Speriamo che il Cavaliere di Arcore non venga resuscitato. Speriamo che venga almeno evitato il remake del '94, comunisti contro berlusconiani. Il Pdl sta offrendo uno spettacolo deprimente, il crepuscolo del Caimano, ancor più soffocante se contrapposto agli elettori che alla luce del sole sono andati a scegliere il loro leader.

Nessuno, però, può rallegrarsi del vuoto che si viene a creare dove c'è il blocco sociale che da decenni egemonizza il Paese, a volte appoggiando il moderatismo aperto alle riforme della Dc, altre volte sostenendo le peggiori avventure. Non si può certo chiedere a Bersani di farsi carico anche di questo problema, risolvere la crisi della destra. Ma non si deve dimenticare che è nel vuoto che si annidano i pericoli peggiori.

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« Risposta #70 inserito:: Dicembre 08, 2012, 05:44:01 pm »


Scenari

Intanto Bersani fa la squadra

di Marco Damilano


Mentre Berlusconi cerca di far cadere il governo, il segretario del Pd prepara i nomi del prossimo esecutivo. Un mix di vecchie glorie e volti nuovi. Eccoli

(07 dicembre 2012)

Dopo le primarie avanza una creatura mitologica metà persona e metà metafora. Post-comunista e cattolico, con l'accento emiliano, ma con i piedi piantati nel Sud, dove Pier Luigi Bersani ha fatto il pieno. E' l'Homo Bersanianus, il volto del Pd uscito vincente contro Matteo Renzi.
E Bersani già prepara il suo Squadrone, al governo e al partito, un mix di vecchio (Massimo D'Alema agli Esteri, Walter Veltroni alla Cultura), di usato sicuro e di nuovo. Ecco i nomi di candidati e aspiranti. Con un punto interrogativo: ma Monti ci sarà?

QUIRINALE
Romano Prodi. Il Professore, ufficialmente inviato dell'Onu in Sahel, ha rotto il lungo silenzio sulla politica italiana per votare alle primarie. Per dire che «Renzi ha un futuro», che Bersani «è fortissimo» e che «i veri sconfitti» sono quelli che non volevano le primarie nel Pd, e non c'è bisogno di aggiungere altro: Tutankamon Prodi non dimentica e non perdona. Con il centrosinistra che vede la maggioranza, salgono le sue quotazioni per il Quirinale. Con Bersani il rapporto è ottimo, l'unico ministro a restargli vicino nel momento amaro della caduta.
Nel 2013 si può ricostruire un tandem emiliano.

GOVERNO
Vasco Errani. Il presidente dell'Emilia è in testa alla lista di un ipotetico governo Bersani, l'ambasciatore del segretario (con Berlusconi quando governava, con Monti, con Renzi), l'amico più fidato, il suo Gianni Letta. Potrebbe essere il sottosegretario alla presidenza o andare al Viminale.
Fabrizio Barca. Il ministro di Monti più apprezzato da Bersani. Radici familiari nel Pci, formazione tecnocratica, la scorsa settimana ha teorizzato controcorrente che in Italia non si fanno poche riforme: «Il problema è che se ne fanno troppe. Da vent'anni il Paese vive in uno stato di perenne riforma senza visione». C'è chi lo vorrebbe candidare al Campidoglio ma per lui si prepara il ministero dello Sviluppo, o addirittura la poltronissima dell'Economia.
Stefano Fassina. Il responsabile Economia, bestia nera dei liberal Pd alla Pietro Ichino e dei liberisti alla Francesco Giavazzi, convinto della necessità di «rottamare l'agenda Monti». Potrebbe andare al Welfare e Lavoro, al posto della detestata Elsa Fornero.
Miguel Gotor. Romano con padre spagnolo, storico di santi e eretici cinquecenteschi, esegeta delle lettere di Moro e inventore del bersanese come categoria di studio ha guidato il comitato Bersani for premier. Potrebbe diventare ministro dell'Istruzione.
Guglielmo Epifani. L'ex leader della Cgil è stato tra i grandi elettori di Bersani, il tramite con l'organizzazione guidata da Susanna Camusso. Il seggio in Parlamento è sicuro, il posto nel governo possibile.
Emanuele Fiano. Milanese, esponente della comunità ebraica, è il responsabile sicurezza, cura i rapporti con i servizi.
Andrea Orlando. Spezzino, gran navigatore di correnti e di segreterie, da Fassino a Veltroni a Bersani, è il responsabile Giustizia, aspira al ministero di via Arenula.
Francesco Boccia. Combattivo deputato pugliese, area Enrico Letta, spesso in polemica con i giovani turchi (Fassina-Orfini), coltiva stretti legami con imprese, banche e finanza. In corsa per un dicastero economico.
Matteo Colaninno. L'ex presidente dei giovani industriali nel governo ombra di Veltroni fu ministro dello Sviluppo economico, quando il padre guidò la cordata della nuova Alitalia. Conflitto di interessi?
Vincenzo De Luca. Il sindaco di Salerno ha consegnato a Bersani un plebiscito nella sua città, nonostante le critiche feroci contro i giovani di largo del Nazareno: «Fallofori in processione». Potrebbe essere richiamato a Roma come esponente del Sud bersaniano in un ministero di peso: le Infrastrutture.
Paola De Micheli. Ruspante deputata piacentina, come il segretario, da lei difeso con grinta in tv. Qualcuno l'ha definita «l'Amazzone di Bersani». Potrebbe essere ricompensata con un posto di governo.
Laura Puppato. La sfidante alle primarie, più contro Renzi che contro Bersani. Sarà ricompensata: ministro dell'Ambiente.

 
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« Risposta #71 inserito:: Marzo 01, 2013, 12:11:06 am »

Lo tsunami

Ora il Pd ha le convulsioni

di Marco Damilano


Chi pensa a un governissimo con Berlusconi. Chi continua a puntare su Grillo nonostante il niet.

Chi vorrebbe solo far la festa a Bersani.

Nel partito che 'è arrivato primo ma non ha vinto' siamo alla resta dei conti

(28 febbraio 2013)

Pier Luigi Bersani beve, pronuncia a fatica altri due concetti, il capo ufficio stampa del partito Roberto Seghetti lo vede in difficoltà, lo soccorre con un altro bicchiere d'acqua, il segretario va avanti. Altro che non vittoria, martedì 26 febbraio alle cinque della sera il candidato premier dei progressisti è il ritratto della sconfitta. La voce impastata, gli occhiali tormentati, le rughe improvvisamente visibili che gli invadono il volto. E il peggio deve ancora arrivare: perché alla prima apparizione pubblica del dopo-voto segue il rito più antico e crudele, la specialità della Ditta: l'auto-critica, la flagellazione, il processo al capo sconfitto o, almeno, non vittorioso.

In largo del Nazareno si rivedono tutti i capi storici, «un clima surreale», racconta chi c'era, «D'Alema e Veltroni sono arrivati insieme, si sono seduti vicini, mi sono voltato e se ne erano andati via, senza parlare».

Per Bersani è un doppio fronte aperto, doloroso e precario. Fino alle quattro del pomeriggio di lunedì 25 febbraio, i maledetti instant-poll che gli assicuravano la vittoria anche al Senato e senza soccorsi centristi, era il premier in pectore del «primo governo di sinistra», come lo aveva definito qualche suo consigliere nelle interviste della vigilia dimenticando l'Ulivo di Romano Prodi, la parentesi di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi e molto altro. Ora è un leader chiamato a dover gestire una situazione drammatica per formare un nuovo governo, "responsabilità" è la parola più ricorrente nei conciliaboli, ma anche un segretario che per tre mesi ha potuto contare su una pax interna senza precedenti, le correnti scompigliate, i capi storici in disarmo, la nuova leva dei dirigenti ambiziosi e rampanti tutti schierati dalla sua parte.

Un uomo solo al comando, che oggi si ritrova solo nei panni amari della sconfitta. «Dobbiamo cambiare tutto», mormora perfino il giovane Tommaso Giuntella, uno dei portavoce del leader nella vittoriosa campagna per le primarie, più bersaniano del segretario. Forse perché ora che i voti si contano nello staff del capo ci si accorge che in tanti sono mancati all'appello. «Io che non ero neppure candidato ho fatto la campagna elettorale, ma mi sono accorto che non la faceva nessuno», riflette un vecchio saggio come Pierluigi Castagnetti. Un altro cane sciolto che si è tirato fuori prima del voto, Arturo Parisi, l'inventore dell'Ulivo, aveva già fiutato l'aria dopo il comizio di piazza Duomo in cui era salito sul palco Romano Prodi: «Forse vogliono condividere con tutti le responsabilità del risultato». Negativo.

Una vittoria mancata che, forse, comincia nel momento più bello della carriera politica di Bersani, la notte del 2 dicembre 2012, il trionfo su Matteo Renzi alle primarie. In quel momento Bersani si sentiva predestinato a Palazzo Chigi. «Ora non ci ammazza più nessuno», ripeteva.
Con qualche buona ragione: il Pdl era in rotta, alle prese con il tormentone interno, Berlusconi si candida o non si candida, il premier Mario Monti non si era ancora messo in testa di salire in politica o almeno non lo aveva ancora dichiarato. E il leader di 5 Stelle Beppe Grillo compariva solo on line, per scomunicare i dissidenti interni, sembrava avviato in una deprimente contesa i Favia e le Salsi, nulla di interessante per il Paese.

E' nel punto di massimo vantaggio che Bersani e i suoi hanno preso la decisione che si è rivelata catastrofica: restare immobili, aspettare seraficamente la data del voto che avrebbe consegnato magicamente il governo e il potere ai democratici e ai progressisti. Una strategia attendista e rassicurante: gli italiani hanno paura della crisi, serve qualcuno che li tranquillizzi, eccomi qua, ci penso io, comunicava il faccione di Bersani sui manifesti e negli spot, in nome dell'Italia giusta.

«E invece abbiamo sbagliato la lettura. Le primarie sono state fondamentali, se non le avessimo fatte saremmo stati spazzati via.Ma è da decenni che questo partito ha un problema con i ceti popolari. Siamo rimasti paralizzati perché incapaci di intercettare il disagio sociale», attacca il neo-deputato Matteo Orfini, capofila con Stefano Fassina e con Andrea Orlando della corrente dei Giovani Turchi, i trentenni-quarantenni del Pd, l'ala gauchista del partito che ha eletto almeno 50 deputati. «Il fenomeno Grillo è prosperato nell'anno del governo Monti, quando noi ci siamo dovuti far carico di riforme dolorose mentre altri erano liberi di intercettare la rivolta contro l'austerità e il rigore. C'era una parte del partito che ci spiegava ogni santo giorno che dovevamo farci guidare da Monti, che senza il centro non si poteva governare, ci sventolavano contro i mercati e le cancellerie internazionali. E noi, per senso di responsabilità, abbiamo passato un anno a discutere e corteggiare Monti e Casini che arrivano a malapena al 10 per cento dell'elettorato. E abbiamo ignorato il 25 per cento che ha votato Grillo».

Senza contare i mali che arrivano da lontano: «Nell'iconografia del partito il Mezzogiorno non esiste, tranne la Finocchiaro», elenca Orfini. «Nelle regioni rosse Grillo ha dilagato, segno di una difficoltà di rinnovamento. E in Lombardia ha rivinto l'asse Pdl-Lega».

Un'analisi condivisa da un altro neo-deputato, Giuseppe Civati detto Pippo, 37 anni, rottamatore della prima ora in tandem con Matteo Renzi (poi i due si sono divisi), tra i primi a lanciare l'allarme su Grillo già mesi fa con un libro ("La rivendicazione della politica"): «Sono voti nostri». «Serve una mossa. Una zampata», dice ora. In direzione di Grillo: la linea abbozzata da Bersani nelle prime ore del dopo-voto. Smetterla con la fase della chiusura (Grillo è un fascista, un amico di Casa Pound...), che si è rivelata inutile già in campagna elettorale, e inaugurare una strategia dell'attenzione (come avrebbe fatto Aldo Moro: altri tempi, altre stagioni, però). Un governo con un programma minimo, 4-5 punti in tutto, riduzione del numero dei parlamentari (serve una riforma della Costituzione, con una doppia lettura delle Camere), fine del bicameralismo, drastico taglio ai costi della politica (rimborsi elettorali, stipendio di deputati e senatori, abolizione delle province), riforma della legge elettorale. E qualche intervento sul lavoro, per uscire dalla vaghezza delle proposte elettorali («Un po' di lavoro», si sbilanciava appena il segretario). Un'apertura di credito al Movimento 5 Stelle, con tanto di offerta di un incarico istituzionale, la presidenza della Camera per un grillino (o per la neo-deputata grillina Marta Grande: sullo scranno che fu di Nilde Jotti e di Irene Pivetti).

«Una proposta di movimento e di combattimento», riassume il consigliere di Bersani Miguel Gotor, appena eletto senatore. «La novità è che sono cambiati i rapporti di forza, Monti e Casini non ci sono più, dobbiamo sfidare Grillo». E l'accordo con Berlusconi? Baciare il giaguaro anziché il rospo? «L'idea di fare la grande coalizione con il Pdl come in Germania è ridicola. Fare il governissimo sarebbe la fine», replica Gotor.

Un'analisi condivisa dal vice-segretario Enrico Letta, a lungo considerato come l'esponente del Pd più vicino a Monti: «Questi quattordici mesi che abbiamo alle spalle segnano le nostre mosse di oggi. Abbiamo visto che con Berlusconi non si possono fare accordi, ha fatto tutta la campagna elettorale come se lui fosse sempre stato all'opposizione, assegnandoci la croce di aver votato i provvedimenti più impopolari del governo. E la candidatura di Monti ha bruciato la possibilità di fare un nuovo governo tecnico. Resta solo una strada: un governo di minoranza, che cerca i voti in Senato di volta in volta. E per farlo bisogna garantirsi almeno la non belligeranza di Grillo: se lui vuole può mettere a ferro e a fuoco Palazzo Madama e paralizzare tutto».

Una strada molto stretta. Ci sono molti dubbi che Bersani abbia la fantasia politica necessaria per percorrerla, la capacità di movimento che la situazione richiede. Soprattutto se il Pd si divide: i notabili più influenti del partito, gli stessi che non volevano le primarie, giudicano l'apertura a Grilllo come l'ultima follia del segretario. Nel sinedrio dei capi, per ora, sono solo sfumature. D'Alema non ha parlato, Veltroni neppure. Solo Luciano Violante è uscito allo scoperto, per dire che si deve parlare con tutti, giaguaro Berlusconi compreso. E altri si mettono di traverso rispetto all'ipotesi di un asse Pd-5 Stelle. «Che facciamo? Dopo aver inseguito per vent'anni la Lega con il federalismo ora ci buttiamo su Grillo?», sbotta l'ex dc Giuseppe Fioroni.

Una sola cosa tiene uniti tutti i big attorno al segretario: il no alle elezioni anticipate. D'Alema le considera una catastrofe, da evitare a qualsiasi costo, compreso l'accordo con il Cavaliere. In pole position per Palazzo Chigi c'è Giuliano Amato, azzoppato nella corsa per il Quirinale. Ma i giovani non ne vogliono sentir parlare. La divisione Grillo sì-Grillo no è anche generazionale: «Mai con il Pdl», ripete Orfini. «E subito volti nuovi alle presidenze dei gruppi di Camera e Senato, aprire la stagione congressuale con un gruppo dirigente interamente nuovo». E nuovo segretario, perché «è finita un'epoca». Il giovane turco si traveste da rottamatore. Mentre il rottamatore doc Matteo Renzi mantiene la linea che si è dato dopo la sconfitta alle primarie: lealtà con Bersani, aspettare che il polverone si posi e poi affondare il colpo. Sapendo che la richiesta di un suo impegno nazionale nelle prossime settimane diventerà irresistibile anche tra i quadri più fedeli a Bersani, nelle regioni rosse sconvolte da Grillo. In Toscana il sindaco di Firenze aveva già trionfato alle primarie.

In Emilia c'è il sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio, renziano della prima ora, che spinge per un cambiamento rapido di leadership, cui si è aggiunto anche il primo cittadino di Bologna Virginio Merola, super-bersaniano. E c'è chi ipotizza scenari ancora più hard. «Fossi in Bersani metterei Grillo di fronte alla responsabilità di essere il primo partito italiano e gli offrirei l'onore (provocatoriamente) di esprimere una proposta per il governo, un nome condiviso con noi», dice un altro new entry, il segretario del Pd di Forlì Marco Di Maio, classe 1983, interprete degli umori della nuova onda di trentenni del Pd alla Camera: i grillini democratici. «Oppure per il governo metterei in campo un nome nuovo. Per il partito c'è una sola cosa da fare: un congresso subito con Renzi segretario. Perché altrimenti perderemo tutte le elezioni del 2013 e del 2014». Lo tsunami 5 Stelle è arrivato nel cuore del Pd.


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« Risposta #72 inserito:: Marzo 14, 2013, 11:21:41 pm »

Esclusivo

Renzi: 'Io sono pronto'

di Marco Damilano

«Sarà una legislatura breve. Ma spero possa almeno fare una riforma elettorale perché i cittadini scelgano il prossimo Sindaco d'Italia. E se ci saranno le condizioni, mi candiderò». Parla l'ex sfidante di Bersani

(13 marzo 2013)

Sulla scrivania del suo ufficio a Palazzo Vecchio, accanto alla stanza di Leone X, Matteo Renzi gioca con i pennarelli e sfoglia le foto dei cardinali in conclave. E' reduce da una discussione in famiglia sul nuovo papa, il sindaco di Firenze, cattolico praticante, lo vorrebbe aperto sulle questioni etiche, un papa "rottamatore". Ma in politica depone la sua antica bandiera: «Rottamazione non comunica speranza. Ora è il momento di dire un'altra parola: lavoro. E' meno sexy, ma incrocia la vita degli italiani. Insieme a una radicale riforma della politica». Renzi si butta a sinistra, in vista della futura corsa elettorale. Che il sindaco vede sempre più vicina.

Cosa rischia l'Italia in queste settimane?
«C'è un clima pericoloso. Da giorni discutiamo dei presidenti delle Camere, intanto lo spread con la Spagna si riduce, se la Pubblica amministrazione non paga i debiti ci saranno 300-500 mila disoccupati in più nei prossimi mesi. E la politica sottovaluta l'emergenza. La notizia della settimana è Bridgestone che chiude a Bari, non Grillo che chiude a Bersani. Si può fare con un mese di ritardo un governo che affronti la crisi. Oppure nominare in 48 ore un governo che vivacchia. Il punto è: un governo per fare cosa?».

Cosa metterebbe nell'agenda Renzi?
«Al primo posto, il lavoro. Ci sono tre milioni di disoccupati, il 40 per cento di giovani. Sto preparando un Job Act: un piano per il lavoro. Sarà innovativo. Noi ci siamo divisi tra la Cgil e Ichino e abbiamo dimenticato cose molto concrete: 20 mila cantieri fermi, lo 0,7 per cento del Pil, bloccati dal patto di stabilità, lo ricorda il presidente dell'Anci Graziano Del Rio. Investimenti sull'innovazione digitale, sull'agroalimentare, progetti per gli investitori stranieri. Al Job Act stanno lavorando imprenditori, docenti, manager, neo-parlamentari: un volume corposo, lo presenteremo tra aprile e maggio...».

Che caso: giusto in tempo per la campagna elettorale!
«Io spero che sia in tempo per un governo che queste cose le faccia. Partendo dalle esperienze di chi vive in queste realtà, non dal pensiero di un funzionario di partito chiuso in un centro studi che immagina come deve funzionare il mondo. La sfida del Pd è questa: essere il partito del lavoro».

Bersani ha fatto tutta la campagna elettorale sul lavoro. Risultato: i disoccupati ma anche gli operai hanno votato per Grillo.
«Non si vince con il programma, ma con la speranza. Molti dicono: al Pd è mancata la tecnologia di Grillo. Non è vero, è mancata la passione che una parte di quel mondo esprime. Abbiamo parlato molto di giaguari da smacchiare e poco di asili nido. Otto milioni di cittadini non hanno votato Grillo perché avevano letto il libro di Casaleggio sulla guerra mondiale, ma perché trasmette un cambiamento. E trovo singolare che il Pd non riesca a comunicare che i suoi nuovi parlamentari, giovani e donne, sono più interessanti del fenomeno di colore dei deputati di 5 Stelle. Sono quasi tutti bersaniani: perché non li valorizzano? Sono migliori del Pd che va in televisione».

Sul tentativo di Bersani di fare un governo lei si mostra più che scettico: è ancora l'uomo giusto per gestire questa fase?
«Prendo atto della strategia di Bersani di aprire a Grillo. Gli ho detto: in bocca al lupo, faccio il tifo per te. Ma mi sembra improbabile che ci riesca. O Grillo cambia idea o noi cambiamo strategia».

In che direzione?
«Ah no, le formule non mi riguardano. Faccia Bersani. Accanto al lavoro serve una riforma della politica che comprenda la nuova legge elettorale, la riduzione dei parlamentari, l'abolizione delle province e del finanziamento dei partiti».

Grillo chiede a Bersani di non accettare i rimborsi elettorali, in Rete gira l'apposito modulo: Bersani dovrebbe firmarlo?
«Più inseguiamo Grillo più gioca la sua partita. Bersani dovrebbe abolire il finanziamento, non firmare il foglio di Grillo che sarebbe un nuovo cedimento. Non servirà a fare la pace con Grillo, ma almeno faremo la pace con gli italiani. La mia proposta di abolizione aiuta Bersani...».

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« Risposta #73 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:12:06 pm »

Analisi
Tra Angelino Alfano e Silvio Berlusconi è un divorzio di convenienza

Il vicepremier presenta il Nuovo Centrodestra mentre il Cavaliere rifonda Forza Italia. Ma la rottura tra i due è solo temporanea, e da entrambe le parti si parla di una prossima coalizione. Per questo la sinistra farebbe bene a non esultare

di Marco Damilano


Si lasciano, tra lacrime, crolli di stanchezza, platee vocianti, urla di tradimento. Ma è una rottura distante anni luce dallo strappo violento che allontanò nel 2010 Gianfranco Fini da Silvio Berlusconi. Quello tra Il Cavaliere e Angelino Alfano è un chiarimento all'insegna dell'ambiguita', non della chiarezza, un addio che assomiglia tanto a un arrivederci, un gioco di apparenze e di sottintesi. Lo dice lo stesso Berlusconi, nel discorso della mattina al Consiglio nazionale della rinata Forza Italia: "Il gruppo che nasce oggi apparirà come un sostegno alla sinistra, ma dovrà per forza fare parte in futuro della coalizione dei moderati". E lo ripete l'ex delfino Alfano nella accaldata conferenza stampa del pomeriggio alla sala stampa estera, per paradosso davanti al palazzo di via dell'Umiltà che è stato fino a due mesi fa sede del Pdl: "In futuro saremo accanto a Forza Italia in una grandissima coalizione che superi la sinistra". Il punto, come sempre in politica, è quanto è lontano il futuro, e chi guiderà la partita.
"Siamo qui per annunciare pubblicamente la nascita dei gruppo parlamentari del Nuovo Centrodestra, una decisione che mai credevamo di dovere assumere che nasce dalla scelta di non aderire a Forza Italia". Così Angelino Alfano nel corso della conferenza stampa presso la sala stampa estera, presentando il Nuovo Centrodestra. "Una scelta - ha aggiunto - che facciamo con amarezza ma anche grande amore per l'Italia"

La lunga mattina del funerale di Forza Italia si apre al Palazzo dei congressi dell'Eur con una compagnia variopinta. Vecchie glorie come Antonio Martino e nuove creature mediatiche, le ragazze con gli zatteroni che ripetono a tutti di studiare alla Luiss e i fratelli Zappacosta che cosi piccoli hanno già imparato a inveire sui giornalisti, "state dando un pessimo spettacolo", loro invece si che se ne intendono. Arriva Marcello Dell'Utri, il fondatore della vecchia Forza Italia nella sala Botticelli con gli uomini di Publitalia, la nuova nasce con il suo concorso esterno. E poi la Biancofiore, la Santanche, la Santelli unica sottosegretaria presente in autoblu, i campani guidati da Mara Carfagna scendono da un pullman chiamato Angelino...

Angelino non lo invoca nessuno, neppure Berlusconi lo nomina. Anche se diretto a lui è l'affondo più duro, "difficile sedere allo stesso tavolo del Consiglio dei ministri con il Pd che vuole mandarmi via dal Parlamento", e la platea si infiamma, grida la parola troppo spesso trattenuta" traditori! "Non fate dichiarazioni nei loro confronti, non allargate il solco", spegne l'incendio Berlusconi. Pur di tenere con sè i transfughi, si mette la mano sul cuore, avrebbe accettato un coordinamento con "tutte le aree rappresentate", il caminetto delle odiate correnti. Mai visto così in difficoltà, "i club si chiameranno Forza Silvio, ne ho bisogno", ammette, "qui mancano quelli che si sono allontanati per motivi politici verso un'altra vita", si fa sfuggire a un certo punto, l'ombra del tempo che passa, della fine, della morte, che appare alla fine come un lampo sul viso di Berlusconi, costretto a interrompere il discorso.

Il futuro, al contrario, è la carta che può giocare Alfano, finora l'unica. "Siamo noi il centrodestra del futuro", snocciola svelto come al solito il leader del Nuovo centro destra. Come una scioglilingua o una sciarada politica, "vogliamo un nuovo grande centrodestra, di cui il nuovo centrodestra che nasce oggi sarà parte". Il lodo Alfano? Mai esistito. La manifestazione dei deputati del Pdl al tribunale di Milano? "Cose del passato, noi siamo il futuro", giura l'ex delfino. Che vanta: "Sono stato l'unico segretario del Pdl e ho raggiunto un milione di aderenti". Di un partito chiuso e defunto senza rimpianti da una parte e dall'altra. Sono soddisfazioni.

Per il resto è impossibile trovare differenze tra Silvio e Angelino. D'accordo sull'Europa, su cui Berlusconi tiene un passaggio del suo discorso non banale, già proteso a recuperare voti no euro persi in direzione Grillo. "L'austerità è folle e premia solo la Germania", dice l'ex premier. "Crediamo nell'Europa, ma non siamo eurotappetini", fa eco il vice-premier. Affetto, paragoni paterni, "lui mi ha dato tanto, io glio ho dato tutto", Spike Lee citato a piene mani, "abbiamo fatto la cosa giusta"...Neppure uno iota di distanza tra i due su giustizi e voto sulla decadenza di Berlusconi dal Senato. Anche sul destino del governo Letta, in fondo, Forza Italia non esce per ora dalla maggioranza, resta in attesa, nelle prossime settimane si vota su Cancellieri, decadenza, legge di stabilità. E poi ci saranno le primarie del Pd.

A dividere i due, Silvio e Angelino, è il tempo. Berlusconi sente che il suo scivola via rapidamente e ha un gran voglia di voto anticipato in tempi brevi. Alfano, al contrario, deve consolidare il suo nuovo partito e togliere truppe e voti ai berlusconiani, chiede dodici mesi di tempo, "un patto con gli italiani", che per lui è un patto di sopravvivenza. Si dicono addio nel presente per rivedersi nel futuro: vicino o lontano che sia. Non è una soluzione per il Partito del governo, trasversale almeno quanto quello della Crisi di cui parla Alfano. Il Pdl in preda a una contraddizione irrisolvibile, due linee contrapposte prigioniere di un unico partito, prova a scioglierla scindendo in due la società. Un partito tutto di lotta e uno tutto di governo, destinato a ritrovarsi. Non è un gioco delle parti, ma farebbe malissimo la sinistra a esultare: le due anime prima o poi torneranno alleate e utilizzeranno l'abito che in quel momento farà più comodo. Mentre in queste larghe intese sempre più strette, diciamo pure defunte, il Pd rischia di dover cantare e portare la croce, governare accollandosi i sacrifici economici, la difesa dei ministri furbetti,tutto ciò che è indigesto all'elettorato del centrosinistra. A meno che non sia Renzi a dire che dopo la giornata di oggi non si potrà far finta che non sia successo nulla.

16 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/11/16/news/angelino-alfano-presenta-il-nuovo-centrodestra-1.141347
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Analisi
Berlusconi decadence

Venti anni di jingles («Dai Forza Italia/che siamo tantissimi...»), rivoluzioni liberali, promesse tradite, «meno tasse per tutti», contratti con gli italiani, barzellette, corna, bunga bunga, lifting, bandane, vulcani in eruzione, inciuci con gli avversari, leggi ad personam, lodi Schifani, lodi Alfano, editti bulgari, patonze che devono girare. E di golpe giudiziari

di Marco Damilano
   
«Vede, io sono un pratico, ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell'armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile...». È prima, molto tempo prima che arrivi la discesa in campo, per Silvio Berlusconi l'avventura politica parte in largo anticipo. Ne parla nell'estate 1977 a Mario Pirani, inviato di “Repubblica”. Berlusconi in quel momento ha appena quarant'anni, non ha ancora dato il via libera alle trasmissioni di TeleMilano (i programmi partiranno un anno dopo, il 7 settembre 1978), non si è ancora iscritto alla loggia massonica P2 di Licio Gelli (lo farà pochi mesi dopo, il 26 gennaio 1978), è solo un palazzinaro molto ambizioso. Ha comprato una quota del 12 per cento del “Giornale”, il quotidiano diretto da Indro Montanelli che dà voce all'elettorato moderato e anti-comunista.

L'intervista esce venerdì 15 luglio 1977, a tutta pagina, con il titolo “Quel Berlusconi l'è minga un pirla”. In quelle risposte a Pirani c'è già tutto il Berlusconi-pensiero, rimasto immutato per decenni. L'orgoglio di chi si è fatto da solo: «Io sono un prima-generazione. Ho decollato come industriale attorno al '60 senza conoscenze, appoggi, aiuti. Mi è andata bene». Modesto e sincero, al solito, sorvola sulla Banca Rasini, le 22 holding da cui è nata la Fininvest, la presenza nella villa di Arcore del mafioso Vittorio Mangano e la figura di Marcello Dell'Utri che gli fa da assistente.

Il futuro Cavaliere parla di politica. Per i nuovi politici Berlusconi promette di impegnarsi «non certo pagando tangenti, ma mettendo a disposizione i mass-media. In primo luogo Telemilano, che sto riorganizzando e che diventerà un tramite tra gli uomini politici che dimostreranno di non avere divorziato dall'economia e dalla cultura e l'opinione pubblica». «Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente, e non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo. Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta». Una condanna terribile, perché dieci mesi dopo ci penseranno le Brigate rosse a sgombrare il passaggio con il rapimento e l'omicidio dello statista democristiano.

Oggi il Berlusconi decaduto torna lì, alla fine degli anni Settanta, al ruolo di extraparlamentare, estremista di centro, ferocemente anti-comunista. In mezzo ci sono i suoi venti anni in Parlamento, i quattro governi (il primo nel 1994, i due nella legislatura 2001-2006, l'ultimo durato dal 2008 al 2011), la Forza Italia creata, disciolta e risorta, una permanenza al potere che avvicina Berlusconi agli inamovibili della Prima Repubblica, tipo Giulio Andreotti. Venti anni di jingles («Dai Forza Italia/che siamo tantissimi...»), rivoluzioni liberali promesse e tradite, sei per tre («meno tasse per tutti»), contratti con gli italiani, barzellette, corna, bunga bunga, lifting, bandane, vulcani in eruzione, inciuci con gli avversari, leggi ad personam, lodi Schifani, lodi Alfano, editti bulgari, patonze che devono, e come potrebbe essere altrimenti, girare. E di golpe giudiziari.

C'è il primo Berlusconi, quello della guerra-lampo, il blitzkrieg mediatico, il colpo grosso 1994 (vedi l'instant-libro del magico trio Corrias-Gramellini-Maltese). La conquista della maggioranza dei seggi con due mesi di campagna elettorale, dal 26 gennaio, giorno della discesa in campo con videomessaggio, al 27 marzo, la data delle elezioni, e con una coalizione a geometria variabile, al Nord con Bossi, al Sud con Fini, al centro con Casini e Mastella, ospitati in lista come figli superstiti di Mamma Dc.

Golpe giudiziario, per vent'anni Berlusconi e gli uomini del suo partito e il gigantesco apparato mediatico da lui controllato hanno ripetuto questa definizione in modo ossessivo, martellante, asfissiante. «C'è stata un'azione unidirezionale da parte di certa magistratura che ha fatto fuori solo una classe politica, guarda caso quei partiti di tradizione occidentale e democratica che hanno garantito per tanti anni la democrazia nel nostro Paese», ha sintetizzato il Cavaliere. Il 1992-93, gli anni del Terrore, «quando un cittadino rinchiuso nella patria galera, trattato come un cane in un canile, non accettando più questa condizione, rinunciava alla sua vita» (9 luglio 1998). «I partiti che per cinquant'anni hanno permesso di vivere nella democrazia  sono stati messi da parte. Sono sopravvissute solo le persone che in quei partiti erano più vicini alla sinistra» (4 luglio 1998). «Io sono considerato l'usurpatore della sinistra. Quando decisi nel '94 di scendere in campo la sinistra, dopo Tangentopoli, aveva il potere nelle mani» (24 aprile 2008). «Oggi è in atto un tentativo di golpe giudiziario come quello che ci fu con Tangentopoli» (8 aprile 2011). Fino a sabato scorso, quando a proposito del voto sulla sua decadenza Berlusconi è tornato a invocare il colpo di Stato.

Eppure nel 1994 è proprio lui il gran beneficiato del crollo dei partiti. Nell'anno del terrore, il 1993, preparava il suo partito e sprizzava ottimismo, in una lunga intervista alla “Stampa” a Sergio Luciano, datata 9 febbraio e titolata: «Basta con i politici di mestiere». «Se sono ottimista? Certo che lo sono, e ne ho ben ragione: gli imprenditori, quelli veri, sono condannati ad essere ottimisti. E se ti prende lo sconforto, non devi mostrarlo a chi lavora con te, ai tuoi clienti, al mercato: devi portare un messaggio di fiducia, ritrovare il sorriso. Altrimenti non sei un vero leader, e chi non è leader non è un imprenditore completo». Sulla politica, spiegava, «un modo per rinnovare è certamente il ricambio delle classi dirigenti, l'alternanza al potere. Credo che tutti gli imprenditori, quelli veri, sarebbero felicissimi di non interessarsi di politica e concentrarsi sulle loro aziende. Ma quando la politica ostacola lo sviluppo, gli imprenditori devono preoccuparsi... Non mi piace immaginare una classe politica. È questo il punto: sarebbe auspicabile che la carriera politica non esistesse più. A governare dovrebbe essere chiamato chi, essendo affermato in una professione, dopo aver governato possa tornare a svolgerla come prima».

Eccolo qui, fissato una volta per tutte il manuale dell'imprenditore prestato alla politica, le regole della discesa in campo. Primo: attaccare la classe politica in blocco, senza distinzioni di destra e di sinistra, di riformisti e di conservatori. A Berlusconi va consegnato il copyright di una parola che avrà un grande successo negli anni successivi: casta. Secondo: alludere al fatto che ci sono uomini volenterosi e pronti a impegnarsi fuori dalla politica, basta andarseli a cercare. Terzo: giurare che no, mai e poi mai c'è un interesse a fare politica in prima persona, io sono qui soltanto a dare una mano, da cittadino impegnato, da civil servant... Lo ripeterà sempre, anche oggi che è un politico come tutti gli altri, anzi, più esperto di tutti gli altri in manovre e trappole parlamentari, più di un Giulio Andreotti, mago delle leggi ad personam, campione del trasformismo dei Razzi e degli Scilipoti (e dei De Gregorio per cui è sotto processo a Napoli), attaccato a regolamenti, cavilli e codicilli per non farsi buttare fuori dal Senato.

Il Berlusconi allo stato nascente, quello della rivoluzione liberale, degli Urbani e dei Martino, dei Caligaris e delle Titti Parenti, ma anche dei Previti e di Dell'Utri, dura a Palazzo Chigi una sola stagione. Rivoluziona per sempre la politica, con i sondaggi di Gianni Pilo, l'inno di Forza Italia, il kit del candidato, dopo di lui in tanti anche a sinistra faranno a gara per somigliargli. Ma il governo crolla subito e non per certo per l'avviso di garanzia di Napoli, a Palazzo Chigi è una rissa continua, il principale alleato, l'Umberto, gira le piazze del Nord a tuonare contro «la porcilaia fascista» e il «piduista di Arcore». Il Berlusconi scintillante lascia il posto al Berlusconi nel deserto, l'opposizione, il duro apprendistato della politica. Con l'obiettivo di sempre, sedersi al tavolo e contare per salvare se stesso e le sue aziende. La grandi intese si potrebbero fare già nel 1996 con il tentativo Maccanico, e poi nella Bicamerale di Massimo D'Alema sulla giustizia, fino al 1998 però il Cavaliere è sparito dai radar, è già finito, in declino, perfino malato. A rimetterlo in sella ci pensano gli avversari della sinistra, Bertinotti fa cadere Prodi, D'Alema si allea con Cossiga. Berlusconi ritorna.

La terza fase è il Berlusconi liftato, in bandana, aspirante statista internazionale, tra l'amico Vladimir e l'amico George, il premier della legislatura più lunga (2001-2006),  in mezzo a scontri di civiltà interni e esterni, il G8 di Genova e le Twin Towers, la guerra in Afghanistan e quella in Iraq, affrontati con lo spirito di sempre, il Berlusconesque, le leggi ad personam, le corna ai vertici europei, la legge Gasparri sui media respinta da Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. «Nel mondo fatato di Berlusconi», scrive Edmondo Berselli su “Repubblica” il 24 febbario 2004, «in una realtà senza contraddittorio, senza il fastidio della mediazione, il leader è atteso a qualsiasi performance. Non si limita infatti a scrivere le parole dell' ultimo disco di Mariano Apicella, a versare lacrime napoletane, ma sotto le telecamere, con la camicia fuori dai pantaloni, esegue un brano, Meglio 'na canzone, con l' ex posteggiatore partenopeo, del tutto incurante (a quanto pare) che l'esibizione finisca su Striscia la notizia. I problemi eventualmente deflagrano allorché l' esibizione improvvisata tocca tematiche per lui misteriose: come quando per compiacere Vladimir Putin riduce la tragedia cecena alla stregua di "leggende", e viene rimpallato aspramente dall' Unione europea.

Funziona male il suo umorismo casereccio quando oltrepassa limiti insidiosi del politicamente opportuno, come con l' eurodeputato tedesco Schultz, ridotto a figurante cinematografico nel ruolo del kapò. Oppure quando si inventa una cattedra in storia delle religioni e tratta la storia dell' Islam come il prodotto di un profeta minore... A rigor di termini, trasformare l' antipolitica in una politica è peggio che un crimine pubblico, potrebbe essere un errore logico. A rigor di logica, Berlusconi ha perso, perde e perderà. Nel mondo delle cose, battere l' antipolitica sarà un lavoro durissimo».

Profezia felice. Nel 2006 Berlusconi perde, infatti, ma per pochi voti e con i pozzi avvelenati per lunghissimi anni dalla nuova legge elettorale detta Porcellum. La Magna Carta del berlusconismo: deputati e senatori nominati, i parlamentari scelti come un cast televisivo, il riccone e la bellona, l'uomo dei rifiuti e il re delle cliniche, la definitiva discesa agli inferi del sistema che prepara il ritorno, la quarta fase, il Berlusconi più nichilista che abbiamo conosciuto.

Quello che rivince nel 2008 le elezioni, si gioca la carta del patriottismo repubblicano, a Onna con il fazzoletto tricolore al collo dopo il terremoto, il giorno dopo però c'è la festa di Casoria dalla neo-maggiorenne Noemi Letizia. Maggiorenni e minorenni, feste e cene eleganti, il divorzio a mezzo stampa di Veronica Lario, il ciarpame senza pudore, mentre il Paese cade nella recessione più cupa della storia e il Pdl destinato a far tremare il mondo affonda nella rissa perfino fisica tra i due fondatori, Berlusconi e Gianfranco Fini che si accapigliano davanti alle telecamere.

Nel 2011 sembra finita, e forse lo è davvero, quando il Cavaliere lascia Palazzo Chigi per il governo tecnico presieduto da Mario Monti.

E invece no, c'è il nuovo giro del 2013, l'ultima volta da candidato, con poltrone da spolverare e promesse sempre più mirabolanti da gettare nella mischia della cosa che ancora oggi Berlusconi sa fare meglio, la campagna elettorale.

Fino a oggi, all'uscita di scena dalle aule parlamentari per ritornare in piazza, in campagna elettorale, con una nuova sigla identica a quella del 1994, quando Berlusconi predicava un nuovo partito «senza cadaveri nell'armadio, anche se c'è qualcuno che vede dei cadaveri dove ci sono stampelle o al massimo abiti», diceva in quella campagna elettorale del 1994, una classe dirigente di «uomini nuovi e preparati» e soprattutto «con le mani pulite». Il partito che Silvio Berlusconi aveva già in mente nel 1977, per conquistare l'Italia.

Venti anni dopo siamo ancora lì, nell'eterno presente ossessivo del Cavaliere che coincide con la paralisi di una Nazione.
27 novembre 2013 © Riproduzione riservata

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