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Autore Discussione: Marco DAMILANO -  (Letto 64745 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 18, 2008, 12:00:29 am »

Choc democratico

di Marco Damilano


La disfatta d'Abruzzo. Le inchieste giudiziarie. L'insidia di Di Pietro. I capicorrente sul piede di guerra. Così il Pd vive i giorni più neri. E gli uomini di Veltroni invocano una terapia d'urto  Abruzzo, Campania, Basilicata, Calabria, sta venendo giù tutto..., si dispera il senatore Giorgio Tonini, l'intellettuale che prepara i discorsi di Walter Veltroni, mentre martedì 16 dicembre sale sull'ascensore di largo del Nazareno che lo porta alla riunione del coordinamento nazionale del Pd.

Il day after, nella sede del partito di Walter Veltroni, è desolante. Si aggiorna il bollettino di guerra delle elezioni in Abruzzo: alla fine il Pd si ferma a quota 19,6, una percentuale che neppure le previsioni più catastrofiche davano per possibile, Italia dei Valori segue a un passo, al 15 per cento. In termini assoluti la sconfitta fa ancora più paura: alle elezioni politiche del 13 aprile, il Pd raccolse in Abruzzo 277 mila voti, in otto mesi ne ha persi per strada quasi 180 mila, precipitando a 106 mila, meno di quanto presero i Ds andando da soli alle ultime regionali del 2005, meno addirittura della Margherita rutelliana. Appena il tempo di riprendersi dalla batosta elettorale e arriva quella giudiziaria: richiesta di arresti domiciliari per il deputato Pd Salvatore Margiotta, manette nella notte per Luciano D'Alfonso, l'uomo forte del Pd in regione, l'emergente, sindaco di Pescara legato ai popolari di Franco Marini e Giuseppe Fioroni, nemico giurato di Ottaviano Del Turco, candidato unico alla segreteria regionale ed eletto trionfalmente con le primarie. E viene in mente una fotografia già ingiallita, eppure sono passati solo pochi mesi. La prima tappa del tour elettorale del pullman di Veltroni, proprio a Pescara, nella centralissima piazza della Rinascita, detta anche piazza Salotto.

A fare da controcanto, in quella mattina di sole gelido, domenica 17 febbraio, ci sono due cartelli dedicati ai notabili del Pd locale: 'No al petrolchimico di Ortona' e 'Del Turco, una riflessione politica ti renderebbe ancora uomo'. Il Del Turco in questione, Ottaviano, il governatore dell'Abruzzo, sta bene attento a non farsi vedere, resta nascosto dietro il palco, accanto al sindaco D'Alfonso, entrambi accucciati nei cappotti. Quando Veltroni li nomina, mezza piazza fa partire bordate di fischi. Una contestazione che non troverà spazio nelle cronache del giorno dopo, ma che oggi suona come una sinistra profezia: il viaggio di Veltroni, partito a Pescara, potrebbe interrompersi proprio a Pescara.

Nelle ore più amare della sua gestione, il leader è barricato in un bunker antico, quello del centro congressi di via dei Frentani, già storica sede della federazione romana del Pci, dove Veltroni aveva mosso i primi passi. Lì, nel sotterraneo, sotto la scritta 'Il mondo cambia', traccia di obamismo un po' surreale in questa situazione, mentre dall'Abruzzo arrivano dati sempre più allarmanti, per tre ore il segretario del Pd ascolta i lamenti della base, i coordinatori dei circoli arrivati da tutto il Lazio. "C'è stata la campagna elettorale, poi si è fermato tutto, chi ha votato alle primarie poi non ha preso la tessera del partito", racconta Silvia Calamante, circolo San Giovanni. L'intervento più applaudito è quello di Rocco Mauriani, segretario del Pd di Vicovaro: "Caro Veltroni, i compagni e gli amici di sempre ci guardano con uno smarrimento che spesso è anche il mio. Avevamo creduto in voi quando ci avete promesso un partito nuovo: ora siamo confusi e senza una visione". La sala approva, anche Veltroni batte le mani. In solitudine: i dalemiani non ci sono, i rutelliani neppure.

Una terapia d'urto. Una misura choc. "Qualcosa di straordinario", evocano gli uomini più vicini a Veltroni. Disfatta elettorale e questione morale si tengono insieme nei ragionamenti degli intimi del segretario che preparano la direzione di venerdì 19 dicembre, convocata un mese fa, annunciata come la sede in cui ci sarebbe stato finalmente il tanto atteso chiarimento tra Veltroni e Massimo D'Alema, e ora chissà. "La cosa peggiore sarebbe restare nella morta gora: fare finta che non è successo niente", avverte Roberta Pinotti, ministro-ombra della Difesa. "Abbiamo di fronte a noi due strade: lavorare per costruire il Pd sui tempi lunghi, senza avere paura delle batoste ma avendo il coraggio di scegliere. O non decidere nulla, dire che un giorno rompiamo con Di Pietro e il giorno dopo il contrario: ma in questo modo non diventeremo mai il partito a vocazione maggioritaria di cui abbiamo parlato tanto, e continueremo a perdere". Così, tra i veltroniani doc, avanza l'idea di 'un'unità di crisi', come la definisce la Pinotti, un gabinetto di guerra per reagire alla Caporetto elettorale e giudiziaria. Con pieni poteri affidati al generale in campo eletto con le primarie: Walter Veltroni. Repulisti della vecchia classe dirigente, facce nuove, giovani da mettere in campo. E una strategia politica da ripensare interamente: stop ai condizionamenti di Di Pietro.

Basterà a conquistare il consenso degli alti gradi dell'esercito democratico, da D'Alema a Marini? Da mesi i notabili più influenti preparavano un congresso da fare nel 2009, dopo le elezioni europee, con all'ordine del giorno un ribaltone della segreteria. Ma ora le cose potrebbero cambiare. Per i capicorrente del Pd non si tratta più di organizzare una resa dei conti per qualche punto decimale perso alle europee. Ora è in gioco la sopravvivenza, il destino stesso del partito e della sua classe dirigente. Rispetto al quale qualsiasi mossa è lecita: stringersi attorno a Veltroni, oppure accelerare le pratiche di sfratto dell'attuale segretario. Con il rischio, per politici ormai invecchiati e reduci da troppe battaglie, di restare per decenni "minoranza strutturale", come avvisa D'Alema. L'incubo dell'opposizione a vita.

(17 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
Frammento di una possibile strategia di rimonta, la stessa che gli consigliano i collaboratori più stretti. Basta mediazioni estenuanti, basta con le facce logore al centro e in periferia, Veltroni cavalchi la sconfitta e si appelli alla base. "Siamo nell'emergenza, servono decisioni di emergenza", sprona Tonini: "Già era difficile fare il Pd in una situazione di normalità, l'identità culturale del partito, il suo profilo programmatico, il rapporto con la società che non raggiungiamo più. Ma ora se non facciamo qualcosa diventa impossibile: dobbiamo fare il sesto grado mentre la montagna ci sta venendo addosso". Solo una settimana fa i vertici del Pd hanno provato a mettere mano nelle situazioni locali più delicate, la Campania di Antonio Bassolino, il ginepraio delle primarie di Firenze, condizionate dalle inchieste della magistratura. Risultato: "Bassolino ci ha mandato a quel paese", ammette Tonini. "E se le cose stanno così, dovremo rendere più netta la distinzione tra il partito e gli amministratori locali. Ma, mettiamoci il cuore in pace, sarà una marcia lunga e molto dolorosa".

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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 02, 2009, 11:29:15 pm »

Costituzione ad personam

di Marco Damilano


Liberismo. Federalismo. E infine Presidenzialismo.

Ecco l'Italia che progetta Silvio Berlusconi. Dopo aver regolato i conti con i magistrati. E messo il bavaglio alle intercettazioni. C'è chi si è già portato avanti con il programma.

Il ministro delle Politiche agricole, il super-leghista Luca Zaia, per esempio: di recente ha fatto togliere dal suo ufficio del ministero di via XX settembre la foto di Giorgio Napolitano, il capo dello Stato che rappresenta l'unità nazionale. Due istituzioni che nel 2009 potrebbero essere messe a rischio dalla girandola di riforme, costituzionali e non, che il centrodestra si prepara a mettere in campo nei prossimi mesi. Si comincia il 20 gennaio, quando il federalismo fiscale fortemente voluto dalla Lega arriverà alla prova dell'aula del Senato. Negli stessi giorni la Camera sarà impegnata in un altro disegno di legge che sta molto a cuore a Silvio Berlusconi, quello che vieta le intercettazioni. Per poi passare alle partite successive: la giustizia, con la riscrittura di alcuni articoli della Costituzione. E il piatto forte del menù berlusconiano: il presidenzialismo.

"L'obiettivo del nostro governo si può riassumere in tre parole: liberismo, federalismo, presidenzialismo". Lo dichiarò il Cavaliere nell'aula di Montecitorio, era il 2 agosto 1994, e non si può negare che almeno in questo sia stato coerente. L'elezione diretta del presidente della Repubblica è nei suoi piani da quando è entrato in politica, esattamente 15 anni fa, dal discorso della discesa in campo in tv, con la calza a coprire la telecamera e alle spalle una libreria, già allora presidenziale. E ha ripetuto il suo credo nella conferenza stampa di fine anno: "È una riforma essenziale". Per poi frenare sui tempi di realizzazione: "Non abbiamo ancora esaminato il tema, non lo faremo nemmeno nel 2009. Ma nella seconda parte della legislatura bisogna arrivarci".

Ma c'è chi pensa che in realtà il presidenzialismo potrebbe essere messo in cantiere già nella seconda metà di quest'anno. Uno dei più fieri oppositori di Berlusconi, il deputato centrista Bruno Tabacci, ne è convinto: "Conosco bene Silvio. Se la crisi economica dovesse aggravarsi nei prossimi mesi, la tentazione di trovare una via d'uscita istituzionale per lui diventerebbe irresistibile". E poi ci sono i tempi di approvazione: doppia votazione di Camera e Senato, a sei mesi di distanza. Se si cominciasse a discuterne nella seconda metà del 2009 la riforma arriverebbe ad approvazione alla fine del 2010, salvo intoppi: nella parte finale della legislatura, come annunciato dal Cavaliere, giusto in tempo per chiamare gli elettori a votare sul presidenzialismo all'italiana con il referendum confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Un passaggio che il premier già mette nel conto, anzi, auspica. Qualcosa di simile solo al referendum del '46 in cui gli italiani decisero tra Monarchia e Repubblica: ma in questo caso la scelta sarebbe pro o contro il Cavaliere che sogna di passare alla storia come il fondatore della Terza Repubblica italiana. Eletto al Quirinale a furor di popolo.
 
A interrompere la sua marcia trionfale, però, ci sono numerosi ostacoli. Non solo gli istituti di garanzia previsti dalla Costituzione in vigore, a partire dall'attuale presidente della Repubblica. Non solo i partiti dell'opposizione, da Casini a Di Pietro passando dal Pd, che minacciano di fare le barricate e potrebbero ritrovarsi uniti dalla battaglia comune. A guastare i sonni del Cavaliere ci sono soprattutto i contrasti all'interno del centrodestra dove i presidenzialisti sono per ora in minoranza.

Nel governo siamo al bricolage costituzionale, al fai-da-te delle riforme. Ognuno ha la sua: la Lega è contraria all'elezione diretta del capo dello Stato e molto più interessata a portare a casa il federalismo fiscale. Per raggiungere l'obiettivo si sta ritagliando un inedito ruolo di mediazione con il Pd. Bossi, che nel governo Berlusconi è ministro delle Riforme, ha stoppato Berlusconi due volte in pochi giorni: la prima per bloccare la riforma della giustizia, che il premier voleva già prima di Natale per incassare il clima di discredito verso la magistratura provocato dalla guerra tra le procure di Salerno e di Catanzaro, la seconda per fermare sul nascere la tentazione presidenzialista del premier. "Berlusconi il Quirinale deve meritarselo sul campo. Si misurerà sulle riforme", avverte un altro ministro leghista, Roberto Calderoli. E già, perché dopo l'approvazione del federalismo da parte delle Camere arriverà il momento dei decreti di attuazione che spettano al governo: è lì che potrebbe scattare lo scambio. L'accelerazione dei decreti patteggiato con il via libera della Lega al presidenzialismo: la trattativa è aperta.

L'altro alleato di Berlusconi, Gianfranco Fini, ha accolto le esternazioni del premier con un gelido silenzio (a differenza del presidente del Senato Renato Schifani, come sempre fedele a palazzo Chigi). Per anni il presidenzialismo è stato il suo modello. Ma ora, da presidente della Camera, l'ex leader di An non perde occasione per professare la sua fede nel Parlamento e nel dialogo tra gli schieramenti: vedi la sua ultima uscita contro il "cesarismo" che ha fatto imbestialire Berlusconi.

A spaccare il centrodestra non c'è solo l'elezione diretta del capo dello Stato. Le intercettazioni sono un'ossessione per il Cavaliere che ne parla in tutte le occasioni: visite all'estero, conferenze stampa, cene private. Il disegno di legge uscito dal Consiglio dei ministri non va bene, troppo debole, ripete Berlusconi, "bisogna restringere le intercettazioni anche sulle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione", ovvero escludere dal divieto solo i reati di mafia e terrorismo. L'opposto di quello che predica la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ex avvocato di Giulio Andreotti e deputato di An, che è anche legale di Gianfranco Fini, considerata tra i più vicini al presidente della Camera: "Le intercettazioni vanno regolate, limitate, ma non si può impedire ai magistrati di utilizzarle". Anche per reati come la corruzione, quelli che i falchi berlusconiani vorrebbero proibire.

Infine, nel calendario del 2009, ci sono i referendum elettorali di Mario Segni e Giovanni Guzzetta (un anno fa furono tra i motivi dell'uscita di Mastella dal governo Prodi, oggi non se li ricorda più nessuno) e la mini-riforma della legge elettorale per il Parlamento europeo. Per ora è finita nel cassetto l'idea iniziale di Berlusconi: soglia di sbarramento al 5 per cento e abolizione delle preferenze. La prima modifica serviva a eliminare l'Udc di Casini, la seconda a far rispettare a tavolino gli equilibri interni al Pdl: il 70 per cento degli eletti a Forza Italia, il 30 ad An. Con le preferenze il partito di Fini, molto più organizzato sul territorio, potrebbe strappare numerosi eletti in più e far entrare i forzisti in fibrillazione. Per questo, alla fine, non se ne farà niente. E poi, ragionano gli strateghi del premier, se alle elezioni europee dovesse tornare la frammentazione politica, con la rinascita di partiti e partitini, non sarebbe un male. Sarebbe un ottimo spot per la riforma presidenziale. Quella che dovrà trasformare la Repubblica italiana in una monarchia berlusconiana.

(02 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 05, 2009, 04:52:33 pm »

Partita doppia

di Marco Damilano


La legge per le europee cara a Veltroni. L'accordo sulla Rai. Poi le nuove regole parlamentari agognate da Berlusconi. L'asse bipartisan Silvio-Walter  Presenti 517, astenuti uno, hanno votato sì 25, hanno votato no 492, la Camera respinge... Montecitorio, pomeriggio di martedì 3 febbraio, fuori dal portone sotto il diluvio si disperdono gli ultimi, sparuti rappresentanti dei partiti della sinistra radicale, i grandi esclusi dalla riforma della legge elettorale europea che introduce la soglia di sbarramento del 4 per cento per entrare nel Parlamento di Strasburgo.

Dentro, nell'aula della Camera, si procede a colpi di emendamenti approvati o respinti con il 95 per cento e oltre dei presenti, quasi all'unanimità. Con Pdl, Pd, Lega, Udc e Italia dei Valori, tutti i gruppi rappresentati in Parlamento che, miracolo, votano insieme appassionatamente.
Un Veltrusconi allargato a Pier Ferdinando Casini, Umberto Bossi e perfino Antonio Di Pietro. A fare la parte della minoranza rimangono solo i radicali, come ai tempi dei governi di unità nazionale negli anni Settanta presieduti da Giulio Andreotti con l'appoggio del Pci, e i siciliani dell'Mpa di Raffaele Lombardo. La scena si ripete il giorno dopo a palazzo San Macuto: la commissione di vigilanza Rai teatro del tormentone Villari, il senatore campano ex Pd rimasto incollato alla poltrona della presidenza per oltre due mesi, elegge a sua guida Sergio Zavoli con i voti di tutti i presenti. In attesa di scegliere il nuovo consiglio di amministrazione Rai: anche in questo caso tutti insieme. O quasi.

È la grande novità di questa stagione politica. Voti bipartisan. Maggioranze schiaccianti. Parlamento unanime. Nessuna distinzione tra maggioranza e opposizione. Larghe, larghissime intese. Molto di più di un inciucio: un inciucio al quadrato, al cubo. Una Grande Coalizione non dichiarata, ma che sempre di più prende forma. Sulla legge elettorale europea. Sulla Rai e sugli uomini che comanderanno viale Mazzini. Ma non solo: nelle ultime settimane maggioranza e opposizione, gli uomini di Silvio Berlusconi e quelli di Walter Veltroni, hanno votato insieme sugli argomenti più disparati. Sulla ratifica del trattato di amicizia Italia-Libia, per esempio: il 21 gennaio la Camera l'ha approvato con 413 voti a favore, 63 contrari e 36 astenuti, con due soli voti contrari nel Pd, Furio Colombo e il giovane Andrea Sarubbi. Il giorno dopo arriva al Senato il ben più importante disegno di legge sul federalismo. Risultato:156 sì, 108 astenuti (i senatori del Pd), solo sei eroici dissidenti votano contro. Un'azione quasi démodé, ormai, nell'aula di palazzo Madama dove appena pochi mesi fa, all'epoca del governo Prodi, a ogni passaggio si andava al muro contro muro e si contavano i voti uno a uno.

La mania bipartisan gioca brutti scherzi: come quello di trascinare una parte dei deputati del Pd a dire no, astenersi o non partecipare al voto sulla mozione presentata dal presidente del loro stesso gruppo parlamentare Antonello Soro per costringere il governo a far dimettere il sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino, accusato da sei pentiti di essere un fiancheggiatore del clan dei Casalesi, come ha scritto 'L'espresso'. Mozione respinta, con numerose astensioni e assenze determinanti tra i banchi del Pd e Idv che si vanno ad aggiungere ai colleghi del Pdl. Forse per ricambiare il voto con cui l'aula di Montecitorio ha respinto la richiesta d'arresto del deputato democratico Salvatore Margiotta: in quel caso è toccato al Pdl salvare l'esponente del Pd, con 430 no alle richieste dei magistrati, 21 contrari (i dipietristi) e tre astensioni. Una convergenza che fa ben sperare gli uomini della maggioranza berlusconiana incaricati di trattare con il Pd i dossier caldi sulla giustizia in arrivo: la legge sulle intercettazioni in calendario alla Camera, la riforma costituzionale con la separazione delle carriere e la riforma del Csm voluta dal Cavaliere.

A suggellare l'intesa maggioranza-opposizione, intanto, c'è la riforma dei regolamenti parlamentari in discussione al Senato. Raccontano che sia questa la vera merce di scambio tra Berlusconi e Veltroni. Il premier ha dato il via libera alla riforma della legge elettorale europea, con lo sbarramento del 4 per cento che Veltroni riteneva essenziale per fermare la concorrenza dei partitini di sinistra che avrebbero tolto voti al Pd. E il segretario dei Democratici ha acceso disco verde per la riscrittura delle regole del gioco parlamentare. Una riforma che il centrodestra considera decisiva, dato che nei nuovi regolamenti saranno contingentati i tempi per approvare i disegni di legge di iniziativa governativa: 60 giorni, come previsto dalla Costituzione per i decreti d'urgenza. Sessanta giorni, due mesi, per far approvare al Parlamento i provvedimenti che stanno più a cuore al premier. Più che una corsia preferenziale, una autostrada: quello che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto, forse neppure sognato.

E poi, naturalmente, c'è la Rai. Terreno privilegiato di ogni intesa, grande o piccola che sia. Con la legge Gasparri che rende necessario il 'concorso' (leggi: spartizione) tra maggioranza e opposizione per eleggere il nuovo consiglio di amministrazione di viale Mazzini. L'elezione di Zavoli alla presidenza della commissione di Vigilanza è solo il primo passo, la settimana prossima arriveranno in tavola i bocconi più appetitosi: il presidente della Rai, il direttore generale e a seguire le poltrone di Saxa Rubra, la direzione del Tg1, il Tg2, il Tg3... Un menù di nomine da leccarsi i baffi, specie alla vigilia di elezioni europee e amministrative, che sta stressando all'inverosimile i palazzi del potere. Martedì 3 febbraio, per esempio, al primo piano di Montecitorio era possibile assistere a una istruttiva scenetta. In un corridoio, quello della sala della Regina, i deputati del Pd si erano riuniti con Veltroni per decidere il da farsi sulla legge elettorale europea. Nel corridoio opposto, quello che porta agli uffici del presidente della Camera Gianfranco Fini, è stato avvistato il direttore del Tg1 Gianni Riotta, in visita pastorale. Per ora è uscito dal toto-nomine, ma chissà. Tutto può essere: anche perché, fuori i secondi, nel Pd Goffredo Bettini è stato esautorato, la partita Rai è tornata nelle mani di chi è di casa in viale Mazzini.

Da un lato, Walter Veltroni, che di televisione pubblica si è nutrito fin da neonato, per ragioni familiari (il papà è stato il primo direttore del Telegiornale, la mamma una storica funzionaria Rai) e che nell'87 firmò il patto con Dc e Psi con cui il Pci conquistava per la prima volta la direzione di RaiTre e Tg3. Dall'altro, Gianni Letta, un altro che considera la Rai come il salotto di casa. A trattare sui nuovi nomi Rai saranno loro, il segretario del Pd e il sottosegretario di Berlusconi. E potrebbe finire con una sorpresa: la conferma di Claudio Petruccioli, ben visto anche da Berlusconi, e degli attuali vertici, compreso il direttore generale Claudio Cappon, uomo del centrosinistra ma vicino anche a Gianni Letta, frequentano la stessa parrocchia, Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici.

Personaggi miti, ecumenici. Uomini dell'armonia, perfettamente in linea con lo spirito dei tempi che impongono collaborazione. Per il bene del Paese. Per sopravvivere ai rovesci politici. Per non morire all'opposizione, parolaccia fuori corso nella stagione dell'unanimità.

(05 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 12, 2009, 06:58:50 pm »

La Carta strappata

di Marco Damilano


Lo scopo di Berlusconi è svuotare la democrazia.

Rendere la società più disuguale. E aumentare ancor più il suo potere.

Parla l'ex ministro del Pd. Colloquio con Rosy Bindi 

Sul tavolo accanto alla scrivania di vicepresidente della Camera ci sono due testi: la Bibbia e la Costituzione. "E presto aggiungerò i documenti del Concilio". I punti di riferimento fondamentali per la cattolica Rosy Bindi: fedeltà ai propri valori di credente "che non si impongono per legge", fedeltà alla Carta del 1948 messa in pericolo in questi giorni: "Berlusconi ha usato la vita di Eluana contro gli equilibri istituzionali previsti dalla Costituzione".

Vita contro procedure istituzionali: è la partita che la politica ha giocato in queste settimane?
"È la contraddizione voluta e costruita da Berlusconi e dalla sua maggioranza. So bene che in un clima di emotività nazionale era difficile riflettere, ma ora che i toni si sono abbassati possiamo provare a chiederci: si può garantire la dignità e la vita di una persona mettendo a rischio i fondamenti della democrazia? Qui c'è ben altro che la ragione di Stato da difendere. Sul caso di Eluana il governo ha giocato una partita con le carte truccate. È stata usata una vita contro la Costituzione. L'obiettivo non era salvare una donna, ma perseguire ben altri scopi".

Quali?
"Quelli dichiarati dallo stesso Silvio Berlusconi. Nella conferenza stampa in cui ha usato parole irripetibili riferite a Eluana ha detto che il governo non può essere limitato nel suo potere di fare i decreti. E ha minacciato, in caso contrario, di ricorrere al popolo per cambiare la Costituzione. Ma la firma del presidente della Repubblica sui decreti non è un atto notarile: è la garanzia che il governo sta esercitando il suo potere nel rispetto dei valori costituzionali. Sono stata ministro per sei anni, sui decreti c'è sempre un dialogo tra il governo e il Quirinale. Non è mai successo invece che sui dubbi del presidente della Repubblica il governo costruisse uno show. Si è creato ad arte un pretesto, si è spettacolarizzato il dissenso di Giorgio Napolitano, si è fatto di tutto per farlo passare per uomo di parte. Sono arrivati a dire perfino che la sua è la parte della cultura della morte. Tutto per lanciare un unico messaggio al Paese: non si disturba il manovratore".

Però tra i cittadini aumenta la paura del futuro. E l'invocazione di un uomo che decida.
"Nella storia le svolte autoritarie arrivano spesso per la difficoltà a funzionare delle assemblee parlamentari, lo so bene. Per questo bisogna rapidamente agire per correggere il bicameralismo, riformare i regolamenti delle Camere, ridurre il numero dei deputati e senatori. Tutto per rendere più efficace la forma di governo parlamentare, che non può essere messa in discussione. Berlusconi pensa che chi vince le elezioni comanda il paese: questa è la profonda distanza tra lui e la Costituzione. So che anche in casa mia, nel Pd, qualcuno ha avuto simpatia per modelli presidenziali, l'elezione diretta del premier, il sindaco d'Italia. Ma questo non è tempo di presidenzialismo: in questo momento storico, con Berlusconi, con il conflitto di interessi, con i parlamentari nominati, con i pesi e i contrappesi vissuti con insofferenza, non ci sono in Italia le condizioni per alcun cedimento".

Ma l'attacco alla democrazia è solo un fatto di regole?
"La mia paura è che questo governo voglia approfittare della crisi economica per svuotare la democrazia. La democrazia disegnata dalla Costituzione è in crisi perché sono duramente colpiti i suoi principi di uguaglianza e di giustizia sociale che garantiscono la libertà degli individui. Al loro posto c'è il modello di società di questa destra. Lo vediamo sull'immigrazione, su come trattano il povero, il marginale, il diverso. Si utilizza la crisi per creare una società più disuguale, più immobile, con più privilegiati garantiti e con lo scatenamento della guerra tra i più poveri, i non tutelati. La destra mette insieme la difesa del proprio territorio, il liberismo straccione pronto a trasformarsi in protezionismo e l'imposizione della sua visione etica con una legge dello Stato".

Non lo fa solo la maggioranza. In queste settimane i cardinali Ruini e Poletto hanno teorizzato un principio: la legge dello Stato non può opporsi alla legge di Dio e della Chiesa, in caso di contrasto deve prevalere la legge di Dio. Cosa ne pensa la cattolica Bindi?

"Penso che la legge di Dio sia superiore alle leggi umane. Ma nessuno può pretendere che la propria visione sia interamente recepita da una legge dello Stato. Non puoi trasformare la legge superiore che guida le tue scelte e la tua coscienza in una legge dello Stato imposta anche a chi non la condivide. Laicità e democrazia non sono l'assenza di valori, ma la fatica di valori condivisi. Tenendo uniti due principi: il primato della coscienza e la non imposizione dei tuoi valori agli altri".

D'accordo, però torniamo nell'Italia 2009. Nel caso Englaro questi principi sono stati rispettati dalla gerarchia ecclesiastica e dal governo?
"Ho una gran paura: che per ottenere alcune leggi una parte della gerarchia ecclesiastica e del mondo cattolico resti in silenzio su i rischi che incombono sulla nostra democrazia. Non si può barattare un singolo principio con il valore della democrazia: se metti in pericolo la libertà degli altri prima o poi toccano anche la tua. È già successo: sono concordataria, ma ricordo che nel 1929 la Chiesa firmò il Concordato con Mussolini e solo due anni dopo il regime fascista fece chiudere i circoli dell'Azione cattolica. Questo dovrebbe mettere in guardia verso chi si propone di nuovo come l'uomo della Provvidenza. Lo dico alla mia Chiesa: solo con la democrazia e con la Costituzione tutto è possibile. Non si possono difendere i propri valori abbassando i principi di convivenza democratica, perché così anche la difesa della vita e della famiglia diventa un fatto puramente formale e alla fine se ne paga un prezzo ben più alto".

Berlusconi è in politica da 15 anni, siamo davvero alla sfida decisiva: cambio della Costituzione, spallata istituzionale, assalto al Quirinale?
"Eluana ne è la prova: se Berlusconi è arrivato a usare un caso così delicato con quella volgarità vuol dire che è disposto a tutto. Il suo è un annuncio: se non mi date i poteri di cui ho bisogno ricorrerò al popolo. Dimentica che nel 2006 il popolo italiano ha già bocciato a grande maggioranza la loro controriforma della Costituzione".

E il suo partito, il Pd, come si attrezza a questa sfida? Oscillate tra due estremi: un giorno Berlusconi è come un premier inglese, il giorno dopo lo si paragona a Putin. Questa settimana siete scesi in piazza per difendere la democrazia minacciata, ma con Berlusconi state votando la modifica della legge elettorale europea e sul federalismo leghista vi siete astenuti.
"Se andare in piazza serve a riprendere il cammino parlamentare sulla bozza Violante per rafforzare il Parlamento va benissimo. Se le intenzioni del governo sono altre ci opporremo con tutte le nostre forze. Su giustizia e intercettazioni nessuno di noi ha intenzione di fare l'inglese. Piacerebbe anche a me un centrodestra europeo, ma in Italia purtroppo non c'è. E noi dobbiamo ripartire dalla Costituzione: questa è la nostra missione.".

Per la verità, nelle manifestazioni del Pd si canta l'inno nazionale e c'è il tricolore sul palco, ma della Costituzione non si vede traccia.
"Benissimo: allora portiamo sul palco anche il testo della Costituzione. Ma il problema non è di simbologia: spesso facciamo fatica a definire l'identità culturale del Pd, ma gran parte della nostra identità è contenuta lì, in quelle parole".

In piazza ha parlato Oscar Luigi Scalfaro: non temete di tornare al vecchio anti-berlusconismo?
"Scalfaro è il simbolo dell'Assemblea Costituente. Il nostro obiettivo non è l'antiberlusconismo, è la difesa di principi fondamentali che sentiamo minacciati. E su questo speriamo di trovare tanti compagni di viaggio. Per esempio, Pier Ferdinando Casini: altrimenti che avrebbe fatto a fare la rottura con Berlusconi un anno fa? La sinistra, che spero ricostruisca una sua presenza politica e non si affidi alla difesa di piccole sigle dello zero virgola per cento. Le forze sociali: la Cisl di Pezzotta nel 2006 fu al nostro fianco nel referendum sulla Costituzione, mi chiedo dove sarà la Cisl di Bonanni. E altri compagni di strada inaspettati".

A chi si riferisce?
"Con Gianfranco Fini mi trovo a lavorare alla presidenza della Camera. Gli do atto di aver difeso il presidente della Repubblica e il Parlamento dall'aggressione del governo a colpi di decreto. E qui, a Montecitorio, la nostra sarà una vigilanza quotidiana".

(12 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:23:41 pm »

L'orgia del potere

di Marco Damilano


Caso Englaro. Immigrati. Magistrati. Quirinale. La partita a tutto campo del premier. Per cambiare le regole e aprire la strada al presidenzialismo. Una sfida senza precedenti alle istituzioni  Silvio BerlusconiBerlusconi ha raggiunto tre risultati con un colpo solo: presentarsi come il paladino dei cattolici, mettere in grave difficoltà il presidente della Repubblica con la Chiesa e con il papa in persona, spingere verso l'isolamento Giorgio Napolitano in attesa delle prossime partite, quelle che veramente gli stanno a cuore... Il senatore del Pdl, profondo conoscitore dei segreti del Cavaliere, parla all'ingresso dell'aula di palazzo Madama, mentre ancora non si è calmata l'onda d'urto delle polemiche della sera precedente.

Quando alle 20,10 del 9 febbraio arriva la notizia che Eluana Englaro è morta, in Senato si sta procedendo a tappe forzate per l'approvazione del disegno di legge del governo che obbligherebbe i medici all'alimentazione della donna in stato vegetativo da diciasette anni. La prima reazione dei colonnelli del Pdl è senza freni inibitori: "Veronesi, ora smettila di ridere!", grida il livido Maurizio Gasparri all'indirizzo del professor Umberto Veronesi, senatore del Pd, che di certo non sta ridendo. Anche perché c'è davvero poco da stare allegri in questa serata di dolore per la famiglia Englaro e di tristezza per le istituzioni repubblicane, offese, umiliate, trascinate in una contesa sulla vita e sulla morte. "Un cinico, macabro esercizio di potere attorno al corpo di una persona", lo definisce il democratico Paolo Giaretta.

Con il centrodestra scatenato che urla verso i banchi del Pd l'insulto più sanguinoso: "Assassini". Il coro da stadio rimbalza sulla bocca del vicecapogruppo del Pdl, il senatore Gaetano Quagliariello, uno che vanta tra i suoi avi sindaci liberali di Salerno e un nonno senatore democristiano nella prima legislatura, ma che questa sera appare stravolto dall'odio: "Eluana non è morta. Eluana è stata ammazzata", urla dal suo banco. Concetto ribadito il giorno dopo dal quotidiano dei vescovi 'Avvenire': "Non morta, ma uccisa". E chi sarebbe l'uccisore? Il giallo viene svelato dal titolo ironico del quotidiano 'Il Giornale', il più in linea con gli umori del premier: "Complimenti Napolitano". Colpevole di non aver firmato il decreto del governo che avrebbe imposto ai medici la ripresa dell'alimentazione per la donna.

Frasi poi ammorbidite da Berlusconi, in una già ben collaudata tattica dello 'stop and go'. Ma che suonano così violente da segnare un punto di non ritorno. Lo scontro istituzionale più grave della storia repubblicana. Tale da far scolorire perfino il ricordo del contrasto tra il Cavaliere appena entrato in politica nel 1994 e l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, richiamato in piazza da Walter Veltroni giovedì 12 per una manifestazione in difesa della Costituzione.

Quindici anni fa Berlusconi era solo un outsider senza nessuna dimestichezza con i delicati meccanismi dello Stato. Oggi Berlusconi è un leader potente come nessun altro negli ultimi sessant'anni. Governa con una maggioranza docile a ogni volere, a colpi di fiducia: l'ultimo al Senato, sul decreto milleproroghe, pochi minuti dopo la discussione sul testamento biologico. E con l'opposizione del Pd incerta e divisa a ogni passaggio. Perfino in Mediaset torna a dettare la linea, eliminando le tradizionali foglie di fico professionali e politiche che nel corso dei decenni hanno garantito il volto pluralista della televisione berlusconiana: la sera del 9 febbraio, mentre a Udine si era appena consumata la fine di Eluana, i vertici Mediaset hanno preso atto delle dimissioni di Enrico Mentana dalla direzione editoriale e hanno sospeso 'Matrix'. Uno strappo clamoroso con il primo direttore del Tg5, commentato gelidamente dal premier: "Meglio così, non voglio una primadonna, meglio liberarci di chi non capisce le nostre esigenze". Largo a Maurizio Belpietro, Emilio Fede, Clemente Mimun, Giorgio Mulè, che le esigenze del premier le conoscono alla perfezione. E nella fascia oraria di seconda serata lasciata libera da 'Matrix' resterà su RaiUno senza più concorrenza, in beata solitudine, il sempre affidabile (per il premier) Bruno Vespa.

Eppure, nonostante un'occupazione del potere che conosce pochi spazi liberi, ormai, il Cavaliere continua a considerare ogni contrappeso, ogni forma di controllo, un impiccio, un muro da buttare giù. E resta ancora un ostacolo da superare, il più solido e autorevole e dunque il più scomodo: la presidenza della Repubblica affidata a Napolitano. Per dare la spallata al Quirinale il premier ha evitato lo scontro su giustizia e informazione, come sarebbe stato ovvio. E ha scelto di muovere l'assedio a Napolitano partendo da un terreno mai frequentato da lui: quello delle scelte etiche, la frontiera della morte, sempre esorcizzata dall'ultra-settantenne Berlusconi che nel 2006, in piena campagna elettorale, arrivò a dire: "Sotto il mio governo le aspettative di vita media si sono alzate". E infatti, il giorno prima del Consiglio dei ministri che ha approvato il decreto, nonostante il parere contrario di Napolitano, il sottosegretario Gianni Letta aveva sospirato con i suoi interlocutori vaticani: "Non so se riusciamo a convincere Silvio". E poi, opinioni personali del premier a parte, c'erano i sondaggi a favore di Beppino Englaro. "Ha cambiato idea quando gli abbiamo parlato. Lui ha capito", giura la sottosegretaria Eugenia Roccella.

A fare il miracolo, riuscire a interessare Berlusconi della sorte di Eluana Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi(appena un mese fa aveva detto: "di questi casi non si fa carico l'esecutivo"), sono stati due laici trasformati in crociati: la Roccella, ex radicale diventata poi portavoce del Family Day, pupilla del cardinale Camillo Ruini. E il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, cresciuto su posizioni laiciste, alla scuola di un anti-clericale dichiarato come Bettino Craxi, oggi convertito alle frequentazioni ecclesiastiche. Al punto da chiedere all'amico Raffaele Bonanni, segretario della Cisl e fervente cattolico, militante nel movimento dei neo-catecumenali, di essere introdotto in udienza con papa Ratzinger. E ora in Vaticano le simpatie vanno tutte al premier: "Berlusconi è un evangelizzatore, riesce a convincere più persone lui di quanto non riusciamo a fare noi", esagera ma fino a un certo punto un monsignore di curia.

Politica radicale: il corpo, la vita, la morte strumentalizzati come un'arma da gettare nelle polemiche politiche. Da una parte il destino di Eluana, dall'altra le istituzioni e la Costituzione, quella che il premier considera "filo-sovietica", "ispirata alla Carta dell'Urss del 1936". Riferimenti non certo casuali, nel momento di massimo scontro con Napolitano, il primo esponente del Pci arrivato al Quirinale. E che dimostrano come la vicenda Englaro sia per Berlusconi la prima tappa di un'offensiva tutta da costruire. Con l'obiettivo, prima di tutto, di trasformare il Pdl che sta per nascere nel partito personale del premier, una pura e semplice espansione di Forza Italia. Per far questo bisogna azzerare o quasi il ruolo del presidente della Camera Gianfranco Fini, l'unico che ha messo in discussione nel centrodestra lo strapotere berlusconiano: fino a questo momento è stato l'indiscusso numero due nel Pdl, ma sul decreto impropriamente definito salva-Eluana si è consumata la spaccatura più drammatica tra Fini e i ministri di An. Costretti a scegliere tra la fedeltà a Berlusconi e quella al presidente della Camera che appoggia Napolitano e che sul caso Englaro ha difeso il diritto del padre a dire l'ultima parola, gli uomini di An nel governo non hanno avuto dubbi. Tutti con Silvio: compreso Altero Matteoli, sempre vicino al leader, o la giovane Giorgia Meloni. Anche Andrea Ronchi, ministro in quota Gianfranco, ha convocato una riunione di circoli di An in una sala sotto il Gianicolo, aperta da un filmato con la foto di Eluana. Così il presidente della Camera accresce il suo prestigio fuori dal centrodestra, ma dentro è rimasto politicamente solo, senza partito, senza truppe, senza casa. Un esiliato, come negli struggenti versi della poetessa Anna Vukusa letti da Fini durante una cerimonia di commemorazione delle vittime delle foibe: "Il mio cuore di esule è una bianca conchiglia per ascoltare il mare che più non mi appartiene". E già: il mare dei post-missini, quelli alla Gasparri, sta per traslocare alla corte di Arcore.

Sbrigata la pratica Fini, si aprirà la partita vera: la riforma costituzionale che Berlusconi minaccia da mesi. Il premier ci pensa e ne parla da anni: una riscrittura dell'attuale Costituzione in senso presidenzialista, con il sogno di arrivare al Quirinale eletto da un plebiscito popolare. Ora, però, è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Anche perché la lentezza delle decisioni imposta dalle vecchie regole è un ottimo alibi per giustificare l'assenza del governo di fronte alla crisi economica. Una via d'uscita niente male per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dal calendario infuocato dei prossimi mesi. L'esplodere del conflitto sociale, di cui la manifestazione organizzata dalla Fiom e dalla Funzione pubblica della Cgil per venerdì 13 febbraio è solo un anticipo. "Silvio sbaglia a lavorare per la separazione della Cgil dagli altri sindacati: è un altro consiglio strampalato che gli ha dato Sacconi dopo l'intervento su Eluana. Significa solo aumentare la tensione", si lamenta un esponente del Pdl. Ma il Cavaliere è già pronto a indicare il nome del colpevole dell'ondata di scioperi, manifestazioni e licenziamenti in arrivo. Non la sottovalutazione della crisi, non l'incapacità di Palazzo Chigi di trovare soluzioni straordinarie come in altri paesi europei. Ma, al solito, le istituzioni repubblicane che non consentono a Berlusconi di governare come vorrebbe.

Impossibile che Napolitano possa restare a guardare, dopo gli attacchi subiti negli ultimi giorni. Un fuoco di fila che ha l'obiettivo di indebolire la più alta forma di garanzia quando si arriverà a parlare di riforma della giustizia e separazione delle carriere. O quando si manifesterà lo stravolgimento dell'apparato delle forze dell'ordine pubblico voluto dalla Lega, con le competenze che dai prefetti passano ai sindaci o con la legalizzazione delle ronde padane. Passaggi strettissimi che metteranno ancora una volta di fronte Quirinale e palazzo Chigi. L'uomo della Costituzione e il Cavaliere che sogna di prenderne il posto. Pronto a utilizzare ogni occasione: il dramma di Eluana. O, come avverte qualcuno nel Pdl, l'interruzione traumatica della legislatura, con la richiesta di un nuovo voto popolare per la sua riforma costituzionale. Questioni di vita o di morte, per la Repubblica.

(13 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 19, 2009, 06:34:18 pm »

Pasticcio Democratico

di Marco Damilano


La sconfitta sarda. L'addio di Veltroni. Le mire dei capicorrente. I 30-40enni sul piede di guerra. È caos nel Pd. E anche il futuro del partito ora è a rischio  La manifestazione al Circo Massimo di ottobre 2008Il pacco di tesserine magnetiche giace lì, malinconicamente abbandonato in uno scatolone al pianterreno di largo del Nazareno: sopra c'è un'immagine della manifestazione del Circo Massimo dello scorso 25 ottobre. Tanta gente, le bandiere del Pd, la scritta 'Grazie"' e la firma di Walter Veltroni. In memoria dell'unica giornata davvero felice dei suoi 16 mesi di segreteria: il popolo democratico arrivato da tutta Italia per applaudire Veltroni su un podio in stile Obama, una pedana in mezzo alla folla. Era raggiante Walter, quel giorno. Al punto da strapazzare i suoi critici: "State sempre lì a ravanare, attaccati ai vostri schemini: dalemiani, veltroniani.". E invece, appena quattro mesi dopo, martedì 17 febbraio, il Circo Massimo è un ricordo sbiadito, di quelle bandiere non resta nulla. Al secondo piano del Nazareno si scatena la resa dei conti più drammatica, con le dimissioni di Veltroni dalla guida del partito nato dalle ceneri di Ds e Margherita.

È l'8 settembre del Pd. Lo sciogliete le righe. Il tutti a casa. Con l'incubo sempre più reale del crack. L'abisso: l'implosione del progetto, il dissolvimento del partito, la scomparsa della principale forza di opposizione. Anche se la guerra contro la destra berlusconiana che ha conquistato anche la Sardegna di Renato Soru continua, o dovrebbe continuare. Ma con chi? Nelle ore dell'abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata Pd, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato numero uno alla successione in un congresso da convocare in autunno, dopo il nuovo prevedibile rovescio alle europee di giugno, è quasi allegra Anna Finocchiaro tra i banchi del Senato. E Paolo De Castro, l'ex ministro dell'Agricoltura che ora è presidente dell'associazione dalemiana Red, addirittura gongola: "E ora prendiamoci la segreteria!". Il 'partito romano', impersonato da Goffredo Bettini, si riunisce di buon mattino in un ufficio della Camera con il nucleo duro dei veltroniani della capitale: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il segretario regionale Roberto Morassut, il deputato Michele Meta. La notizia delle dimissioni di Veltroni non si è ancora diffusa, Bettini la confida ai suoi esattamente come fece quasi due anni fa quando li convocò per annunciare che aveva convinto l'allora sindaco a rompere gli indugi e candidarsi alla guida del Pd.


Sono in pochi, in quel momento, a conoscere le decisioni del segretario. Veltroni sceglie di lasciare la segreteria a notte fonda, quando i risultati elettorali della Sardegna hanno cominciato ad assumere i contorni della catastrofe, l'ennesima dopo la sconfitta alle elezioni politiche, la perdita del Campidoglio contro Gianni Alemanno e la batosta abruzzese di dicembre. Ma l'idea di dimettersi matura prima del voto sardo. Nel fine settimana il segretario fa un giro di telefonate con i dirigenti più vicini sparsi in giro per l'Italia. E lì si capisce che ha deciso di mollare. Chi lo ascolta resta colpito: il Walter bonaccione, ottimista di natura, non esiste più. Al suo posto c'è un uomo stanco, deluso, amareggiato, stufo marcio di guidare il partito in queste condizioni. "Guardate solo cosa è successo oggi", si lamenta: "La mattina presento il piano anti-crisi del partito e incasso l'interesse delle categorie produttive. Il pomeriggio D'Alema va a Bologna e lo smonta pezzo per pezzo. Io costruisco la mattina e questi disfano la sera". Ed è inutile chiedergli di sfidare gli avversari interni con un congresso straordinario. "Non me la sento, non è nelle mie corde la guerra casa per casa per conquistare un delegato in più", ammette Veltroni: "E poi, se anche vincessi, cosa cambierebbe? Il giorno dopo ricomincerebbero da capo". Concetti ripetuti al momento delle dimissioni: "Un gioco al massacro, non ci potevo più stare. Si attaccava me per far fallire il progetto del partito. E con la candidatura di Bersani otto mesi prima del congresso e in piena campagna elettorale si è passata la misura. Basta".

Basta con i giochi di corrente. Basta con il logoramento sotterraneo. Basta con le manovre di chi voleva arrivare alle elezioni europee con Veltroni segretario per poi dargli il benservito. La mossa del leader serve a spiazzare i suoi coetanei. "Me ne vado io, ma si è chiuso il ciclo di una generazione. Con me devono andarsene tutti". Un sacrificio personale per travolgere l'intero gruppo dirigente del Pd degli ultimi 15-20 anni, in particolare i 'compagni di scuola' nati alla politica nella Fgci e alle Frattocchie, cresciuti nel Pci di Enrico Berlinguer, saliti ai vertici del partito dopo la caduta del Muro, arrivati al potere negli anni Novanta, con l'Ulivo di Romano Prodi. La stirpe dei Veltroni e dei D'Alema, insomma. Al momento di lasciare, 'zio Walter' non trova il tempo neppure di una telefonata di cortesia per 'zio Massimo', l'ex amico eterno rivale: D'Alema apprende delle dimissioni di Veltroni dalle agenzie. Lo stesso accade ai ministri dello sfortunato governo ombra che nessuno informa dell'addio del leader. E al corpaccione del partito sparso per l'Italia: sindaci, presidenti di regione, presidenti di provincia, segretari regionali. La notizia dell'addio arriva in periferia con Internet o sulle agenzie. "C'è stato un totale blackout comunicativo", impreca un segretario regionale: "Noi chiamavamo e a Roma non ci rispondevano al telefono". Neppure un sms per avvisare che tutto era compiuto, il segno della confusione cui si è arrivati. Tutti a casa, il re è in fuga, l'esercito in rotta, le truppe sul territorio non sanno che fare.

Eppure, il Pd doveva essere "il più grande partito riformista che la storia d'Italia abbia mai conosciuto", come ripeteva enfaticamente Veltroni ancora pochi giorni fa. O meglio, "il partito del XXI secolo". Il partito capace di costruire una nuova identità nazionale. Il partito 'fratello maggiore' degli italiani: affettuoso, comprensivo, affidabile. Come il suo leader. Che per la conferenza stampa di congedo, il 18 febbraio, ha scelto di tornare nel tempio di Adriano dove aveva celebrato la trionfale elezione a segretario il 14 ottobre 2007. Quella sera nella sala risuonava la colonna sonora, 'Mi fido di te' di Jovanotti e 'Imagine' di John Lennon. E alla fine Veltroni era apparso tra le colonne doriche, con il verde del nuovo partito acceso alle spalle. "Da oggi deve far paura la parola conservazione", aveva proclamato: "Il Pd dovrà durare decenni, non nasce da un leader e per un leader, ma dalle persone reali di questo Paese".

Invece, tante persone reali in un pugno di mesi hanno smesso di votarlo. E ora il Pd rischia di non arrivare al secondo anno di vita, percorso da minacce di scissione e dalla rabbia dei militanti. Perfino sulle modalità della dipartita i capicorrente sono riusciti a litigare. Divisi tra i sostenitori di un'assemblea costituente da convocare subito per eleggere Dario Franceschini segretario di transizione in carica fino al congresso di autunno. E alcuni veltroniani che si battono per andare subito alla conta, lanciando fin da ora una nuova classe dirigente. "Non possiamo affrontare i prossimi mesi senza leader. I capi attuali, i cinquantenni-sessantenni, hanno il terrore di non tornare più al potere, misurano la loro durata in mesi, se non settimane, ma hanno fatto il loro corso. Devono passare la mano a una nuova generazione che abbia il tempo di lavorare", scandisce lo stratega di Walter, Giorgio Tonini. Un percorso condiviso in periferia, dai potenti segretari delle regioni rosse, l'emiliano Salvatore Caronna, il toscano Andrea Manciulli, preoccupati di ritrovarsi con un gruppo dirigente nazionale debole e delegittimato alla vigilia del delicato voto amministrativo a Bologna e a Firenze, determinati a mettersi di traverso rispetto al 'tavolo delle correnti' che gestisce il partito a Roma. Solamente silenzio, invece, dalle regioni del Sud: si possono solo immaginare i pensieri di Antonio Bassolino, da cui Veltroni aveva pubblicamente preso le distanze appena tre settimane fa. Oggi don Antonio è ancora lì, al suo posto di governatore campano, Veltroni no.

Una rivolta che monta di ora in ora. Il segretario della Lombardia Maurizio Martina è tra i più netti a invocare un cambio di tutta l'attuale leadership: "Questa vicenda segna il collasso di un'intera classe nazionale. E per il dopo non ce la caviamo più scegliendo pezzi di quella classe dirigente. Le dimissioni di Veltroni trascinano giù tutta quella generazione. La soluzione Franceschini sarebbe un arroccamento. Ma noi siamo in frontiera, la frontiera non può aspettare la transizione". Traduzione: niente Bersani, niente Franceschini, voltare subito pagina per salvare il Pd. La soluzione alternativa, spiega Martina, è fare subito un congresso, scegliere con le primarie un nuovo leader e consegnargli i pieni poteri. "Un segretario che faccia il salto generazionale, che non sia di Roma ma venga dal lavoro sui territori, che abbia capacità di fare squadra". L'identikit assomiglia molto a Martina, classe 1978, il giovane segretario regionale non si tira indietro: "Il caso del trentenne Matteo Renzi, vincitore delle primarie a Firenze conferma che i vecchi riti, le vecchie logiche non reggono più. E che la mia generazione non può più stare a guardare. Se c'è uno spiraglio per muoversi, questo è il momento. Meglio fare un tentativo che continuare così".

Nello stretto giro veltroniano i trenta-quarantenni da lanciare non mancano: il portavoce Andrea Orlando, il ministro ombra Andrea Martella, Nicola Zingaretti. Anche se non tutti brillano per tempismo. Nelle ore delle dimissioni di Veltroni, ad esempio, Zingaretti spedisce un comunicato alle agenzie. Sulla crisi del Pd? No: il presidente della Provincia di Roma preferisce esternare su Sanremo, sulla canzone di Pupo 'L'opportunità' che, a dire di Zingaretti, "è una canzone bellissima che illumina di speranza la cappa di angoscia e di paura che ci sta permeando". E chissà se intende riferirsi ad altre cappe, e ad altre opportunità.

Così, nella corsa del cambio generazionale, potrebbero spuntare fuori altri nomi. Alcuni già noti, come il dalemiano Gianni Cuperlo, tra i più apertamente critici della gestione Veltroni. Altri ancora poco conosciuti, come il deputato di prima legislatura Francesco Boccia: pugliese, 40 anni, un discreto passato da attaccante nel Bisceglie, quattro anni alla London School of Economics, vicino a Enrico Letta e stimato da D'Alema, cattolico e con una passione per il Labour Party, uno che non si è mai vergognato a definirsi ulivista e prodiano e per questo coltiva un buon rapporto anche con Arturo Parisi. E già: il caos rimette in gioco anche il professore sardo, la Cassandra che da mesi profetizzava il disastro in perfetta solitudine. La convocazione dell'assemblea costituente che lui invocava da mesi è una sua piccola soddisfazione.

I capi storici, D'Alema in testa, si giocano davvero l'ultima partita. Bersani è chiamato a mettere subito sul tavolo le sue famose idee, se le ha, e la sua candidatura. Franceschini deve dimostrare di essere un leader. Enrico Letta guarda in direzione Udc. Francesco Rutelli è già con un piede fuori... Nelle ore del cupio dissolvi si capisce finalmente l'angoscia di Veltroni: il timore di finire nei libri di storia come colui che ha liquidato in meno di un anno un patrimonio di idee e passioni lungo un secolo. Il Pd è il suo sogno spezzato, la sua sfida interrotta, come si intitolavano i volumi che dava alle stampe negli anni della lunga corsa verso la leadership. Ma il dramma è appena all'inizio. Come in un'oscura maledizione, in soli 12 mesi il Pd ha consumato progetti, speranze, ambizioni, leader: prima Romano Prodi, poi Riccardo Illy, Renato Soru, infine Walter Veltroni. Ora rischia di divorare se stesso. E quel che resta della sinistra italiana

(19 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:09:52 am »

Casini al centro

di Marco Damilano


Mano tesa agli scontenti del Pd Letta e Rutelli. Alleanze a tutto campo per le amministrative. Le manovre del leader Udc per un nuovo partito  Passa in un corridoio di Montecitorio Luciano Faraguti, che fu sottosegretario democristiano negli anni Ottanta nel governo Craxi, e si informa con i deputati dell'Udc: "È giunta l'ora?". La stessa domanda che si fanno il vercellese Roberto Rosso e il torinese Marco Calgaro, due deputati che militano in fronti opposti, il primo nel Pdl, il secondo nel Pd, ma che in comune hanno la lunga militanza nella Dc.

Già: è giunta l'ora di rifare il centro? Viene la nausea, se si pensa ai tentativi precedenti e tutti falliti: l'Udc di Francesco Cossiga, l'Udeur di Clemente Mastella, la Cosa bianca di Savino Pezzotta... Eppure mai come questa volta il progetto appare a portata di mano. Anche perché a tesserlo è ora un leader assai poco interessato alle fantasie e molto ai risultati concreti: Pier Ferdinando Casini.

Prudenza e controllo dei nervi, nessuna mossa avventata, sono le regole base del Casini-pensiero. Il leader dell'Udc è stato il più rapido a cogliere gli spazi che offre l'elezione di Dario Franceschini, un altro cavallino di razza Balena bianca, figlio di un notabile scudocrociato della rossa Emilia esattamente come Casini.

"Dario sarà costretto a spostare a sinistra la politica del Pd per rassicurare gli ex Ds che non è un moderato", ragiona l'ex presidente della Camera con i suoi. "Lascerà praterie di elettori delusi, noi dobbiamo saperne approfittare subito". Il primo appuntamento è la legge sul testamento biologico in arrivo nell'aula del Senato, su cui i centristi hanno preso una posizione netta, a favore del testo presentato dalla maggioranza di centrodestra: il Pd, invece, è diviso sul punto-chiave, la possibilità di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione per chi ne faccia richiesta.

Alla Camera, invece, i centristi puntano a essere determinanti nel modificare il disegno di legge sulle intercettazioni, su cui il Pdl è spaccato. La manovra è affidata al braccio destro di Casini, il deputato Roberto Rao: con la mission di scompigliare il centrodestra, portare una parte di An e quasi tutta la Lega a votare gli emendamenti che allargano l'azione dei magistrati ed eliminano il carcere per i giornalisti che pubblicano le intercettazioni vietate.


Geometrie variabili, colpire a destra e a sinistra, allargare le contraddizioni dei due schieramenti. L'Udc prova a farlo da mesi ma ora, in vista delle elezioni di primavera, bisogna cominciare a raccogliere i frutti. "Con l'elezione di Dario alla guida del Pd il nostro progetto si è rafforzato e al tempo stesso ha rallentato", spiega Bruno Tabacci, il cervello dell'operazione, con un paradosso solo apparente. La segreteria Veltroni in rotta spingeva un bel pezzo di ceto politico a guardarsi intorno, in direzione Casini.

La segreteria Franceschini, nel breve periodo, blocca la transumanza. Ma aumenta le inquietudini dei personaggi che considerano esaurita l'esperienza del Pd e vorrebbero spostarsi al centro. Nelle ore in cui il Pd eleggeva leader Franceschini, Casini era a Todi per un convegno organizzato dal quotidiano 'Liberal', che nei piani doveva servire da vetrina per l'operazione neo-centrista.

Come dimostra la lista degli intervenuti: in testa, Francesco Rutelli e Enrico Letta. Due personaggi che nel partito guidato da Franceschini hanno qualche motivo in più per sentirsi a disagio. Rutelli vede assottigliarsi gli spazi di manovra: aveva concesso a Walter Veltroni cinque mesi di tempo, con il nuovo leader siamo scesi a cento giorni, ma la sostanza non cambia. L'ex sindaco di Roma, silenzioso nell'assemblea del Pd che ha eletto il segretario, si muove sempre di più per conto proprio: sulla legge sul testamento biologico, in arrivo al Senato, ha presentato emendamenti in dissenso dal resto del gruppo.

Ma la sorpresa arriva dal quarantenne Letta, che di Franceschini è il gemello politico, insieme hanno condiviso la militanza tra i giovani democristiani e poi la vice-segreteria nel Ppi di Franco Marini. L'ex sottosegretario di Romano Prodi ha convocato la sua corrente nella sede della Confcooperative e ha dettato la nuova linea: "Il Pd è ormai vicino alla soglia della sopravvivenza, superata quella non c'è possibilità di ritorno", ha scandito. "E noi non possiamo restare travolti, dobbiamo pensare al nostro futuro".

Di fatto, l'annuncio che anche Letta, come Rutelli, si prepara a dichiarare fallito il disegno del Pd in caso di risultato negativo alle elezioni europee. E che, a quel punto, la salvezza sarebbe costruire un nuovo partito di centro con l'amico Casini. La Kadima all'italiana, come il partito fondato da Sharon e da Peres in Israele.

Il nome di Letta è fondamentale per dare all'operazione un senso di novità: non la riedizione della vecchia Dc, e neppure un partitino trasformista che si allea con chi capita, ma un centro modernizzatore. In grado di interessare importanti pezzi di establishment: da Mario Draghi a Mario Monti. Per far capire che le intenzioni sono buone Pier ha spedito in avanscoperta il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa: "Se si rimette tutto in discussione siamo pronti a rivedere nome e simbolo del partito", giura l'uomo di Casini. E il lavoro sotterraneo procede: telefonate, colloqui, scambi di informazioni.

C'è chi si sente già con un piede fuori dal partito di Franceschini. Per esempio, la teodem Paola Binetti: "Il banco di prova del Pd sarà il voto sul testamento biologico. E poi, la composizione delle liste per il Parlamento di Strasburgo: sarà lì che vedremo in che modo, con quali nomi e con quali idee il Pd intende stare in Europa", avverte la deputata dell'Opus Dei.

L'ala cattolica più militante reclama segnali da Franceschini: la libertà di coscienza sulla legge del fine vita e soprattutto qualche posto al sole nelle liste per le europee sarebbero gesti di buona volontà. In caso contrario, fa capire la Binetti, l'uscita dal Pd sarebbe inevitabile.

Problemi che non riguardano Casini. Le liste dell'Udc per le europee sono quasi pronte. In grande spolvero i siciliani, quelli più vicini al giovane segretario regionale Francesco Saverio Romano, per superare la stagione dell'impresentabileSalvatore Cuffaro. E una new entry ingombrante: il musulmano convertito e battezzato da papa Ratzinger Magdi Cristiano Allam.

Anche alle amministrative ci sarà un restyling nelle candidature. E alleanze spregiudicate, a tutto campo. In Campania sta nascendo una strana coppia, Ciriaco De Mita e Mara Carfagna, l'Udc correrà con il Pdl. A Bologna c'è l'amico di Pier, Giorgio Guazzaloca, a dare battaglia su due fronti a sinistra e a destra, con una lista civica.

L'esperimento più interessante è quello di Firenze. Tra Casini e il giovane Matteo Renzi, vincitore delle primarie nel Pd, l'annusamento era iniziato qualche settimana fa. I voti per Renzi sono arrivati dal mondo cattolico, compresa Comunione e liberazione che si è mobilitata. E ora il leader dell'Udc annuncia il sostegno per il presidente della Provincia fiorentina che bombarda il quartier generale del Pd. Due democristani alla conquista della città rossa, con gli ex Ds isolati nel loro partito e la destra all'opposizione. L'antipasto della nuova Italia neo-centrista che sogna Casini.

(04 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Marzo 26, 2009, 04:18:48 pm »

Avanti Berluscloni

di Marco Damilano


Scelti personalmente dal premier. Cresciuti a sua immagine e somiglianza. E ora pronti a correre alle europee. Per misurare popolarità. E potere futuro  Angelino Alfano e Silvio BerlusconiSi preparano a scendere in campo, come il loro Leader quindici anni fa. Hanno imparato come si fa dal Capo: sorriso stampato, faccia tosta, ottimismo. Alla fine della prossima settimana sfileranno sul palco della Fiera di Roma per il congresso di fondazione del Popolo della libertà, ottima occasione per mettersi in mostra. E poi sono pronti a candidarsi alle elezioni europee.

"Li metteremo in testa di lista, ministri e presidenti di regione, alle spalle di Berlusconi che sarà al primo posto in tutte le circoscrizioni", annuncia l'uomo dell'organizzazione di Forza Italia Denis Verdini, che sta per diventare coordinatore del Pdl, insieme a Ignazio La Russa e Sandro Bondi.

I ministri sono ineleggibili, spenderanno una fortuna per farsi eleggere in circoscrizioni immense e si dimetteranno un minuto dopo. Ma vale la pena: l'inutile corsa serve a misurare il peso degli aspiranti leaderini. Si vota con le preferenze, il terreno migliore per far vedere quanto valgono. Il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini già accende i motori: "Se Berlusconi mi chiama, lo seguirò, come ho sempre fatto".

Raffaele Fitto, ministro delle Regioni, può contare su una collaudata macchina di voti personali e non ha problemi a gareggiare. Ci stanno pensando anche i due ministri prediletti dal Cavaliere: Mara Carfagna in Campania e Angelino Alfano in Sicilia. Prove generali di leadership.

Sono i forzisti di seconda generazione. Quelli nati e cresciuti interamente nell'era azzurra. Quelli che non sono ex qualcosa: né ex democristiani come Claudio Scajola, né ex socialisti come Fabrizio Cicchitto, né ex comunisti come Bondi, né ex casti come Roberto Formigoni. Sono forzisti e basta. Bellocci e sbarbati i ragazzi, sempre in tiro le ragazze.

Puledrini di pura razza berlusconiana, venuti dal nulla, plasmati a immagine e somiglianza del Cavaliere. I Berluscloni: gli invaders su cui il premier punta per creare la classe dirigente del futuro Pdl. E spegnere le ambizioni di pretendenti più blasonati come Gianfranco Fini e Giulio Tremonti.


L'ultimo esemplare della specie è l'ex portiere Giovanni Galli, lanciato nella partita per il sindaco di Firenze come candidato del Pdl contro Matteo Renzi che ha vinto le primarie nel Pd. È un caso da manuale, un esperimento da laboratorio. Faccia da bravo ragazzo, studi dai salesiani (come il premier), un campione calcistico (nel Milan berlusconiano), un discreto commentatore televisivo (su Mediaset), un signor nessuno come politico.

"Il nostro candidato sei tu", lo ha battezzato Silvio Berlusconi al telefono. Pochi minuti di conversazione con cui il premier ha esautorato la potente lobby che sosteneva la candidatura del deputato Gabriele Toccafondi: il sottosegretario-portavoce Paolo Bonaiuti, il vice-presidente della Camera Maurizio Lupi, il senatore Gaetano Quagliariello. L'unico a restare in piedi (almeno per ora) è il toscano Verdini, regista dell'operazione, che si è sbarazzato di qualche concorrente.

Ora tocca agli altri: "La prossima volta levate il palco della presidenza, sa di apparato", ha ordinato Berlusconi all'ultima riunione dei gruppi parlamentari del Pdl, seminando il panico nella banda dei quattro che guida i gruppi di Camera e Senato accomodata sul podietto: Cicchitto e Quagliariello più i colonnelli di An Maurizio Gasparri e Italo Bocchino. Alcuni di loro ricordano bene quello che accadde qualche mese fa quando, raccontano, Berlusconi annunciò al coordinatore di Forza Italia in Sardegna Piergiorgio Massidda che il candidato alla presidenza della regione contro Renato Soru sarebbe stato un certo Ugo Cappellacci. Massidda non riuscì a mascherare il disappunto: aumentato quando, al termine della riunione, fu rimosso dall'incarico. Sostituito proprio da Cappellacci.

Con quel pedigree (inesistente) non doveva andare da nessuna parte. Invece il risultato elettorale ha dato ragione al premier: lo sconosciuto 'Ugo-dì-qualcosa-anche-tu', soprannominato così perché nei comizi con Berlusconi faceva scena muta, ha stracciato il quotatissimo Soru. Una vittoria personale del Cavaliere, che arriva dopo quella in Abruzzo del candidato del Pdl

Gianni Chiodi, un altro oscuro notabile locale: la dimostrazione che si può trasformare un perfetto sconosciuto in un vincente.
Basta essere sfiorati dal tocco magico di Re Silvio.

Gianni Chiodi e Silvio BerlusconiI Berluscloni che si candideranno alle europee, poi, non sono tutti oggetti misteriosi. Nonostante i quarant'anni ancora da compiere, il pugliese Fitto sfoggia un curriculum da professionista del potere: figlio dello scomparso democristiano presidente della Regione Puglia, Salvatore, è stato consigliere regionale, parlamentare europeo (127 mila preferenze a 29 anni), presidente della Regione Puglia dal 2000 al 2005, oggi ministro. Nel governo Berlusconi gli ha assegnato un ruolo centrale: portabandiera degli interessi del Sud, per bilanciare la presenza della Lega e non dimenticare che il vero serbatoio di consensi per il Pdl sono le regioni meridionali, dove il partito berlusconiano nel 2008 ha superato il 40 per cento.

Anche il ministro della Giustizia Alfano può contare su una discreta dote di preferenze, fu eletto consigliere regionale in Sicilia nel '96, a soli 25 anni. Un mese fa Berlusconi gli ha affidato il compito di gestire il passaggio da Forza Italia al Pdl nell'isola, accompagnato dal sottosegretario Gianfranco Miccichè, suo rivale storico. La pax berlusconiana tra i due è la consacrazione definitiva del giovane Alfano: preparato, garbato, il berlusconiano dal volto umano. Il più richiesto dai forzisti di mezza Italia per i loro incontri, in testa alle classifiche di popolarità tra i ministri e di recente tirato in ballo da Berlusconi come suo possibile delfino. Se alle europee dovesse raccogliere una barca di voti, la sua carriera politica farebbe un altro salto importante.

La Gelmini è già in campagna elettorale: ha appena firmato con Roberto Formigoni un accordo con cui la Lombardia ottiene il federalismo scolastico, il passaggio di competenze dallo Stato al Pirellone di 170 istituti. "Qui c'è la realtà più virtuosa del paese", gongola il ministro, che si prepara a chiedere il voto dei lombardi alle europee, in vista delle regionali del 2010: difficile che Formigoni voglia candidarsi per un quarto mandato.

C'era lei, Mariastella, sotto il Predellino da cui è partita l'avventura del Pdl, in compagnia di Michela Vittoria Brambilla che alla vigilia del congresso del Pdl dovrebbe ottenere finalmente la promozione a ministro del Turismo cui tiene tanto. Mara Carfagna, invece, non ha dovuto aspettare un anno per entrare al governo, ma ora deve decidere cosa fare da grande: una candidatura alle europee significherebbe doversi finalmente confrontare con la caccia al voto, dopo anni di liste bloccate, in cui basta esserci per risultare eletti. Per Mara è pronta la candidatura nella circoscrizione Sud, trainata dal capolista Silvio. Se l'esperimento riesce, si può pensare al colpo grosso del 2010: la presidenza della regione Campania.

Così i Berluscloni scalano i vertici del Pdl, con la benedizione del Capo. "Berlusconi è l'unico stalinista ancora in circolazione", si lamenta un deputato forzista. "Si va avanti con le epurazioni improvvise e la promozione di personaggi a lui fedeli. Qualcuno ricorda un certo Antonione? Fece il coordinatore di Forza Italia, serviva per silurare Scajola ed è stato spedito a casa. Poi è arrivato il turno di Bondi-Cicchitto". Ora c'è la carica dei giovani da buttare nella mischia per scompigliare i giochi di chi pensa alla successione di Berlusconi. È tra di loro che bisogna pescare i delfini del Capo. Gi altri, Fini e Tremonti, si abituino a nuotare in un altro mare.

(20 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:56:55 pm »

Altolà alla Lega

di Marco Damilano


Non cedere alle minacce di Bossi.

Aprire il Pdl a Casini perché diventi un vero partito dei moderati.

Parla l'ex ministro: 'Al referendum voterei sì'.


Colloquio con Giuseppe Pisanu 

Al referendum sulla legge elettorale io voterò sì... Giuseppe Pisanu è il primo nome importante del Pdl a rompere gli indugi e schierarsi: voterà per abrogare il Porcellum, nonostante sia stato chiamato a garantirne per la prima volta l'applicazione alle elezioni del 2006 come ministro dell'Interno del governo Berlusconi, nonostante il fuoco di sbarramento della Lega che minaccia la crisi di governo. Avvertimenti che lasciano indifferente Pisanu, oggi presidente della commissione parlamentare Antimafia: "Non ci credo. Una crisi porterebbe a elezioni anticipate con la vittoria schiacciante del Pdl". E l'ex ministro, capofila della corrente delle colombe dentro Forza Italia, incassa con soddisfazione la svolta 'moderata' di Berlusconi.

È passato un anno dalle elezioni del 13 aprile 2008 che hanno aperto una nuova fase politica: che bilancio si può fare?
"Il dato più evidente è che il centrodestra si è rafforzato, pur perdendo una componente importante come l'Udc, mentre il centrosinistra si è indebolito, disarticolando la sinistra. Penso comunque che ancora a lungo si continuerà a parlare di bipolarismo e non di bipartitismo: infatti, la tradizione italiana, ma anche l'attuale cultura politica è più articolata, non mi sembra riconducibile a due soli partiti. Non a caso il tentativo di Veltroni è fallito: gli elettori di sinistra non sono disposti a farsi rinchiudere in un unico contenitore".

E sul versante opposto? Gli elettori moderati sono tutti rappresentati nel Pdl?
"Finché esisterà l'Udc, no. Personalmente, quando anni fa ho lanciato l'idea di un appello di Berlusconi a tutti i gruppi politici e a tutti gli elettori che si riconoscevano negli ideali del Partito popolare europeo, pensavo non solo a Forza Italia, all'Udc e ad An, ma anche ai cattolici del Pd e a personalità del mondo del lavoro e della cultura come Luca Cordero di Montezemolo, Savino Pezzotta e Andrea Riccardi. Sarebbe stato quello il partito dei moderati italiani. Ancora oggi per me è quello l'obiettivo strategico del Pdl. Peraltro, non mi sembra che gli ultimi movimenti di Berlusconi vadano in direzione opposta".

Il Pdl, dunque, non è un progetto concluso: le iscrizioni sono ancora aperte?
"Sì, assolutamente sì. Berlusconi ha indicato una fase di transizione di tre, quattro anni, per consentire al nuovo partito di darsi una cultura politica unitaria e una forma organizzativa di tipo democratico".

Il clima di unità nazionale vissuto durante il terremoto è esportabile ad altri campi?
"È evidente che nella solidarietà e nell'unità attorno al popolo abruzzese c'è una formidabile spinta emotiva. Però il terremoto può essere considerato come l'espressione estrema di quelle grandi emergenze che riguardano l'intero Paese e possono essere affrontate soltanto unendo le migliori risorse morali, intellettuali e politiche. Penso all'immigrazione, cioè all'esigenza concreta nei prossimi venti-trent'anni di attrarre e integrare in media 300mila immigrati l'anno per mantenere l'attuale livello di popolazione attiva e dunque di sviluppo economico-sociale. Penso alle riforme istituzionali o all'enorme minaccia del crimine organizzato: l'Italia è l'unico grande paese al mondo che ha sul proprio territorio tre mafie endogene con una forte proiezione internazionale e altre analoghe associazioni come la mafia russa, le triadi cinesi, i clan magrebini, nigeriani, rumeni, albanesi. Come si può affrontare un simile intreccio che condiziona pesantemente la vita economica del paese, corrompe la pubblica amministrazione e insidia la coesione sociale senza unità tra le forze politiche?".

Sull'immigrazione, però, la Lega presenta soluzioni molto diverse, con un certo successo.
"Quando vengono meno le grandi ideologie e non nasce una nuova cultura politica vincono le emozioni. La paura è un'emozione, come la speranza. In Italia oggi vince la paura, in America sta vincendo la speranza. L'emozione della speranza si può caricare di significati positivi e porta alla crescita della democrazia, la paura si carica di significati negativi e, come il sonno della ragione, genera mostri".

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:54:36 pm »

Ora basta con le risse

di Marco Damilano


Tutte le sinistre sono state sconfitte. E' ora di mettere in piedi il cantiere di una nuova sinistra.


Colloquio con Nichi Vendola  "Serve una stagione di semina per far nascere il partito di una sinistra nuova". Nichi Vendola, presidente della Puglia, capofila di Sinistra e Libertà dopo 18 anni in Rifondazione, prova a mettere ordine nel disastrato campo della sinistra.

Con la crisi e le tensioni sociali dovrebbe essere il vostro momento d'oro. E invece siete a rischio estinzione. Come mai?
"Siamo di fronte a un'ondata di piena della marea berlusconiana per ragioni di lungo periodo. Il mondo del lavoro ha conosciuto un bombardamento sociale e culturale. Oggi resta la precarietà: la paura di non trovare lavoro, di perderlo, di perdere la vita per mantenerlo".

Perché i ceti più popolari votano in gran parte a destra?
"Perché la sinistra appare inefficace, l'olimpiade della divisione e della rissa. Mentre il berlusconismo ti prospetta un sogno. Noi volevamo la scuola e la sanità pubblica, il lavoro per tutti. Berlusconi propone un sogno individuale: fare la velina alla scuola di Brunetta".

D'accordo: ma in due anni avete perso tre milioni di voti, come pensate di recuperarli?
"Abbiamo pagato la nostra incapacità di cambiare l'asse strategico del governo Prodi...".

Condivide il giudizio di Bertinotti: "Prodi spregiudicato uomo di potere"?
"Prodi ha dato una lettura sbagliata di quello che stava succedendo nelle viscere del Paese: la perdita di sicurezza, l'impoverimento del ceto medio. Non avrebbe dovuto insistere con il risanamento, oggi lo ammette anche D'Alema".

D'Alema sembra il più pronto a dialogare con voi. Lei ricambia?
"A me interessa il travaglio del Pd. Non sono felice che il Pd sia stato strangolato dal veltronismo e che oggi sia sottoposto a cure palliative, sbandato, senza ubi consistam. È una tragedia per tutti. In questo Paese ci sono troppi vuoti: il vuoto dell'opposizione, il vuoto della sinistra che non può essere colmato da Franceschini".

E da Di Pietro?
"Sto parlando di sinistra, Di Pietro non c'entra niente...".

Qual è la ricetta? Tornare tutti insieme con gli ex Ds del Pd?
"Non si tratta di tornare. Non ci sono operazioni di restauro da fare, anche se a sinistra sono in azione tanti restauratori delle vecchie glorie. Io mi auguro di mettere in piedi al più presto il cantiere di un nuovo partito. Tutte le sinistre sono state sconfitte, nessuna può vantare gli attrezzi giusti, ora serve meno spocchia: i riformisti si sono attribuiti le virtù del governo che si tramandavano di riformista in riformista, la sinistra radicale si è assegnata la virtù dell'innocenza che viene fatalmente ferita dalla prova del governo. È stato il trionfo della bandierina, ognuno ha alzato la sua. Ora basta".

Intanto la sinistra è in difficoltà specie al Sud. Al governo ci siete voi, ma la destra vola nei sondaggi. Si sente responsabile?
"Assolutamente no. Il Sud paga l'inquietudine. Una situazione in cui il dissenso è diventato pericoloso e una crisi coniugale fa più paura al governo di un terremoto".

E lei? Che partita gioca?
"Cerco parole nuove, senza le quali la sinistra non rinasce. Il vocabolario, il 'libro più prodigioso del mondo' come lo chiama il bambino Peppino Di Vittorio nella fiction tv. Ecco, io mi sento come quel bambino lì".

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Maggio 14, 2009, 11:56:18 pm »

Altolà a Berlusconi

di Marco Damilano


Nessun ribaltone, il ministro della Lega sbarra la strada a una possibile intesa con il Pd per fare una nuova legge elettorale.

Colloquio con Roberto Calderoli  Niente ribaltone.

Il ministro della Lega Roberto Calderoli, il padre del Porcellum, sbarra la strada a un?intesa trasversale per fare una nuova legge elettorale con il Pd. E avverte Berlusconi: «Se si mette alla guida del fronte del Sì, è matto».

Si possono evitare i referendum?
 «Ormai è tardi, non ci sono le condizioni. La soluzione più limpida era tornare al Mattarellum, quando l?ho proposto mi sono trovato davanti le Termopili, anche nel Pd solo due o tre erano d?accordo. La verità sul Porcellum è che ne dicono peste e corna, ma poi lo accarezzano tutti».

Che farà la Lega?
«La cosa più logica per arginare la deriva democratica sarebbe una nuova legge elettorale. Ma a questo punto meglio prevenire che curare, non si sa mai. La strada maestra è il boicottaggio, non andare a votare. Non è in ballo la qualità di una legge elettorale, se vincono i Sì cade la democrazia».

Esagerato: il Porcellum l?ha firmato lei, a votare sì è Berlusconi, il capo del governo di cui fate parte. Va bene la spregiudicatezza, però...
«Berlusconi guida un partito che ha un vantaggio di almeno 15 punti sul secondo, ha un interesse di parte ad appoggiare i referendum, legittimo. Capisco meno l?autolesionismo del Pd. Di Pietro, per esempio, ha cambiato idea. Ha raccolto le firme, ma oggi si rende conto che l?emergenza democratica c?è».

Boicotterete i ballottaggi del 21 giugno, il secondo turno delle amministrative?
«Siamo impegnati a vincere tutto al primo turno...».

Facciamo un?ipotesi: dopo le europee Berlusconi si mette in testa di incassare davvero anche i sì ai referendum.
«Non ci credo, non conviene neppure a lui. In un momento di crisi economica può realizzare il suo programma, se facesse diversamente sarebbe un matto. Cambiare la legge elettorale significa andare alle elezioni anticipate: una cosa demenziale».

Mica tanto. Berlusconi potrebbe scaricare la Lega e far eleggere un Parlamento tutto azzurro, in vista del Quirinale. Di fronte al pericolo farete la crisi di governo?
«Con questo scenario la crisi la fa il Pdl, non la facciamo noi. Noi siamo alleati fedeli, sentiamo che le nostre istanze stanno diventando patrimonio non solo del Nord, ma anche nel Centro e nel Sud».

Puntate al sorpasso del Pdl nelle regioni del Nord?
«Il sorpasso è già avvenuto, basta girare il Veneto per capirlo...».

Con quali conseguenze? Nel Pdl cresce l?insofferenza verso di voi. E c?è chi vorrebbe darvi qualche ceffone, come il governatore lombardo Roberto Formigoni.
«Verso Berlusconi noi siamo più leali di lui. Ma almeno Formigoni sa cos?è la politica. Nel Pdl se togliamo lui, Berlusconi e Tremonti, c?è il deserto di iniziative. Del Pdl non si vede niente. Uno come Brunetta fa il ministro, ma si è dimenticato di stare in un partito. Mentre noi della Lega non stiamo mai fermi, sempre in giro. Siamo noi il valore aggiunto del governo».

(14 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 28, 2009, 10:22:39 pm »

Dario contro Golia

di Marco Damilano


Un lungo tour elettorale. Comizi in paesi sperduti. Attacchi a Berlusconi. Per Franceschini alle Europee la posta è doppia: la tenuta del Pd e la sua leadership. Una sfida impossibile?  Dario FranceschiniE ora non dite più che il Pd non parla all'Italia profonda... Scherza Dario Franceschini infilandosi nella tasca dei pantaloni un sacchetto rosso portafortuna che gli regala una signora. E già, cosa c'è di più profondo di Sorgono, un pugno di paese con meno di 2 mila abitanti in provincia di Nuoro, nel cuore del Mandrolisai, il centro geografico della Sardegna, lontano dal mare, dai centri abitati, lontano da tutto? Arriva qui il segretario del Pd, dove mai leader nazionale ha messo piede, dopo due ore di strada con curve micidiali, fino alla stazioncina Desulo-Tonara inaugurata nel 1897 e ibernata nel tempo, da lì sale sul trenino per raggiungere una piccola folla che lo attende alle due del pomeriggio sotto il sole. Un vecchietto si avvicina: "Non andare via dopo le elezioni!". Franceschini sorride e sceglie questo luogo dimenticato per ammettere quello che finora ha sempre negato forse anche a se stesso: "Mi arrivano numerosi messaggi di questo tipo: non potete cambiare leader ogni tre mesi". Dario il giovane ripete ovunque che non si ricandiderà alla segreteria al congresso del Pd di autunno, ma sotto i 40 gradi di maggio spunta un miraggio, una tentazione, una speranza: "Beh, se il Pd alle europee prendesse il 45 per cento ci ripenserei...". E poi, più seriamente: "In ogni caso, non mi ritirerò a vita privata. Non andrò in Africa". La sfida delle elezioni del 6 e 7 giugno vale una carriera politica. Strano destino per questo professionista della politica, cresciuto fin da piccolo a pane e partito, un pollo da batteria democristiano allevato nelle segreterie e nelle partecipazioni statali, chiamato a salvare il progetto del Partito democratico da una sconfitta catastrofica che ne segnerebbe la prematura estinzione. Con la mission di rimotivare il popolo del centrosinistra disperso, che non si riconosce nelle sue bandiere, nei suoi capi, nelle parole d'ordine.

Franceschini ci prova. Con una campagna elettorale low profile, quasi dimessa. Passeggiate in bicicletta sulla via Emilia. Apparizioni in metro sulla linea Termini-Rebibbia di Roma. Tratte ferroviarie in seconda classe, affrontate senza aria condizionata e telecamere al seguito. Pic-nic con ricottina salata e porcetto in mezzo alla Barbagia. Comizi volanti a uso e consumo di poche decine di persone, per incontrare gli elettori dove vivono e lavorano: durante la tappa in Sardegna del 25 maggio 725 chilometri in otto ore, dal sud al nord dell'isola. Alla fine le mani strette sono meno dei chilometri percorsi, ma non importa. La "piccola" campagna elettorale è un messaggio in sé. Parla di un politico che si riavvicina alla sua gente in punta di piedi, con umiltà. Un segretario di prossimità, il buon vicino di pianerottolo. Il leader della porta accanto.

Funzionerà? Il primo a chiederselo è proprio Franceschini. "Berlusconi per 15 anni ha rovesciato i valori di questo Paese. Ho l'angoscia che possa esserci riuscito, ma io punto su un'Italia diversa. È un lavoro che richiede tempo, dopo le europee e le regionali dell'anno prossimo per tre anni non ci saranno più elezioni e avremo l'occasione di radicarci. Veltroni e il Pd nel 2008 hanno vinto nelle grandi città e nei comuni sopra i 100 mila abitanti, andiamo male nei piccoli centri dove l'unica forma di comunicazione è la televisione. Dal 1994 giochiamo con le regole truccate, solo lo snobismo di certa sinistra ci impedisce di dirlo". Valori è la parola chiave del Pd franceschiniano. In nome dei valori si accosta il pacchetto sicurezza del governo Berlusconi alle leggi razziali del fascismo, e pazienza se, al Nord, Sergio Chiamparino o Filippo Penati storcono il naso. In nome dei valori l'ex dc Franceschini ha commemorato il segretario del Pci Berlinguer a un quarto di secolo dalla scomparsa con toni che i ragazzi di Enrico, D'Alema, Veltroni, Fassino, non avevano mai usato, più preoccupati di prendere le distanze dalla pesante eredità del partitone rosso: "Forse sono l'unico segretario del Pd che può permettersi il lusso di parlare di Berlinguer e del Pci in quel modo. Ho voluto rispondere a un'altra mistificazione di Berlusconi: la storia del comunismo italiano non è identificabile con il comunismo sovietico", spiega Franceschini, che poco più che adolescente negli anni Settanta tifava per la solidarietà nazionale tra la Dc di Moro e Zaccagnini e il Pci berlingueriano.

In nome dei valori Berlusconi non è più il "principale esponente dello schieramento a noi avverso", come lo chiamava Veltroni, ma torna a essere "l'avversario", non è molto fine e fa poco riformista, ma va bene così, se si vuole evitare di consegnare all'astensionismo o ad Antonio Di Pietro altre fette di elettorato Pd. Quando si discute del Cavaliere e del caso Noemi, Franceschini, che ha la faccia da bimbo buono ma mite non è, estrae un sogno feroce, come quelli che il personaggio del suo romanzo, Ignazio Rando, appunta su cartoncini ingialliti: "Vedere la fine di Berlusconi. Craxi è finito da un momento all'altro, anche per Berlusconi potrebbe andare così: un crollo improvviso. E se dovesse cadere Berlusconi, verrebbe meno anche il suo modello. Fini e Tremonti l'hanno capito: sono uomini che vogliono un centrodestra europeo e normale, come quello di Cameron o della Merkel. In Italia invece la destra subisce il peso di Berlusconi ". Anche se poi Franceschini reagisce con chi nota che il presidente della Camera fa più opposizione a Berlusconi del Pd sulla laicità dello Stato o sugli immigrati: "Fini dice cose di semplice buon senso, quasi sempre il giorno dopo. Non l'ho mai sentito dire le cose giuste il giorno prima".

Il segretario gira l'Italia profonda, a Roma i problemi del Pd sono tutti ancora aperti. Le liste alle europee senza identità, con candidati deboli e poco riconoscibili in alcuni casi, fin troppo connotati in altri. L'assenza dalla campagna elettorale di alcuni leader importanti: Veltroni aveva accettato di partecipare a una passeggiata nel popolare quartiere romano di Testaccio con il suo successore alla segreteria del Pd e il capolista alle europee David Sassoli, ma poi ha fatto sapere che preferiva rinunciare. Le strategie pre-congressuali in pieno svolgimento: oltre alla super-annunciata candidatura di Pierluigi Bersani alla segreteria, si muovono i quarantenni legati alla stagione veltroniana che hanno organizzato un appuntamento per fine giugno al Lingotto di Torino, due anni dopo il discorso con cui Veltroni cominciò la sua corsa alla guida del Pd. Da lì potrebbe emergere un nome nuovo per la segreteria: Debora Serracchiani, lanciata due mesi fa da un intervento davanti a Franceschini e ora a caccia di voti per Strasburgo nella circoscrizione Nord- Est, ma già portata in giro anche in altre regioni dai veltroniani. "Ci sono persone che la pensano come me, in vista del congresso ci stiamo organizzando", si limita a dire Debora. Franceschini non scarta l'ipotesi, anzi: "Sarà interessante vedere quante preferenze prende la Serracchiani, sono curioso anch'io ". Anche se, in presenza di un risultato non catastrofico, tra il 26 e il 28 per cento, il segretario si aspetta di essere riconfermato. Con un patto tra i vecchi capicorrente, Massimo D'Alema e Franco Marini in testa, che potrebbero chiedergli di continuare per portare a termine l'operazione di salvataggio del Pd. E con un padre nobile sempre più corteggiato da Franceschini negli ultimi giorni: Romano Prodi. I due si sono incontrati nella casa bolognese del Professore, i rapporti personali non si sono mai interrotti: "Ci siamo mandati a quel paese tante di quelle volte che non c'è nessuna incomprensione tra noi", racconta il leader del Pd. Ora Dario si aspetta l'endorsement elettorale di Prodi a favore del "suo" Pd. E poi, subito dopo le elezioni, una ricucitura con altre forze politiche finora tenute ai margini. Bastone e carota: "Non c'è dubbio che uno come Vendola dovrebbe stare nel Pd. E che Di Pietro sta facendo qualche regalo a Berlusconi".

L'ultimo pensiero va ancora a lui, al premier- Papi: "Berlusconi vuole polarizzare, trasformare le elezioni europee in un giudizio sul suo operato, per portare a votare gli astenuti del suo campo, i delusi, i disinteressati ". Ed è l'ultimo incubo: gli elettori del Pd che si astengono, quelli del Pdl che accorrono alle urne per difendere Silvio. "Sono giorni decisivi per la democrazia di questo paese", ripete Franceschini. Che si batte con spavalda incoscienza contro il Golia di Arcore. E non teme di finire male. Perché, come dice un personaggio del suo romanzo, "nei miei sogni sono già morto tante volte". E, a voler essere ottimisti, "in piedi si è già in mezzo al cielo".

(28 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:54:34 pm »

Noi pazzi moderati

di Marco Damilano


Costruire un partito aperto e anti-comunista. Impedire a Franceschini e Bersani di distruggere il Pd. Un errore bocciare Grillo. Parola di sindaco.

Colloquio con Michele Emiliano 
Michele Emiliano, appena rieletto sindaco di Bari con il 59 per cento dei voti, magistrato in aspettativa, segretario del Pd pugliese, è preoccupato. "Siamo in una situazione rischiosissima per chi ama il Pd. Vengono da me, mi dicono che il mio appoggio è decisivo e che devo decidere da che parte stare", racconta. Lui, intanto, insieme a Nichi Vendola ha mandato a casa un paio di assessori regionali sfiorati dalle inchieste sulla sanità. E spalanca le porte a Beppe Grillo nel Pd.

Com'è il congresso del Pd visto da Bari?
"Franceschini e Bersani mi sembrano Fast & Furious, ha presente, quelle macchine lanciate a folle velocità una contro l'altra. Vengono da me e mi chiedono: decidi con chi stare, il tuo appoggio è decisivo. A tutti ripeto: dovete fermarvi e stabilire i termini del congresso. Bersani deve capire che le primarie non vanno eliminate, sono un mezzo di validazione popolare dell'accordo sottoscritto dai militanti. Franceschini deve capire che con le primarie non si ribalta l'esito del congresso. Abbiamo l'estate per fare questo lavoro e creare più unità possibile".

A proposito: lei sta con Bersani o Franceschini?
"Bersani introduce contenuti importanti, non si va da nessuna parte con un partito non organizzato, lo dico da sindaco e da segretario regionale del Pd pugliese...".

Il doppio incarico che le chiedono di lasciare.
"Una sciocchezza. Il Pd deve essere il partito degli amministratori. O facciamo un salto indietro di anni, quando le segreterie comandavano e le istituzioni dovevano eseguire. Ho un'idea di partito aperto, con le primarie, con i leader di partito che fanno anche i sindaci. Ma su questo modello Bersani e Franceschini hanno le idee confuse".

Quali sono le altre condizioni che pone?
"A Bersani ho detto che deve lasciare le primarie e parlare del Mezzogiorno, altrimenti il mio voto non l'avrà. E poi c'è una cosa urgente, sul piano culturale".

Quale?
"Bersani deve assicurare il rinnovamento del partito a prescindere dalla componente Ds. Conosco tanta gente moderata, che vota a destra, che potrebbe aderire al Pd se fosse rassicurata che la nostra identità non sarà quella socialdemocratica ma democratica, in senso obamiano. Obama è giovane, nero, ambientalista, dialogante con l'Islam. Ed è anti-comunista. Ecco: dobbiamo finalmente avere il coraggio di dire che il Pd è un partito fraternamente anti-comunista".

Fraternamente, caro sindaco: come la prenderanno i militanti ex Pci?
"Il Pd deve sventolare la bandiera americana. Deve essere un partito europeo, occidentale, anti-comunista. Anch'io sono stato iscritto al Pci, ma avremmo imbracciato le armi per difendere l'Italia in caso di invasione sovietica. Il discorso più anti-comunista l'ha fatto Enrico Berlinguer a Mosca. Ai militanti post-comunisti bisogna dire di prendere atto di com'è fatto il Paese. Nella mia città per anni la sinistra si era presentata con slogan tipo 'l'altra Bari' e aveva sempre perso. Nel 2004, quando mi candidai a sindaco, feci scrivere sui manifesti: 'Io voto Bari'. D'Alema tirò un sospiro di sollievo: 'Per la prima volta chiediamo il voto alle persone che esistono, non a quelle che non ci sono'. Se cerchiamo italiani che non sono mai esistiti, non toglieremo l'egemonia culturale a Berlusconi. Berlusconi legge e interpreta il Paese, i suoi elettori a Bari votano per me. Sono persone normali, che non rubano, non si fanno pagare le donne da un altro, chiedono di essere governati. E noi rispondiamo con un congresso dove rispolveriamo la divisione tra ex Pci ed ex Dc?".

Sergio Chiamparino propone una mozione dei non allineati. Lei aderirà?
"Credo che serva un gruppo di autorevoli pazzi che si assumano il compito di prendere i nostri amici Franceschini e Bersani e impedire loro di distruggere il Pd. Ignazio Marino ritiri la sua candidatura e lavori con noi per questo obiettivo. Chiamparino, Cacciari, Matteo Renzi costruiscano un congresso che sia una proposta per il Paese e non una resa dei conti".

In Puglia c'è D'Alema, che secondo Debora Serracchiani, la pasionaria dell'area Franceschini, dovrebbe farsi da parte. È d'accordo?

"Sono un non dalemiano che presidia il Santo Sepolcro dei dalemiani. Per me, l'ho detto a Franceschini, non si rinnova il Pd senza D'Alema. È il pilastro del Pd, pensare di fare il Pd senza di lui è pazzesco. Ma D'Alema deve capire che non può fare come Bearzot che si è tenuto in squadra Zoff, Gentile, Cabrini fino alla fine. Fuor di metafora: D'Alema non ha esaurito la spinta, i dalemiani sì, la squadra deve cambiare, se si vuole evitare la sconfitta. Su questo sono convinto che D'Alema la pensi come me. Anzi, mi correggo, sono io che la penso come lui".

In Puglia lei, lo sceriffo anti-comunista, ha fatto asse con Vendola per mandare a casa mezza giunta regionale coinvolta nello scandalo Asl.
"È stata una decisione di Vendola, mi ha rovinato una vacanza in Sardegna... Ho cercato di evitare, senza mollare Nichi un attimo, che si potesse azzerare il lavoro di cinque anni. Nichi temeva che D'Alema non lo volesse più candidare per sostituirlo con Francesco Boccia e che facessero pagare a lui gli eccessi dei dalemiani, la questione morale. Io gli ho detto: devi trattare con D'Alema, non potrà che condividere le tue condizioni. Così è stato. Il vice di Vendola, Frisullo, se n'è andato, anche se sul piano giudiziario non c'è stato neppure un avviso di garanzia. Abbiamo fatto quello che si chiede alla politica: intervenire prima della magistratura".

Da ex magistrato: esiste una questione morale nel Pd?
"Non sono ex, sono in aspettativa. E in politica sono un berlingueriano puro. Il Pd deve fare della sobrietà una bandiera, anzi, della povertà. Anche perché i partiti poveri non sono: con il finanziamento pubblico, lo dico da segretario regionale, facciamo benissimo politica. Le nomine della sanità vanno strappate ai politici, le aziende municipalizzate vanno privatizzate: le nomine politiche sono un inquinamento".

La Puglia è un laboratorio del nuovo centrosinistra che va da Vendola all'Udc. È vero che D'Alema pensa di candidare Buttiglione alla Regione?
"Buttiglione? Lei mi vuole deprimere... Con l'Udc si può ragionare se il Pd torna a occupare il centro, ad attrarre i voti moderati. Se invece pensiamo di appaltare a un partito incontrollabile la loro rappresentanza ci mettiamo nelle mani di Casini. E siamo fritti".

Cosa pensa della corsa di Grillo alla segreteria?
"Si deve candidare. Dirgli che è un provocatore, liquidare la cosa con il regolamento congressuale, è un errore. L'ho conosciuto quando è venuto a Bari, è un uomo mite e gentile che vuole fare politica, diamogli una possibilità: io gli farei fare l'assessore all'Ambiente nelle mia giunta. È bravo, dobbiamo contrapporgli leader bravi e preparati. Cacchio!, se abbiamo paura di Grillo allora ha ragione lui, siamo il congresso del nulla".

E lei che farà? Il segretario regionale o punta a un ruolo più alto?
"In Puglia voglio che sia assicurata la linea del rinnovamento. E dopo due mandati mi sembra giusto che sia venuto il momento di portare la mia esperienza nel Pd nazionale. La mia disponibilità c'è. Fraterna".

(16 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:55:43 pm »

La calda estate del Cavaliere

di Marco Damilano


La sentenza sul lodo Alfano. L'emergenza economica. Il gelo col Vaticano. Per il premier un percorso in salita. E un imperativo: far dimenticare gli scandali  Militari italiani in AfghanistanLa nomina è diventata operativa poco più di un mese fa, il 4 giugno. "Il dottor Alessio Quaranta è il nuovo Direttore generale dell'Enac nominato con decreto del presidente del Consiglio come previsto dalla legge istitutiva dell'ente", recita il comunicato dell'ente che vigila sull'aviazione civile. Curiosamente, però, del decreto di nomina non si trova traccia tra i comunicati ufficiali del Consiglio dei ministri e sul sito del governo. Peccato, perché il dottor Quaranta avrebbe tutti i requisiti per essere chiamato all'importante incarico, in sostituzione del suo predecessore Silvano Manera: una carriera tutta all'interno dell'Enac, da direttore della regolazione economica alla guida dell'ufficio relazioni internazionali. In più, cosa che non guasta, è figlio del consigliere di Stato Alfonso Quaranta, dal 2004 giudice della Corte costituzionale: una delle 15 toghe che sarano chiamate il prossimo 6 ottobre a sentenziare sulla costituzionalità o meno del lodo Alfano che garantisce l'immunità dai processi al presidente del governo cui si deve, tra l'altro, la nomina di Quaranta junior. Motivi di opportunità avrebbero potuto consigliare di soprassedere o rimandare, magari. Ma nelle stesse settimane il galateo istituzionale aveva già subito un altro pesante strappo, la cena rivelata da "L'espresso" in cui altri due giudici costituzionali, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, si sono accomodati con Berlusconi, ufficialmente per discutere di riforma della giustizia. Con all'ordine del giorno l'abolizione dei pubblici ministeri e la nascita di un nuovo Consiglio superiore della magistratura. Presente anche il ministro Angelino Alfano, l'autore del lodo che protegge il premier dai processi.

Spenti i riflettori del G8, l'attenzione del Cavaliere ritorna all'ossessione di sempre: la giustizia, la magistratura da riportare sotto il controllo della politica, i processi da disinnescare. La legge sulle intercettazioni in commissione al Senato, destinata nei piani del governo a rapida approvazione prima della pausa estiva con relativo voto di fiducia, per ora è stata bloccata da un intervento del Quirinale, ma lo scontro è solo rinviato a settembre. Intanto, gli uffici del Ministero di largo Arenula stanno mettendo a punto il progetto di riforma del Csm. E anche in questo caso le tensioni con l'ordine giudiziario sono garantite.

E sì che nell'agenda d'estate del governo non mancherebbero capitoli più urgenti. La missione in Afghanistan, dopo l'attentato del 14 luglio in cui ha perso la vita il caporalmaggiore Alessandro Di Lisio. "La missione deve proseguire", ha subito esternato il premier, nelle stesse ore in cui a Washington l'amministrazione Obama si interrogava sulle possibile exit strategy. E poi l'emergenza economica, certificata perfino dal Dpef, il documento di programmazione economica presentato dal ministro Giulio Tremonti, "sarà l'ultimo, dall'anno prossimo si cambia". Nonostante l'accento messo sugli spiragli di ripresa nel 2010, il governo mette nero su bianco il Pil a meno 5,2 per cento, il debito record, il calo delle entrate fiscali rispetto ai primi cinque mesi del 2008, quando governava ancora Romano Prodi e sul fisco vigilava Vincenzo Visco. Contromossa tremontiana, lo scudo fiscale, la sanatoria con cui il ministro dell'Economia punta a un gettito di 3-5 miliardi di euro. Sul fisco si consuma l'ultima puntata della guerra sorda che contrappone da mesi il ministero di via XX settembre e Banca d'Italia, ovvero Tremonti e il governatore Mario Draghi. Uno scontro combattuto con il freddo linguaggio delle cifre, comunicati, analisi, interpretazioni, puntualizzazioni che nascondono ben più roventi distanze di valutazione sull'entità della crisi e sul modo di uscirne. A smentire l'ottimismo del governo, d'altra parte, non c'è solo la Banca d'Italia. Mentre Tremonti incontrava Confindustria e sindacati, martedì 14 luglio, è tornato a farsi sentire monsignor Mariano Crociata, il numero due della Cei, lo stesso che alla vigilia del G8 aveva tuonato contro il "libertinaggio" esibito in pubblico, chiara allusione ai festini di casa Berlusconi. Questa volta il vescovo siciliano ha puntato il dito sulle conseguenze sociali della recessione: "La crisi persiste e rischia di avere nei prossimi mesi il suo punto più critico. Il lavoro che già prima era precario, ora lo è di più. E non poche famiglie sono già entrate in una fase critica con ripercussioni gravi sul fronte degli affitti, dei mutui, dei debiti". Parole severe accompagnate da un significativo elogio per l'operato del governatore Draghi. E dire che Tremonti aveva appena finito di vantare la sintonia tra le conclusioni del G8 e l'enciclica sociale di papa Benedetto XVI.

La Chiesa, il mondo cattolico, continua a essere il fronte scoperto del rapporto tra il governo Berlusconi e l'opinione pubblica. E non basta accelerare l'approvazione della legge sul testamento biologico, molto gradita alle gerarchie ecclesiastiche, per recuperare la benedizione del Vaticano. Prima di tutto, perché l'accelerazione, in realtà, non c'è. A bloccarla è stato il presidente della Camera Gianfranco Fini, che non ha mai nascosto le sue perplessità sul testo restrittivo uscito dal Senato: "Nel merito avrei molto da dire", si è limitato a dichiarare il primo inquilino di Montecitorio annunciando che se ne riparlerà dopo l'estate. Come per il disegno di legge sulle intercettazioni, impantanato al Senato, anche per il bio-testamento si annuncia una vita parlamentare travagliata. E poi c'è il timore di Cei e Vaticano di non identificarsi totalmente con un personaggio come Berlusconi, condiviso perfino dai prelati più schierati con il centrodestra. "La Chiesa spagnola a distanza di decenni sta ancora pagando un prezzo altissimo per il suo appiattimento su Franco", spiega un monsignore: "E sul piano privato era un timorato di Dio, con l'immagine di santa Teresa d'Avila sulla scrivania".

Sarebbe troppo chiedere al Cavaliere di mettere i santini sul comodino di palazzo Grazioli per recuperare credito. Ma l'operazione sobrietà, a questo punto, si impone. Inaugurata durante la tre giorni dell'Aquila, le passeggiate dei grandi della Terra tra le macerie del capoluogo abruzzese, con la promessa del premier di passare il mese di agosto accanto agli sfollati. Un'estare pauperista e di lavoro, lontano dai complotti a mezzo stampa, dalle congiure di palazzo, dagli alleati poco affidabili, da escort e veline. Il dramma del terremoto, per il Cavaliere, coincide in fondo con il momento più felice dei suoi 15 mesi di palazzo Chigi. Le icone mediatiche che preferisce. Il presidente di tutti gli italiani vicino al popolo che soffre. Lo statista internazionale accolto nel club più esclusivo dei potenti del mondo. Ricominciare dall'Aquila per far dimenticare le tante riforme non realizzate, il piano casa che non c'è, e le domande imbarazzanti rilanciate perfino dai bollettini diocesani e parrocchiali. In attesa del risveglio autunnale: crisi economica e sentenza della Corte sul lodo Alfano, che brutta ripresa. Il dottor Quaranta, intanto, ringrazia.

(16 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:38:14 pm »

Obiettivo Maximo

di Marco Damilano


Il lavorio dietro le quinte a favore di Bersani. I tour in giro per l'Italia a raccogliere consensi tra assessori e consiglieri. I trentenni fidati da far emergere. Un D'Alema scatenato. Prima di veleggiare nel Peloponneso

Massimo D'Alema con Pier Luigi BersaniRiceve una telefonata. Si alza di scatto. Fa su e giù intorno al tavolo del ristorante dove un gruppo di notabili fiorentini lo aspetta per cominciare la cena. Chiude il cellulare con un ruggito: "E anche questa l'abbiamo conquistata!". La segreteria regionale del Pd della Campania, si intende. E per sottolineare la portata della preda fa un gesto sorprendente: alza il pollice destro, in segno di vittoria. Una, due volte.

E chi l'ha mai visto il gelido Massimo D'Alema così voglioso di menare le mani, a sessant'anni entusiasta di accumulare le adesioni di consiglieri regionali, assessori, segretari di sezione come un ragazzino al primo congresso. L'ex premier si prepara a partire per un lungo giro in barca nel Peloponneso, "dove si sono combattute tutte le più grandi battaglie navali della storia". Ma la vera battaglia che lo appassiona non è quella di Salamina del 480 avanti Cristo, ha per posta in gioco la leadership del Pd.

L'ex premier sponsorizza Pier Luigi Bersani, cercando di non metterci troppo il cappello. "Finalmente si smetterà di parlare di dalemiani, che com'è noto non sono mai esistiti. Ora ci sono i bersaniani", ha annunciato la settimana scorsa a Firenze a una tavolata di amici e compagni, dall'ex sindaco Leonardo Domenici al potente assessore regionale Riccardo Conti, per nulla rassegnati a considerarsi inesistenti.

"Se vuoi farci vincere per qualche mese non devi farti vedere in giro", lo ha redarguito il prodiano Franco Monaco, schierato con Bersani. Vasto programma, non semplice da attuare. D'Alema gioca la partita del congresso da regista. Nello schieramento di Bersani è lui a trattare, accogliere gli incerti, rassicurare i dubbiosi, placare i famelici, dettare la linea. È stato lui, per esempio, a convincere Antonio Bassolino in Campania a fare un passo indietro e ad appoggiare per la segreteria della regione il giovane Enzo Amendola, presidente della dalemiana Red a Napoli, in passato critico con o' Governatore. Ed è lui che ha messo a tacere le ire dei dalemiani pugliesi esclusi dal rimpasto in regione voluto da Nichi Vendola. Anche perché il potere resta saldamente in mano all'ex premier: il sindaco di Bari Michele Emiliano e la nuova vice-presidente di Vendola, Loredana Capone, si sono schierati con Bersani.

Alla vigilia del congresso, D'Alema sa di essere rimasto a sinistra l'unico cavallo di razza in campo. I rivali degli anni Novanta-Duemila non ci sono più. Achille Occhetto? Se ne sono perse le tracce. Romano Prodi? Il 9 agosto compie settant'anni, viaggia tra Bologna e Pechino, ma si tiene alla larga dalla politica italiana. Walter Veltroni? Rilascia interviste per far sapere che ha chiesto di far parte della commissione parlamentare Antimafia. Resta solo lui, 'il mangialeader', come lo chiama Debora Serracchiani, l'ex figlio prediletto del partitone rosso che ormai si atteggia a grande saggio. Sempre più somigliante a Giulio Andreotti, tutto grandi scenari, manovre laterali e memorie del passato, piccoli contributi al monumento di se stesso. "La prima volta che misi piede nella direzione del Pci avevo 25 anni, ero intimidito da Pajetta, Amendola, Terracini, mi misi a prendere diligentemente appunti. Si alzò il compagno Robotti, venne da me e mi stracciò i fogli. 'Solo il verbalizzatore è autorizzato a scrivere'. Avevano in testa il Pci clandestino. Un altro vecchio del partito, Roario, uno che a 14 anni aveva ucciso un fascista, si era rifugiato a Mosca e considerava i dirigenti del Pci dei rammolliti, una volta mi disse: 'D'Alema, in questa banda di traditori tu sei un mezzo comunista'. Detto da lui era un complimento".

Il mezzo comunista lavora ventre a terra per vincere il congresso, per tramite di Bersani. Un attivismo che sta producendo i suoi frutti: negli ultimi giorni quasi tutti i segretari regionali uscenti e i presidenti di regione si sono schierati con l'ex ministro. Ma D'Alema ostenta prudenza: "Calma. Credo che Bersani andrà
meglio alle primarie e che Franceschini sarà una sorpresa tra gli iscritti. È il segretario uscente e con lui è mobilitata tutta la nomenclatura di quel palazzo, come si chiama?". Il Nazareno, il quartier generale del Pd dove D'Alema è sempre entrato di malavoglia, non ha neppure una stanza, uno strapuntino. E quando ha chiesto, durante la segreteria Veltroni, di dare una mano, neppure gli risposero. Teme, D'Alema, gli ex popolari schierati con Franceschini, Beppe Fioroni in testa, nelle regioni meridionali le tessere sono cresciute in modo sospetto. E conosce gli sgobboni ex Pci passati con Dario. "Uno come Fassino non lo trovi tanto facilmente in giro, è capace di farti cinque ore di telefonate consecutive.".

Voglia di rivincita, certo, con la gestione Veltroni che lo ha emarginato. Un disagio immortalato in un'immagine di inizio campagna elettorale 2008, quella del pullman veltroniano. Alla fiera di Roma l'ex sindaco di Roma da solo sul palco, in prima fila D'Alema ancora ministro degli Esteri, sul viso una smorfia schifata, sommerso da cartelli verdi con su scritto: 'Veltroni presidente'. In quella mattina Massimo non nascose il suo scetticismo: "Abbiamo due slogan: se vinciamo, 'Yes we can'. Se perdiamo, 'Yes weekend'". Oggi Veltroni, per l'appunto, passa i fine settimana a scrivere romanzi. Mentre D'Alema gira per i palchi delle feste dell'Unità, o Democratic Party come si chiamano adesso, a smontare pezzo a pezzo il Pd costruito dall'ex segretario: "Un partito fondato sul rapporto tra il leader, il popolo e i media. Un modello plebiscitario, berlusconiano: solo che dall'altra parte fa vincere, a noi ha fatto perdere".

In privato, ed è la prima volta che lo fa, D'Alema racconta che lui Veltroni voleva lanciarlo come candidato premier già nel 2005: "Berlusconi aveva fallito con il suo governo, se noi avessimo messo in campo un'innovazione avremmo vinto facilmente. Prodi, con tutti i suoi meriti, era la riproposizione di uno scontro di dieci anni prima. Ma non abbiamo avuto il coraggio di schierare Veltroni. C'era un problema, anche Fassino premeva per candidarsi, ma io avrei potuto pilotare l'operazione. Non l'ho fatto, lì ho sbagliato, dopo no". Le mie colpe si fermano qui, sembra dire l'ex premier, per tutto il resto rivolgetevi ad altri. "Le primarie del 2007 dovevano servire a Veltroni a costruire il partito, due, tre anni di tempo, in quel periodo noi al governo avremmo provato a scrivere una riforma elettorale alla tedesca capace di tenere dentro Rifondazione e coinvolgere l'Udc e la Lega. Invece si è presa la strada opposta, il dialogo con Berlusconi. Ricordo il pomeriggio che Veltroni annunciò che il Pd sarebbe andato alle elezioni da solo, mentre Mastella doveva decidere se dimettersi o restare. Chiamai subito Goffredo Bettini. 'Siete impazziti?', gli chiesi. Era chiaro che l'effetto di quelle parole sarebbe stata la crisi del governo Prodi. Mi rispose: 'Massimo, abbiamo deciso di accelerare. Il paese sceglierà tra Berlusconi e Veltroni. E noi vinceremo'".

Le cose sono andate diversamente, diciamo. E ora l'emergenza è mettere in campo un partito in grado di ripetere l'exploit del '94-'95, quando in pochi mesi il Pds riuscì a riprendersi dalla disastrosa sconfitta elettorale contro Forza Italia, votò la fiducia al governo Dini al posto del Cavaliere, fece l'alleanza con il centro rappresentato dai popolari, candidò Prodi a Palazzo Chigi alla guida di una coalizione chiamata Ulivo. Segretario della Quercia, guarda caso, era D'Alema. Il leader Massimo ipotizza lo stesso percorso. Primo, resuscitare il Pd, oggi agonizzante, con una nuova classe dirigente, Enzo Amendola in Campania, Stefano Fassina nel Lazio, Lorenzo Basso in Liguria, i trentenni della mozione Bersani che in caso di vittoria al congresso saranno chiamati subito alla sfida delle elezioni regionali 2010, "scelti tra quelli che non sono già parlamentari, contro la vergogna dei doppi incarichi e delle incompatibilità mai rispettate". D'Alema non lo dice, ma il riferimento va ai franceschiniani Sergio Cofferati e Debora Serracchiani, appena eletti al Parlamento europeo e in corsa in Liguria e Friuli per le segreterie regionali. "Ho visto che la Serracchiani nelle sue pagelle mi ha alzato il voto, da quattro a cinque. Le ha fatto bene andare a Strasburgo. Lì quando dici che sei della sinistra italiana in tutta Europa rispondono: D'Alema. Conoscono me, non i suoi amici.". Il secondo obiettivo è stringere l'alleanza con l'Udc: "Si fa con la politica, non con la politologia. In Puglia ci siamo riusciti". E con Pier Ferdinando Casini il dialogo non si è mai interrotto. "Ci frequentiamo da più di trent'anni. A Bologna, nel'77, parlammo insieme nel palazzo Re Enzo, io per la Fgci, lui giovane democristiano. Alle nostre spalle ci fu una scazzottata tremenda tra gli autonomi e il servizio d'ordine del Pci. Casini era un po' spaventato, mi chiedeva cosa stava succedendo, io lo tranquillizzavo".

Il terzo obiettivo, il più ambizioso, è non farsi trovare impreparati all'appuntamento clou dei prossimi mesi: il crollo di Berlusconi, se mai ci sarà. "Il Pd deve essere pronto, con serietà e forza", ripete D'Alema, che scruta con attenzione le mosse dei suoi interlocutori nel centro-destra, il presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Era in prima fila ad ascoltarli, qualche settimana fa, al convegno inaugurale dell'associazione Italia Decide, presieduta da Luciano Violante, dalemiano ancora non convertito in bersaniano. Si parla di nuovi giri di escort in arrivo, dal sud al nord, c'è la tensione sociale che si farà sentire in autunno, le famose "scosse" profetizzate da D'Alema. "L'equilibrio su cui si regge il governo è instabile, la situazione non è più a lungo sostenibile". Di dopo-Berlusconi e di ipotetici governi istituzionali non si parla, ma l'ex premier ironizza su chi nel Pd invoca nuove elezioni anticipate in caso di caduta del Cavaliere: "Quando li sento dire queste cose mi chiedo se non siano pagati da Berlusconi".

Essere pronti, dunque, con Bersani segretario e D'Alema riserva istituzionale, l'unica carta che il Pd può giocare in caso di governissimi e altri cataclismi. Già: a sinistra è ancora in piedi solo lui, a destra i leader sono sempre gli stessi da quindici anni, Berlusconi, Fini, Bossi. Più che una vittoria, la spia della sconfitta storica di D'Alema, abilissimo nello sbarazzarsi degli avversari interni, drammaticamente impotente a buttare giù i nemici esterni. Così, nei prossimi mesi, D'Alema potrebbe vincere la battaglia interna con Bersani eletto segretario. Ma la guerra, quella vera, è tutta un'altra storia.

(31 luglio 2009)
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