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Autore Discussione: Nando DALLA CHIESA.  (Letto 20315 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 02, 2008, 02:54:08 pm »

Expo, quando l’Italia gioca insieme

Nando Dalla Chiesa


Bacio, bacio. Non è nato dal più classico degli incitamenti goliardici lo scambio di effusioni tra Letizia Moratti e Romano Prodi. E neppure l’incontro ravvicinato tra le guance del sindaco e i baffi di Massimo D’Alema. Si è sprigionato, invece, dalla gioia spontanea e collettiva per un traguardo a lungo atteso e caparbiamente inseguito. Di qua Milano, il suo sindaco e la sua opinione pubblica. Di là il governo con la sua promessa di riservare a Milano un trattamento da grande capitale, e con i suoi ministri e sottosegretari impegnati da tempo a raggiungere questo obiettivo. Un gioco di squadra eccellente, come se ne vedono pochi sulla nostra scena politica e istituzionale. La scelta responsabile, neanche troppo declamata, di marciare uniti verso l’obiettivo. La scelta di raggiungerlo, prima di tutto, senza interrogarsi troppo su chi ne avrebbe incassato i dividendi politici. Un soprassalto di orgoglio cittadino e nazionale che arriva - rara avis - volando su una galleria infinita di egoismi e irresponsabilità di ruolo, che non hanno risparmiato nemmeno il governo dell’Unione.

Strano Paese, questo. Che quando scattano certe e irripetibili combinazioni sa fare muro, sa trovare il filo dell’interesse comune. Sa gioire e soffrire insieme, anche nel fuoco di una campagna elettorale che lo spacca in due, per un successo di tutti. Che premia la città simbolo del berlusconismo rilanciandola al centro dell’attenzione mondiale; e al tempo stesso consacra i meriti del governo più inviso a Berlusconi, quello guidato da Romano Prodi. Naturalmente il Cavaliere non si è sottratto alla tentazione di azzerare i meriti governativi e di intestare il successo alle sue bandiere. Ma il bacio-bacio tra Moratti e Prodi, Moratti e D’Alema, spiega con la forza delle immagini la (grande) natura comune dell’impresa. L’Italia in declino, l’Italia rancorosa, l’Italia in affanno e con classi dirigenti al ribasso, ha avuto un formidabile colpo di reni; come l’Italia stanca e molle che arrivò in Spagna nell’82 per vincervi i campionati del mondo, e che fu resa invincibile da un colpo di reni su cui nessuno avrebbe scommesso. Ma che un’atmosfera magica rese possibile in quei giorni. Qualcosa di molto simile è accaduto in questi mesi nell’agone politico: la nascita di quella tipica unità da sfida collettiva in cui tutti si gettano alle spalle qualcosa e, per converso, si caricano sulle spalle qualcosa che prima non c’era. Così che una volta di più si resta perfino allibiti nel constatare quali siano le nostre risorse potenziali, a quali conquiste possa tendere il “genio italico” quando ci comportiamo “come se”. Come se fossimo altra cosa da noi stessi.

Il fatto è che i colpi di reni che hanno costellato la nostra storia civile, dai giovani volontari ai tempi dell’alluvione dell’Arno alla lotta al terrorismo, ad alcuni momenti della lotta alla mafia, sono sempre durati poco. Grandi episodi. Che non hanno mai modificato in profondità il costume civile e politico. Che hanno fatto scuola senza cambiare il paese. Diventando spesso, semmai, brillanti alibi retorici per le sue pigrizie e cialtronerie. Perché, tornando alla metafora calcistica, se basta uno scatto d’orgoglio per vincere un torneo di poche settimane, non basta lo stesso scatto per costruire un ciclo, per cambiare la qualità di una squadra o addirittura di uno sport. Questa è in fondo la nostra risorsa e la nostra maledizione. Costretti a negare la nostra natura per costruire grandi vittorie, e scoprire al contempo che la nostra natura - quella che alla fine ci tiene nel consesso dei Paesi civili - sta proprio nella capacità di negare noi stessi nel momento giusto. Un po’ come ci ha insegnato sui libri di storia l’eroismo senza disciplina militare delle nostre guerre.

Ebbene, qui è Rodi, come si dice. La vittoria di Parigi deve ora essere messa pienamente a frutto. Deve servire a rigenerare Milano. A renderla più accogliente e funzionale, più bella e meno assurdamente cara, più ospitale e più trionfante di arte e di cultura oltre che di nuove infrastrutture. Ma questo, se sarà, sarà il risultato di valutazioni e di scelte che non si snoderanno in un arco breve di mesi. Ma in un arco di anni. I quali saranno segnati da turbolenze politiche, da soprassalti di autosufficienza e arroganza del potere, da pressioni e tentazioni inconfessabili, da un’infinità di interessi di bottega. Tutti affacciati, più tonici che mai, sulla grande arena dei progetti dove le lobbies si contenderanno decisioni pubbliche e finanziamenti leggendari. In cui passeggeranno ogni giorno i professionisti dei “buoni consigli”, i cantori delle opere “senza le quali la città non potrà restare in Europa”, in cui i grandi elettori della stessa maggioranza di Palazzo Marino presenteranno con molto garbo il conto del loro sostegno. Saranno anni di richieste e trattative che non verranno riprese - loro - da alcuna televisione, ma che avverranno in atmosfere ovattate. Anni lunghi. In cui non basterà il guizzo. In cui, invece, occorrerà sfoderare una vera cultura di governo, da Roma e da Milano. Per dare alla città il meglio di cui avrà bisogno per recitare la sua parte da grande protagonista.

Occorrerà una visione insieme lungimirante e chirurgica. Lungimiranza sul progetto generale di città che si vuole allestire, con le sue priorità, i suoi punti di forza da costuire ed esibire. E l’occhio del “chirurgo keynesiano” per impiegare i fondi con oculatezza certosina e imprimere loro al contempo una funzione moltiplicatrice. Insomma, per non gettarli a grandi lotti nei soliti capitoli (cemento & affari, per capirsi), con l’effetto certo di esaurirne i benefici in recinti ristretti e di sottrarre risorse preziose a voci cruciali per la qualità civile e culturale della metropoli.

Bacio, bacio. Vorremmo poterlo gridare da qui a sette anni ai governanti di allora, di Roma e di Milano, per festeggiare a pieno merito - come è accaduto ieri - quella che dovrebbe essere la più felice metamorfosi di Milano negli ultimi trent’anni. Ma dopo lo scatto di reni di questi mesi, vedremo un mutamento duraturo nel senso della responsabilità istituzionale, nella cultura di governo, nella fantasia creativa e creatrice? Questo è il nodo. La sfida dell’Expo è appena incominciata.


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Pubblicato il: 02.04.08
Modificato il: 02.04.08 alle ore 8.57   
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 08, 2008, 05:56:10 pm »

Cannoli e cannoni

Nando Dalla Chiesa


Oplà. Il salto di qualità è arrivato. Dai cannoli ai cannoni. La santa alleanza tra i lumbard di Umberto Bossi e il Lombardo siciliano si avvia a scatenare, con la benedizione del fratello di sangue Silvio Berlusconi, un nuovo disastro nella già lacerata società italiana. Ora l'uso dei fucili e dei cannoni, oltre che dalla Padania, viene minacciato anche dalla Sicilia, dove purtroppo le armi (non a salve) contro lo Stato italiano sono già state abbondantemente usate.

E dove Cosa Nostra ha coltivato con assiduo interesse, dopo le stragi del '92 e del '93, progetti secessionisti, inseguendo una "Sicilia libera" dalla presenza dello Stato di diritto. A questo siamo arrivati. E non senza colpe di chi si professerà innocente.

Perché immaginiamo che un qualsiasi parlamentare dell'estrema sinistra, non si dice un leader, ma un peone delle bandiere rosse, pratichi il linguaggio di Umberto Bossi e dei suoi colonnelli padani, e ora del loro alleato siciliano. Vedremmo subito televisioni di stato e private, e stampa padronale e indipendente (per quel che si può) andare all'assalto del malcapitato. E del suo partito. E della sinistra, anzi, dell'intero centrosinistra. E lanciare condanne e anatemi. E pretendere, ancor più, condanne e anatemi e abiure altrui. Sentiremmo accusare la sinistra di ogni abominio. L'intolleranza che trasforma gli avversari in nemici da abbattere. La furia da ghigliottina. I gulag. La contiguità con il terrorismo, anzi, i mandanti del terrorismo. E se poi il centrosinistra prendesse, come certo prenderebbe, le distanze da quel linguaggio, anche in tal caso non la passerebbe liscia. Le condanne e gli anatemi sarebbero sempre tardivi, sintomo di una cattiva coscienza. Le parole del peone delle bandiere rosse sarebbero sempre il frutto del "clima d'odio" seminato a piene mani contro la destra e contro il suo leader. Con i crimini televisivi. O con la strategia della menzogna. Eccetera. Eccetera.

Ecco, forse le prime pari opportunità in una civiltà politica dovrebbero consistere nel ritenere possibili e legittime, o intollerabili e illegittime, le stesse cose se dette o fatte da una parte politica o da quella opposta. Da noi, per una sorta di resa culturale dell'establishment nazionale, si è invece diffusa l'usanza di considerare diversamente gravi le parole, le offese, le minacce, se profferite dalla sinistra o dalla destra. E in particolare di concedere una specialissima immunità alla Lega di Umberto Bossi, della quale ora vorrebbe godere, per una sorta di proprietà transitiva, anche la Lega di Lombardo, sua fresca alleata. Entrambe padrone -ripetiamo, con la benedizione di Silvio Berlusconi- di impiegare un linguaggio che nessuna forza democratica, progressista o conservatrice, impiega al mondo. "Queste elezioni potrebbero finire con la necessità di imbracciare il fucile e di andare a prendere queste carogne". "I comunisti sono canaglie antidemocratiche. La sinistra è fatta da canaglie, luride canaglie". "Delinquenti, state molto attenti, che i padani non hanno paura di voi, vi pigliamo per il collo. Carogne tornate nella fogna, là è il vostro posto". Con crescendo rossiniano: "Allora stavolta pigliamo il fucile, facciamo vedere noi, decine di milioni di lombardi e veneti sono pronti a battersi per la loro libertà contro la merda che voi rappresentate". Questo l'altro ieri. Ieri, come se non bastasse, ha varcato il Rubicone l'alleato siciliano. Il vassoio di cannoli degli amici degli amici è già nello sgabuzzino. E ora si parla di fucili. Da nord e da sud.

Qualcuno pensa che questo linguaggio farà perdere voti al centrodestra? Che per sua causa qualche elettore inorridito possa decidere non si dice di passare dall'altra parte ma di negare il proprio voto al Pdl? Forse, ma non c'è da contarci. Perché il guaio è proprio questo. Che ormai, negli anni, il linguaggio della Lega ha trovato piena cittadinanza nella nostra civiltà politica. Fucili, pallottole, raddrizzare la schiena al magistrato poliomelitico, merde, luride canaglie, mettitela nel culo (la bandiera tricolore), faremo pisciare i maiali (sui terreni delle moschee), Italia bastarda. Ed è con questo linguaggio alle spalle e al suo interno che la destra continua a chiedere credenziali di cultura di governo al centrosinistra. I discorsi leghisti? Fanfaronate, metafore, espressioni paradossali. Sappiamo com'è fatto Bossi, lui parla sempre così. Ora, per non essere da meno, ha deciso di parlare così anche l'altro secessionista.

È difficile dire se da queste parole potranno scaturire comportamenti violenti (bisogna prendere atto che con la Lega questo non è generalmente avvenuto). Certo è che il rischio di un impazzimento del sistema e del costume politico è concretissimo. E che questo linguaggio, che trasuda una specifica ideologia, può produrre una miscela micidiale combinandosi con l'antiparlamentarismo galoppante e con il senso comune da tivù-trash (anche politica) che si sta divorando pezzi di elettorato senza che ce ne rendiamo conto. Con effetti imprevedibili, quanto meno, sul senso dello Stato e sullo spirito civico e di solidarietà nazionale.

Ecco come finisce a spiegarci da anni amabilmente che "lui parla sempre così". No. Lui, loro, non possono parlare così. Perché è consentito prediligere il linguaggio sobrio da Banca d'Italia o quello colorito dell'aia politica. Ma chi, già prima di sapere se andrà al governo, sa di rappresentare comunque le istituzioni non ha facoltà di usare "quel" linguaggio. A meno che non gli si riconosca uno status di minorità intellettuale, quasi da buffone di corte al quale tutto, come nelle migliori tradizioni, è consentito di dire. Purtroppo non si tratta di buffoni. Si tratta di politica, si tratta di voti veri. Di cui la destra, come si dimostrò nel '96, non può fare a meno. E con il cui linguaggio lo stesso Berlusconi mastica da sempre molte affinità. Due buone ragioni per dichiararsi, appunto, fratello di sangue di Bossi e di Lombardo .

Oggi, davanti a questo salto di qualità, nessuno può più stringersi ammicante nelle spalle. Anzi, sarebbe opportuno, quanto mai opportuno, che anche i nostri intellettuali equidistanti provassero una volta almeno l'impeto irresistibile di intervenire. Per dire con chiarezza che la democrazia non sarà il galateo degli ufficiali regi, ma che in una democrazia qualche regola alla lotta politica bisogna pur darla. E che le armi, quelle, le invocano solo i sovversivi.

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Pubblicato il: 08.04.08
Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.29   
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 05, 2008, 11:04:25 pm »

L'odio per la diversità

Nando Dalla Chiesa


E ora? Ora che dirà chi in questi mesi ci ha dipinto un mondo in bianco e nero, ci ha raccontato la violenza a gogo nelle città governate dalla sinistra, con gli immigrati forniti di licenza di spadroneggiare nelle vesti di rapinatori o stupratori? A Verona un ragazzo è stato ridotto in fin di vita da un branco di ventenni per una sigaretta rifiutata. E in questo episodio, via via che se ne chiarisce il contesto, si concentra una quantità di informazioni in grado di mettere in crisi gli stereotipi di mesi di informazione drogata. Dov'è, dunque, che la vita vale poco?

Se tempo fa l'opinione pubblica era stata sconvolta dalla notizia che nell'hinterland napoletano, in piena Gomorra, un ragazzo era stato ucciso a coltellate per rubargli il motorino, qua nella ricca e civilissima Verona un ragazzo è moribondo per una ragione ancora più futile: il rifiuto di una sigaretta chiesta chissà con che toni e con che intenzioni. E ancora. Quali etnie esprimono una assoluta assenza di freni nel delinquere? Se in più occasioni ha fatto comprensibilmente impressione la selvaggia violenza con cui hanno agito le bande slave durante le rapine in villa nel nord Italia o sull'Appennino, altrettanta impressione fa la selvaggia violenza di questo branco veronese, che sembra avere avuto per culla benedicente il tifo ultrà cittadino e le sue bande impunite.

Insomma: l'aggressione di gruppo è stata compiuta da italiani che (così dicono i testimoni) parlano il dialetto veneto; in una città di quel nord-est che reclama da sempre ordine e tolleranza zero contro la violenza degli immigrati; mentre il retroterra culturale è, per ciò che gli investigatori hanno appurato, quello della stessa estrema destra che, a furia di saluti romani, promette al paese di ridargli la agognata sicurezza, di restituire ai cittadini il diritto di camminare sicuri per le strade. L'estrema destra che presidia le curve, che manifesta con il Veneto Fronte Skinheads e che a Verona è giunta con tutti gli onori in consiglio comunale, parte della nuova maggioranza.

Sia chiaro, giusto per non lasciare margine agli equivoci. Quello che è accaduto a Verona poteva accadere in qualsiasi città italiana, visto il livello di violenza potenziale che scorre impaziente sotto la pelle di una società sempre meno capace di controlli e autocontrolli. Né quel che è accaduto può ragionevolmente essere imputato al sindaco Tosi e alla sua giunta. Occorre cioè evitare un gioco al massacro speculare a quello in cui si è specializzata la destra: attribuire per definizione ai sindaci gli episodi di violenza che si verificano nelle città governate dalla sinistra, facendo del dibattito sulla sicurezza una specie di maionese impazzita. Con tanti saluti alla serietà richiesta da quello che viene comunque rappresentato come il primo e più urgente dei problemi italiani.

Oggi Verona ci consegna una realtà assai diversa, terribilmente più complessa, senz'altro più inquietante di quella imperante nei mesi della campagna elettorale. L'idea che per conquistare più alti livelli di sicurezza si debba guardare solo alla criminalità "da importazione" produce un rischiosissimo strabismo. Non solo perché in questo paese la criminalità organizzata indigena è tuttora viva e vegeta, nonostante i molti colpi subiti. E il suo stato di salute non può lasciare tranquillo proprio nessuno. Ma anche perché si coglie sempre più una violenza diffusa, molecolare, che tende a insinuarsi con capacità espansive in molte pieghe ed enclaves sociali.

Basti pensare al tifo ultrà, e alla sua capacità offensiva verso le istituzioni e verso le persone. Un tifo mai perseguito e mai punito sul serio, e che trova i suoi momenti epico-simbolici nell'omicidio Raciti o nell'assalto di massa compiuto pochi mesi fa a Roma contro le stesse caserme delle forze dell'ordine (cosa mai accaduta neanche ai tempi della contestazione più dura). E' stupefacente che quando si parla di sicurezza e di legalità questo capitolo (che fra l'altro presenta da anni proprio a Verona una delle punte di maggiore allarme) non venga mai affrontato. Ma si pensi ancora alla quantità di ferimenti e omicidi che si verificano con regolarità impressionante nei pressi delle discoteche, con protagonisti (alla pari, si direbbe) italiani e immigrati, quasi che nella società del divertimento si siano realizzate autentiche zone franche dal diritto. Oppure si pensi al fenomeno del bullismo delle scuole e fuori dalle scuole. O alla estrema facilità con cui si mette in gioco la vita degli altri, oltre che la propria, sulle strade, e non solo di notte.

Ecco, chi scrive non indulge a descrizioni catastrofiche dello scenario nazionale quando parla di sicurezza. Sa che certi reati (spesso i più gravi) sono da tempo in discesa. Ma sa anche che altri (non secondari) sono in aumento, e che questo produce, in termini di paura, un impatto tanto più forte quanto più invecchia la popolazione e quanto più i mezzi di informazione ci fanno apparire vicino un delitto avvenuto in aree lontane, e di cui un tempo mai avremmo nemmeno sentito parlare. E dunque coglie e osserva con preoccupazione le molte correnti criminogene che percorrono una società aperta e precaria, ricca e diseguale, snervata dei propri valori e continuamente sospinta verso l'ammirazione acritica del denaro e della forza.

Ma, appunto, una cosa bisogna sapere: queste correnti sono molte. E' lecito allora, è utile nasconderne alcune dietro lo scudo ideologico del pregiudizio razziale, concentrare l'allarme sociale solo sulle voci che fomentano il razzismo? Così come non è responsabile (e purtroppo lo si è fatto...) negare la presenza di una temibile criminalità da immigrazione, altrettanto non è responsabile usare quella criminalità per esorcizzare "tutto il resto". Per esorcizzare quel che ci è scomodo vedere, a partire da questi "nostri giovani" un po' esuberanti -avranno bevuto un po' o saranno stati provocati-, e investire invece politicamente sulla paura per il diverso, che sia nomade o immigrato. Anche perché, a seguire questa strada, potrebbe accadere che la stessa vittoria elettorale, perfino a dispetto dei vincitori, dia alla testa di chi pensa che sia finalmente suonata l'ora del "liberi tutti". Che sia arrivato il momento in cui è consentito essere un po' "scavezzacolli". Se la sinistra ha i suoi limiti nell'affrontare il tema della sicurezza, la destra ha i propri. Che non pesano di meno. E non è detto che non siano più densi di pericoli.

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Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 27, 2008, 09:52:53 am »

Mantova, toh chi si rivede: la messa rock

Nando Dalla Chiesa*


Saldare il cielo con la terra. Questo incitava a fare don Ciotti mentre una doppia fila di scout ammaliati gli stava di fronte, seduta sul pavimento del brutto anfiteatro. Mentre un migliaio di persone assiepate sui gradoni della «piastra» di Lunetta lo applaudiva sognando di potere realizzare un giorno la società di cui lui tracciava, con poche e semplici parole, la fisionomia: giustizia, verità, eguaglianza, responsabilità. Lunetta: un quartiere di Mantova che sembra una periferia di Sofia. Scelto dal Mantova Musica Festival per tenervi il momento-clou della cinque giorni musicale.

La celebrazione della messa rock in cui esaltare il titolo della manifestazione, «La mia vita è come un rock». Per usare il genere musicale più amato del dopoguerra come metafora della vita e del suo senso. In un momento in cui, per tornare alle esortazioni di don Ciotti, la parola di verità deve prevalere sul silenzio; e in cui siamo chiamati ad attraversare i deserti che costellano le nuove mappe della società.

La messa rock di ieri mattina, celebrata anche da don Gino Rigoldi (cappellano del carcere minorile di Milano) e da don Alfredo Rocca (parroco del quartiere di Lunetta), ha assunto, minuto dopo minuto, un senso e un valore insospettabili da parte degli stessi organizzatori. Certamente figli del progetto del festival, ma proiettati - e molto - al di là degli stessi confini del progetto. Più passava il tempo, più le parole di don Ciotti e di don Rigoldi si mescolavano con la voce struggente di Antonella Ruggiero, con le tonalità gospel di Delmar Brown, con le raffinatezze melodiche di Raiz o con la verve spumeggiante degli Ardecore, più si fondevano tra loro le ragioni degli applausi che provenivano dai gradoni dell’anfiteatro, più si capiva di trovarsi davanti a un evento che stava rompendo, e non solo per un’ora, steccati e frontiere. Esattamente come ha fatto per oltre mezzo secolo la musica rock. D’un colpo solo sono caduti muri e distinzioni. È caduta anzitutto la barriera tra musica rock e spiritualità. Altro che sesso e droga; Vangelo secondo Matteo e don Tonino Bello, piuttosto. E musica come voce «che chiede giustizia e pace». È caduta la barriera tra generi musicali apparentemente inconciliabili (quella della Ruggiero era soprattutto musica sacra). Sono saltati i confini invalicabili tra la Mantova delle splendide piazze rinascimentali, quelle in cui si svolge senza sosta il festival, e la Mantova delle periferie emarginate. O i confini tra bello e brutto, quest’ultimo riscattato a bello proprio grazie alla fusione di spiritualità e musica. Saltati, ancora, e del tutto, i confini tra cattolici e laici. Spariti, letteralmente. E se non ha destato scandalo una versione erotica del «Cantico dei cantici», altrettanto un’attrice ha deciso d’istinto di fare la comunione dopo trent’anni, spiegando «mi sono detta: ma se non faccio la comunione alla messa rock, quando mai la farò?». Caduti anche, negli interventi degli oratori, i confini che vorrebbero tenere separato l’Occidente dai suoi nemici, che premono alle porte delle nostre vite serene e possidenti.

Eretti, piuttosto, altri confini. Confini netti. Quelli tra chi usa le parole per occultare le verità del mondo, a volte anche schierandosi con i buoni princìpi, e chi le usa per la denuncia irriverente che si fa anch’essa, (pensate l’eresia) «annuncio di salvezza». Oppure tra chi fustiga la gioventù di oggi abdicando al compito di offrirle valori e chi pensa che «dobbiamo ricominciare a parlar bene dei giovani», e che, piuttosto che raddoppiare le ore di educazione civica, crede sia importante dare ai ragazzi testimonianze di vita. Insomma, in un festival musicale che ha dimostrato una volta di più di non essere «un festival tra gli altri» è successo qualcosa di nuovo, è nato qualcosa che sa di civile, sociale e culturale insieme. L’incontro e la rottura degli steccati non sono avvenuti infatti sul piano del galateo politico, in omaggio ai dettami di un improbabile monsignor Della Casa della seconda o terza Repubblica. Ma sono avvenuti sul piano dei valori, della dignità e qualità della persona, sul senso della vita. Il che ha portato, a sua volta, anche a ridisegnare distanze e geometrie del mondo e della mente. Come ha detto una giornalista, «è incredibile che io debba essere venuta qui, a un punto d’incrocio tra la chiesa e il rock, per sentire che cos’è la politica».

Già, la politica che esalta la sua presenza e il suo primato senza che si parli di politica, senza che nemmeno la si nomini. Mentre nei Palazzi la politica si svuota di senso parlando ogni minuto di se stessa. È un paradosso dei nostri tempi. Per questo, in fondo, la messa rock di ieri non ha poi tanto a che vedere con le messe beat degli anni Sessanta, benché potesse a prima vista rievocarle. Perché qui non abbiamo più una chiesa che gioca la carta della modernità dei costumi e delle forme di comunicazione per ricostruire un consenso in sofferenza. Ma abbiamo un mondo multiforme che cerca e trova nuove vie per comunicare valori, per contrastare il vuoto, per attraversare il deserto della società ricca e senza qualità. Per porre domande di senso. Esistenziali e politiche al tempo stesso. Ieri qualcosa, nella comunicazione politica esangue e balbettante di questi mesi, si è rotto. Anche oltre la percezione immediata di chi era presente, si è aperta una strada. E questa, per chi sa ascoltare i tempi e vuole interpretarli, è un’ottima notizia.

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*(Organizzatore della kermesse musicale di Mantova)



Pubblicato il: 26.05.08
Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.35   
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 02, 2008, 05:11:47 pm »

Perché accetto la sfida di Genova

Nando Dalla Chiesa


Ma chi te lo fa fare? Da quando Marta Vincenzi ha annunciato al consiglio comunale di Genova il mio impegno al suo fianco nell’amministrazione della città, torna incessante questa domanda da parte di amici giornalisti e da parte di chi è, o ritiene di essere, ben informato sui fatti genovesi e sui loro sviluppi prossimi venturi. È una processione di interrogativi. Ispidi e preoccupati. Chi te lo fa fare di avventurarti in una situazione compromessa, di infilarti in un clima infido in cui la magistratura sta grattando che è un piacere? Perché rischi di associare il tuo nome a un’esperienza amministrativa che domani o dopodomani potrebbe trascinarti in una bancarotta morale? E perché tu, proprio tu, ti presti a fare da foglia di fico a un’amministrazione infarcita di inquisiti? E infine, e a parte: ma perché vai in soccorso del Pd dopo il trattamento che hai ricevuto alle ultime elezioni politiche?

Siccome domani farò il mio primo ingresso a palazzo Tursi per incontrare il sindaco e disegnare con lei una prima strategia di azione, credo giusto rispondere pubblicamente a queste domande. E inizio ricordando il rapporto costruito con la città di Genova nei cinque anni in cui l’ho rappresentata nella qualità di senatore della Repubblica. Anni (2001-2006) di opposizione dura, in cui il centrosinistra cittadino mi fu a fianco nelle difficili battaglie parlamentari sulla giustizia e anche nel cammino politico che avrebbe poi portato al partito democratico. Anni in cui coltivai un rapporto stretto -di rappresentanza istituzionale e politica ma anche umano- con il collegio genovese, organizzandovi o partecipando a convegni, seminari, ricerche, manifestazioni, dibattiti (spesso nelle case private) e ricevendone sostegno, incoraggiamento, perfino affetto. Ho proseguito questo rapporto nella mia attività di governo, in particolare promuovendo la nascita del polo artistico-culturale genovese, investito della missione di aprire la città agli scambi culturali con l’area del Mediterraneo occidentale. Insomma: mi è stato chiesto di mettermi al servizio di una città che mi ha dato molto e a cui ho già cercato di dare. Non solo. La prima cittadina, che ho avuto modo di conoscere e stimare durante quegli anni, mi ha chiesto di aiutarla in un tornante decisivo della vita pubblica genovese. Per uscire da una crisi generata da una pluralità di comportamenti "disinvolti" (dirà la magistratura se penalmente rilevanti o no), per restituire credibilità morale alla giunta. Per dare a Genova il ruolo che le compete, anche sul piano dell’immagine. Per non chiudere baracca e burattini - per colpa di alcune persone - una amministrazione impegnata positivamente su più fronti, da quello dei conti pubblici a quello dei servizi sociali. Per non mettere la parola fine su uno dei pochi governi di grandi città ancora guidati dal centrosinistra.

Che cosa avrei dovuto fare davanti a questa richiesta di aiuto? Sono partito dal presupposto che Marta Vincenzi sia persona seria, appassionata e affidabile. Il resto ne è disceso di conseguenza. Genova meritava impegno ed entusiasmo. Sia chiaro. So bene come in una città priva di alternanza politica possano prodursi incrostazioni clientelari nell’ossatura e nelle nervature del potere. So come l’intreccio dei parallelismi tra economia, politica e società possa produrre reti di relazioni soffocanti in grado di generare corruzione. Come vi si possano scatenare meccanismi carrieristici in autonomia dai valori che rendono degna la politica. Tutto questo so. Tuttavia se la mia presenza può servire a far saltare alcune di queste incrostazioni o a metterne al riparo alcuni gangli vitali del governo cittadino (e di un governo del centrosinistra, insisto), io ci sono. Di più. Sono felice di esserci. È una sfida, non c’è dubbio. Una sfida difficile. Ma io, come tanti e diversamente da altri, non ho mai inteso la politica come rendita di posizione, come regalia di un padrino, come astuto accovacciamento nel rosso dell’uovo. Penso, come tanti, che la vita stessa, non solo la politica, sia successione di sfide mai uguali. Ebbene, questa è esattamente la nuova sfida che mi è stata proposta due domeniche fa quando, mentre era in corso il Mantova Musica Festival, Marta Vincenzi mi ha telefonato chiedendomi, a proposito della messa rock del mattino, "perché queste cose non vieni a farle a Genova?", per poi avanzare i termini più profondi e politici della sua proposta. Una sfida difficile. Ma che accolgo volentieri perché mi consentirà di impegnarmi su quei grandi progetti culturali che ho sempre ritenuto prioritari per il tenore civile di un paese, e che spiegano più di ogni programma declamato l’identità di una coalizione di governo. Dice: e la foglia di fico? Non rischi di farla? Non credo. In ogni caso non la farei per nessuno. Per temperamento e per un codice etico a cui ho sempre cercato di attenermi. Il fatto è che il sindaco non mi ha chiesto di prestarle solo il mio nome. Magari per un’operazione di facciata. Mi ha chiesto invece di aiutarla, con Andrea Ranieri e con altri, a imprimere una svolta al cammino dell’amministrazione. Io a questa richiesta sarò fedele, comunque pronto - se le resistenze dovessero mostrarsi insuperabili - a tuffarmi nelle esperienze dell’impegno civile e nell’insegnamento universitario. Quanto poi all’idea di rendere pan per focaccia al Pd per l’esclusione dal parlamento, confesso che la cosa non mi è passata per la testa nemmeno per un secondo. Sia perché non confondo una città con un partito; sia perché, semmai, ho vissuto con orgoglio il fatto che, escluso dalle liste elettorali con la motivazione che bisognava "rinnovare l’immagine del Pd in parlamento", sia stato chiamato nel momento del bisogno per "rinnovare radicalmente" l’immagine della politica genovese. Può darsi che alla lunga sia costretto a pentirmene. I giorni trascorsi mi hanno però confermato nella mia scelta. Dopo l’annuncio in consiglio comunale - penso di poterlo raccontare- sono stato subissato di messaggi da parte delle persone e degli ambienti più diversi. Giovani delle associazioni, militanti di lungo corso, professionisti, consiglieri di circoscrizione, intellettuali. Messaggi di ringraziamento, disponibilità a dare una mano, dichiarazioni di fiducia, inviti a tenere incontri nelle case, a occuparsi anche della politica genovese. Due messaggi mi hanno colpito in particolare, tutti e due firmati da militanti ex diessini: «Aiutaci a ridare onore alla Genova democratica, liberaci da questi mariuoli»; e «Allora vuol dire che in questo partito la questione morale si può ancora affrontare». Spiegatemi: e io avrei dovuto dire di no?

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Modificato il: 02.06.08 alle ore 13.53   
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 16, 2008, 10:19:57 pm »

La questione morale ci riguarda


Nando Dalla Chiesa


La sparo grossa? Ebbene sì: resto dell’idea (finora espressa in privato) che il professor Galli della Loggia proprio torto non abbia. Che abbia ragione, care lettrici e cari lettori, a dire che non siamo - noi centrosinistra- «l’altra Italia». Non siamo nemmeno uguali al centrodestra, aggiungo io, su questo ci giurerei, perché facciamo riferimento - mediamente - a valori diversi. Quando ci mobilitiamo, crediamo in genere a quello che diciamo. Costituzione, libertà di stampa, uguaglianza. Ma certo anche tra i paladini della legge uguale per tutti ci sono quelli che nella vita di ogni giorno chiedono favori per questo o quel concorso pubblico. Ma certo anche tra chi evoca a ogni comizio il famoso editto bulgaro (Biagi-Santoro-Luttazzi) c’è chi applica volentieri la censura agli altri se appena gli serve o deve risolvere sbrigativamente le sue private inimicizie. Ma certo, ancora, tra chi denuncia ad alta voce il famigerato conflitto d’interessi c’è chi legifera a favore dei propri interessi personali o di partito al riparo dell’ombra lunga del conflitto più grande e smisurato del premier.

Lo so: il baricentro, i simboli, il codice morale che muove in genere i nostri comportamenti, non coincidono affatto con quelli del centrodestra. Epperò eccoci qua tutti insieme a interrogarci su quale sia la vera cifra morale del nostro personale politico. La questione abruzzese è arrivata infatti come una tramvata addosso agli elettori e ai militanti di quella che fu un giorno l’Unione. Notizie da lasciar di sale. Ottaviano Del Turco agli arresti. Il sindacalista che commuoveva il senato raccontando dei leader sindacali uccisi dalla mafia e che aveva fatto togliere il segreto dagli atti parlamentari su Portella della Ginestra. Il sindacalista che aveva sollevato la questione morale nel Psi di Bettino Craxi e che nobilitava il suo impegno politico con la passione per la pittura. Lui agli arresti per una storia collettiva di corruzione. Fatico tuttora a crederci, avendolo anche frequentato nel corso della mia attività istituzionale. E sospendo ogni giudizio, nulla avendo visto direttamente degli atti dell’inchiesta. Sta di fatto che è coinvolto, e non per complotto dei magistrati, in una brutta storia di tangenti spuntate nell’humus magno della sanità pubblica. Storia sua e di assessori e burocrati a lui d’intorno. Un accidente estemporaneo? Un evento unico, la classica "rara avis", come si dice, nel cielo della politica progressista? No purtroppo. Ne abbiamo dovute ingoiare tante, di queste delusioni. E non sono sempre docce fredde. A volte sono percezioni che ti conquistano lentamente, che iniettano nel tuo sistema di convinzioni quel piccolo dubbio che provi a tenere fuori dalla porta più che puoi ma che cresce fino a diventare maledetta certezza nell’arco di un anno o più anni.

Che dire, ad esempio, della Calabria? Di quella famosa inchiesta televisiva andata in onda una domenica sera su Rai3 sulla politica calabrese? Un’inchiesta al termine della quale ti mettevi le mani nei capelli per aver gioito della vittoria di quei rappresentanti del popolo che teorizzavano, anche dall’estrema sinistra, quanto fosse giusto assumere i propri parenti alla Regione? La Calabria, appunto. La terra in cui un consigliere regionale come Fortugno può essere ucciso per liberare il suo seggio e regalarlo al primo degli esclusi, traghettato fresco fresco nel centrosinistra dal centrodestra per ciucciarsi il suo prezioso (e un po’ sospetto...) pacchetto di voti. Che dire della Campania, dove assistiamo allibiti agli effetti di una gestione dei rifiuti della quale (camorra o meno) una cosa sola capiamo, e cioè che se l’avessero realizzata i nostri avversari, e non personaggi che abbiamo imparato in altri contesti ad apprezzare, ce li sbraneremmo vivi? O che dire del potere politico in Basilicata, la nostra "Umbria del sud", roccaforte dell’ex Ulivo, finito dentro fino al collo nelle inchieste giudiziarie, anticipando di poco, in questi poco onorevoli fasti, il capoluogo di regione dell’Umbria "vera"? Né solo del sud o del centro si tratta. Perché anche Genova, sì, la città della Resistenza, della rivolta contro Tambroni, della classe operaia che non si piega, anche Genova è finita nel tritacarne degli avvisi di garanzia. La sua giunta, il suo consiglio comunale; e la sua istituzione storica, il Porto. Ha scelto di reagire con il suo combattivo sindaco Marta Vincenzi, lancia anzi da oggi la sfida di "Genova città dei diritti", capitale dei diritti umani e civili, dando l’avvio a un fitto ciclo di eventi. Ma è chiamata a vincerla, questa sua sfida in nome del diritto, prima di tutto dentro di sé.

C’è qualcosa che non quadra nel corredo culturale del centrosinistra. Il quale in alcuni luoghi finisce nei guai per mancanza di alternanza -così si dice-, perché a furia di governare sempre gli stessi non c’è più ricambio, si producono le incrostazioni di potere e ci si fa più spregiudicati, ci si sente più impuniti. Ma finisce nei guai, in altri luoghi, per il motivo opposto: ossia per realizzare l’alternanza, per prendere un po’ di voti, quali che siano, pur di vincere e non stare più all’opposizione. Certo, si può agire sulle regole. Si possono pulire e moralizzare i tesseramenti, causa frequente di incetta illegale di fondi, e in tal senso è una buona notizia che Veltroni abbia deciso di portare il Pd sulla strada del rigore e della trasparenza proprio delle tessere. Certo, si possono separare meglio politica e burocrazia. Si possono regolamentare diversamente gli appalti. Ma alla fine, come sappiamo per lunga esperienza, l’inganno per la legge si trova sempre. Perché il problema è culturale. Di testa. Simile a quello del ragazzino dei quartieri degradati che decide di spacciare perché così guadagna di più e più in fretta. La rivoluzione culturale del centrosinistra, a dispetto delle sue illusioni e delle sue tante buone amministrazioni, passa anche per la questione morale. In fondo ci siamo dimenticati molto in fretta che Totò Cuffaro, prima di governare la Sicilia per il centrodestra, l’aveva governata con il centrosinistra...

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Pubblicato il: 16.07.08
Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 15, 2008, 11:22:39 pm »

C’è un’Italia che rinasce

Nando Dalla Chiesa


Su la testa, in alto i cuori. È in arrivo una nuova primavera. Certo, il panorama sembra più fosco che mai. Un governo che farebbe un bel fagotto della Costituzione. Che sta già facendo polpette della giustizia. Una xenofobia diffusa, altro che italiani brava gente. Un’informazione sempre più inginocchiata. Un governo a luci rosse ma che fa dare una mano di vernice sui seni del Tiepolo. La profezia di Pasolini su scuola e tivù che si avvera. L’incultura che si fa istituzione. La sinistra a pezzi. Eccetera. Eppure l’orizzonte non è affatto catastrofico. Anzi, sostengo che in giro si sente un bel profumo di primavera. Che mentre siamo costretti a berci fino in fondo uno dei più amari calici della storia recente qualcosa di segno opposto si sta facendo largo nella nostra vita quotidiana. Qualcosa che non sta nelle stanze della politica e del Palazzo. Ma viene prima della politica e la prepara.

Eccone alcuni, di questi segni. Il cinema, anzitutto. La nuova stagione del cinema italiano. Cinema civile, impegnato. Le cui grandi stagioni hanno sempre accompagnato e preceduto le fasi della speranza. Dalla ricostruzione postbellica agli anni del primo centrosinistra, per arrivare al "Portaborse", che diede voce alla rivolta civile dei primi anni novanta. Si impongono registi e attori capaci di parlare insieme il linguaggio del cinema, del teatro e della tivù. Poi c’è l’esplosione di festival e rassegne culturali. Promossi da assessorati di grandi e piccoli comuni, da associazioni, da biblioteche. Sui temi più vari. In collaborazione con intellettuali nazionali e locali. Festival belli, intelligenti, spesso originali, sempre pieni di pubblico. Non c’è quasi più l’Italia delle sagre di paese e che puntava a riempire le piazze estive con la cantante di grido. C’è una capacità progettuale e inventiva diffusa e assolutamente inedita proprio nel paese che molti di noi ritengono culturalmente inabissato. E se i giornali non informano, si sta ormai strutturando una rete informativa e di opinione libera e incontrollabile, alla quale si rivolge una parte crescente di opinione pubblica. Minoritaria, è vero; ma come lo è, in fondo, quella che legge i giornali senza limitarsi ai titoli, allo sport e ai necrologi. Si parla solo del clamoroso caso del blog di Beppe Grillo. Ma in effetti si è formato un tessuto di siti e di blog che sono in grado, da soli, di promuovere manifestazioni a una velocità superiore a quella di un grande partito. Una vivacità comunicativa straordinaria. Buona non solo per pedofili o bulli scolastici, come sembrerebbe dalle cronache, ma occasione di crescita civile e politica del paese. Anche la cultura della legalità non se la passa affatto male. Lo scorso marzo a Bari, per la giornata della memoria e dell’impegno di Libera, sono arrivate centomila persone da tutta Italia. Attenzione: centomila non "contro Bush" o "contro Berlusconi". O per difendere propri interessi economici. E neppure per l’emozione suscitata da un grande delitto. Mai successo prima.

Ancora? Provate ad arrivare in una città, in un paese. I vostri ospiti vi diranno subito sconsolati che "qui non c’è nessuno". Per spiegare che non ci sono risorse intellettuali, di impegno, in grado di dare speranza alla collettività. Tempo un giorno e avrete già conosciuto qualcuno di valore, che fa cose interessanti e importanti senza che la comunità circostante se ne accorga. E poi ne conoscerete un altro e un’altra ancora. E vi rivolgerete ai vostri primi ospiti per chieder loro conto della loro disillusione. Il fatto è che mentre la cronaca nera o giudiziaria o politica spennellano di nero il nostro cielo, una miriade di protagonisti della vita civile fa, progetta cose nuove, talora geniali, anche supplendo alle tragiche assenze o manchevolezze delle istituzioni. Nell’impresa, nella ricerca, nel volontariato, nella cultura, nella pubblica amministrazione. Il paese sta riscoprendo la scrittura. Il lungo ciclo del declino ha avuto origine, a pensarci, con l’eclisse della scrittura e con il simmetrico trionfo della società della voce e dell’immagine. Ma è la scrittura che, come ci insegnavano i nostri maestri elementari, ci obbliga a dare ordine ai nostri pensieri, a uscire (per quanto ne siamo capaci, ovviamente) dalla superficialità. Oggi stiamo ancora pagando l’immenso prezzo di quell’eclisse, ma grazie a internet la scrittura, la comunicazione scritta, perfino forbita e non banale (in quanto sottoposta a un pubblico vaglio), sta tornando a essere modo di esprimersi primario. Ne vedremo gli effetti benefici tra qualche anno.

Il paese però, direi soprattutto, sta riscoprendo le nascite. Non so che diranno le statistiche prossime venture, ma erano anni che non si vedevano tante donne incinte, tanti bambini. E non solo tra gli immigrati. Se ne vedono ovunque. Per le strade, sugli aerei, nei treni, nei ristoranti. Una volta, specie al nord, donne incinte e bambini erano specie rare. Ora non più. Il declino demografico è sempre anticipatore e sintomo di un inaridimento culturale. Mentre le nascite sono un segno di fiducia nel futuro, di un amore che contrasta il rancore sociale diffuso; quello -per intendersi- del dito medio alzato e delle impronte ai bambini.

Lo so bene. A chi mangia pane e politica, o a chi tutto misura in base a ciò che avviene nel mondo della politica, questi sembreranno segni irrilevanti e sommamente eterogenei. Eppure sono sempre di questa natura i segni che precedono i cambiamenti. Sia nelle democrazie sia sotto le dittature. Poteva mai immaginare la generazione del ’68, ascoltando l’Equipe o i Nomadi nel ’66, che due anni dopo sarebbe esploso qualcosa di grandioso che nasceva o si esprimeva anche attraverso i nuovi gusti musicali? Si poteva immaginare che il teatro di Havel o la musica rock dei paesi dell’est potessero preparare (dentro contesti internazionali anche loro inimmaginabili) il crollo indolore dei regimi di Praga o di Berlino est?

Conosco a questo punto l’ulteriore obiezione. Sarà anche come dici tu. Ma come si può, come possiamo noi tradurre tutto questo in qualità politica, visto lo stato in cui è ridotto il centrosinistra? Non lo vedi che deserto abbiamo intorno? E infatti. La città del centrosinistra è stata bombardata, dall’esterno e dal’interno. E sulle macerie regna il museo delle cere, tali non per anagrafe ma per anemia morale e culturale. Eppure sono proprio le città bombardate che si possono ricostruire. Quelle in piedi si possono solo ritoccare. A meno di realizzare imperiosi allargamenti, annettendo nuovi territori. Ma non è il caso del centrosinistra. Ora la città può essere rifatta. Lo spirito democratico c’è, aleggia. L’importante è che quando si manifesterà più compiutamente non trovi in attesa di interpretarlo (e di soffocarlo) il museo delle cere. Che non gli succeda cioè, per tornare all’esempio già citato, quel che toccò in sorte allo spirito della contestazione giovanile sessantottina, su cui saltarono le culture degli anni trenta e quaranta fino a stremarlo. O di trovare in attesa solo il populismo protestatario, come accadde in gran parte alla rivolta di Mani pulite.

La situazione è chiara. Elettoralmente il centrosinistra non è affatto devastato. Politicamente sì. E accertato che purtroppo è andata così, bisogna trarne ogni vantaggio. Perché infine il dilemma è se vogliamo costernarci e crogiolarci nella descrizione di un paese ignobile e che "non ci merita" o vogliamo riconoscere l’emergere sotto i rigori dell’inverno di un nuovo rinascimento e mettercene alla testa. Come diceva Seneca, nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

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Modificato il: 15.08.08 alle ore 8.09   
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 03, 2008, 06:18:24 pm »

Breve viaggio nell’inciviltà

Nando Dalla Chiesa


Il primo a salire sull’aliscafo fu un aitante signore a torso nudo. Un largo cappello chiaro in testa e il passo del dominatore. Centinaia di turisti di ritorno da Stromboli verso Napoli si accalcavano intorno al piccolo ponte levatoio. Ognuno con il proprio bagaglio a rimorchio. Tranne un gruppo di turisti che aveva lasciato sul pontile le sue valigie e i suoi zaini. Enormi, numerosissimi.

Ammassati e poi consegnati diligentemente da un ragazzo ai proprietari quando già erano sul ponte levatoio, così che potessero insinuarsi nella coda con più agio.

Entrai anch’io facendo la fila con il mio bagaglio insieme a mia moglie, anche lei con il suo seguito di valigia e sacchetti. Andammo verso la parte anteriore dell’aliscafo, che appariva praticamente deserta. C’erano solo il signore aitante, che nel frattempo si era messo una camicia, e pochissimi altri viaggiatori. Scoprimmo però che quasi tutte le poltrone erano “presidiate” da borsette e oggettini d’ogni sorta. Cercammo dunque di sederci sulle poltrone vuote, ma il signore, aitante più che mai, gridava che erano tutte occupate. Io contestavo che non c’era nessuno. Lui mi guardò di traverso e mi sibilò, dando a intendere di avermi riconosciuto: «Proprio lei che è un democratico». Lì per lì non capii che diavolo c’entrasse l’essere democratici con il reclamare un posto a sedere. Lo spettacolo era incredibile: quasi un quarto dell’aliscafo era stato requisito dal signore in questione. A questo punto protestai che non poteva farlo. Lui mi ripeté: «Lei che è un democratico», stavolta dicendo la parola “democratico” come Berlusconi dice “comunista”. E io risposi che proprio perché ero un democratico non potevo accettare una prepotenza del genere. Lui allora proclamò con tono offeso che erano posti tenuti per i bambini. Gli chiesi come fosse possibile: il gruppo di bambini che avevo visto sul pontile non superava le dieci unità. “Bambini” giurò, mentre i passeggeri neutrali iniziavano a parteggiare per la mia causa. Poi arrivò il gruppone dei suoi amici. I bambini erano cinque. C’era anche il ragazzo che aveva passato i bagagli sul ponte levatoio, che risultò essere suo figlio, e che evidentemente era stato applicato da lui a quell’ingegnoso compito. Constatata la bufala dei bambini, mi presi due posti di forza accanto a uno dei suoi amici, visibilmente imbarazzato per la sceneggiata cui il capo comitiva aveva costretto la compagnia.

Ma sull’aliscafo costui non era stato l’unico. Pur sapendo che i posti erano tutti, ma proprio tutti occupati, come accade a fine agosto al rientro dalle isole, decine di viaggiatori tenevano sulla poltrona accanto alla loro ogni tipo di oggetto. Per stare più comodi o per avere il bagaglio pronto all’arrivo. Si aprì così l’infuocata disputa tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo. Con la richiesta al comandante di intervenire a garantire i diritti dei passeggeri. Finalmente a quel punto, grazie alle direttive impartite imperiosamente via altoparlante, l’ordine fu stabilito.

Qualcuno potrà pensare, magari traendo qualche conclusione dal torso nudo, che il signore aitante e i suoi compagni di viaggio fossero degli arrembanti turisti con tegami di pastasciutta al seguito e il rifiuto facile sul pavimento. Niente di tutto questo, ed è qui il guaio. Lui era un imprenditore bresciano con master alla Bocconi. Tutti avevano un libro in mano (la persona vicina a me era di grande e piacevole cultura) ed erano vestiti con qualche pregio. Gente da cui non ti aspetteresti mai che non abbia interiorizzato in mezzo secolo e passa il principio della fila e della occupazione del proprio posto, che non provi vergogna a raccontare plateali panzane e che non si senta in grado di fare un viaggio di qualche ora a distanza di pochi metri dal proprio amico o parente. Gente da cui non ti aspetteresti insomma che non conosca le regole civili.

E infatti le regole le conosceva. E pure bene. Tanto che quando vi un cenno di arrembaggio ai bagagli in vista del golfo di Napoli, fu proprio lui, il signore aitante, che - essendo seduto davanti a un immenso deposito di bagagli e temendo l’assalto alla sua parte di aliscafo - incominciò a tenere appassionate concioni sull’importanza delle regole, sulla loro utilità per vivere tutti più ordinatamente, discutendo animatamente con più di una signora e di un giovane. Qualcuno del personale di bordo disse: «Evabbe’, fate come volete». Di nuovo si ebbe un confronto tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo, anche se le due parti avevano un po’ cambiato i loro confini. E di nuovo, su sollecitazione della parte civile dei passeggeri, il comandante fissò le regole per lo sbarco delle tonnellate di bagagli.

Seppi infine, con mia sorpresa e amarezza, che l’imprenditore bresciano era figlio di un imprenditore ucciso molto tempo fa dalla mafia e di cui serbavo memoria chiarissima. Mi resi conto che era saltata anche una regola non scritta, come lo sono tutte le vere regole. L’ho sempre vista praticare tra i familiari delle vittime della mafia: ed è quella del reciproco riconoscimento e rispetto, oserei dire affetto, che scatta verso chi ha subito la stessa tragedia. Per la prima volta avevo visto quel legame di solidarietà infranto.

L’imprenditore mi aveva riconosciuto; ma aveva anteposto a quel rapporto di rispetto il suo fastidio per il mio essere “democratico” e l’interesse più piccolo e minuto, quello a sedersi tutti insieme, della sua comitiva, del suo moderno clan.

Ecco come attraverso gli episodi minimi si può rappresentare l’Italia, la qualità dei suoi problemi veri, profondi. La sua incapacità di superare la storica distanza (quanto ci si arrovellò Sylos Labini...) tra sviluppo economico e sviluppo civile, la doppiezza delle regole (valgono per me ma non valgono per te), l’incertezza del diritto, la rottura dei principi più sacri di solidarietà, la latitanza delle istituzioni, che invece di muoversi autonomamente si muovono solo su pressione dei cittadini e dell’opinione pubblica.

Cose grandi, che dovrebbero impegnare un grande partito. I Paesi crescono con le infrastrutture materiali.

Ma hanno anche e soprattutto bisogno delle infrastrutture immateriali: il senso delle regole, il riconoscimento di diritti e doveri, la fiducia e la solidarietà, l’autorità responsabile, la cultura civile. Il guaio è che a usare in massa i cellulari ci si mettono due anni, a imparare a fare la coda ci vogliono decenni. E sono questi che fanno la differenza.

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Modificato il: 03.09.08 alle ore 13.02   
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 11, 2008, 05:46:58 pm »

Ai giovani la discoteca dei boss

Nando Dalla Chiesa


Ballavano coi lupi, i giovani rampolli della Bari bene. La discoteca in cui si davano convegno, la Momart di Adelfia, era decisamente border line. Ci si commerciava in droga. Anzi, secondo gli investigatori proprio da lì, dai traffici di droga, era nata. Riciclaggio di denaro sporco, insomma. Quello del clan dei Palermiti, ultima generazione. Il patriarca, razza ruspante, era conosciuto in Puglia per sfidare i pitbull in recinti da combattimento. Da vero uomo, a mani rigorosamente nude. Oggi la discoteca sarà consegnata con tanto di cerimonia ufficiale alla compagnia del teatro Kismet, da anni impegnato a Bari contro la mafia. Sarà insomma restituita ai giovani, forse non esattamente agli stessi giovani, a circa un anno dal sequestro operato dalla procura barese, mandando in pensione l’idea (un po’ interessata) che per convertire a uso sociale i beni confiscati alle mafie debbano per forza trascorrere tempi biblici.

È una grande notizia. Ma non sono poche le novità che arrivano dall’universo della lotta alle cosche e dei beni confiscati. Domenica scorsa, ad esempio, sempre per restare in Puglia, è stata inaugurata una bottega dei sapori della legalità in provincia di Brindisi. Non in un comune qualsiasi. Ma a Mesagne. Per molti lettori questo sarà forse un nome sconosciuto. Invece Mesagne solo pochi anni fa era considerato il cuore pulsante della Sacra Corona Unita, roccaforte del clan dei Rogoli. Ci ero andato alla fine dello scorso decennio in viaggio di studio e osservazione nella mia veste di parlamentare. Perché di quel comune si parlava come della futura Corleone, della futura Casal di Principe; luogo di incontro, com’era, tra gli astri della nuova mafia pugliese e la malavita in arrivo dall’Albania. E si sciupavano i pronostici sulla scalata che la mafia pugliese avrebbe dato, da lì, ai vertici della criminalità nazionale. Non è andata così. E si è dimostrato che nulla è già scritto. La Puglia ha reagito, si è sentita addosso un corpo estraneo e ha iniziato a scalciarlo. Si sono mossi - e bene - i magistrati, nonostante sia piovuto anche addosso a loro l’effetto indulto (di nuovo complimenti al legislatore...). Gli investigatori e le forze dell’ordine hanno fatto il loro dovere e spesso lo hanno fatto anche gli amministratori locali. C’è stato perfino un coordinamento degli insegnanti contro la mafia, in provincia di Brindisi, guidato da un professore di filosofia, che ha fatto incontrare gli studenti della provincia con tutta la cultura antimafiosa nazionale, da Carlo Smuraglia a Gherardo Colombo a Pino Arlacchi. Un professore che oggi mostra con santa soddisfazione il libro in cui ha riunito quegli interventi; e che lamenta semmai che qualcuno nel tempo si sia sfilato, come quell’ex parlamentare locale che, richiesto di partecipare a un convegno e ormai dedito ad affari e consulenze, lo ha schernito chiedendogli: «E tu ancora all’antimafia stai?». Sì, qualcuno ancora all’antimafia sta. E per fortuna. Perché sta succedendo qualcosa che l’opinione pubblica italiana merita di sapere, visto che non c’è sempre e solo il trionfo degli interessi criminali. Anzi. Domenica chi fosse stato a Mesagne avrebbe visto questa bella bottega, dove si venderanno i prodotti ottenuti dai beni confiscati (vino, taralli, pomodori e molto altro ancora). Avrebbe visto tutte le autorità insieme, regione, provincia e comune e prefettura e carabinieri, riunite intorno al parroco, che con visibile coinvolgimento benediceva quel luogo che solo pochi anni fa sarebbe sembrato sovversivo. E avrebbe visto un pezzo di popolo, di ogni ceto sociale e di ogni età, riempire in festa i locali come una volta si occupavano in festa le terre incolte. Avrebbe visto, perfino, i giovani giapponesi e americani venuti a lavorare qui, sulle terre confiscate, grazie ai campi internazionali organizzati da Legambiente.

Guai a non capirlo. Siamo martellati dal pessimismo sia degli scettici di professione sia di alcuni protagonisti di punta della stessa lotta alla mafia, amareggiati dalle lentezze o accidie o complicità governative. A nulla - si dice - servirebbero le manifestazioni, perché a volte ci vanno gli stessi amici dei mafiosi (e allora stiamo a casa). A nulla servirebbe l’ergastolo (chiedere il parere agli interessati). A nulla le fiction televisive (benissimo, teniamoci il Padrino). A nulla nemmeno le catture dei latitanti perché vengono subito sostituiti da boss più giovani e moderni (ottimo, aboliamo le squadre Catturandi). E invece le vittorie ci sono. Anzi, spesso proprio lo squilibrio degli spazi ottenuti nell’informazione dal “bene” e dal “male” aiuta quest’ultimo a sentirsi il vento in poppa. Chi lavora sui beni confiscati lo sa con tale certezza che ormai non fa nemmeno più comunicati (denunce sì, ma non comunicati) quando subisce un piccolo o medio atto di vandalismo. Altre sono le cifre e le immagini che egli vuole che giungano all’opinione pubblica. Perché ognuna di esse è punto d’arrivo di fatiche, di sfide, di rischi, anche. Che passano talora attraverso momenti da epopea. Foto storiche. Come quello della prima semina che si tenne anni fa a Mesagne. Una grande manifestazione di impegno, un indimenticabile “ci siamo anche noi” che non lasciasse soli i ragazzi della cooperativa che s’erano assunti l’onere di coltivare i terreni. Provate a immaginare bambini e ragazzini delle scuole, contadini di mestiere, insegnanti, amministratori e magistrati che vanno su e giù gettando i primi semi nelle zolle. E poi provate a immaginare centinaia di giovani che ogni anno vengono dal nord a dare una mano gratuitamente, specie nella fase del raccolto o della vendemmia. Non è un fenomeno solo pugliese, perché (quanto oro non luccica…) sono circa duemila, ad esempio, i giovani volontari che ogni anno si muovono dalla sola Toscana per andare ad aiutare i loro coetanei coraggiosi nelle cooperative siciliane. Così, anche così cresce l’antimafia, nel paese in cui spesso ci piace di vedere la mafia onnipotente e “più forte di prima”. Così, grazie a questo volontariato silenzioso, è stato possibile per la cooperativa di Mesagne annunciare, domenica scorsa, il “grande balzo” nella produzione di bottiglie di vino. Dalle 13mila dello scorso anno, il primo, alle 70 o 80mila di quest’anno, metà rosato pugliese metà negroamaro. Bottiglie che entreranno in commercio come le altre, e che i consumatori italiani (almeno quelli sensibili ai nostri problemi civili quanto le studentesse giapponesi di domenica…) vorranno comprare. Perché anche così, da semplici cittadini, senza nulla rischiare, si può fare qualcosa contro la mafia. Per dare forza e senso allo slogan che campeggiava a Mesagne: «la mafia esiste, ma anche l’Italia». www.nandodallachiesa.it

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Modificato il: 11.09.08 alle ore 11.13   
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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 03, 2008, 05:55:57 pm »

Gomorra a Milano

Nando Dalla Chiesa


«Mafia a misura Duomo». Con questo titolo in copertina, vent’anni fa, il mensile Società civile lanciava l’allarme sulla presenza della mafia a Milano. Il sindaco di allora, Paolo Pillitteri, smentì recisamente che in città esistesse un pericolo di infiltrazione o addirittura di presenza delle cosche. Gli andò dietro con garbo la procura generale. Che, ancora nel ’92, dichiarò all’inaugurazione dell’anno giudiziario che non c’era prova processuale della presenza mafiosa a Milano, dal momento che non vi erano ancora state irrogate condanne passate in giudicato. Poi, in pochi anni, la pietosa (e complice) bugia fu travolta dai fatti.

Migliaia di arresti, indagini su Cosa nostra e, soprattutto, sulla ‘Ndrangheta. Maxiprocessi a raffica e condanne altrettanto a raffica. Fino alle operazioni degli ultimi mesi, che hanno toccato l’Ortomercato e l’hinterland meridionale, a partire dal comune di Buccinasco.

Eppure, appena si gratta sotto la superficie delle frasi di circostanza, Milano appare ancora resistente a confessare la sua malattia. Proprio come vent’anni fa. Vive lo stesso, identico riflesso condizionato di tante città e amministrazioni del sud. L’idea che a dichiarare l’esistenza del problema si infanghi il buon nome della città e dei cittadini, gente onesta - sempre così si grida tra gli applausi - abituata a lavorare. Si facciano correre rischi incalcolabili all’economia, agli affari e all’immagine internazionale. Perciò nelle ultime settimane incontra tante resistenze la proposta, presentata in consiglio comunale dal partito democratico, di dar vita a una commissione antimafia che analizzi con logiche autonome da quelle giudiziarie la situazione cittadina, sulla quale (fra l’altro) grava la minaccia di una nuova offensiva degli interessi criminali in vista dei giganteschi finanziamenti dell’Expo 2015. Una commissione per capire, per misurare, per decidere strategie politiche e amministrative. Le obiezioni si accavallano. La situazione non è così grave, non siamo in Sicilia o in Calabria. La mafia c’è, ma ci pensino la magistratura e le forze dell’ordine. Sarebbe uno spreco di fatica e di soldi, una commissione così non servirebbe a niente. Sarebbe una nuova occasione per strumentalizzazioni politiche.

E invece sulla gravità non dovrebbero esserci dubbi. La Lombardia è la quarta regione di mafia d’Italia, la quarta anche per beni confiscati alle organizzazioni mafiose. L’ospitalità della capitale e della sua area metropolitana verso i clan è ormai storia conclamata. Da Joe Adonis che vi aveva messo radici a Luciano Liggio che vi venne catturato latitante. Dalle presenze cresciute sull’onda del vecchio confino a quelle che non hanno avuto alcun bisogno del confino ma sono arrivate a vele spiegate sull’onda dei soldi da riciclare. Basta leggere gli atti della commissione parlamentare antimafia, non solo l’ultima ma anche quella del 2001-2006 guidata dal centrodestra, per rendersi conto di quanto penetrante, insistita e avvolgente sia la carica lanciata dalla ‘Ndrangheta nei confronti della capitale economica e finanziaria del Paese. È una situazione che richiede una mobilitazione immediata, in città e in provincia, dalla quale i consigli comunali non possono chiamarsi fuori. Qualche week end fa la città di Desio è stata testimone silenziosa di una tipica, perfetta scena da Gomorra. Decine e decine di camion dei clan sono andati avanti e indietro per le sue strade rovesciando montagne di sostanze tossiche su terreni privati, di proprietari consenzienti e (forse) intimiditi. Committenti dello scempio, altro che colpa del confino!, imprenditori lombardi, in gran parte bergamaschi. L’altra sera a Telelombardia il sindaco di Buccinasco ha ammesso candidamente di avere ricevuto nel suo ufficio il boss di una nota famiglia calabrese in carcere da luglio. E alle obiezioni del sottoscritto hanno fatto da contrappunto le telefonate di protesta in trasmissione delle sorelle del boss medesimo. In silenzio Milano e il suo hinterland stanno costruendo una propria nuova “normalità”.

La gravità c’è tutta, dunque. E non sarebbe nemmeno una commissione inutile. Vi è infatti il precedente della commissione presieduta da Carlo Smuraglia. Che venne istituita agli inizi degli anni novanta proprio in seguito alle prime polemiche. Essa includeva oltre a consiglieri comunali anche esperti esterni (utilissimi per evitare logiche di “scambio politico”). Benché non avesse poteri speciali, con la sola audizione dei testimoni, quella commissione consentì di capire e intuire quel che ancora l’attività giudiziaria non aveva stabilito con certezza processuale. La stessa, successiva commissione d’inchiesta sulla corruzione nel commercio, presieduta da chi scrive, pur avendo ambiti e compiti di osservazione specifici e differenti, aprì squarci inaspettati e talora eclatanti sulla presenza mafiosa.

Il problema allora mi sembra un altro. Ed è il timore non dichiarato di Milano di farsi mettere addosso la lente d’ingrandimento. Non solo per non mandare in frantumi l’ideologia della pura razza padana; per non rovinare la fiaba della Lombardia inquinata dai mafiosi meridionali estranei al tessuto locale e spuntati come funghi grazie al confino deciso dallo Stato centralista che “ci ha mandato qui i mafiosi”. Ma perché la presenza della mafia a Milano ha sempre toccato nervi delicati del potere. Occorre forse ricordare Michele Sindona e le sue banche al servizio della mafia e l’omicidio, a Milano, dell’eroe borghese Giorgio Ambrosoli che difendeva i piccoli risparmiatori truffati dal “salvatore della lira”? Occorre ricordare Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano e di nuovo il riciclaggio del denaro della droga?

È lunga la serie delle prove e dei sintomi delle relazioni pericolose, pericolosissime. Le denunce del giudice Franco Di Maggio sulla mafia che a Milano investe nelle cliniche. Il leoncino regalato dal boss Epaminonda (su cui il giudice Di Maggio indagò) a Bettino Craxi. I viaggi milanesi degli uomini della Cupola alla ricerca di nuovi settori, quelli delle nascenti televisioni private, in cui investire. La facilità con cui l’emissario dei corleonesi riusciva a mettersi in contatto (gli bastava un solo intermediario) con qualche assessore agli inizi degli anni Novanta. E il boss assassino Vittorio Mangano insediato nella villa di colui che avrebbe guidato più governi della Repubblica. E Marcello Dell’Utri eletto trionfalmente nel centro di Milano mentre accumulava un curriculum giudiziario che lo avrebbe portato a una condanna in primo grado per i suoi rapporti con Cosa nostra.

La città preferisce non vedere. Sembra posseduta dal timore di non sapere esattamente che cosa si potrebbe trovare nelle sue viscere se ci si incominciasse a guardare senza aspettare la magistratura. Quasi che la maggioranza politica, anche nelle sue componenti mai colluse o sospettate, temesse per sesto senso di doversi trovare a maneggiare materia infiammabile senza sapere bene come dominarla. Fu d’altronde per questa ragione, credo, se ai tempi del governo più lombardo della storia d’Italia, dal 2001 al 2006, la commissione parlamentare che pure andò in Veneto e Piemonte ed Emilia evitò di andare a Milano, dove tutte le tracce inducevano ad andare.

Eppure un consiglio comunale ha un dovere verso i cittadini, verso tutti i cittadini. Difenderli. Difenderne il tenore della vita civile ed economica, la qualità della convivenza sociale. Senza strumentalizzazioni, certo. Ma anche senza voltarsi dall’altra parte. Si viene eletti anche per questo. L’Expo con i suoi soldi si avvicina. Letizia Moratti si è detta non contraria alla commissione. Altri nel centrodestra non lo sono. Perché non mettere al primo posto l’interesse della città?

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Pubblicato il: 03.10.08
Modificato il: 03.10.08 alle ore 8.27   
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:14:03 pm »

Il giardino di Ombre Rosse

Nando Dalla Chiesa


Si chiama «Ombre rosse» e sta in una stradina del centro storico di Genova. Una trattoria piccola, con qualche coperto supplementare sul giardinetto di fronte, dall’altra parte del vicolo. Ci sono arrivato per caso, chiedendo se c’era posto e domandandomi che rapporto potessero mai avere i proprietari con lo storico filmone di John Wayne. Mi ha accolto una signora all’incirca della mia età. Che mi ha riconosciuto e mi ha sorriso con dolcezza misteriosa. Per poi accompagnarmi con premura a un tavolino nel giardinetto, dandomi del tu. Torno subito, ha detto. Il tempo, per me, di leggere su un muro un avviso di questo tenore, scritto con ogni evidenza da lei o da un suo collaboratore: «Questi giardini sono pubblici, quindi la consumazione non è obbligatoria». Un miracolo, ho pensato, nell’Italia delle appropriazioni abusive di suolo pubblico, nella Liguria dove ogni metro di spiaggia è recintato. Mi sono incuriosito ancora di più. Finché la signora si è riavvicinata e durante le ordinazioni mi ha detto: «Ho conosciuto tuo padre». Me lo dicono in tanti, e dunque quasi automaticamente ho chiesto come mai e dove. «Mi ha arrestato», mi ha risposto lei. Mi hanno arrestato i suoi carabinieri, con l’accusa di stare con i terroristi, di essere una di loro. Poi sono stata scagionata. Ne ho un ricordo bello, ha aggiunto. Devo avere avuto uno o più moti di stupore, mentre andavo realizzando che quell’insegna «Ombre rosse» non aveva probabilmente nulla a che fare con i western. Sì, ha aggiunto. Lo ricordo così, tuo padre, perché si capiva che ci credeva davvero nel suo Stato. Perché ci accorgemmo che era un personaggio di qualità, di un altro livello. E perché ci rispettò. Ci rispettò... mi sono ridetto mentalmente, quasi stordito. Ma perché, quando l’avete visto?, ho chiesto. Ci volle vedere lui. Ma in quale occasione fu, all’epoca di via Fracchia?, ho insistito rendendomi subito conto della banalità, visto che via Fracchia fu solo un’irruzione con sparatoria. No, fu in una retata di universitari, mi ha risposto lei. Quella con Fenzi?, ho azzardato, ricordando bene il ruolo del professore genovese nelle bierre cittadine e le polemiche su una sua assoluzione, che avevano tirato fuori a mio padre l’accusa contro «l’ingiustizia che li assolve». Sì, mi ha risposto lei, proprio quella. Aggiungendo con un sorriso: io sono la moglie di Fenzi. Ho finto indifferenza, mentre gli occhi mi cadevano su un altro piccolo cartello che dall’alto sembrava ammonire e confortare con delicatezza gli avventori: «Questo è un luogo di conversazione e di buone maniere».

Ci trattava con rispetto, ha ripreso lei, Isabella si chiama. Sembrava che lui capisse che eravamo dei nemici, ma dotati di ideali. È vero, ho pensato, lo diceva sempre di loro. Ma non ho potuto fare a meno di chiedermi anche che cosa sia successo in questo Paese se tanti anni fa un generale dei carabinieri trattava con rispetto quelli che volevano ucciderlo e oggi gente innocente, colpevole di nulla, può essere picchiata e umiliata se finisce nel posto o tra le divise sbagliate...

Mi sono trovato in imbarazzo, perché nasconderlo? La signora che mi accoglieva era gentile, colta, amichevole. E anche la figlia più giovane che aiutava ai tavoli era di rara educazione. Ma come dimenticare quanto terribile sia stata la striscia di lutti lasciata dal terrorismo? Ne ho conosciute di vittime. Sicché ho cercato di non dimenticare nulla man mano che il nostro colloquio andava avanti. Sai, le ho detto, io ho qualche imbarazzo a parlare con chi ha sostenuto il terrorismo. Non perché non capisca le persone che ho davanti, i loro diritti, i loro cambiamenti; ma per quelle mogli, quei figli, quei genitori. Io credo che non li dobbiamo mai dimenticare. Le ho raccontato così della mia amicizia con Mario Calabresi, di Galvaligi. Di mia madre morta di cuore sotto il terrorismo, di mia sorella Simona minacciata e in fuga da Torino. Vedi, le ho spiegato, non trovo giusto che la storia di quegli anni l’abbiano scritta e raccontata soprattutto i terroristi. Be’, ha osservato lei, ma avranno bene il diritto di parola. Certo, ho continuato, ma lo esercitano molto meglio delle vittime. La vedova di un appuntato sa raccontare a stento che cosa è successo a lei, che storia d’Italia può mai raccontare... C’è stato un dislivello di possibilità, o no? Lei ha ascoltato con rispetto. «Sì, è giusto pensarci, soprattutto dopo che mi hai ricordato queste cose», ha ammesso. Però, ha continuato, bisogna chiedersi perché migliaia di giovani hanno fatto questa scelta dopo tutte quelle stragi, dopo avere visto che il potere faceva uccidere gente inerme senza che nessuno pagasse mai.

Lì, esattamente lì, ho incominciato a capire di essere davanti a una persona diversa. Primo, si era commossa nel sentirsi ricordare i dolori altrui. Secondo, non aveva detto che la scelta della lotta armata l’aveva fatta, come sogliono dire i brigatisti e i loro cantori, «un’intera generazione». No, aveva detto onestamente «migliaia di giovani». Certo, ha proseguito, poi abbiamo capito che era una scelta sbagliata, che tuo padre era dalla parte giusta. Ecco, e qui per me è cambiato tutto. Non per il riferimento diretto a mio padre. Ma perché era spuntato il discrimine. Quante «notti della Repubblica», quante interviste, quanti libri, ci siamo visti e letti in questi decenni, in cui ex terroristi spiegavano che il loro errore era di non avere capito bene la fase politica, di avere erroneamente immaginato di avere dietro la classe operaia, senza che mai venissero pronunciate chiare parole di dolore per le vittime o sulle ragioni alte e insuperabili della democrazia?

Tuo padre era dalla parte giusta, aveva ragione lui. Detto proprio da chi un minuto prima mi aveva ricordato le stragi di Stato impunite. In quell’attimo ho pensato che questo è l’unico modo di chiudere gli anni di piombo. Sul serio, in profondità. Il dolore per chi è caduto, il riconoscimento delle ragioni dello Stato, senza per questo dimenticarne le brutture più ignobili. Ho scoperto in questa scelta di campo una dignità superiore. Senza chiasso. Quella di un lavoro silenzioso e orgoglioso, nessuna predica, la voglia di partecipare alla costruzione del bene collettivo. Quel giardinetto pubblico realizzato da lei, tirandolo fuori - come un coniglio dal cilindro - dai detriti e dai rifiuti. Verso la fine della serata è venuto a salutarmi il marito, Enrico Fenzi, il docente di lettere poi condannato a non ricordo quanti anni di carcere. Passato lì inusualmente a dare una mano, con il grembiule blu del locale addosso. Bianco di capelli, sorridente anche lui, con un ritegno assai marcato, un pudore gentile, dandomi del lei. Pochi minuti soltanto. Me ne sono andato pensando a quegli anni feroci, alla forza micidiale delle ideologie. A come potevano sposare la lotta armata anche persone così, che mettono al mondo figli dolci e impegnati nel volontariato. A com’era l’Italia quando degli arrestati per terrorismo sentivano il rispetto del loro nemico numero uno.

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Pubblicato il: 24.10.08
Modificato il: 24.10.08 alle ore 9.34   
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 18, 2008, 05:08:36 pm »

Se il Pd non parla al cuore

di Nando Dalla Chiesa


Giampaolo e Celeste, insegnanti casertani, sono gli ultimi che ho incontrato. Hanno appena organizzato a Como una tre giorni sui diritti umani. Centinaia di persone, molti giovani.Sono tutti e due di sinistra, ma non vogliono più lavorare con i partiti. Anzi, la prossima volta non votano. Di Pietro dice cose giuste, ma non è la nostra cultura. Come loro ne incontro tutti i giorni. Da Como ad Agrigento. L'Abruzzo è l'immagine fedele di questa Italia. Sfibrata, sfiduciata, disincantata. Stufa marcia dei partiti, che si è sentita presa in giro dal Pd e dai suoi slogan fasulli, che ha visto consegnare a Di Pietro la questione morale o della legalità, e si chiede con fastidio e con rassegnazione perché mai dovrebbe votare o addirittura militare per qualcuno.

La sinistra un giorno tutto cuore, e forse troppo ora si scopre scettica e senz'anima. Specchio, suo malgrado, di un partito  senz'anima, ultimo approdo di un centrosinistra in disarmo morale e culturale. L'idea che "non ne vale la pena" ha messo radici  solo apparentemente fulminee; in realtà viene dalle lacerazioni e dagli egoismi che hanno strozzato lentamente e per la seconda volta il governo Prodi, dall'imbroglio delle "primarie sempre", dalla nausea per il partito delle tessere e delle troppe clientele, all'irritazione per la gestione giuliva delle candidature, dal rigetto per un ectoplasma zeppo di prime donne senza seguito.

Giorgio Galli, il politologo inventore del "Bipartitismo imperfetto", l'aveva detto, cifre alla mano, subito dopo il voto delle politiche: non è Berlusconi che ha vinto, è la sinistra che ha perso voti nell'astensionismo. L'Abruzzo conferma e rilancia. Dà la misura di  un'esperienza politica, quella del Pd, incapace di parlare sia al cuore sia alla testa della maggioranza del popolo di centrosinistra. Che esiste. Ma è in cerca di autore.



17 dicembre 2008     

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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 09, 2009, 10:39:47 pm »

L'assalto alle nostre coscienze

di Nando Dalla Chiesa


Era nata come l’antipolitica. Come l’apologia dello "Stato minimo". Come una rivoluzione liberale di massa. Sta diventando la più poderosa invasione della politica che si potesse immaginare. Un’invasione senza confini, spinta da una volontà di potenza insaziabile. Il potere entra scalciando nelle nostre sfere affettive e mentali con la pretesa di piegare milioni di coscienze private alle proprie ragioni. Di abbattere ogni limite tra ciò che può essere oggetto di pubbliche decisioni e ciò che per la sua sacralità mai può esserlo. Ma la politica che questo pretende si chiama in un modo solo: totalitarismo.

Tecnicamente, non per iperbole polemica. L’hanno scritto "in velo di ignoranza" (come si dice) plotoni di scienziati politici. Ignari che le loro dottrine potessero un giorno applicarsi all’Italia. Ma l’hanno scritto. Ci hanno spiegato - e alla fine sono stati convincenti - che la dittatura di destra (Pinochet per esempio) reprime brutalmente l’opposizione politica, ma non ambisce a presidiare le coscienze, i gusti, gli anfratti della vita civile. Mentre il potere sovietico, quello sì, incombeva su ogni aspetto, anche il più intimo, della vita quotidiana, frugandoci senza rispetto. Per questo, pur essendo entrambe dittature, solo quella sovietica poteva in senso stretto definirsi totalitaria.

D’altronde, a conferma, Vaclav Havel, il grande presidente-intellettuale praghese, proprio lì fissava l’area della silenziosa e decisiva opposizione al regime: nella coscienza individuale, nella privatissima dimensione esistenziale. Lì il luogo da liberare, lì il luogo da cui comunicare. Ecco perché quando quest’area viene invasa si sente un annuncio di tirannia. Corredato dalle frasi da far ribollire il sangue che pronunciano i tiranni (il padre che deve "togliersi di mezzo una scomodità"…), dalla censura tipica delle tirannie (i tiggì vergognosi), dalle menzogne tipiche delle tirannie (Eluana che potrebbe generare!), dalla spinta a travolgere le Costituzioni tipica delle tirannie.

Spero che stavolta non ci si balocchi con i termini, facendo a gara ad ammorbidirli. Ma si abbia la responsabilità di vedere che cosa sta accadendo. Perché qualcosa di mostruoso accade. Il più pagano e immorale dei poteri si è sposato con il Vaticano; e insieme danno l’assalto al campo sacro delle nostre coscienze. Selettivamente. Poiché non si chiede ai medici di denunciare i latitanti in cura, ma gli si chiede di farlo con i dannati della terra. Non si tutela la vita nelle fabbriche e nei cantieri, ma lo si fa con l’accanimento terapeutico verso il povero totem di una ideologia fanatica. Sembra di sentirlo, l’annuncio: "verrà la politica e vorrà la tua anima"…
No, non l’avrà la nostra anima, la politica.
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09 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:40:55 pm »

Ma i terroristi non sono eroi romantici

di Nando Dalla Chiesa

Mi dichiaro d’accordo al cento per cento con B. H. Lévy. «I princìpi non ammettono eccezioni». Appunto. Se qualcuno uccide in Italia una o più persone sconta la sua pena secondo le procedure e le misure previste dalla legge italiana. Senza eccezioni. Anche se è amico o conta importanti protezioni o simpatie presso le élites intellettuali e politiche francesi. Anche se dopo avere assassinato in Italia è diventato scrittore di successo in Francia. Il problema non è, come insinua B.H.Lévy, se Battisti debba pagare perché brutto e cattivo; ma, al contrario, se non debba pagare perché fascinoso e di successo.

E se un paese striato di sangue dal terrorismo si debba sentire accusare di "isteria" da un intellettuale francese, sol perché chiede che un pluriassassino sconti le pene irrogate dai tribunali della Repubblica che lo hanno giudicato colpevole di una cospicua massa di reati.

Sia detto con la dovuta chiarezza. Il vero tema dell’intervento di Lévy non è la vicenda giudiziaria di Battisti, riproposta in un impasto di disinformatja a cui siamo purtroppo abituati. Sulle responsabilità penali hanno già risposto alcuni dei più credibili magistrati italiani, da Giancarlo Caselli ad Armando Spataro. E sulla questione della contumacia si è già espressa la Corte Europea dei diritti dell’uomo. Il tema è un altro. Ed è l’infinita leggerezza mista a presunzione con cui tanti intellettuali e politici francesi hanno guardato alla vicenda del terrorismo italiano. Che torna nell’accusa di volere fare di Battisti «il peggior criminale degli anni di piombo...il diavolo».

In Italia sono state condannate per terrorismo centinaia di persone. Sono state giudicate nei tribunali e non, come ricordò con orgoglio Sandro Pertini, negli stadi. Né pena di morte né torture "algerine". E un intero popolo contro, anche se in Francia può dispiacere.

Sa qualcosa Lévy del travaglio della sinistra, della classe operaia, degli studenti, delle paure e dei coraggi nello schierarsi contro? Possiamo sentirci accusare, nel nome di Battisti «pallida comparsa» di quegli anni, di volerci «sdebitare con poca spesa del lavoro di rimemorazione e di lutto»? E «pallida comparsa» per chi? Per le vittime forse? Le stesse a cui Levy vorrebbe spiegare, lui difensore di Battisti, che cosa «fa bene loro oggi».
Questa pretesa disumana aiuta a spiegare il riparo trovato in Francia da tanti romantici eroi secondo loro. Da tanti terroristi secondo noi.
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24 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 21, 2009, 06:09:33 pm »

Cosa ci dice gente con don Ciotti


di Nando Dalla Chiesa


Certe cose bisogna vederle. Perché molti sanno della "giornata della memoria e dell'impegno" che oggi porterà a Napoli centomila e più persone contro le mafie di ogni tipo. Ma è difficile spiegare quel che rappresentavano ieri nell'auditorium della cattedrale di Napoli le centinaia di persone raccolte intorno a don Ciotti, tutte segnate dalla violenza dei poteri criminali. Centinaia e centinaia e centinaia di storie che accomunavano visi rugosi di antiche società contadine, e bambini sgambettanti, figli o nipoti di vittime vicinissime o già lontane.

Racconti e testimonianze da scriverci libri di storia. Antonella Azoti, per esempio, figlia di uno dei quaranta e passa sindacalisti uccisi dalla mafia nel terribile dopoguerra siciliano. Lei e il dramma di coloro che mai si sono visti riconoscere come familiari di vittime della mafia, per il semplice fatto che nessun processo si è mai tenuto. Fu così per quasi tutti i sindacalisti, ha ricordato Nico Miraglia figlio di Accursio; mentre (quanto brucia l'ingiustizia…) ancora gli si strozzava la voce in gola dicendo"mio padre". E poi Mario Congiusti, un figlio ucciso dalla 'Ndrangheta che ha lanciato a questa inimmaginabile assemblea la sua domanda spiazzante e disperata: "Chi sono io per la legge? Perché chi perde il padre si chiama orfano, chi perde il marito si chiama vedova, mentre io, che m'hanno ammazzato il figlio, non so come mi chiamo?".

Certe cose bisogna vederle. E sentirle. Sentirle raccontare da Vincenzo, fratello di Biagio, studente ucciso un giorno davanti al liceo Meli di Palermo, dall'auto di Borsellino che correva per proteggere il giudice ai tempi del maxiprocesso. Sì, Biagio figlio di operaio e mandato a scuola con fatica da Capaci nel capoluogo, per finire anche lui vittima della città di mafia. O sentire la giovane moglie di Nicola Gioitta, gioielliere ucciso nel suo negozio e poi sfregiato al collo per lezione, chiedersi perché non lo abbiano mai considerato, suo marito, vittima di mafia a Niscemi, ma lo abbiano derubricato tra i morti per rapina.

C'è una storia d'Italia che scorre tra questi volti, apparentemente tanto diversi ma in realtà così simili per quel lampo di malinconia che prima o poi indovini in tutti. Storia di dolore. Ma anche di orgoglio. Oggi questa storia riecheggerà a piazza del Plebiscito ancora una volta, di fronte a una marea di cittadini, soprattutto giovani. Scorreranno di nuovo le centinaia e centinaia di nomi in quell'inesorabile (e irreversibile) ordine cronologico. E chi ci sarà potrà immaginare. Non tutto, ma qualcosa che basti a dargli una coscienza diversa.

21 marzo 2009
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