LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. => Discussione aperta da: Arlecchino - Maggio 24, 2007, 12:01:21 pm



Titolo: Nando DALLA CHIESA.
Inserito da: Arlecchino - Maggio 24, 2007, 12:01:21 pm
La legge del discredito

Nando Dalla Chiesa


E parliamone pure del discredito della politica, di questa malattia profonda, di questo tumore civile che in tanti hanno nutrito per ingrandire i propri destini. Parliamo di questa pietanza rancida che cuochi multicolori hanno cucinato nei decenni, uno di qua uno di là, con scrupolo pari all’incoscienza. Le accidie e i narcisismi. Gli affari inconfessabili e i privilegi ingiustificabili. La fine del diritto di voto e le parole senza onore. Ma anche le demagogie a buon mercato e le picconate plebiscitarie.

E il senso di ingiustizia che ci circonda, lo smarrimento davanti al primato di ogni interesse particolare. E la latitanza della politica. Anche quando rivendica grottescamente il suo primato. O al contrario, perfino, il suo essere in prima fila a fare polpette dell'interesse generale brandendo princìpi o ideologie che, alla resa dei fatti, mandano lo stesso suono delle monete false.

Ladies & Gentlemen, a voi il caso Parmalat. A voi un caso paradigmatico dello stato della giustizia nel nostro paese. Di un paese dove ogni giorno si sente parlare dei diritti del mercato. Delle sue regole. Della sua trasparenza. Degli interessi legittimi degli azionisti e dei risparmiatori. Decine di migliaia di persone truffate in allegria e in sostanziale impunità. Con la decisiva complicità di uffici e sportelli bancari che consigliavano riservatamente e «in virtù del nostro rapporto fiduciario» di comprare Cirio, Parmalat e bond argentini, e mica solo singolarmente ma anche tutti insieme. Anzi: più erano anziani i risparmiatori e più insistente si faceva il consiglio di un bel pacchetto tutto compreso.

Ecco a voi dunque le sembianze di un sistema che, forse ormai senza colpe personali di alcuno, protegge con naturalezza i malfattori. Lo scontro in aula tra la procura milanese e i difensori dei risparmiatori nel processo per aggiotaggio che ha come retroterra la Grande Bancarotta parmigiana, è la spia del paradosso che si è consumato: la trasformazione della «giustizia minima» nella «giustizia massima possibile». Il rispetto irrisorio delle aspettative di risarcimento e di punizione come alternativa alla beffa più totale e assoluta. Eravamo stati facili profeti nel dire che l'eredità peggiore degli anni berlusconiani sarebbe stata quella morale. E così è. Il discredito della politica - meglio: di tutto ciò che è pubblico - ci rovina addosso proprio per l'effetto devastante degli atti di governo di chi guida e sobilla l'antipolitica da più di un decennio. Ma anche per altro, ammettiamolo. Anche per l'incapacità dell'altro schieramento di stagliarsi cristallinamente diverso all'orizzonte. Lo scandalo Parmalat maturò in un contesto politico dai contorni sfuggenti, e che in ogni caso il centrodestra non visse come «suo», tanto che ci si gettò a corpo morto per ergersi a moralizzatore del mercato, a Catone mediatico, appena dopo avere licenziato l'indecorosa legge sul falso in bilancio. Furono bagliori ipocriti. Perché poi le leggi berlusconiane offrirono a quello stesso scandalo e ai suoi protagonisti ogni riparo. Uno dopo l'altro, con un'attività legislativa condotta per mano, passo dopo passo, a garantire impunità totale al premier e ai suoi amici. Prima le norme sul patteggiamento, accarezzate alla Camera anche dall'opposizione. E poi la Cirielli, con i suoi tempi di prescrizione scolpiti a riassumere plasticamente la filosofia di un'intera legislatura. E infine, a maggioranze parlamentari cambiate, giunse l'indulto, un indulto mai visto nella storia di alcun paese avanzato. La grande festa era completa.

Non c'è dubbio. Il discredito della politica nasce da una sfiducia secolare verso il potere, intrecciata con un altrettanto secolare servilismo. Poiché nessuno più del servo sa, per esperienza diretta, che il potere non ha etica o moralità. E tuttavia se scontiamo ancora nel Duemila un qualunquismo atavico, è anche perché esso si nutre ogni giorno di ciò che vede, della nausea suscitata da tanta quotidianità, della penuria di esempi grandi e visibili. Si nutre del senso dell'ingiustizia e della percezione di un vuoto di princìpi. Che cosa possono pensare decine di migliaia di risparmiatori (sottolineo: decine di migliaia di persone - di cittadini, di elettori - in un colpo solo!) quando vedono che i loro risparmi sono senza effettiva tutela, che i sacrifici che molti di loro hanno fatto sono stati irrisi e malmenati, non solo perché si sono trovati sul proprio cammino manipoli di lestofanti, ma anche perché la giustizia non funziona, perché anzi la giustizia è stata accomodata -falso in bilancio, patteggiamento, Cirielli, indulto- alle esigenze dei truffatori anche con qualche iniquo patto trasversale tra i partiti? Ricorderanno, quelle decine di migliaia di persone, la scientifica trafila delle leggi berlusconiane? Si ingegneranno di fare la differenza tra il prima e il dopo, daranno un nome alle macerie morali o non vedranno solo le macerie e in mezzo alla polvere confonderanno gli uni e gli altri in una condanna senz'appello?

Dire questo non significa incoraggiare il qualunquismo. Ma capirne le radici e, per quanto possibile, aiutare a prevenirlo. Così come aiuta a prevenirlo -lo vogliamo dire?- il sapere parlare seriamente di sicurezza o delle inefficienze della pubblica amministrazione o delle lottizzazioni selvagge o delle riproduzioni clientelari delle dinastie o delle candidature dei pregiudicati. Il maremoto sale. E non basta assecondare i terreni di discussione prediletti (quelli sì) dal qualunquismo: una Camera sola, dimezzare i parlamentari ecc. Bisogna passare dalla superficie agli strati profondi. Se il parlamento attuale, con le sue due Camere, con i suoi numeri pletorici, avesse comunque fatto buona politica sulla giustizia, se si fosse posto il problema dei diritti diffusi di un'economia di mercato, se avesse rappresentato il senso delle istituzioni e delle leggi agli occhi di chi veniva truffato o (per usare una parola da bar) derubato dei suoi averi, oggi esso avrebbe altro prestigio. E avrebbe contribuito ad arginare un poco questo umore di rivolta che sale dalle viscere, dagli istinti, ma che ha radici nella realtà vissuta, nelle ragioni dei fatti. In fondo dev'esserci un motivo se oggi a riscuotere meno fiducia del parlamento restano solo loro, le banche.

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Pubblicato il: 23.05.07
Modificato il: 23.05.07 alle ore 11.58   
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Titolo: Un'americana a Roma
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 07:15:09 pm
LA BUSTINA DI MINERVA

Un'americana a Roma
di Umberto Eco


Alice Oxman ha alcuni handicap. È americana, e questo può spiacere alla sinistra radicale, ma non ha partecipato allo Usa-Day in cui apparivano signore avvolte in bandiere americane, e questo dovrebbe averla resa invisa al 'Foglio'. È ebrea, e di questi giorni può spiacere a molti, a destra come a sinistra. È di sinistra, e questo spiace a destra. Inoltre è la moglie di Furio Colombo, e questo le può provocare diffidenze da destra e da sinistra.

Fortuna che non è anche brutta.

Naturale quindi che sia amaro il suo libro 'Sotto Berlusconi. Diario di un'americana a Roma 2001-2006' (Editori Riuniti). È amaro quando parla in prima persona, per esempio riportando le e-mail con la figlia che ha vissuto l'11 settembre (e il dopo) a New York, è amaro quando parla delle vicende giornalistiche di suo marito (forse troppo citate, con un sospetto di conflitto d'interessi), ma soprattutto è amaro e agghiacciante quando si limita a riportare, senza commento, ritagli stampa e notizie di agenzia. Il che fornisce un documento sconvolgente, per chi ha dimenticato, su uno dei periodi più bui e grotteschi della nostra storia. Mi limito a un modesto florilegio.

2001. "Io punto a liberare il paese da questa escrescenza della magistratura" (Carlo Taormina). "'Genova is so nice'. Presidente, fuori c'è la guerra e un morto per strada. 'Oh yes, I know, it's tragic'" (Bush al G8). "È una guerra di religione" (Oriana Fallaci). "C'è una completa identità di vedute tra Bush e Berlusconi" (TG2).

2002. "L'uso che Biagi, Santoro e Luttazzi hanno fatto della tv è criminoso" (Berlusconi a Sofia). "Ho qui in Sardegna le figlie del mio amico Putin" (Berlusconi). "Per Porto Rotondo si profila un futuro di Camp David italiano" ('Panorama'). "Nel Sud mi seguono in processione come i santi, cantando" (Berlusconi, Rai Uno).


2003. "Apicella accorda la chitarra, gli fa sentire qualche nota e lui, il presidente paroliere, parte in quarta. L'universo sentimentale e musicale del Presidente del Consiglio è proprio questo: lui è lo Julio Iglesias d'Italia" ('Libero'). "I giudici sono matti, sono mentalmente disturbati" (Berlusconi). "Se mi ammazzano ricordatevi che è su mandato linguistico di Antonio Tabucchi e Furio Colombo. Avvertire subito la Digos" (Giuliano Ferrara). "Berlusconi è un uomo autenticamente liberale. È enormemente buono, straordinariamente buono. Ha ragione Ferrara quando lo paragona a Mozart per il candore e la genialità" (Sandro Bondi). "La casa la diamo al primo Bingo Bongo che arriva? Non scherziamo" (Umberto Bossi).

2004. "Comunisti maledetti, quei giudici" (Carlo Taormina). "Berlusconi? Tu non sai quanto è bravo. Io lo ammiro molto. Putin ci fila, Bush ci fila. Finalmente ci fila qualcuno" (Simona Ventura). "La gente gridava a Berlusconi 'Vai a casa'. Abbiamo gridato anche noi. Lui allora mi ha detto: 'Lei ha una faccia di merda'". (Anna Galli, cittadina). "Mi vergogno che sia stato nominato senatore a vita il poeta Mario Luzi. Una persona di questo tipo che offende il nostro mondo. Era meglio Mike Bongiorno" (Maurizio Gasparri).

2005. "Lei quanto è alto? Un metro e 78? Non esageri, venga qui allo specchio, vede, io sono un metro e 71. Ma le pare che un uomo alto un metro e 71 possa essere definito un nano?" (Berlusconi a 'La Stampa'). "L'elettorato è stato distratto dalla morte del Papa, e questo indubbiamente ha avuto un ruolo anche sui dati dell'astensionismo" (Enrico La Loggia). "Una dichiarazione senza stile, gravemente irrispettosa, insensata e che ferisce il dolore di quanti non per 'distrazione' ma per amore sono vicini al Papa" ('L'Osservatore Romano'). "L'Italia vive nel benessere. In classe di mio figlio i ragazzi hanno due telefonini a testa" (Berlusconi al TG2). "Dalla mia villa ho un gran bel panorama. noto anche quest'anno molte barche. Se sono barche da ricchi vuol dire che ne abbiamo proprio tanti. Gli stipendi crescono più dell'inflazione, la ricchezza delle nostre famiglie non ha eguali in Europa" (Berlusconi a 'La Stampa').

(25 maggio 2007)
da espressonline


Titolo: Napolitano: moralità e rigore per superare la crisi della politica
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2007, 09:58:12 pm
POLITICA

Il capo dello Stato interviene sul dibattito in corso esortando la classe dirigente

"Pensare in grande, contro le manovre opportunistiche"

Napolitano: moralità e rigore per superare la crisi della politica

 
AVELLINO - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita ad Avellino, ha aspettato che si chiudessero le elezioni amministrative per entrare in merito alla crisi che ha colpito il mondo politico italiano. Con parole semplici e chiare, il capo dello Stato rifiuta la "denuncia della crisi fine a se stessa" e ha chiesto impegno, da parte di tutti: forze politiche e forze sociali.

Intervenendo ad Avellino in occasione delle celebrazioni per i 60 anni dalla scomparsa del meridionalista Guido Dorso, Napolitano ha sottolineato l'opportunità di "trasmettere la lezione di moralità e di rigore di Dorso", lezione che definisce "ancora sferzante e stimolante, da cui possono trarre ispirazioni le giovani generazioni, nell'avvicinarsi alla politica per rinnovarla".

Per Napolitano si tratta di "un tema scottante, su cui avrò modo di tornare in questi giorni. Un tema che dovrebbe sollecitare una riflessione costruttiva non solo di tutte le componenti dello schieramento politico ma di tutte le componenti della società italiana".

Per il presidente della Repubblica, infatti, "la soluzione ai problemi, sia delle riforme istituzionali sia del rinnovamento della politica, può venire soltanto attraverso un impegno conseguente delle forze sociali, culturali e politiche" anche se significativamente aggiunge subito dopo: "In particolare, di quelle rappresentante in Parlamento, siano esse di maggioranza o di opposizione".

Avverte a tal proposito Napolitano: "Al di fuori di tutto ciò, c'è solo la denuncia che, perdendo il senso della misura, può anche diventare controproducente e pericolosa". Il capo dello Stato fa suo quello che definisce "l'insegnamento che resta di Dorso, al di là delle speranze e della realizzazioni" ovvero "pensare idealmente e in grande la politica, contro la piccola politica delle manovre opportunistiche".

(29 maggio 2007)

da repubblica.it


Titolo: Nando DALLA CHIESA.
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2007, 05:32:54 pm
La bambina che sfidò Stalin
Nando Dalla Chiesa


Lo sfondo, amici del partito democratico. Il grande sfondo storico su cui si staglia quello che stiamo facendo. Ecco, va illuminato a pieni riflettori. Riflettori belli forti, e perfino un po’ impudenti. O altrimenti capiremo - e faremo capire - poco del passaggio che stiamo realizzando. Perché presentare il partito democratico come l’evoluzione, magari allargata, delle nostre tradizioni «popolari» (e qualcuno intende «democristiane») e «socialiste» (e qualcuno intende «comuniste») rischia di uccidere il bambino in culla. Oserei dire: chiunque si candidi a guidarlo.

C’è un libro, un nuovo libro, che costringe tutti a fare bene i conti con il passato. A misurarlo con curiosità, a soppesarlo palpitando. A vedere lo sfondo, appunto; la storia da cui si viene. Per prenderne le distanze nel modo più radicale possibile, altro che «evoluzione». Questo libro si chiama Una bambina contro Stalin. E l’ha scritto Gabriele Nissim, intellettuale che da anni conduce una meritoria ricerca sul totalitarismo sovietico e su quello nazista; sulle vittime e sui coraggiosi (i «giusti», nel linguaggio biblico) che seppero dir di no. Sua è l’idea della foresta dei giusti (un albero per ciascuno di loro); a lui dobbiamo la scoperta e la valorizzazione di una montagna di micro-documenti storici di valore irrinunciabile.

La storia del libro, elogiato nei giorni scorsi dai maggiori esponenti dei Ds, è perfino semplice nella sua brutalità. È un giorno del 1937 quando Gino De Marchi, poeta, regista e autore di documentari di propaganda socialista, viene prelevato dalla polizia segreta di Stalin negli studi cinematografici di Mosca, in cui lavora per il partito bolscevico. Come sia finito in Russia questo giovane intellettuale italiano è presto detto. Ci venne mandato per punizione; per espiare la colpa di essersi fatto scappare, di fronte alla minaccia dell’arresto di sua madre, il nome di un giovane compagno quando, a diciannove anni, era stato arrestato come militante comunista di Fossano. Era il 1921, era finita l’occupazione delle fabbriche e lui aveva maldestramente organizzato l’occultamento delle armi raccolte dai militanti in vista della possibile insurrezione. Fu accusato di essere una spia del fascismo. Intervenne Gramsci in persona perché gli venisse offerta una possibilità di riscatto. Una volta in Russia, De Marchi venne però incarcerato, perseguitato da quella nomea di «spia del fascismo». Di nuovo giunse un appello di Gramsci in sua difesa. Sicché gli diedero l’incarico di celebrare con la sua macchina da presa le conquiste dell’Ottobre. Lui si mise a farlo con entusiasmo genuino. Girava nei kolchoz, nelle fabbriche, nei luoghi in cui la Rivoluzione sfidava l’arretratezza di un continente intero per aumentare la produzione, per costruire la grande industria socialista. Con lui la moglie Vera, conosciuta e sposata in Russia, e la figlia Luciana.

Ed è proprio lei, Luciana, la «giusta» di questa storia finita solo pochi anni fa. Lei che aveva dodici anni quando il padre sparì per sempre in un’auto nera in mezzo a tre uomini vestiti di scuro. Lei che andò con sua madre a chiederne conto negli uffici della Lubjanka. Lei a gridare alla onnipotente guardia della polizia segreta «mio padre è un comunista, non è un fascista». Lei a battersi per sapere la verità, per avere giustizia, per riabilitare la figura dell’uomo che adorava e che nelle sue lettere, scritte rigorosamente in italiano, la esortava a essere scolara modello nella grande patria del socialismo.

Gino De Marchi venne fucilato neanche un anno dopo l’arresto. Nel 1938. Luciana rimase sola a battersi per il padre perché la madre, terrorizzata dal regime, lo rinnegò accreditando le accuse della polizia segreta. Ci vollero quasi vent’anni perché si rompesse un silenzio disumano. Nel 1956, nell’anno che è passato alla storia come quello della denuncia dei crimini di Stalin, si seppe dunque una prima verità: Gino De Marchi era morto di peritonite in un campo di concentramento.

Ma ci vollero altri quarant’anni per sapere, nel ’96, la verità vera. Il regista era stato fucilato a Butovo, vicino a Mosca. Abbandonato dai compagni di partito, perfettamente coscienti di quanto gli era accaduto. Fu perciò con sorpresa che Luciana, quando giunse a Fossano per incontrare Giuseppe Biancani, un ex partigiano e deputato comunista che con coraggio e umanità straordinari aveva deciso di fare riemergere dal passato la storia del poeta-regista, scoprì che nella città natale del padre era stata dedicata una via a Giovanni Germanetto, esule antifascista, autore di un libro che aveva avuto molta fortuna, Memorie di un barbiere. Perché si sorprese Luciana? Perché Germanetto era l’amico di suo padre. Era il comunista che lei si era abituata a chiamare zio. Colui al quale, con la naturalezza dei bambini, era corsa a chiedere aiuto quando il padre era stato arrestato. E che, con suo sgomento, di punto in bianco, nel momento del bisogno, si era rifiutato di parlarle, di toccarla, di ascoltarla. Pose dunque il problema al sindaco di Fossano. Perché una via a Germanetto, esule antifascista certo, ma testimone silenzioso e infastidito di una tragedia umana e politica, e non una via a suo padre? Il sentimento, la forza dell’ingiustizia vissuta, sfidavano uno dei più grandi drammi e dilemmi posti dalla storia politica del novecento. Il sindaco risolse il dilemma intitolando una via anche a De Marchi. Salomonicamente.

Roba recente, di questi anni. Apparenti «dettagli» che trascinano gli anni trenta fin dentro il nuovo millennio. E d’altronde chi leggerà la lunga storia delle testimonianze accumulate nei decenni su questa vicenda, si renderà conto di come la cultura degli anni di ferro abbia fatto le sue incursioni nei tempi più nuovi; edulcorata, modificata, ma sempre obbediente al principio che c’è Qualcosa a cui la verità, la giustizia, la dignità di un uomo possono e devono inchinarsi. Una cultura, insomma, che non può «evolvere».

Domani Piero Fassino si recherà con Gabriele Nissim a San Pietroburgo, al grande cimitero di Levashovo in cui sono sepolti cinquantamila fucilati dal Terrore staliniano. Molti ancora senza nome. Un cimitero che ha ormai assunto un ruolo prepotentemente simbolico. Visitarlo per ricordare un comunista fatto uccidere da comunisti su delazione di altri comunisti e nel silenzio di altri comunisti è un fatto di valore storico. Significa che non si denunciano «solo» più i carri armati di Budapest e di Praga, gli errori/orrori che vengono da fuori. Significa guardarsi dentro. Con il coraggio necessario per rompere con il passato proprio attraverso l’esercizio della memoria. Una memoria che comunque ci consegna figure di comunisti, da Gramsci a Biancani, che in quella storia seppero starci dando voce a sentimenti e a valori più alti della disciplina di partito.

Ecco perché diventa obbligato il riferimento allo «sfondo» su cui si costruisce il partito democratico. Che senso avrebbe, in effetti, dargli vita senza fare i conti con la Storia del paese che esso è chiamato a governare? Senza acquisire nella sua radicalità il nocciolo del pensiero democratico? Che senso avrebbe se tutti coloro che intendono parteciparvi non rendessero cristallina la superiorità di una cultura politica, del suo nucleo di valori e di principi? Davvero c’è bisogno di una riflessione. Occorre riconoscere come la nostra (non ignobile) vicenda democratica sia stata in fondo percorsa da un’idea amputata della democrazia. Nel clima dei totalitarismi del «secolo breve» e della successiva divisione in due del mondo vi fu chi coprì le tragedie del comunismo e chi finse di non vedere, altrove, le atrocità dei regimi fascisti e di chi li finanziava. O, più modestamente, vi fu chi non vide decine di sindacalisti e di servitori dello Stato uccisi dalla mafia, ritenendo anche lui di doversi inchinare a Qualcosa di superiore: l’occidente, la democrazia, il partito; o perfino la corrente. Come suggerisce Nissim, la vera discontinuità liberatoria si realizza sulla scelta (di Vaclav Havel sotto il regime di Praga, ma già di Gramsci davanti alla tempesta in arrivo) di porre la verità al di sopra di tutto. Nasca da qui, soprattutto da qui, il partito democratico. E da qui Fassino parta domani per dare il senso più alto al suo gesto di onorare a San Pietroburgo le vittime del Terrore.

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Pubblicato il: 28.06.07
Modificato il: 28.06.07 alle ore 9.33   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa. Quando dissi Garage Olimpo
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2007, 12:11:55 am
Non roviniamo la Festa
Nando Dalla Chiesa


Festa dell´Unità sì o Festa dell´Unità no? Che cosa sarebbe meglio per il Partito Democratico? Prima di rispondere, consegno alcune doverose premesse: a) vengo dalla Margherita; b) credo che il Pd debba esprimere una realtà politica nuova, non certo la somma di realtà preesistenti; c) penso che sia (oso ancora dire: sarebbe) un errore micidiale accompagnare le primarie per il leader con l´elezione spartitoria (tot ai Ds, tot alla Margherita) dei segretari regionali del nuovo partito.

d)Sono convinto che sia stata poco coerente con l'idea del Partito Democratico la scelta dei Ds di presentarsi alle primarie con un solo candidato per difendere la loro unità. Enunciate le premesse, do la mia risposta. E mi dichiaro favorevole, fortemente favorevole al mantenimento delle feste dell'Unità. E proverò a spiegare il perché.

Mi rendo conto, sia chiaro, dello spirito con cui alcuni intellettuali ulivisti ne hanno chiesto l'abolizione o la trasformazione in altro. Quella festa è una festa di partito, si argomenta. Ora che nasce un nuovo partito, mantenerla in vita significa continuare a coltivare una precedente identità, rifiutare di sciogliersi davvero nel nuovo progetto. Di più: specie in certi contesti regionali significa perseguire l'ambizione di una egemonia della precedente identità nel nuovo progetto. Una egemonia politica e organizzativa. Con tanti saluti all'idea di mescolarsi davvero in qualcosa di nuovo, di attrarre e fondersi con pezzi di società estranei alle ideologie del novecento. Preoccupazioni e motivazioni per nulla campate per aria. Io però, proprio partendo dalla concreta realtà delle feste dell'Unità, per come le ho conosciute e per come le ho vissute in questi ultimi decenni, vorrei proporre delle considerazioni che spostano (e alla fine ribaltano) i presupposti del ragionamento.

Siamo davvero sicuri, e quanto, che la Festa sia la festa dei Ds? Che la organizzino loro è certo. Che ci mettano le loro bandiere pure. Che il taglio politico complessivo sia coerente con le loro strategie, di nuovo pure. È anche certo che le esclusioni e inclusioni degli ospiti risentono di innamoramenti e orticarie tipicamente di partito. Così come è certo, infine, che essa venga solennemente chiusa da un discorso del segretario diessino davanti alla massa orgogliosa dei militanti. Non è poco, ci mancherebbe. Anzi, potrebbe bastare per rispondere con un lampo d'intesa: ragazzi non scherziamo, è la festa dei Ds. Eppure c'è qualcosa di più e di diverso, di cui è impossibile non tener conto. La festa infatti mescola culture, le fa incontrare in modo non formale, non diplomatico. Frulla ambienti, personalità, storie collettive, è luogo di confronto autentico e spontaneo di tutta la sinistra, direi di tutto il centrosinistra. Nel suo modo concreto di svolgersi perde quasi totalmente le stimmate di partito. A volte (e neanche sempre) ai dibattiti c'è solo una presenza a ricordare «dove si è», quella del moderatore. Ma poi assisti o partecipi a incontri in cui, su sei o sette relatori, di diessini ce n'è uno solo. E in cui spesso il pubblico applaude con più calore e convinzione relatori non appartenenti al partito ospite (intellettuali senza targa, ma anche esponenti di altri partiti). Nel tempo la mescolanza delle genti che si danno appuntamento alla Festa nazionale o della propria città, ha continuato anzi a crescere, a diventare sempre più palpabile.

E questo per una ragione di cui va comunque dato atto agli organizzatori: la Festa è diventata il più grande evento politico-culturale dell'anno in tutto il paese. Non il più grande evento politico, non il più grande evento culturale. Ma sì il più grande evento politico-culturale, pur con quella quota di dibattiti un po´ improbabili e di pedaggi alle piccole vanità interne che la festa deve scontare. Voglio dire che non c'è occasione in Italia in cui cultura, politica, musica, divertimento, la stessa gastronomia si mescolino con tante offerte e con tale varietà di partecipazione. E siccome non ce n'è davvero altre di paragonabili, tutto il popolo del centrosinistra ha finito per farne progressivamente il proprio appuntamento, al di là della stessa volontà dei dirigenti diessini; i quali infatti ogni tanto registrano dissonanze anche imbarazzanti tra gli orientamenti dominanti nel partito e quelli espressi dal pubblico presente. Come dimenticare l'impulso che venne dalle feste a partecipare alla grande manifestazione di piazza San Giovanni indetta da Moretti e dai girotondi nel settembre del 2002?

Mi spingo ancora più in là. E dirò che le feste dell'Unità, proprio per questa loro natura, hanno dato un potente contributo alla nascita vera dello spirito dell'Ulivo, più che ostacolarla in nome di una separatezza di partito. Nel clima irripetibile della Festa, di quella Festa, mi è capitato più volte di firmare grembiuli o poster o fazzoletti di volontari e di trovarvi sopra le firme di altri ospiti, diessini e non, a testimonianza di quanto sia ampio lo spettro della rappresentanza ideale che quel popolo coltiva. Anche per questo l'appuntamento attrae tanti e tanti giovani che mai si vedono, che mai ci si può sognare di trovare negli altri appuntamenti politici.

Perché dunque chiudere con questa festa, con questo marchio? Essi appartengono a tutto un popolo, a cui proprio il Partito Democratico non può toglierlo con un atto burocratico. Sarebbe un po' (e chiedo scusa per la impropria caduta aziendalista) come se un marchio radicato nella storia della cultura, delle tradizioni e dei gusti venisse cambiato perché cambia l'azionista di maggioranza. E sarebbe anche un'ingiustizia verso quelle decine di migliaia di volontari, irreperibili in qualsiasi altra esperienza politica, che a questa festa hanno dato la propria generosità, vivendola al tempo stesso come la festa del proprio partito e la festa di tutti. Si è detto spesso che il Partito Democratico non dovrà, costruendo una storia nuova, liquidare le sue radici. Ecco, questa Festa è probabilmente uno dei più grandi patrimoni del passato che il Partito Democratico si troverà tra le mani. Lo affidi a chi è in grado di interpretare al meglio la nuova identità, lo emancipi da qualche ostruzionismo illiberale, ne consegni il momento conclusivo (ovviamente) al leader del nuovo partito.

Quando i volontari e quel clima umano e politico non ci saranno più, avrà un senso storico cambiargli il nome. Per ora la Festa è soprattutto una risorsa. A tarpare le ali al nuovo partito sono semmai - come sanno bene gli stessi intellettuali ulivisti - gli accordi tra le segreterie uscenti, l'idea di costruire un partito teleguidato, il sogno di farlo nascere dentro una grande glaciazione di equilibri personali, i ticket decisi a tavolino, i segretari regionali spartiti a percentuali. Sarebbe una beffa se alla fine dovessimo scoprire di trovarci tra i piedi tutti i vizi correntizi sani e pimpanti e per converso, come prezzo per avere vanamente tentato di esorcizzarli, di trovarci senza la festa dell'Unità. Perché invece, ecco l'idea, non chiedere aiuto proprio alle feste dell'Unità e al loro popolo, plurale e appassionato, per fare nascere bene il Partito Democratico? Perché non mettere lì, per esempio, dei bei banchetti, non organizzarci delle belle iniziative contro la fregola di una spartizione Ds-Margherita prossima ventura? Il popolo della Festa ne sarebbe capace...

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Pubblicato il: 28.08.07
Modificato il: 28.08.07 alle ore 8.20   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa - Elogio della campanella
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2007, 04:55:57 pm
Elogio della campanella

Nando Dalla Chiesa


Il degrado, il degrado del paese. Il paese dissestato, scombiccherato, dove dilagano tele-allegria e spensieratezza sociale. Il paese sbrindellato, un po’ cialtrone, dove non si sa mai chi trovi e quando lo trovi. Il paese dell’approssimazione, degli impegni forse-che-sì forse-che-no. Il paese degli inaffidabili. Ecco, questa Italia un po’ deformata ma autentica, che non è tutta ma è quanto basta, dove nasce, dove ha origine? In quale piccolo anfratto dell’animo o della mente di ciascuno prende il via, quando - insomma - si fa embrione sociale? Non sarà che con queste scaturigini misteriose c’entri anche il suono di una campanella?

Su questo mi sono interrogato leggendo sui giornali la vicenda del «Mamiani», il liceo romano balzato una volta di più agli onori delle cronache con la naturalezza che spetta, sorta di noblesse oblige, ai licei romani e milanesi frequentati dai figli di giornalisti, intellettuali e politici. Che cosa è dunque successo al Mamiani?

Semplice: che il preside ha fissato il principio che quando suona la campanella d'inizio giornata, alle 8,10, gli allievi devono entrare a scuola. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, immagino con le debite manciate di secondi di tolleranza. E ha poi deciso che per i ritardatari scatta la carta di riserva della giustificazione. Principio osservato e praticato senza traumi dal sottoscritto quand'era (non docile) studente, e osservato e praticato senza traumi decenni dopo dai miei ancora giovani figli. Ma che è apparso iniquo agli studenti del liceo interessato. Non ho intimità con la storia dell'istituto, e dunque non sono in grado di valutare la gravità o l'inopportunità della misura in relazione al particolare clima civile, politico della scuola o a quella cosa delicata e complessa che sempre è l'antropologia studentesca, così cangiante da città a città, da quartiere a quartiere. E dunque ragiono in generale, come generale è il fenomeno di sbrindellamento che sta investendo i nostri costumi. Perché in effetti nulla o quasi nulla, preso nella sua particolarità, può essere dichiarato con certezza causa o sintomo di declino culturale. Non lo sono, in sé, né Miss Italia, né L'isola dei famosi, né la foto taroccata delle cugine di Garlasco, né l'usanza petulante di dare del tu a tutti (splendido l'articolo di Citati di quest'estate!), né la conversazione a voce alta sul cellulare in treno, né l'andare a sostenere l'esame in bermuda. Eccetera. Eccetera.

Sissignori, nessuna di queste così eterogenee «sostanze», e nessuna delle loro infinite pari-grado, porta in sé con certezza i germi del declino. Ma il solo elencarle insieme, ne converremo, disegna, quello sì, un mosaico che esprime il declino degli usi e costumi. Del tutto compatibile, si intende, con l'aumento dei viaggi, con la crescita del benessere, con l'innalzamento del grado formale di istruzione, con le vertigini del progresso tecnologico. Tutti fenomeni che anzi imprimono a tale declino modalità particolari e spesso pittoresche, proprio come nei film di Verdone.

È in questo contesto che è chiamata a svolgere la sua umile ma insostituibile funzione la campanella. La campanella che suona e dà un orario a tutti. Studiosi e indolenti. Ricchi e poveri. Di destra e di sinistra. Preadolescenti e maggiorenni. La scuola come comunità, in fondo, è anche una campanella rispettata. Vero, verissimo: dietro una campanella rispettata può esserci il vuoto culturale. Ma dietro una campanella bistrattata, in genere, il vuoto culturale avanza con certezza. Lentamente, impercettibilmente, al riparo delle ideologie progressive, ma con regolarità impietosa. Perché la campanella, come altri strumenti più o meno graziosi, sonori o silenziosi, obbliga e forma alla puntualità, abitua quotidianamente al rispetto degli orari. E la puntualità è civiltà. La puntualità esprime il rispetto per gli obblighi collettivi e per gli obblighi interpersonali. Ognuno di noi si infuria quando partono in ritardo il treno o l'aereo, quando il tram arriva venti minuti dopo l'orario indicato alla fermata, quando l’ufficio pubblico apre con suo sommo comodo. Tutti - treno, aereo, tram, ufficio pubblico - indifferenti di fronte agli impegni, alle incombenze, al tempo perso dai cittadini. Così come ognuno si arrabbia quando l'amico, il collega, il cliente, non rispetta la puntualità o quando vede il politico giungere al dibattito o alla pubblica manifestazione con ritardi da sposa bizzosa. Perché il tempo che il ritardatario impiega (fruttuosamente o meno) da un'altra parte, lo fa perdere a chi lo aspetta. L'inciviltà nasce, prospera, nell'indifferenza alla puntualità. E produce a cascata i corollari della società sbrindellata: l'inaffidabilità, l'incertezza delle prestazioni e dei doveri, la precarietà dei servizi.

Non a caso nella società massificata, intessuta di chiacchiera e di approssimazione, i luoghi per eccellenza dell'arte in diretta, il teatro e l'auditorium, sono anche quelli che per eccellenza non tollerano eccezioni alla puntualità. E anzi la associano a una rigorosa e condivisa disciplina. Chi ci va deve rispettare l'orario, viene svillaneggiato coralmente se dimentica il cellulare acceso, di fatto non può nemmeno tossire o starnutire. L'arte, ossia il prodotto dell'intelletto e della creatività, pretende, per esprimersi, contesti altamente regolati. E a ben pensarci la rissa d'agosto in Costa Smeralda tra Zucchero, grande bluesman, e il pubblico del Billionaire proprio questo ha rumorosamente registrato: il fatto che la società sbrindellata nemmeno il silenzio davanti all'artista accetta più. Prima viene la chiacchiera, meglio se gorgogliante intorno a tavole imbandite.

È paradossale che mentre tutti siamo impegnati a notare e a confidarci i segni della superficialità e della sciatteria che ci travolge, non riusciamo a stabilire i modi, gli strumenti, le semplici abitudini capaci di riportarci ai comportamenti utili a una convivenza più civile e intelligente. Che non riusciamo, nemmeno noi adulti, a capire che il massimo delle libertà personali non coincide affatto con la massima libertà collettiva. E che anzi spesso la stessa libertà individuale, quella vera, può essere mortificata, tarpata da un'esistenza vissuta fuori da ogni regola e disciplina. Dice: e il Mamiani? Niente, è stato solo un pretesto. Perché in fondo se, parafrasando Hemingway, ci chiedessimo per chi suona la campanella di ogni scuola, dovremmo rispondere che, oggi più che mai, suona per tutti.

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Pubblicato il: 27.09.07
Modificato il: 27.09.07 alle ore 8.58   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa - Se la politica andasse dallo psicanalista
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 05:27:45 pm
Se la politica andasse dallo psicanalista

Nando Dalla Chiesa


Per favore uno psicanalista. E anche bravo. Meglio: un’équipe di psicanalisti. Da pronto soccorso, se ce ne sono. Perché qui c’è una folla di personaggi in preda a turbe che vanno guarite in fretta. Non tanto per loro. Ma per i cittadini che se le vedono rovesciate addosso. Per il paese che qualche diritto ce l’ha pure lui, per quanto vecchio e maneggione sia, accidenti. Vengano gli psicanalisti, mettano su comodi lettini i (dis)turbati, scegliendoli «per titoli» nel variegato mondo dei dirigenti del centrosinistra italiano e li curino in fretta. Perché psicanalitica, assai più che politica, è la crisi che divora il governo dell’Unione e che vuole riconsegnare il paese a Berlusconi, ora o tra un anno. Basta guardarsi intorno. Si affastellano le sindromi più varie. Ecco a voi la sindrome dei capponi di Renzo, che si beccano furiosi tra loro mentre vanno a farsi tirare il collo. Ecco a voi la sindrome da suicidio egoistico, affermo davanti al mondo la mia identità uccidendomi. Ma anche quella da suicidio anomico, mi uccido perché perdo il senso delle cose, perché non ho più né regole né significati. Ecco a voi la sindrome dei trenta denari, pagatemi e tradisco (finisce con altro suicidio, come è noto). E poi quella di Narciso, innamorato della sua immagine fino (è destino...) a morirne, sia pure poeticamente. Sindromi. Sindromi a bizzeffe, che si richiamano e si esaltano tra loro. Un campionario squisito e interminabile, che viaggia tra parlamento, partiti e ministeri. E non risparmia neanche pezzi di opinione pubblica. E dietro questa follia autodistruttiva, guizza la fiamma della follia estrema, la convinzione che da questo spettacolo si possa uscire più forti e rigenerati, in grado di ricevere un nuovo mandato a governare prima del 2025.

C’è del metodo, occorre convenirne. Era l’autunno del 1997, lo ricordo come fosse oggi, quando alla Camera un deputato della sinistra diessina mi incontrò una sera prima di cena per dirmi che si andava alle elezioni. Alle elezioni?, chiesi stupito e soprattutto sbigottito. Perché alle elezioni dopo un anno che governiamo, e per giunta dopo aver vinto per grazia ricevuta, ossia solo per la corsa solitaria della Lega? Non si può più andare avanti, mi venne risposto. Con Rifondazione non si resiste, torniamo alle urne. Riunione del gruppo parlamentare. Osai dire che mi sembrava una follia. Ma quasi tutti marciavano in quella direzione, qualcuno temeva di giocarsi il collegio a esprimersi contro. Poi gli stati maggiori ci ripensarono. Un anno e tre mesi; erano bastati un anno e tre mesi, comunque, per pensare che si potesse buttare all’aria un governo, il primo governo dell’Ulivo. Poi venne il ’98 e Prodi e Veltroni caddero davvero, e per carità di patria non riapro quella pagina. Traversie e governi vari si susseguirono, giusto per consentire alla destra di dire che avevamo fatto quattro governi in cinque anni, altro che la seconda Repubblica. Vennero le elezioni del 2001. E siccome i sondaggi, dopo cotanta dimostrazione di coerenza e di affidabilità, pronosticavano sconfitta, invece di unirci ci dividemmo per tre: l’Ulivo, Di Pietro e Rifondazione. Insieme prendemmo più voti del centrodestra ma, genialmente, mandammo lo stesso al governo Berlusconi. Furono cinque anni di attacchi continui alle finanze dello Stato e ai princìpi di legalità e decenza civile, fino al limite del collasso istituzionale. Ma nessuno (lo vogliamo dire?) ha mai pagato per quella assurda divisione.

Finché è arrivato il 2006. Con le nuove elezioni. Una notte al cardiopalma. Le splendide previsioni che vanno in frantumi. E alla fine una vittoria risicata, risicatissima; annunciata da Fassino in diretta televisiva prima dei conteggi ufficiali. Un autentico miracolo: al governo di una delle maggiori potenze industriali per ventiquattromila voti di scarto. Roba da tenerselo stretto, il governo. Caro, ma proprio tanto caro. Da provare verso di lui e verso gli italiani che avevano votato Unione un senso di responsabilità infinito, come quando si maneggia un bambino appena nato, al quale ogni urto e ogni imprevisto può essere fatale. Roba da sentire ogni giorno all’alba l’imperativo kantiano di esibire il meglio di sé, di dimostrare di avere meritato quello scarto fortunoso. Di mantenere gli impegni elettorali, quelli possibili naturalmente (già, perché in effetti tanti critici a gogo dimenticano che al Senato c’è un solo voto di differenza, che si traduce subito in più voti di svantaggio appena si toccano alcuni temi). L’imperativo di mettere ovunque le donne e gli uomini migliori. Di seguire una rigorosa disciplina di squadra. Di ascoltarsi con rispetto. Di porre da parte ogni vanità personale. Di dare un’immagine di armonia e di serietà. Così doveva essere. Così dovrebbe essere. Se si vuole dare a questo paese un governo responsabile. E soprattutto se si vuole spiegare agli italiani che il centrosinistra sa governare, che l’amore per il proprio paese sa tenere uniti perfino più dei soldi e del potere di Berlusconi.

Un po’, un bel po’ ci si è sberciati, ci si è sfregiati. Un po’ di aria tossica la si è lasciata lungo i propri passi. Un po’ si hanno gli abiti sgualciti. Ma si è ancora in tempo per intervenire, per rassettarsi, per pettinarsi e magari cambiare d’abito. Per incominciare (ma sì!) a mettere sulla scrivania una bella foto capace di simboleggiare l’Italia o la sua storia migliore; da guardare con rispetto e anche un poco di emozione ogni mattina invece di fare un compiaciuto inchino alla foto propria o alla bandiera del proprio partito (il che è molte volte la stessa cosa). Ma per riuscirci occorre un bravo psicanalista, anzi un gruppo di psicanalisti. Bisogna fare in fretta per guarire questa follia che ci sta portando verso il baratro. La follia di chi, avendo vinto la lotteria, butta poi il biglietto al vento affacciandosi al balcone. Così, giusto per provare il brivido di vedere se riesce a ritrovarlo per strada dopo cinque minuti. L’importante è che chi soffre o ha sofferto di turbe sia disposto, anche in silenzio, anche in un recesso dell’animo, ad ammetterlo. Se no, come è noto, sul lettino nessuno sarà mai capace di portarcelo. E addio speranze di resipiscenza. E allora, fuor di metafora, il popolo italiano trarrà la conclusione che il centrosinistra non è in grado di governare. Buono per amministrare le città, d’accordo. Ma il governo non è cosa.

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Pubblicato il: 28.10.07
Modificato il: 28.10.07 alle ore 12.20   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa -
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2007, 05:36:16 pm
A Mastella dico niente censure

Nando Dalla Chiesa


Arimortis. Confermo qui il solenne impegno a non criticare pubblicamente alcun atto del mio governo. Ma la proposta del ministro della Giustizia Clemente Mastella di chiudere anzitempo la fiction sul «Capo dei capi» non è atto di governo. È un’opinione che solleva un dibattito culturale, civile e politico. Al termine del quale potrebbe anche esserci un atto di governo per censurare la fiction. Un atto atto gravissimo, un precedente dalle implicazioni incalcolabili. E dunque voglio qui misurarmi proprio con le opinioni del ministro. Liberamente e responsabilmente.

Spero che mi si crederà se dico che non ho alcuna simpatia per ciò che dall’Ottocento in poi, in letteratura, in antropologia, nel teatro, nel cinema, in televisione, è servito a legittimare la cultura mafiosa e i suoi protagonisti, a circondarli di un alone di normalità, di simpatia o perfino di fascino. Ecco, credo che la fiction di cui viene oggi chiesta la soppressione non abbia proprio nulla a che fare né con il folclore corrivo del Pitré né con la grande saga del «Padrino». Dirò anzi di più: di avere provato anch’io qualche perplessità iniziale sulla scelta di dedicare una sequenza di spettacolari serate a Totò Riina e ai corleonesi, ossia a personaggi vivi e suscettibili di incarnare un mito agli occhi più sprovveduti. Ma la realizzazione narrativa ha fatto piazza pulita dei miei dubbi e dei miei timori. E sarebbe ben strano che così non fosse stato scorrendo i nomi di chi ci ha lavorato, a partire da Claudio Fava. Che delle simpatie e delle complicità verso i mafiosi ne sa - come me - qualcosa per esperienza molto diretta.

Qual è il problema sollevato dal ministro e non solo da lui? Che in qualche landa della Sicilia ci sono ragazzi che scorgono in Riina e Provenzano i loro modelli di riferimento? Che in qualche angolo d’Italia c’è chi può fare il tifo per loro? Ebbene, lo confermo. Il problema c’è. Ma non nasce, questa è la scomoda verità, dalla fiction. Nasce da chi la guarda, dagli spettatori. Loro, non altri, sono il problema.

Se davanti alla tivù ci sono cittadini “neutri” o predisposti a giustificare il crimine e la violenza, giovani che per varie vie hanno maturato una cultura congeniale al “messaggio” mafioso, essi saranno attratti, anche inconfessabilmente, dalle gesta criminali dei corleonesi. Se invece davanti alla tivù ci sono cittadini o ragazzi dotati di una minima sensibilità umana e civile, quella minima sensibilità che ogni paese democratico dovrebbe sapere assicurare alla quasi totalità dei suoi membri, allora le imprese dei corleonesi saranno le gesta di un pugno di criminali, rappresenteranno un’epica sanguinaria e ributtante. È da questo fatto elementare che bisogna partire. Ed è rispetto a questo, semmai, che vanno misurate le responsabilità del nostro sistema televisivo.

Perché (vogliamo dircelo?) occorrono alcune condizioni affinché uno spettatore si trovi nella predisposizione psicologica di tifare, anche in modo latente, per un boss mafioso. Occorre, anzitutto, che per lui la vita e la morte siano eventi o concetti superficiali, intercambiabili; ludici perfino, come in un videogioco. E la nostra televisione questo gli ha insegnato. Il delitto come gioco, come rappresentazione da intrattenimento, con i plastici dei luoghi in cui si è ucciso e una compagnia di attori - psicologi, magistrati, giornalisti, ma alla fine tutti attori - che ne chiacchierano amabilmente come in un salotto.

Occorre poi che egli abbia realizzato una certa assuefazione alla violenza, si sia abituato a considerarla parte ovvia, nel senso di “moralmente ovvia”, della realtà quotidiana. Che abbia interiorizzato le sue proiezioni immaginarie, i suoi bellicismi, i suoi linguaggi, le sue autogiustificazioni. E questo la nostra televisione gli ha insegnato. Decenni di dibattiti calcistici (e non solo) gestiti e animati da invasati pronti all'urlo e all’invettiva, da applauditissime e richiestissime figure di “opinionisti” intenti a giustificare e talvolta a un pelo dall’istigare alle violenze più sconsiderate. Occorre, ancora, che quello spettatore abbia coltivato dentro di sé, giorno dopo giorno, i miti del potere e soprattutto del denaro e del successo facile. A qualsiasi costo. Dall’evasione fiscale alla prostituzione (magari su consiglio materno) in cambio di una comparsata da velina. E questi miti la nostra televisione ha egregiamente contribuito a coltivare, iniettando nel sangue della società teledipendente -non solo nelle case benestanti e libere dal bisogno ma anche nei vicoli dell'ignoranza e della disperazione- la convinzione che ci si possa arricchire facilmente rimuovendo ogni ostacolo di troppo. Costruendo l’idea della “società desiderabile” intorno a un ristretto gruppo di figure pubbliche (in quanto televisive) baciate dalla fortuna del fisico e/o trascinate al successo dalla loro spregiudicatezza.

Occorre ancora altro per avere il nostro spettatore ben predisposto? Certo. Occorre anche, e infine, che egli abbia sviluppato una neutralità verso il senso della legge, o addirittura una avversione nei confronti delle regole e di chi, con una divisa o con una toga addosso, cerca di farle rispettare. E la televisione, che pure ha realizzato cose buone per ricordare alcuni rappresentanti dello Stato o per promuovere un’idea positiva dei poliziotti e dei carabinieri, si è spalancata per anni come una voragine per ospitare gli attacchi più violenti e ossessivi contro i giudici e le forze dell’ordine. Attacchi senza contraddittorio da parte dei condannati di giornata, attacchi a reti unificate da parte di inquisiti eccellenti, accuse a tonnellate in dibattiti teleguidati con i criteri di utilità politica che ci sono stati anche documentati recentemente. Eccolo dunque completato l’apprendistato “civile” del nostro spettatore. Ed è lui che si mette a vedere «Il capo dei capi» accanto al cittadino democratico, come un atleta che venga allenato e massaggiato abilmente fino al momento di scendere in campo.

Domanda: su che cosa bisogna intervenire, dunque? Sulla televisione che prepara e predispone lo spettatore complice o sulla fiction che tanto fiction non è ma racconta i fatti crudi e per alcuni delitti evoca perfino scenari politicamente imbarazzanti, non i soliti santuari “al di sopra di ogni sospetto” ma Riina che fa uccidere un prefetto per fare un favore a un politico romano? Una fiction che forse potrebbe riservare prima della fine ancora qualche dialogo bruciante sugli ultimi anni onnipotenti di Totò Riina?

La censura è sempre pessima cosa. Se fosse andata in onda una sequela di falsi clamorosi, ancora ancora avrebbe senso prendere in considerazione l’ipotesi. Per concludere che sarebbe comunque meglio evitarla. Ma qui, purtroppo, mentre i falsi vanno in onda tranquillamente da anni, sono le verità scomode che vengono accusate di fare il gioco della mafia. Già lascia uno strano sapore in bocca il rinvio (sperando che sia tale) della «Vita rubata». Ma se dopo un pugno di giorni tocca anche al «Capo dei capi», bisogna dedurne che in quella nebbia che avvolge in certi momenti la trama delle affabulazioni e dei pensieri politici, sia nata una convinzione inconfessabile. Che con questi film e spettacoli sulla mafia bisogna farla finita.

Il ministro Mastella non ha sicuramente questa convinzione. Ma qualcun altro che ce l’ha gli ha passato, con addolorata ipocrisia, la richiesta di censura. E lui l’ha rilanciata in buona fede, senza, come ha ammesso, avere visto una puntata. Ma chiedo: nel 2007, e sulla mafia, si chiede la censura “per sentito dire”?

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Pubblicato il: 28.11.07
Modificato il: 28.11.07 alle ore 13.21   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa - Non spegniamo la musica
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2007, 03:09:35 pm
Non spegniamo la musica

Nando Dalla Chiesa


Questo è un appello appassionato in difesa delle accademie e dei conservatori d’Italia. È un appello rivolto pubblicamente al governo di cui faccio orgogliosamente parte e alla maggioranza che lo sostiene. Un appello per venti milioni di euro, meno del costo di un chilometro di autostrada. Venti milioni calcolati con precisione chirurgica per consentire al nostro sistema di alta formazione artistica e musicale di non affondare. Si badi: non aggiuntivi rispetto al 2007. Ma reintegrativi dei fondi dell’anno scorso; quelli, cioè, che hanno permesso al sistema di tirare la testa fuori dall’acqua in cui stava affogando dopo la micidiale cura da cavallo subita nell’ultimo anno del governo Berlusconi-Moratti.

Si resta a bocca aperta, c’è da non crederci. L’Italia e la sua tradizione artistica. L’Italia e la sua tradizione musicale. Il nostro biglietto da visita all’estero. Il made in Italy di secoli e millenni. Ciò che nessuno ci potrà mai imitare. Il nostro petrolio. I nostri giacimenti. Il nostro futuro è il nostro passato. Non si contano davvero le metafore usate dai leader politici e dagli intellettuali per definire il ruolo che la produzione artistica gioca e può giocare nelle nuove vie di sviluppo del Paese, nella sua competitività internazionale, nella sua crescita civile. La produzione ma, ovviamente, anche la formazione artistica. Perché la musica del passato qualcuno dovrà ben interpretarla e rinnovarla. E gli artisti italiani non dovranno solo riposare nei cimiteri illustri, ma dovranno soffiare il loro talento nella civiltà contemporanea, produrre nuovi capolavori, innervare della loro incessante creatività le nostre città, le nostre gallerie, i nostri stessi prodotti industriali e culturali. Siamo d’accordo su questo? È importante capirlo: siamo d’accordo o no? E allora perché è così difficile, quasi proibitivo, ottenere questi venti milioni in Finanziaria? Attenzione: non venti milioni per questo o quel centro di ricerca o culturale, legato a un potentato politico regionale. Non venti milioni per un’opera clientelare. Ma venti milioni per l’intero sistema pubblico, una trentina di accademie e un’ottantina di conservatori e istituti pareggiati. Contati e ricontati, proprio l’osso e nulla di più. Perché, nella penuria di mezzi trovata, il ministero dell’università in quest’anno e mezzo di governo ha ben cercato (e anche con qualche successo) di trasmettere il messaggio che un euro usato lavorando con intelligenza, entusiasmo, diligenza e fantasia vale dieci euro. Ma l’euro ci deve essere. E invece, incredibilmente, anche quell’euro sfugge, viene lesinato, forse non ci sarà. Così ci sono ormai accademie e conservatori, anche di qualità, che rischiano di chiudere; e che chiuderebbero, sia chiaro, pure se raddoppiassero le tasse agli studenti. Istituti a cui basta poco perché con poco ormai si sono abituati a vivere. Così come poco basta ai docenti per il rinnovo dei loro contratti, e che oggi si sentono comunicare senza appello che i soldi che c’erano se ne sono già andati tutti via per il rinnovo dei contratti della scuola.

Davvero il Paese vuole umiliare, marginalizzare, cacciare in cantina quel sistema dell’alta formazione artistica e musicale che può esserne uno dei più strepitosi gioielli? Certo, accademie e conservatori, da sempre lasciati a se stessi da un’Italia incolta e senza progetti, hanno i loro difetti e i loro ritardi. Le loro autoreferenzialità, le loro litigiosità e anche le loro mediocrità (come, peraltro, anche il sistema universitario). Ma io le ho girate in lungo e in largo, queste istituzioni. E vi ho trovato tesori indescrivibili di bravura e di passione, geni giovanili purissimi, inventiva e spirito creativo. Pianisti, violoncellisti, grafici, pittori, scenografi d’eccellenza. E non posso accettare l’idea che per questo intero sistema, per farlo sopravvivere, non si possano trovare venti milioni. Non voglio criticare nessuno e niente. Nel mio anno e mezzo di partecipazione al governo nessuno mi ha mai sentito dissentire pubblicamente da un collega, nessuno mi ha mai sentito dire una parola non dico di pessimismo ma neanche di disincanto. Ho recitato con convinzione assoluta e doverosa la parte del soldatino al fronte. Ma risulta difficile vedere stanziare somme ingenti, assai più ingenti, per opere e scelte di ogni tipo (tutte assolutamente legittime, sia chiaro), compresi gli istituti di formazione privati, e assistere all’apnea di un pezzo cruciale del nostro patrimonio formativo pubblico, comprensivo - dobbiamo ricordarlo? - di valori inestimabili in opere d’arte, architetture, biblioteche e archivi storici.

E tuttavia, passando dai princìpi di cultura civile alla politica purissima, dirò di più. Davvero il governo, questa maggioranza, vogliono rinunciare a dire davanti al Paese di avere per la prima volta restituito a dignità, di avere dato prospettive di sviluppo a questo settore? Perché il paradosso politico è proprio questo. Che con il governo Prodi viene attuata - dopo otto anni di attesa! - la riforma dell’intero settore, che una legge del ’99 portò a pieno titolo (“a costo zero”, stava scritto...) nel sistema universitario. Non solo. Mentre viene finalmente attuata la riforma, vengono anche varati i poli di alta formazione artistica e musicale in alcune grandi città (Genova, Milano, Napoli e Verona le prime), sistemi economici-artistici in grado di cambiare radicalmente gli orizzonti, anche internazionali, di queste istituzioni. Ed ecco che mentre si spinge in avanti tutto il sistema, arriva il rigurgito del passato, la vecchia ideologia del mettere l’arte in cantina. Così chi soffia contro il governo ha buon gioco. Da giorni si susseguono le occupazioni di accademie e conservatori. Napoli. Poi Roma. Lunedì Pesaro. E altre se ne annunciano. È vero che gli studenti sono spesso disinformati, che vien fatto loro credere che i loro titoli di studio siano carta straccia e che incontrarli nelle loro assemblee può aiutare a fare chiarezza; ma essi esprimono comunque un disagio autentico che nasce da una sensazione di fondo, quella che per loro (più di sessantacinquemila) ci sarà sempre, alla fine, una condizione di abbandono. E altrettanto esprimono i sindacati; i quali, umiliati nelle loro (modeste) richieste, minacciano il blocco delle attività. Ma ha un senso politico tutto questo? Ha un senso che proprio il governo che potrebbe vantarsi di avere dato al paese una nuova, più avanzata formazione artistica e musicale, diventi l’obiettivo di una protesta che sta dilagando nel paese? Per venti milioni e per pochi altri milioni di rinnovo contrattuale? Dice che l’Unione paga dall’inizio un difetto di comunicazione. Ecco, io sto provando a ovviare a questo difetto dopo avere cercato con il ministro Mussi di sensibilizzare i luoghi di decisione politico-parlamentare della Finanziaria.

Mi rivolgo a chi può intervenire nelle sedi istituzionali, ma anche agli intellettuali, a chi ha a cuore il futuro della nostra produzione artistica, affinché questo taglio non si compia. Perché un chilometro di autostrada, magari di qualche opera che rimarrà incompiuta, si converta nella tranquillità minima di più di cento istituzioni di alta formazione artistica e musicale. Al resto penseranno il lavoro, l’intelligenza, la parsimonia, la passione, la fantasia. Perché l’uno si può moltiplicare per dieci. Lo zero no.

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Pubblicato il: 08.12.07
Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.17   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa - Il Senso della Misura
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2008, 06:24:19 pm
Il Senso della Misura

Nando Dalla Chiesa


E così sull´Angelus di domenica è scoppiata la guerra delle cifre e delle smentite. Proprio come sulle migliori manifestazioni politiche e sindacali. Logica conclusione di una giornata politica e per tanti aspetti surreale. Una domenica «per difendere il diritto di parola del Papa». Che partiva dal teorema che qualcuno avesse impedito al Papa di parlare. Teorema già smentito ieri, a piazza svuotata, dagli stessi organizzatori.

Vogliamo dunque ricordare i fatti, i puri fatti?

Il rettore della Sapienza aveva invitato Benedetto XVI a partecipare all´inaugurazione dell´anno accademico. Scelta che si può considerare, a seconda dei punti di vista (entrambi legittimi), felice o poco opportuna. L´1,5 per cento dei docenti della Sapienza, alcuni certo di grande prestigio accademico, aveva ritenuto di dichiararla inopportuna al rettore in una lettera scritta molte settimane fa. Non è l´occasione appropriata, avevano detto.

Questo significa che si è voluto impedire o che - in assoluto - «si vuole impedire al papa di parlare»? O forse il limite delle circostanze di tempo e di luogo non si applica anche alle autorità politiche, militari o ai leader civili, senza che questi si sentano, per ciò, imbavagliati o cacciati in esilio? Fatto sta che, più di recente, centinaia di studenti (forse, in rapporto alla popolazione studentesca, ancor meno di quell´1,5 di docenti) avevano a loro volta annunciato che avrebbero contestato la presenza del papa a quell´inaugurazione. E il solo loro annuncio ha indotto il pontefice a non andare alla Sapienza. Dove, in virtù delle misure di sicurezza allestite, egli avrebbe potuto parlare tranquillamente, come hanno parlato Mussi e Veltroni, nei confronti dei quali pure era stata annunciata una dura contestazione.

Chi dunque ha impedito che cosa? Ieri il Vaticano ha fulmineamente cambiato la sua versione. Nessuno ha impedito nulla, ha spiegato. È stata invece una scelta «magnanima» del Santo Padre quella di non creare, fuori dall´università, i problemi di ordine pubblico paventatigli dal ministro dell´Interno (che smentisce). Ma se fosse andata così, a maggior ragione, perché una chiamata dei fedeli alla mobilitazione antiregime? Forse si vorrebbe vivere in una società dove non ci siano neanche più piccole minoranze dissidenti, che esprimano ora un giudizio di inopportunità, ora (specie se minoranze giovanili) un´intenzione di contestare?

Davvero è in discussione in questo paese la libertà di parola del capo della comunità cattolica, visto che egli ha più di chiunque accesso ai media televisivi, e che sul territorio egli parla ai fedeli attraverso decine di migliaia di parrocchie, centinaia e centinaia di scuole, associazioni e riviste? Eppure un ricco campionario di esponenti politici ha pensato di manifestare in Vaticano proprio per «difendere il diritto di parola del papa». Ossia per una causa che non esiste. Fin quasi a far temere che il dissenso altrui sia considerato, esso, la «vera» minaccia, la dittatura laicista in arrivo, nuova cavalleria lanzichenecca o cosacca all´orizzonte di Roma.

Forse è tragico, come ha detto Arturo Parisi. Ma la sensazione è che la risposta stia altrove. Che questo paese abbia il suo primo, grande problema non nella legge elettorale, non nella divisione tra laici e credenti, non nella giustizia. Ma in qualcosa che viene ancora prima. Ossia nel senso della misura. Nella capacità delle sue classi dirigenti di misurare e raccontare la realtà. Di non farsi trasportare come foglie morte dai venti dell´ideologia e delle campagne mediatiche. Di sapere distinguere il surreale, il comico e il tragico che con tanta disinvoltura si mescolano nelle nostre vicende quotidiane.

Totalmente comica, nemmeno surreale, è stata ad esempio la veglia notturna del Foglio in difesa della libertà di espressione del papa. Eppure c´è chi, da sinistra, vi ha visto serietà di causa e di fini e quindi ha ritenuto di parteciparvi. Ma contemporaneamente è tragico il collegamento immediato tra quella veglia e la campagna di Ferrara contro la legge sull´aborto. Tragico che si vogliano ricacciare indietro i diritti civili o le legislazioni conquistate trent´anni fa, invece di farle progredire. Ma è di nuovo comico che a guidare l´esercito che inalbera la bandiera (sempre più grifagna) della «famiglia» siano sterminate truppe di divorziati e libertini. Tragico è che la Regione Sicilia abbia un presidente che avverte i boss mafiosi delle indagini che la magistratura conduce nei loro confronti, specie se si pensa che un suo predecessore di nome Piersanti Mattarella cadde assassinato proprio per difendere la Sicilia dalla mafia. Ma è comico, irresistibilmente comico, che egli esulti e baci amici e benefattori per avere avuto «solo» cinque anni di galera. Sembra un film inventato da un nemico insolente quello di lui che festeggia la condanna offrendo cannoli; o dei suoi alleati che gli danno solidarietà compiaciuta, perché non è mica complice della mafia, perbacco, l´avevamo sempre detto noi, ma solo dei mafiosi.

Poi ci sono le tragedie vere, non fatte di panna montata; e in cui le sfumature comiche proprio non sono possibili. E che però, diversamente dalle altre, non vengono viste fino al collasso sociale o allo scandalo mondiale. Quella della spazzatura, ad esempio, non vista per quindici anni, e che bene ha fatto Prodi a trattare, in questi mesi, come il più serio e vero dei problemi proposti dall´agenda politica. Oppure quella dei morti sul lavoro, che da poco tempo sta sulle prime pagine per merito più del presidente della Repubblica che di tutti gli altri messi assieme. Così come è tragedia (tragedia vera e rimossa) la crisi di legittimità della classe politica. Per risolvere la quale, ammesso che sia ancora possibile, occorre impegnarsi anima e corpo nei propri compiti più che imbucarsi ogni giorno in quella realtà virtuale fatta di televideo e agenzie e della loro interminabile esplorazione. Certo non si risolve, quella crisi, con gli improvvidi applausi bipartisan contro i magistrati. Perché è ben vero che i reati contestati a Mastella sono in realtà i comportamenti praticati da gran parte della politica e non solo in Campania, e che in tal senso egli finisce per diventare una specie di capro espiatorio (oddio quante mammolette spuntano in questi giorni... ma perché, ignoravano come si conquistano le poltrone e le direzioni ospedaliere, o pensavano che i moralisti esistessero per uno sfizio personale?). E tuttavia è anche vero che una politica che marcia a una sola spanna di distanza dal codice penale è una tragedia, anch´essa non vista; forse la più efficiente spiegazione dei nostri ritardi sulla scena dello sviluppo civile ed economico internazionale.

Ecco, oggi occorre alla guida del paese proprio questo: qualcuno dotato dell´autorevolezza per parlare con senno e coraggio a un´opinione pubblica perennemente agitata dalle mille notizie che si gonfiano su se stesse. Capace di indicare i confini tra il fatuo e l´importante, tra il reale e il surreale, tra il comico e il tragico. Che rifaccia l´agenda politica, che fornisca tutti di un accettabile senso della misura, e consenta per questa via di fissare i traguardi e di scegliere la bussola per arrivarci. Il Partito democratico dovrebbe aspirare, prima di ogni altra cosa, ad avere questa autorevolezza. Senza, gli sarà tutto maledettamente più difficile.

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Pubblicato il: 22.01.08
Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.12   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa - La nostra preferenza
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2008, 05:05:04 pm
La nostra preferenza

Nando Dalla Chiesa


Ma delle preferenze ne vogliamo parlare? Siamo sicuri di avere orecchie buone, almeno quanto basta per ascoltare, non si dice i cittadini, ma i nostri stessi elettori? Siamo certi di sapere annusare anche alla lontana le ragioni che stanno scavando un baratro fra la politica e la “gente”? Ferve il dibattito sulle riforme elettorali, sulle urgenze della politica, ma sembra che ci sia un tacito patto per non sfiorare nemmeno il tema. E vien da chiedersi perché.

Perché il centrosinistra sia così timido, assolutamente balbettante, sulla questione delle questioni: il fatto che gli elettori vogliono (pensa la stramberia) scegliersi i propri eletti. Si ha un bel parlare di dimezzare i parlamentari, di frullare un po’ di sistema spagnolo con un po’ di sistema tedesco o francese. Ma quel che ha generato rabbia, nella legge elettorale voluta dal centrodestra, ciò che la fa apparire fino in fondo “una porcata”, è proprio l’impossibilità di scegliersi in qualsiasi forma i propri rappresentanti. Certo, il rischio dell’ingovernabilità in un’Italia divisa in due. Certo, l’assurdità dei premi di maggioranza regionali per il Senato. Ma la vera, profonda linea di frattura sta in quel listone bloccato, nell’ordine di servizio giunto a sostituire il libero menù di una volta, nell’obbligo di sorbirti la minestra cucinata dagli apparati. Nel non poterti nemmeno prendere il gusto di punire il “tuo” partito se ti presenta un incapace o un corrotto perché in ogni caso, da qualunque parte ti volti, proprio non hai la possibilità di scegliere una donna o un uomo di tua fiducia. Listoni bloccati dappertutto.

È vero che anche con i collegi uninominali ti piovevano addosso candidati scelti dalle segreterie. Ma se non ti piacevano o ti piacevano meno dei candidati dell’altra parte (succede...), potevi scegliere la soluzione alternativa. Non per caso alla Camera almeno duecento collegi (circa un terzo del totale) dipendevano dalle qualità personali dei candidati. Di più. Una volta eletti, i candidati erano tendenzialmente obbligati a mantenere un rapporto di collegamento diretto con gli elettori, o almeno con le loro espressioni organizzate - politiche, civili e sociali -. Con la “porcata”, invece, tanti saluti a tutti; il rapporto si è azzerato.

Si consuma così il più eclatante dei paradossi. In una società che personalizza tutto e attraverso la comunicazione mediatica trasforma l’individuo in spettacolo e l’idea politica in individuo; in una società televisiva che ha fatto della politica una compagnia di giro di signore e signori; in una società che predica la centralità della persona, viene fatta sparire proprio la persona. Contano così solo due cose: un simbolo su cui mettere la croce e il futuro premier, lasciando il cittadino con la convinzione di non avere più in parlamento il “suo” riferimento. È davvero assurdo quel che è avvenuto e a cui sembra non si voglia cocciutamente porre riparo: un parlamento padre di una legge che incoraggia sentimenti di estraneità popolare al parlamento medesimo. O, detto più bruscamente: un parlamento che fomenta l’antiparlamentarismo.

Al di là dei problemi che produce in termini di stabilità e di coerenza istituzionale, la “porcata” proprio qui si esalta. E da qui rischia di incidere in profondità sull’antropologia politica del paese. Poichè se questo cruciale aspetto della legge non verrà affrontato con ogni chiarezza ed energia, nulla restituirà alla nostra democrazia l’indipensabile collegamento tra la Piazza e il Palazzo. Qual è dunque il motivo che spinge a rischiare il baratro? Il motivo per cui non si ritiene di intervenire? Lo sappiamo: la ragione inconfessabile è che i partiti, tutti i partiti, all’assenza delle preferenze ci hanno preso gusto. In misura diversa ma ci hanno preso gusto. Conviene alle segreterie scegliere i candidati perché questo garantisce un maggiore livello di fedeltà personali. Conviene a molti maggiorenti diventati tali per cooptazione sottrarsi a ogni misurazione dei propri consensi sul campo. Conviene ai gruppi dirigenti evitare scomode e impreviste ascese di qualche candidato in virtù dei consensi popolari, i quali ogni tanto (anche questo accade...) possono non rispecchiare i pacchetti di tessere ma certificare piuttosto l'appoggio dell’opinione pubblica. Sono convenienze mai dichiarate, è ovvio. Ma che si sono esplicitate in più momenti, dai tempi del dibattito parlamentare sulla stessa legge alla più recente scelta delle liste bloccate per le primarie del Pd.

Ci sono, è vero, anche le ragioni per così dire nobili di questa riluttanza. Le preferenze, si dice, innescano lotte intestine; le campagne individuali danno chances maggiori ai più ricchi e ai più famosi (magari per “meriti” televisivi); le spese crescenti di una campagna individuale incoraggiano la corruzione. Ma ognuna di queste ragioni può essere smontata o ridotta in minoranza. Perché se tutto si decide ai vertici degli apparati, la corruzione può trasferirsi nel tesseramento o nelle correnti di partito e nel procacciamento di risorse “per il partito”. Quanto alla “lotta intestina” (che potrebbe essere più benevolmente essere chiamata “competizione”), essa nei collegi uninominali non c’è. Mentre le spese potrebbero, quelle sì, finalmente essere oggetto di una legge seria, che indichi non solo il tetto ma anche i modi per verificarne l’osservanza e i soggetti chiamati a esercitare i controlli più penetranti (almeno sulle voci misurabili: spot, tipografie, affissioni, eventi pubblici). Su una cosa si può essere d’accordo: che alle elezioni per il parlamento europeo, se non si cambieranno le dimensioni delle circoscrizioni, davvero il successo ottenuto a colpi di preferenze diventerà sempre più direttamente legato al censo. Ma questo vale appunto per le elezioni europee, non certo per una delle vecchie circoscrizioni proporzionali e meno che mai per il collegio uninominale.

In realtà, una volta per tutte, bisognerebbe acquisire un principio, anche se fastidioso per gli equilibri partitici: la preferenza o l’indicazione di un nome per il parlamento è ragione e conferma dell’essenza della democrazia. Specie per la storia di questo paese. Non capirlo, rifiutarsi di vedere il problema ci spingerebbe sempre più velocemente verso la diffidenza, verso l’apatia o verso l’ostilità popolare. E voglia il cielo che quest’ultima si limiti a prendere le forme del grillismo.

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Pubblicato il: 29.01.08
Modificato il: 29.01.08 alle ore 8.16   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa. Il coraggio dell'abbraccio
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2008, 10:57:47 pm
Il coraggio dell'abbraccio

Nando Dalla Chiesa


La violenza come sublimazione della fede politica, come prova suprema della sua coerenza. L’assassinio come pedaggio da pagare alla realizzazione dell’“Ideale”. Pedaggio sgradevole, è vero, ma non ignobile, visto che «la rivoluzione non è un pranzo di gala». La vita umana come valore sacro solo per i cattolici piccolo-borghesi, non certo per i rivoluzionari.

Chi pensa che questo corredo ideologico sia appartenuto solo a frange di fanatici, a gruppuscoli impazziti che hanno costellato di sangue la storia degli anni settanta in totale estraneità al contesto culturale dei tempi, sbaglia. E chi lo dice mente (spesso) sapendo di mentire. Quel corredo giunse a centinaia di migliaia di giovani, di destra e più frequentemente di sinistra, come un deposito della storia; grazie alle culture fuoriuscite allo stato brado dagli argini delle teorie politiche della rivoluzione, ciascuna munita delle proprie salvifiche doppiezze, o dall'effervescenza creativa del sessantotto.

Difficile teorizzare la rivoluzione armata senza lasciar covare sotto le ceneri l’idea che - oggi o domani, dipende - la storia possa camminare sull’esercizio della violenza fisica, concimarsi con la morte dei nemici di classe. Difficile teorizzare l’estetica della rivoluzione, il valore antiborghese del “gesto” sovversivo senza inoculare il veleno della purezza del delitto. Specie se in ascolto è un naufrago diciottenne o uno sbandato della lotta di classe in cerca di grandi ragioni per vivere.

I cattivi maestri, anche di nobili intenzioni, figli di tempi tragici o (più tardi) padri di tempi tragici, sono stati legioni, da una parte e dell’altra. Hanno avvelenato a lungo i pozzi della politica, trascinando le speranze più generose verso l’orrore senza ritorno. Ragazzi di buona famiglia uccidevano il missino Sergio Ramelli. Ma ben più numerosi erano i ragazzi di buona educazione e animati da ideali di cambiamento pronti a scrivere che «uccidere un fascista non è un reato»; o ad aggiungere al «Ramelli vive» che campeggiava rabbioso e orgoglioso su qualche muro, uno spietato «tra i vermi». E ancora molti più ragazzi leggevano imperturbabili quell’aggiunta disumana e ne ridevano. No, per quanto tutto sia storicizzabile, per quanto ogni generazione abbia dovuto incolpevolmente respirare e assimilare i suoi veleni culturali (ci sono anche i veleni pacifici, infatti, anche quelli odierni dell’ipnosi catodica), ciò che accadde negli anni settanta non può non fare orrore e non può essere coperto dal fatto - vero, verissimo - che essi, oltre a essere anni di piombo, furono anche e forse soprattutto anni di conquiste civili, sindacali e culturali.

L’abbraccio di domenica scorsa a Roma tra Giampaolo Mattei e la madre di Valerio Verbano sotto lo sguardo di Walter Veltroni intreccia due delle tragedie più agghiaccianti di quel periodo, dipingendocelo - quel periodo - con un’unica, terribile pennellata. L’abbraccio offre però qualcosa di più alto di una “riconciliazione”. Non si sono abbracciati infatti l’autore della violenza e la sua vittima. Ma le vittime di violenze opposte. Che fra di loro nulla hanno da perdonarsi. Innocente è Giampaolo Mattei, fratello di Virgilio (ventidue anni) e di Stefano (otto!). Innocente è Maria Zappelli, madre di Valerio (diciannove). Il primo piange ancora la tragedia di una famiglia con sei figli; a cui tre militanti di Potere Operaio decisero una notte di dare alle fiamme la piccola casa, avendo perfettamente l’età della ragione per sapere che quella tanica sciagurata e le fiamme che ne sarebbero divampate avrebbero potuto distruggere otto vite nel modo più orrendo. Da allora l’immagine dei due corpi carbonizzati resiste negli archivi della memoria a spiegare in quale abisso di vergogna possa precipitare il mito rivoluzionario.

La seconda, Maria Zappelli, fu costretta a un’atrocità senza pari per una madre. Dare ospitalità a tre “amici” del figlio che, una volta in casa, si riveleranno esserne gli assassini. Attendere che il figlio torni, anzi, sperare che non torni, perché davanti a lei e suo marito, legati e imbavagliati, ci sono quelli che lo uccideranno. Sentirlo tornare. Disperarsi nel silenzio di un secondo. Sentirlo uccidere. Un bel gesto rivoluzionario, non c’è che dire. Un bel modo, per i tre militanti dei nuclei armati rivoluzionari della estrema destra, di “vendicare” i morti della propria parte.

Trent’anni dopo, l'abbraccio di domenica dice la superiorità dei sentimenti umani davanti alla politica che li rinnega; la forza suprema del dolore di fronte al quale ogni ideologia dovrebbe rannicchiarsi e farsi sospettosa di se stessa. Mescola due storie nel punto esatto in cui vanno mescolate, fuse. Quello della vita, lei sì valore supremo, che è stata violata. Quello della pietà che si erge sopra tutto e pretende l’omaggio di chi si è perso a onorare falsi idoli. Riporta al centro il valore immenso della pìetas latina, il valore che, continuamente aggredito e insultato, dà sempre senso, alla fine, alle comunità umane. E che può essere offeso, prima di giungere all'assassinio e alla sua rivendicazione, in tante altre forme, attraverso tutte le (lecite) manifestazioni del pensiero e della parola, dai documenti politici alle barzellette, dagli articoli di giornale ai discorsi da osteria o a quelli che si fanno nelle istituzioni. È lunga la catena che legittima l’offesa alla pìetas. E lunga è la catena degli offesi, dal bimbo rom fino al potente giusto. Per questo la natura politica dell’omicidio, nei due casi ricordati come in tutti gli altri, lungi dall’essere attenuante ne diventa aggravante. Non certo agli occhi di un tribunale, ma certo davanti alla coscienza di chi ama la politica e si batte per renderla strumento di cambiamento; perché essa obbedisca, prima di tutto, ai grandi valori che fondano le comunità umane.

È stato un abbraccio speciale. Degno di tempi che scoprono ingiustizie sepolte. Volendo, non c'è stata infatti riconciliazione neanche nell’accoglienza riservata di recente al bel libro di Mario Calabresi, «Spingendo la notte più in là». Anche in quel caso nessun incontro, nessun abbraccio, tra chi uccise e le vittime. E nemmeno tra chi orchestrò una campagna spietata contro il commissario e la sua famiglia. Ma il trionfo della pìetas; la scoperta, da parte di un'opinione pubblica finalmente vigile verso se stessa, finalmente disposta a scrutare nei pozzi neri della storia, di una famiglia che a quella pìetas aveva diritto dopo decenni di diffidenze e rimozioni.

Un abbraccio che certo sembra suggellare una “fine degli anni di piombo”, quella fine tante volte e un po’ ipocritamente invocata per chiedere amnistie per terroristi e (nella classica logica dello scambio politico) per altre categorie di criminali. E tuttavia non è la fine di quegli anni perché oggi i nemici di ieri si parlino. È la fine perché i nemici di allora, da quell’abbraccio tra innocenti, vengono sconfitti insieme nell’infinita miseria della loro idea di politica. Perché tutt’e due insieme, in quell’abbraccio tra un giovane uomo e una donna anziana, possono specchiarsi e provare ripugnanza per se stessi. E scoprire di essere uguali, maledettamente uguali.

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Pubblicato il: 26.02.08
Modificato il: 26.02.08 alle ore 12.02   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa. Quando dissi Garage Olimpo
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 12:30:05 am
G8, la giustizia si è fermata a Genova

Giancarlo Ferrero


I fatti di Genova-Bolzaneto in occasione del G8 meritano ben più di qualche colonna su alcuni giornali, di una sia pur agghiacciante ricostruzione televisiva, di una corale, indignazione popolare e qualche sommesso balbettio politico, richiedono una dolorosa e profonda presa di coscienza collettiva ed una ferma volontà di cambiare radicalmente natura e “modus operandi” delle istituzioni statali.

All’estero si parla apertamente di rigurgito di fascismo, di complicità dei vertici, di inadeguatezza della giustizia, di atonia morale e di deresponsabilizzazione generalizzata. .Sono gentili all’estero, biasimano, ma non gridano allo scandalo, si mantengono entro i limiti della buona creanza e del buon vicinato, non scuotono il mantello, non puliscono i sandali sullo stoino del confine italiano. Dovrebbero farlo perché quanto è accaduto è indegno di una nazione civile, tanto più se membro della comunità europea. I fatti sono conosciuti in tutto il loro orrore, immortalati dalla cruda riproduzione fotografica e confermati sul piano probatorio in tribunale. Su dei giovani, magari malvestiti e forse scalmanati, si è scatenata la furia cieca e distruttiva di una banda di teppisti in divisa, preposti a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Con il loro inqualificabile comportamento sono stati inflitti, in forme e modi diversi tutti ispirati al male, dolore e sofferenze completamente gratuite.

Poichè lo Stato democratico e di diritto non può che tendere al bene dei suoi cittadini, la prima conseguenza logico-giuridico che deve trarsi dai fatti incriminati è che quegli uomini in divisa non erano espressione dello Stato, ma semplicemente traevano occasione dalla posizione che rivestivano abusandone. Era ed è fondamentale dovere dello Stato di diritto prendere le distanze da questi indegni servitori, estirpandoli dal suo tessuto vitale, sanzionandoli sia con le pene previste per i delitti commessi sia destituendoli dal loro impiego. Non ci risulta che il ministero dell’interno abbia compilato e divulgato una lista di proscrizione,avviando e concludendo uno specifico procedimento disciplinare. Non ci risulta che la parte sana della polizia di Stato, che pure esiste ed è attiva, abbia preso una drastica posizione contro gli autori dei misfatti, sottolineando l’enorme differenza che la separa da questi ultimi, ribadendo la sua vicinanza ai cittadini onesti e la loro umana attenzione contro chi viola le leggi e va punita. Come non richiamare l’attenzione alla preghiera della polizia, recitata nelle cerimonie ufficiali: «ispiraci, o madre di Dio, misericordia verso coloro che soffrono, in modo che siano in noi conciliati il sentimento fraterno e la necessità del dovere... ispiraci sentimenti di misericordia verso coloro che soffrono...». I reati sono stati commessi nel luglio del 2001, la procura di Genova si sarà certamente resa conto della gravità dei fatti e del loro enorme impatto con l’opinione pubblica, dagli occhi ancora feriti dalle immagini viste in televisione. Il processo era indubbiamente delicato e complesso, difficile da gestire per la povera ed a volte scorretta collaborazione della polizia,ostacolato dai mille intrugli processuali del nostro faraonico codice, ma poteva comunque svolgersi in tempi molto più contenuti. Dopo quasi sette anni si è ancora alla fase dibattimentale di primo grado, a cui dovranno aggiungersi i tempi storici per gli altri due gradi successivi di giudizio; la prescrizione arriverà molto prima e nessuno dei violenti aggressori sconterà un solo giorno di pena detentiva.

Questa della lentezza della nostra cosiddetta giustizia è un cancro in fase terminale ed il Csm ha sinora brillato per proteste verbali, raccomandazioni e qualche limitato ricorso contro i magistrati più neghittosi (è di questi giorni lo scandalo di una sentenza di condanna che ha dovuto attendere anni perché venisse depositata la relativa motivazione). Non è solo su questo punto che il Csm ha dimostrato di non sapersi muovere con la concretezza e la rapidità che la giustizia richiede (sull’attuale problema della magistratura onoraria basterebbe sentire le opinioni dei presidenti delle Corti di Appello). I pubblici ministeri che si sono ultimamente occupati dei fatti di Bolzaneto hanno compiuto un lavoro molto accurato, ma non hanno potuto fare altro che applicare le leggi vigenti. Con un ritardo in perfetta armonia con la sua malacoscienza, la classe politica, nonostante le pressioni della comunità europea, non ha ancora introdotto nel nostro codice il reato di tortura che all’art. 593 bis c.p. del disegno di legge fermo al Senato recita: «il pubblico ufficiale... che infligge ad una persona... dolore o sofferenza, fisiche o mentali... è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale, raddoppiata se ne deriva la morte». Difficile contestare che lo strappo di una mano, di un labbro, di manganellate, di minaccia di stupro alle ragazze non rientrassero a pieno titolo nelle fattispecie prevista dall’art.593 bis citato.

Non essendo, peraltro, ancora legge dello Stato, i magistrati inquirenti non hanno potuto che far ricorso alle ben più modeste figure di lesioni personali (poco più di una percossa), di abuso d’ufficio (hanno un pò ecceduto dal loro compito di individuazione dei fermati) e di altre intemperanze goliardiche. Non occorre essere degli esperti per comprendere che le gravissime violenze perpetrate dal nutrito manipolo di indegni agenti sono frutto non solo del loro istinto brutale, ma dall’implicita convinzione che in ogni caso sarebbero stati protetti dall’alto ed avrebbero ottenuto il silenzio per intimidazione dal basso. Per questo è l’intero sistema che deve essere rivisto a fondo, dal reclutamento, all’addestramento, ai controlli, alla trasparenza; il Paese ha un estremo bisogno di una polizia capace e vicina ai cittadini, democratica e fortemente motivata, istintivamente e culturalmente agli antipodi da quella ispirata al modello cileno. Il caso, comunque, non è chiuso: i giudici debbono ancora emanare la sentenza e, soprattutto, debbono motivarla con l’attenzione e l’intelligenza giuridica che il caso richiede, dedicando qualche parola alla situazione umana ed istituzionale ed alle cause che possono aver scatenato la violenza. Alle parti offese non resta che avanzare pesanti richieste risarcitorie certamente non limitate ai danni patrimoniali subiti, ma a quelli ancor più gravi di carattere morale, esistenziale e,se ne ricorrono i presupposti (riduzione della vita di relazione) biologici che lo Stato (salvo poi rivalersi nei confronti degli imputati) dovrà corrispondere (oltre all’indennizzo per ritardata conclusione del processo) Resta poi aperta la via della Corte europea, di fronte alla quale l’Italia andrà incontro alla solita pessima figura. Ci resta la speranza che di fronte ad una vergogna così grande la classe politica abbia un sussulto di dignità e riveda l’intera organizzazione e struttura della polizia, a tutela sia dei cittadini che del buon nome e reputazione di tutte le forze dell’ordine.


Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.53   
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Titolo: G8, AMATO: SU DIAZ E BOLZANETO SI VA AL DI LA' DI OGNI COMPRENSIONE
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2008, 08:07:50 am
2008-03-21 11:34

G8, AMATO: SU DIAZ E BOLZANETO SI VA AL DI LA' DI OGNI COMPRENSIONE


ROMA - "Non possiamo giudicare quei comportamenti inumani e vessatori semplicemente come violenza privata e abuso d'ufficio. E' qualcosa di più. Deve esserci una severità maggiore quando si esercita violenza contro chi è assoggettato al tuo potere". Lo dice il ministro dell'interno Giuliano Amato, in un'intervista pubblicata questa mattina da 'la Repubblica', su quel che accadde a Bolzaneto dopo il G8.

"Per la Diaz e Bolzaneto si va al di là di ogni capacità di comprensione". E questo, secondo Amato, "é vero soprattutto per Bolzaneto dove più che la polizia, c'era soprattutto la polizia penitenziaria che non doveva fare i conti con la pressione della piazza e che, custodendo persone assoggettate, dovrebbe guardarsi dall'abuso di autorità, dovrebbe saper rispettare la dignità umana". Ma per il ministro dell'Interno quella di Bolzaneto "é stata una bruttissima storia", che ci ha riportato agli anni cinquanta/sessanta, in un'Italia prepasoliniana in cui vigeva "un'interpretazione riduttiva dei principi costituzionali","una cultura dello Stato non ancora consapevole di dover essere al servizio del cittadino".


SI VOLEVA DE GENNARO AL ROGO

"Io non credo che immolare il capo della polizia avrebbe risolto il problema". Dopo Genova "si voleva mettere al rogo De Gennaro per fare l'incendio più fiammeggiante". E' quanto sostiene il ministro dell'Interno Giuliano Amato in un'intervista a 'la Repubblica' sui fatti del G8 di Genova. "Il capo della polizia ha ritenuto di non dimettersi - prosegue Amato - Ha con fermezza detto di non essere il responsabile di quanto accaduto. Le violenze di Genova gli sono parse così lontane dalla sua cultura professionale, dalla sua storia di poliziotto che ha pensato di restare al suo posto, di difendere se stesso". Secondo Amato, dopo Genova si voleva la testa di De Gennaro "perché lui era quello più in vista" ma il ministro ritiene che "va sempre accertato chi ha fatto cosa"."Anche per questo - aggiunge - non vedo l'ora che i processi di Genova si concludano in modo che se ne possa riprendere il bandolo e riportarlo all'interno dell'amministrazione assumendo le decisioni opportune".

da ansa.it


Titolo: Nando Dalla Chiesa. Quando dissi Garage Olimpo
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2008, 09:28:55 pm
Quando dissi Garage Olimpo

Nando Dalla Chiesa


Garage Olimpo. Usai d’istinto quest’immagine un paio di giorni dopo la «macelleria messicana» della Diaz. Su queste pagine, ancora sconvolto dalla visita alla scuola che era stata usata come dormitorio da un centinaio di giovani no-global; mentre nella colonna a fianco Giuliano Pisapia raccontava gli orrori di Bolzaneto. Venni autorevolmente rimproverato per quella metafora. Ma come? Accostare i comportamenti della nostra polizia repubblicana e democratica a quelli degli agenti di una dittatura militare? Qui si è perso il senso della misura, venne detto e scritto, anche su fogli progressisti.

Ora quell’immagine è diventata senso comune. Ed è un successo della Storia, la quale alla fine pesa sempre più delle frenesie polemiche e delle omertà politiche del momento. Perché l’atto di accusa della Procura di Genova non fa che trasferire sul piano giudiziario i racconti e le testimonianze che iniziarono a giungere all’opinione pubblica internazionale già la notte di quel sabato di terrore e di follia. I giovani e i meno giovani che subirono di tutto, letteralmente di tutto, alla Diaz come a Bolzaneto, non mentivano. E, contrariamente a quel che si insinuò allora, non avevano alcun interesse a mentire. Non erano terroristi e in grandissima parte non avevano neanche partecipato agli scontri ingaggiati da non più di diecimila manifestanti su trecentomila contro le forze dell’ordine nei due giorni prima.

Forse, anzi senz’altro è giusto elencare quali convenzioni e quali trattati internazionali siano stati violati nell’occasione. Ma io continuo a pensare che Diaz e Bolzaneto siano semplicemente il capitolo più nero, il più indecente scempio del diritto consumatosi nella storia della Repubblica. E continuo a pensare che tutti coloro che se ne resero responsabili debbano vedere consegnato il loro nome alla storia più che ai tribunali. Mai ho visto le tracce di violenze tanto gratuite e convinte della propria futura impunità. Mai, dai luoghi di una democrazia, ho ascoltato racconti così drammatici, così capaci di rimescolare indignazione e commozione in tutta Europa. Certo, abbiamo saputo di terroristi tedeschi uccisi in carcere. Abbiamo visto squadre di poliziotti americani pestare a morte un nero. Abbiamo saputo di pestaggi a morte anche in Italia, magari scatenati da futili motivi. Singoli, intollerabili episodi. Mai però pestaggi o torture, fisiche o psichiche, di massa. Senza preoccupazione alcuna per le reazioni delle famiglie, delle ambasciate, del parlamento, dei mezzi d’informazione.

Che cosa fuoriuscì d’improvviso dai sotterranei delle nostre culture e prassi istituzionali? Che impazzimento di logiche, di comportamenti, prese il sopravvento anche su storie fin lì onorevoli di funzionari di polizia di tutta Italia? Dunque a nulla era valsa la sindacalizzazione delle forze dell’ordine per ancorarle a un’idea democratica della loro funzione? E il legame, il profondo legame, stretto con il popolo e con gli studenti negli anni duri ed eroici della lotta al terrorismo e alla mafia, quel legame anche morale, perfino affettivo, dov’era finito? D’altronde, che quanto successe nella notte tra sabato e domenica alla Diaz e a Bolzaneto non facesse, in quei giorni, "storia a sé", è testimoniato da una sequenza incancellabile in ogni coscienza civile: i fotogrammi del vicequestore in borghese che prende la rincorsa e sferra un calcio sulla testa di un quindicenne inerme a terra (altro che il risarcimento civile, in questi casi ci sta solo la radiazione...). Reazioni inconsulte e poco professionali davanti allo stress di un evento carico di tensioni e paure o anche davanti alle aggressioni delle tute bianche? No. Queste reazioni inconsulte, sempre possibili, durano sulla piazza un’ora o due; poi vengono ricomposte, riportate sotto il controllo delle autorità più alte in grado. E si cerca di farle dimenticare, specie se nel frattempo c’è stato l’omicidio (per paura, per perdita di autocontrollo o altro ancora) di Carlo Giuliani; non le si rilancia a freddo quando arriva la notte scegliendo di infierire in massa su persone che dormono o addirittura scatenandosi su persone che sono già state private della libertà personale.

E dunque? Che venne fuori in quelle ore? Io non credo affatto che nel loro insieme le forze dell’ordine italiane considerino carta straccia i princìpi di una Costituzione democratica alla quale giurano fedeltà. Sono anzi convinto che le nostre forze dell’ordine, al di là delle idee che possono coltivare, abbiano ben presente la qualità della loro funzione di garanzia istituzionale. A volte più dello stesso potere politico. Se così non fosse, non si capirebbe neanche il largo tributo di sangue che esse offrono ogni anno alla nostra convivenza civile. A Genova dunque non venne fuori la loro "vera" natura. A Genova esplose una vena di pazzia, come può accadere alla persona più normale. Ma le ragioni di quell’esplosione devono essere ricostruite. E forse la commissione d’inchiesta parlamentare più volte invocata avrebbe aiutato a farlo. Che messaggi vennero dati, che clima venne montato intorno all’evento, che rappresentazione venne data del "nemico", che direttive vennero impartite, al di là dell’autentico disastro logistico-organizzativo che si consumò nella gestione dell’ordine pubblico per le strade della città?

Ed ecco che si arriva dunque diritti alla presunzione di impunità. Che forse ebbe un suo appiglio nella gestione degli scontri di Napoli della primavera precedente. Ma che certo si espresse esponenzialmente in luglio; nel fuoco della prima grande prova affrontata davanti al mondo dal nuovo governo Berlusconi sul terreno dell’ordine pubblico. Perché solo la certezza dell’impunità può portare a violare sistematicamente le principali garanzie di decine e decine di arrestati. Solo quella certezza può indurre a commettere violenze fisiche e psichiche diffuse sapendo che ci sono i ministri in città. E solo una campagna ideologica forsennata può portare a vedere nelle persone costrette in carcere dei nemici privi di dignità umana. Solo una campagna ideologica forsennata può portare a compiere verso semplici manifestanti comportamenti di cui le nostre forze dell’ordine, sottoposte a ben altre tensioni, non si erano macchiate -si badi- neanche ai tempi dell’Autonomia armata e del terrorismo.

Bolzaneto, la Diaz, quella settimana, ci dicono che molto c’è ancora da fare nella formazione dei quadri delle forze dell’ordine, per renderli assolutamente neutrali -come debbono essere- alle suggestioni ideologiche di qualunque tipo e colore. Ci dicono che i fantasmi di una vecchia cultura repressiva (che mai giunse a tanto, comunque) sono purtroppo sempre in agguato. Ci dicono che quando questi fatti accadono bisogna saperli vedere e giudicare subito, anche se si debbano contemporaneamente deprecare, come è giusto, le violenze di una minoranza facinorosa di manifestanti. Il fatto è che per troppo tempo si è lasciata sola Genova a chiedere giustizia per le offese inflitte alla sua cultura civile. E per troppo tempo una società e un parlamento ipergarantisti hanno taciuto o balbettato di fronte alla più grave violazione delle garanzie e dei diritti umani vissuta dalla nostra Repubblica.

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Pubblicato il: 22.03.08
Modificato il: 22.03.08 alle ore 14.52   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa. Expo, quando l’Italia gioca insieme
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2008, 02:54:08 pm
Expo, quando l’Italia gioca insieme

Nando Dalla Chiesa


Bacio, bacio. Non è nato dal più classico degli incitamenti goliardici lo scambio di effusioni tra Letizia Moratti e Romano Prodi. E neppure l’incontro ravvicinato tra le guance del sindaco e i baffi di Massimo D’Alema. Si è sprigionato, invece, dalla gioia spontanea e collettiva per un traguardo a lungo atteso e caparbiamente inseguito. Di qua Milano, il suo sindaco e la sua opinione pubblica. Di là il governo con la sua promessa di riservare a Milano un trattamento da grande capitale, e con i suoi ministri e sottosegretari impegnati da tempo a raggiungere questo obiettivo. Un gioco di squadra eccellente, come se ne vedono pochi sulla nostra scena politica e istituzionale. La scelta responsabile, neanche troppo declamata, di marciare uniti verso l’obiettivo. La scelta di raggiungerlo, prima di tutto, senza interrogarsi troppo su chi ne avrebbe incassato i dividendi politici. Un soprassalto di orgoglio cittadino e nazionale che arriva - rara avis - volando su una galleria infinita di egoismi e irresponsabilità di ruolo, che non hanno risparmiato nemmeno il governo dell’Unione.

Strano Paese, questo. Che quando scattano certe e irripetibili combinazioni sa fare muro, sa trovare il filo dell’interesse comune. Sa gioire e soffrire insieme, anche nel fuoco di una campagna elettorale che lo spacca in due, per un successo di tutti. Che premia la città simbolo del berlusconismo rilanciandola al centro dell’attenzione mondiale; e al tempo stesso consacra i meriti del governo più inviso a Berlusconi, quello guidato da Romano Prodi. Naturalmente il Cavaliere non si è sottratto alla tentazione di azzerare i meriti governativi e di intestare il successo alle sue bandiere. Ma il bacio-bacio tra Moratti e Prodi, Moratti e D’Alema, spiega con la forza delle immagini la (grande) natura comune dell’impresa. L’Italia in declino, l’Italia rancorosa, l’Italia in affanno e con classi dirigenti al ribasso, ha avuto un formidabile colpo di reni; come l’Italia stanca e molle che arrivò in Spagna nell’82 per vincervi i campionati del mondo, e che fu resa invincibile da un colpo di reni su cui nessuno avrebbe scommesso. Ma che un’atmosfera magica rese possibile in quei giorni. Qualcosa di molto simile è accaduto in questi mesi nell’agone politico: la nascita di quella tipica unità da sfida collettiva in cui tutti si gettano alle spalle qualcosa e, per converso, si caricano sulle spalle qualcosa che prima non c’era. Così che una volta di più si resta perfino allibiti nel constatare quali siano le nostre risorse potenziali, a quali conquiste possa tendere il “genio italico” quando ci comportiamo “come se”. Come se fossimo altra cosa da noi stessi.

Il fatto è che i colpi di reni che hanno costellato la nostra storia civile, dai giovani volontari ai tempi dell’alluvione dell’Arno alla lotta al terrorismo, ad alcuni momenti della lotta alla mafia, sono sempre durati poco. Grandi episodi. Che non hanno mai modificato in profondità il costume civile e politico. Che hanno fatto scuola senza cambiare il paese. Diventando spesso, semmai, brillanti alibi retorici per le sue pigrizie e cialtronerie. Perché, tornando alla metafora calcistica, se basta uno scatto d’orgoglio per vincere un torneo di poche settimane, non basta lo stesso scatto per costruire un ciclo, per cambiare la qualità di una squadra o addirittura di uno sport. Questa è in fondo la nostra risorsa e la nostra maledizione. Costretti a negare la nostra natura per costruire grandi vittorie, e scoprire al contempo che la nostra natura - quella che alla fine ci tiene nel consesso dei Paesi civili - sta proprio nella capacità di negare noi stessi nel momento giusto. Un po’ come ci ha insegnato sui libri di storia l’eroismo senza disciplina militare delle nostre guerre.

Ebbene, qui è Rodi, come si dice. La vittoria di Parigi deve ora essere messa pienamente a frutto. Deve servire a rigenerare Milano. A renderla più accogliente e funzionale, più bella e meno assurdamente cara, più ospitale e più trionfante di arte e di cultura oltre che di nuove infrastrutture. Ma questo, se sarà, sarà il risultato di valutazioni e di scelte che non si snoderanno in un arco breve di mesi. Ma in un arco di anni. I quali saranno segnati da turbolenze politiche, da soprassalti di autosufficienza e arroganza del potere, da pressioni e tentazioni inconfessabili, da un’infinità di interessi di bottega. Tutti affacciati, più tonici che mai, sulla grande arena dei progetti dove le lobbies si contenderanno decisioni pubbliche e finanziamenti leggendari. In cui passeggeranno ogni giorno i professionisti dei “buoni consigli”, i cantori delle opere “senza le quali la città non potrà restare in Europa”, in cui i grandi elettori della stessa maggioranza di Palazzo Marino presenteranno con molto garbo il conto del loro sostegno. Saranno anni di richieste e trattative che non verranno riprese - loro - da alcuna televisione, ma che avverranno in atmosfere ovattate. Anni lunghi. In cui non basterà il guizzo. In cui, invece, occorrerà sfoderare una vera cultura di governo, da Roma e da Milano. Per dare alla città il meglio di cui avrà bisogno per recitare la sua parte da grande protagonista.

Occorrerà una visione insieme lungimirante e chirurgica. Lungimiranza sul progetto generale di città che si vuole allestire, con le sue priorità, i suoi punti di forza da costuire ed esibire. E l’occhio del “chirurgo keynesiano” per impiegare i fondi con oculatezza certosina e imprimere loro al contempo una funzione moltiplicatrice. Insomma, per non gettarli a grandi lotti nei soliti capitoli (cemento & affari, per capirsi), con l’effetto certo di esaurirne i benefici in recinti ristretti e di sottrarre risorse preziose a voci cruciali per la qualità civile e culturale della metropoli.

Bacio, bacio. Vorremmo poterlo gridare da qui a sette anni ai governanti di allora, di Roma e di Milano, per festeggiare a pieno merito - come è accaduto ieri - quella che dovrebbe essere la più felice metamorfosi di Milano negli ultimi trent’anni. Ma dopo lo scatto di reni di questi mesi, vedremo un mutamento duraturo nel senso della responsabilità istituzionale, nella cultura di governo, nella fantasia creativa e creatrice? Questo è il nodo. La sfida dell’Expo è appena incominciata.


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Pubblicato il: 02.04.08
Modificato il: 02.04.08 alle ore 8.57   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Cannoli e cannoni
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2008, 05:56:10 pm
Cannoli e cannoni

Nando Dalla Chiesa


Oplà. Il salto di qualità è arrivato. Dai cannoli ai cannoni. La santa alleanza tra i lumbard di Umberto Bossi e il Lombardo siciliano si avvia a scatenare, con la benedizione del fratello di sangue Silvio Berlusconi, un nuovo disastro nella già lacerata società italiana. Ora l'uso dei fucili e dei cannoni, oltre che dalla Padania, viene minacciato anche dalla Sicilia, dove purtroppo le armi (non a salve) contro lo Stato italiano sono già state abbondantemente usate.

E dove Cosa Nostra ha coltivato con assiduo interesse, dopo le stragi del '92 e del '93, progetti secessionisti, inseguendo una "Sicilia libera" dalla presenza dello Stato di diritto. A questo siamo arrivati. E non senza colpe di chi si professerà innocente.

Perché immaginiamo che un qualsiasi parlamentare dell'estrema sinistra, non si dice un leader, ma un peone delle bandiere rosse, pratichi il linguaggio di Umberto Bossi e dei suoi colonnelli padani, e ora del loro alleato siciliano. Vedremmo subito televisioni di stato e private, e stampa padronale e indipendente (per quel che si può) andare all'assalto del malcapitato. E del suo partito. E della sinistra, anzi, dell'intero centrosinistra. E lanciare condanne e anatemi. E pretendere, ancor più, condanne e anatemi e abiure altrui. Sentiremmo accusare la sinistra di ogni abominio. L'intolleranza che trasforma gli avversari in nemici da abbattere. La furia da ghigliottina. I gulag. La contiguità con il terrorismo, anzi, i mandanti del terrorismo. E se poi il centrosinistra prendesse, come certo prenderebbe, le distanze da quel linguaggio, anche in tal caso non la passerebbe liscia. Le condanne e gli anatemi sarebbero sempre tardivi, sintomo di una cattiva coscienza. Le parole del peone delle bandiere rosse sarebbero sempre il frutto del "clima d'odio" seminato a piene mani contro la destra e contro il suo leader. Con i crimini televisivi. O con la strategia della menzogna. Eccetera. Eccetera.

Ecco, forse le prime pari opportunità in una civiltà politica dovrebbero consistere nel ritenere possibili e legittime, o intollerabili e illegittime, le stesse cose se dette o fatte da una parte politica o da quella opposta. Da noi, per una sorta di resa culturale dell'establishment nazionale, si è invece diffusa l'usanza di considerare diversamente gravi le parole, le offese, le minacce, se profferite dalla sinistra o dalla destra. E in particolare di concedere una specialissima immunità alla Lega di Umberto Bossi, della quale ora vorrebbe godere, per una sorta di proprietà transitiva, anche la Lega di Lombardo, sua fresca alleata. Entrambe padrone -ripetiamo, con la benedizione di Silvio Berlusconi- di impiegare un linguaggio che nessuna forza democratica, progressista o conservatrice, impiega al mondo. "Queste elezioni potrebbero finire con la necessità di imbracciare il fucile e di andare a prendere queste carogne". "I comunisti sono canaglie antidemocratiche. La sinistra è fatta da canaglie, luride canaglie". "Delinquenti, state molto attenti, che i padani non hanno paura di voi, vi pigliamo per il collo. Carogne tornate nella fogna, là è il vostro posto". Con crescendo rossiniano: "Allora stavolta pigliamo il fucile, facciamo vedere noi, decine di milioni di lombardi e veneti sono pronti a battersi per la loro libertà contro la merda che voi rappresentate". Questo l'altro ieri. Ieri, come se non bastasse, ha varcato il Rubicone l'alleato siciliano. Il vassoio di cannoli degli amici degli amici è già nello sgabuzzino. E ora si parla di fucili. Da nord e da sud.

Qualcuno pensa che questo linguaggio farà perdere voti al centrodestra? Che per sua causa qualche elettore inorridito possa decidere non si dice di passare dall'altra parte ma di negare il proprio voto al Pdl? Forse, ma non c'è da contarci. Perché il guaio è proprio questo. Che ormai, negli anni, il linguaggio della Lega ha trovato piena cittadinanza nella nostra civiltà politica. Fucili, pallottole, raddrizzare la schiena al magistrato poliomelitico, merde, luride canaglie, mettitela nel culo (la bandiera tricolore), faremo pisciare i maiali (sui terreni delle moschee), Italia bastarda. Ed è con questo linguaggio alle spalle e al suo interno che la destra continua a chiedere credenziali di cultura di governo al centrosinistra. I discorsi leghisti? Fanfaronate, metafore, espressioni paradossali. Sappiamo com'è fatto Bossi, lui parla sempre così. Ora, per non essere da meno, ha deciso di parlare così anche l'altro secessionista.

È difficile dire se da queste parole potranno scaturire comportamenti violenti (bisogna prendere atto che con la Lega questo non è generalmente avvenuto). Certo è che il rischio di un impazzimento del sistema e del costume politico è concretissimo. E che questo linguaggio, che trasuda una specifica ideologia, può produrre una miscela micidiale combinandosi con l'antiparlamentarismo galoppante e con il senso comune da tivù-trash (anche politica) che si sta divorando pezzi di elettorato senza che ce ne rendiamo conto. Con effetti imprevedibili, quanto meno, sul senso dello Stato e sullo spirito civico e di solidarietà nazionale.

Ecco come finisce a spiegarci da anni amabilmente che "lui parla sempre così". No. Lui, loro, non possono parlare così. Perché è consentito prediligere il linguaggio sobrio da Banca d'Italia o quello colorito dell'aia politica. Ma chi, già prima di sapere se andrà al governo, sa di rappresentare comunque le istituzioni non ha facoltà di usare "quel" linguaggio. A meno che non gli si riconosca uno status di minorità intellettuale, quasi da buffone di corte al quale tutto, come nelle migliori tradizioni, è consentito di dire. Purtroppo non si tratta di buffoni. Si tratta di politica, si tratta di voti veri. Di cui la destra, come si dimostrò nel '96, non può fare a meno. E con il cui linguaggio lo stesso Berlusconi mastica da sempre molte affinità. Due buone ragioni per dichiararsi, appunto, fratello di sangue di Bossi e di Lombardo .

Oggi, davanti a questo salto di qualità, nessuno può più stringersi ammicante nelle spalle. Anzi, sarebbe opportuno, quanto mai opportuno, che anche i nostri intellettuali equidistanti provassero una volta almeno l'impeto irresistibile di intervenire. Per dire con chiarezza che la democrazia non sarà il galateo degli ufficiali regi, ma che in una democrazia qualche regola alla lotta politica bisogna pur darla. E che le armi, quelle, le invocano solo i sovversivi.

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Pubblicato il: 08.04.08
Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.29   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. L'odio per la diversità
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 11:04:25 pm
L'odio per la diversità

Nando Dalla Chiesa


E ora? Ora che dirà chi in questi mesi ci ha dipinto un mondo in bianco e nero, ci ha raccontato la violenza a gogo nelle città governate dalla sinistra, con gli immigrati forniti di licenza di spadroneggiare nelle vesti di rapinatori o stupratori? A Verona un ragazzo è stato ridotto in fin di vita da un branco di ventenni per una sigaretta rifiutata. E in questo episodio, via via che se ne chiarisce il contesto, si concentra una quantità di informazioni in grado di mettere in crisi gli stereotipi di mesi di informazione drogata. Dov'è, dunque, che la vita vale poco?

Se tempo fa l'opinione pubblica era stata sconvolta dalla notizia che nell'hinterland napoletano, in piena Gomorra, un ragazzo era stato ucciso a coltellate per rubargli il motorino, qua nella ricca e civilissima Verona un ragazzo è moribondo per una ragione ancora più futile: il rifiuto di una sigaretta chiesta chissà con che toni e con che intenzioni. E ancora. Quali etnie esprimono una assoluta assenza di freni nel delinquere? Se in più occasioni ha fatto comprensibilmente impressione la selvaggia violenza con cui hanno agito le bande slave durante le rapine in villa nel nord Italia o sull'Appennino, altrettanta impressione fa la selvaggia violenza di questo branco veronese, che sembra avere avuto per culla benedicente il tifo ultrà cittadino e le sue bande impunite.

Insomma: l'aggressione di gruppo è stata compiuta da italiani che (così dicono i testimoni) parlano il dialetto veneto; in una città di quel nord-est che reclama da sempre ordine e tolleranza zero contro la violenza degli immigrati; mentre il retroterra culturale è, per ciò che gli investigatori hanno appurato, quello della stessa estrema destra che, a furia di saluti romani, promette al paese di ridargli la agognata sicurezza, di restituire ai cittadini il diritto di camminare sicuri per le strade. L'estrema destra che presidia le curve, che manifesta con il Veneto Fronte Skinheads e che a Verona è giunta con tutti gli onori in consiglio comunale, parte della nuova maggioranza.

Sia chiaro, giusto per non lasciare margine agli equivoci. Quello che è accaduto a Verona poteva accadere in qualsiasi città italiana, visto il livello di violenza potenziale che scorre impaziente sotto la pelle di una società sempre meno capace di controlli e autocontrolli. Né quel che è accaduto può ragionevolmente essere imputato al sindaco Tosi e alla sua giunta. Occorre cioè evitare un gioco al massacro speculare a quello in cui si è specializzata la destra: attribuire per definizione ai sindaci gli episodi di violenza che si verificano nelle città governate dalla sinistra, facendo del dibattito sulla sicurezza una specie di maionese impazzita. Con tanti saluti alla serietà richiesta da quello che viene comunque rappresentato come il primo e più urgente dei problemi italiani.

Oggi Verona ci consegna una realtà assai diversa, terribilmente più complessa, senz'altro più inquietante di quella imperante nei mesi della campagna elettorale. L'idea che per conquistare più alti livelli di sicurezza si debba guardare solo alla criminalità "da importazione" produce un rischiosissimo strabismo. Non solo perché in questo paese la criminalità organizzata indigena è tuttora viva e vegeta, nonostante i molti colpi subiti. E il suo stato di salute non può lasciare tranquillo proprio nessuno. Ma anche perché si coglie sempre più una violenza diffusa, molecolare, che tende a insinuarsi con capacità espansive in molte pieghe ed enclaves sociali.

Basti pensare al tifo ultrà, e alla sua capacità offensiva verso le istituzioni e verso le persone. Un tifo mai perseguito e mai punito sul serio, e che trova i suoi momenti epico-simbolici nell'omicidio Raciti o nell'assalto di massa compiuto pochi mesi fa a Roma contro le stesse caserme delle forze dell'ordine (cosa mai accaduta neanche ai tempi della contestazione più dura). E' stupefacente che quando si parla di sicurezza e di legalità questo capitolo (che fra l'altro presenta da anni proprio a Verona una delle punte di maggiore allarme) non venga mai affrontato. Ma si pensi ancora alla quantità di ferimenti e omicidi che si verificano con regolarità impressionante nei pressi delle discoteche, con protagonisti (alla pari, si direbbe) italiani e immigrati, quasi che nella società del divertimento si siano realizzate autentiche zone franche dal diritto. Oppure si pensi al fenomeno del bullismo delle scuole e fuori dalle scuole. O alla estrema facilità con cui si mette in gioco la vita degli altri, oltre che la propria, sulle strade, e non solo di notte.

Ecco, chi scrive non indulge a descrizioni catastrofiche dello scenario nazionale quando parla di sicurezza. Sa che certi reati (spesso i più gravi) sono da tempo in discesa. Ma sa anche che altri (non secondari) sono in aumento, e che questo produce, in termini di paura, un impatto tanto più forte quanto più invecchia la popolazione e quanto più i mezzi di informazione ci fanno apparire vicino un delitto avvenuto in aree lontane, e di cui un tempo mai avremmo nemmeno sentito parlare. E dunque coglie e osserva con preoccupazione le molte correnti criminogene che percorrono una società aperta e precaria, ricca e diseguale, snervata dei propri valori e continuamente sospinta verso l'ammirazione acritica del denaro e della forza.

Ma, appunto, una cosa bisogna sapere: queste correnti sono molte. E' lecito allora, è utile nasconderne alcune dietro lo scudo ideologico del pregiudizio razziale, concentrare l'allarme sociale solo sulle voci che fomentano il razzismo? Così come non è responsabile (e purtroppo lo si è fatto...) negare la presenza di una temibile criminalità da immigrazione, altrettanto non è responsabile usare quella criminalità per esorcizzare "tutto il resto". Per esorcizzare quel che ci è scomodo vedere, a partire da questi "nostri giovani" un po' esuberanti -avranno bevuto un po' o saranno stati provocati-, e investire invece politicamente sulla paura per il diverso, che sia nomade o immigrato. Anche perché, a seguire questa strada, potrebbe accadere che la stessa vittoria elettorale, perfino a dispetto dei vincitori, dia alla testa di chi pensa che sia finalmente suonata l'ora del "liberi tutti". Che sia arrivato il momento in cui è consentito essere un po' "scavezzacolli". Se la sinistra ha i suoi limiti nell'affrontare il tema della sicurezza, la destra ha i propri. Che non pesano di meno. E non è detto che non siano più densi di pericoli.

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Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 8.26   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Mantova, toh chi si rivede: la messa rock
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 09:52:53 am
Mantova, toh chi si rivede: la messa rock

Nando Dalla Chiesa*


Saldare il cielo con la terra. Questo incitava a fare don Ciotti mentre una doppia fila di scout ammaliati gli stava di fronte, seduta sul pavimento del brutto anfiteatro. Mentre un migliaio di persone assiepate sui gradoni della «piastra» di Lunetta lo applaudiva sognando di potere realizzare un giorno la società di cui lui tracciava, con poche e semplici parole, la fisionomia: giustizia, verità, eguaglianza, responsabilità. Lunetta: un quartiere di Mantova che sembra una periferia di Sofia. Scelto dal Mantova Musica Festival per tenervi il momento-clou della cinque giorni musicale.

La celebrazione della messa rock in cui esaltare il titolo della manifestazione, «La mia vita è come un rock». Per usare il genere musicale più amato del dopoguerra come metafora della vita e del suo senso. In un momento in cui, per tornare alle esortazioni di don Ciotti, la parola di verità deve prevalere sul silenzio; e in cui siamo chiamati ad attraversare i deserti che costellano le nuove mappe della società.

La messa rock di ieri mattina, celebrata anche da don Gino Rigoldi (cappellano del carcere minorile di Milano) e da don Alfredo Rocca (parroco del quartiere di Lunetta), ha assunto, minuto dopo minuto, un senso e un valore insospettabili da parte degli stessi organizzatori. Certamente figli del progetto del festival, ma proiettati - e molto - al di là degli stessi confini del progetto. Più passava il tempo, più le parole di don Ciotti e di don Rigoldi si mescolavano con la voce struggente di Antonella Ruggiero, con le tonalità gospel di Delmar Brown, con le raffinatezze melodiche di Raiz o con la verve spumeggiante degli Ardecore, più si fondevano tra loro le ragioni degli applausi che provenivano dai gradoni dell’anfiteatro, più si capiva di trovarsi davanti a un evento che stava rompendo, e non solo per un’ora, steccati e frontiere. Esattamente come ha fatto per oltre mezzo secolo la musica rock. D’un colpo solo sono caduti muri e distinzioni. È caduta anzitutto la barriera tra musica rock e spiritualità. Altro che sesso e droga; Vangelo secondo Matteo e don Tonino Bello, piuttosto. E musica come voce «che chiede giustizia e pace». È caduta la barriera tra generi musicali apparentemente inconciliabili (quella della Ruggiero era soprattutto musica sacra). Sono saltati i confini invalicabili tra la Mantova delle splendide piazze rinascimentali, quelle in cui si svolge senza sosta il festival, e la Mantova delle periferie emarginate. O i confini tra bello e brutto, quest’ultimo riscattato a bello proprio grazie alla fusione di spiritualità e musica. Saltati, ancora, e del tutto, i confini tra cattolici e laici. Spariti, letteralmente. E se non ha destato scandalo una versione erotica del «Cantico dei cantici», altrettanto un’attrice ha deciso d’istinto di fare la comunione dopo trent’anni, spiegando «mi sono detta: ma se non faccio la comunione alla messa rock, quando mai la farò?». Caduti anche, negli interventi degli oratori, i confini che vorrebbero tenere separato l’Occidente dai suoi nemici, che premono alle porte delle nostre vite serene e possidenti.

Eretti, piuttosto, altri confini. Confini netti. Quelli tra chi usa le parole per occultare le verità del mondo, a volte anche schierandosi con i buoni princìpi, e chi le usa per la denuncia irriverente che si fa anch’essa, (pensate l’eresia) «annuncio di salvezza». Oppure tra chi fustiga la gioventù di oggi abdicando al compito di offrirle valori e chi pensa che «dobbiamo ricominciare a parlar bene dei giovani», e che, piuttosto che raddoppiare le ore di educazione civica, crede sia importante dare ai ragazzi testimonianze di vita. Insomma, in un festival musicale che ha dimostrato una volta di più di non essere «un festival tra gli altri» è successo qualcosa di nuovo, è nato qualcosa che sa di civile, sociale e culturale insieme. L’incontro e la rottura degli steccati non sono avvenuti infatti sul piano del galateo politico, in omaggio ai dettami di un improbabile monsignor Della Casa della seconda o terza Repubblica. Ma sono avvenuti sul piano dei valori, della dignità e qualità della persona, sul senso della vita. Il che ha portato, a sua volta, anche a ridisegnare distanze e geometrie del mondo e della mente. Come ha detto una giornalista, «è incredibile che io debba essere venuta qui, a un punto d’incrocio tra la chiesa e il rock, per sentire che cos’è la politica».

Già, la politica che esalta la sua presenza e il suo primato senza che si parli di politica, senza che nemmeno la si nomini. Mentre nei Palazzi la politica si svuota di senso parlando ogni minuto di se stessa. È un paradosso dei nostri tempi. Per questo, in fondo, la messa rock di ieri non ha poi tanto a che vedere con le messe beat degli anni Sessanta, benché potesse a prima vista rievocarle. Perché qui non abbiamo più una chiesa che gioca la carta della modernità dei costumi e delle forme di comunicazione per ricostruire un consenso in sofferenza. Ma abbiamo un mondo multiforme che cerca e trova nuove vie per comunicare valori, per contrastare il vuoto, per attraversare il deserto della società ricca e senza qualità. Per porre domande di senso. Esistenziali e politiche al tempo stesso. Ieri qualcosa, nella comunicazione politica esangue e balbettante di questi mesi, si è rotto. Anche oltre la percezione immediata di chi era presente, si è aperta una strada. E questa, per chi sa ascoltare i tempi e vuole interpretarli, è un’ottima notizia.

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*(Organizzatore della kermesse musicale di Mantova)



Pubblicato il: 26.05.08
Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.35   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Perché accetto la sfida di Genova
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 05:11:47 pm
Perché accetto la sfida di Genova

Nando Dalla Chiesa


Ma chi te lo fa fare? Da quando Marta Vincenzi ha annunciato al consiglio comunale di Genova il mio impegno al suo fianco nell’amministrazione della città, torna incessante questa domanda da parte di amici giornalisti e da parte di chi è, o ritiene di essere, ben informato sui fatti genovesi e sui loro sviluppi prossimi venturi. È una processione di interrogativi. Ispidi e preoccupati. Chi te lo fa fare di avventurarti in una situazione compromessa, di infilarti in un clima infido in cui la magistratura sta grattando che è un piacere? Perché rischi di associare il tuo nome a un’esperienza amministrativa che domani o dopodomani potrebbe trascinarti in una bancarotta morale? E perché tu, proprio tu, ti presti a fare da foglia di fico a un’amministrazione infarcita di inquisiti? E infine, e a parte: ma perché vai in soccorso del Pd dopo il trattamento che hai ricevuto alle ultime elezioni politiche?

Siccome domani farò il mio primo ingresso a palazzo Tursi per incontrare il sindaco e disegnare con lei una prima strategia di azione, credo giusto rispondere pubblicamente a queste domande. E inizio ricordando il rapporto costruito con la città di Genova nei cinque anni in cui l’ho rappresentata nella qualità di senatore della Repubblica. Anni (2001-2006) di opposizione dura, in cui il centrosinistra cittadino mi fu a fianco nelle difficili battaglie parlamentari sulla giustizia e anche nel cammino politico che avrebbe poi portato al partito democratico. Anni in cui coltivai un rapporto stretto -di rappresentanza istituzionale e politica ma anche umano- con il collegio genovese, organizzandovi o partecipando a convegni, seminari, ricerche, manifestazioni, dibattiti (spesso nelle case private) e ricevendone sostegno, incoraggiamento, perfino affetto. Ho proseguito questo rapporto nella mia attività di governo, in particolare promuovendo la nascita del polo artistico-culturale genovese, investito della missione di aprire la città agli scambi culturali con l’area del Mediterraneo occidentale. Insomma: mi è stato chiesto di mettermi al servizio di una città che mi ha dato molto e a cui ho già cercato di dare. Non solo. La prima cittadina, che ho avuto modo di conoscere e stimare durante quegli anni, mi ha chiesto di aiutarla in un tornante decisivo della vita pubblica genovese. Per uscire da una crisi generata da una pluralità di comportamenti "disinvolti" (dirà la magistratura se penalmente rilevanti o no), per restituire credibilità morale alla giunta. Per dare a Genova il ruolo che le compete, anche sul piano dell’immagine. Per non chiudere baracca e burattini - per colpa di alcune persone - una amministrazione impegnata positivamente su più fronti, da quello dei conti pubblici a quello dei servizi sociali. Per non mettere la parola fine su uno dei pochi governi di grandi città ancora guidati dal centrosinistra.

Che cosa avrei dovuto fare davanti a questa richiesta di aiuto? Sono partito dal presupposto che Marta Vincenzi sia persona seria, appassionata e affidabile. Il resto ne è disceso di conseguenza. Genova meritava impegno ed entusiasmo. Sia chiaro. So bene come in una città priva di alternanza politica possano prodursi incrostazioni clientelari nell’ossatura e nelle nervature del potere. So come l’intreccio dei parallelismi tra economia, politica e società possa produrre reti di relazioni soffocanti in grado di generare corruzione. Come vi si possano scatenare meccanismi carrieristici in autonomia dai valori che rendono degna la politica. Tutto questo so. Tuttavia se la mia presenza può servire a far saltare alcune di queste incrostazioni o a metterne al riparo alcuni gangli vitali del governo cittadino (e di un governo del centrosinistra, insisto), io ci sono. Di più. Sono felice di esserci. È una sfida, non c’è dubbio. Una sfida difficile. Ma io, come tanti e diversamente da altri, non ho mai inteso la politica come rendita di posizione, come regalia di un padrino, come astuto accovacciamento nel rosso dell’uovo. Penso, come tanti, che la vita stessa, non solo la politica, sia successione di sfide mai uguali. Ebbene, questa è esattamente la nuova sfida che mi è stata proposta due domeniche fa quando, mentre era in corso il Mantova Musica Festival, Marta Vincenzi mi ha telefonato chiedendomi, a proposito della messa rock del mattino, "perché queste cose non vieni a farle a Genova?", per poi avanzare i termini più profondi e politici della sua proposta. Una sfida difficile. Ma che accolgo volentieri perché mi consentirà di impegnarmi su quei grandi progetti culturali che ho sempre ritenuto prioritari per il tenore civile di un paese, e che spiegano più di ogni programma declamato l’identità di una coalizione di governo. Dice: e la foglia di fico? Non rischi di farla? Non credo. In ogni caso non la farei per nessuno. Per temperamento e per un codice etico a cui ho sempre cercato di attenermi. Il fatto è che il sindaco non mi ha chiesto di prestarle solo il mio nome. Magari per un’operazione di facciata. Mi ha chiesto invece di aiutarla, con Andrea Ranieri e con altri, a imprimere una svolta al cammino dell’amministrazione. Io a questa richiesta sarò fedele, comunque pronto - se le resistenze dovessero mostrarsi insuperabili - a tuffarmi nelle esperienze dell’impegno civile e nell’insegnamento universitario. Quanto poi all’idea di rendere pan per focaccia al Pd per l’esclusione dal parlamento, confesso che la cosa non mi è passata per la testa nemmeno per un secondo. Sia perché non confondo una città con un partito; sia perché, semmai, ho vissuto con orgoglio il fatto che, escluso dalle liste elettorali con la motivazione che bisognava "rinnovare l’immagine del Pd in parlamento", sia stato chiamato nel momento del bisogno per "rinnovare radicalmente" l’immagine della politica genovese. Può darsi che alla lunga sia costretto a pentirmene. I giorni trascorsi mi hanno però confermato nella mia scelta. Dopo l’annuncio in consiglio comunale - penso di poterlo raccontare- sono stato subissato di messaggi da parte delle persone e degli ambienti più diversi. Giovani delle associazioni, militanti di lungo corso, professionisti, consiglieri di circoscrizione, intellettuali. Messaggi di ringraziamento, disponibilità a dare una mano, dichiarazioni di fiducia, inviti a tenere incontri nelle case, a occuparsi anche della politica genovese. Due messaggi mi hanno colpito in particolare, tutti e due firmati da militanti ex diessini: «Aiutaci a ridare onore alla Genova democratica, liberaci da questi mariuoli»; e «Allora vuol dire che in questo partito la questione morale si può ancora affrontare». Spiegatemi: e io avrei dovuto dire di no?

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Pubblicato il: 02.06.08
Modificato il: 02.06.08 alle ore 13.53   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. La questione morale ci riguarda
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2008, 10:19:57 pm
La questione morale ci riguarda


Nando Dalla Chiesa


La sparo grossa? Ebbene sì: resto dell’idea (finora espressa in privato) che il professor Galli della Loggia proprio torto non abbia. Che abbia ragione, care lettrici e cari lettori, a dire che non siamo - noi centrosinistra- «l’altra Italia». Non siamo nemmeno uguali al centrodestra, aggiungo io, su questo ci giurerei, perché facciamo riferimento - mediamente - a valori diversi. Quando ci mobilitiamo, crediamo in genere a quello che diciamo. Costituzione, libertà di stampa, uguaglianza. Ma certo anche tra i paladini della legge uguale per tutti ci sono quelli che nella vita di ogni giorno chiedono favori per questo o quel concorso pubblico. Ma certo anche tra chi evoca a ogni comizio il famoso editto bulgaro (Biagi-Santoro-Luttazzi) c’è chi applica volentieri la censura agli altri se appena gli serve o deve risolvere sbrigativamente le sue private inimicizie. Ma certo, ancora, tra chi denuncia ad alta voce il famigerato conflitto d’interessi c’è chi legifera a favore dei propri interessi personali o di partito al riparo dell’ombra lunga del conflitto più grande e smisurato del premier.

Lo so: il baricentro, i simboli, il codice morale che muove in genere i nostri comportamenti, non coincidono affatto con quelli del centrodestra. Epperò eccoci qua tutti insieme a interrogarci su quale sia la vera cifra morale del nostro personale politico. La questione abruzzese è arrivata infatti come una tramvata addosso agli elettori e ai militanti di quella che fu un giorno l’Unione. Notizie da lasciar di sale. Ottaviano Del Turco agli arresti. Il sindacalista che commuoveva il senato raccontando dei leader sindacali uccisi dalla mafia e che aveva fatto togliere il segreto dagli atti parlamentari su Portella della Ginestra. Il sindacalista che aveva sollevato la questione morale nel Psi di Bettino Craxi e che nobilitava il suo impegno politico con la passione per la pittura. Lui agli arresti per una storia collettiva di corruzione. Fatico tuttora a crederci, avendolo anche frequentato nel corso della mia attività istituzionale. E sospendo ogni giudizio, nulla avendo visto direttamente degli atti dell’inchiesta. Sta di fatto che è coinvolto, e non per complotto dei magistrati, in una brutta storia di tangenti spuntate nell’humus magno della sanità pubblica. Storia sua e di assessori e burocrati a lui d’intorno. Un accidente estemporaneo? Un evento unico, la classica "rara avis", come si dice, nel cielo della politica progressista? No purtroppo. Ne abbiamo dovute ingoiare tante, di queste delusioni. E non sono sempre docce fredde. A volte sono percezioni che ti conquistano lentamente, che iniettano nel tuo sistema di convinzioni quel piccolo dubbio che provi a tenere fuori dalla porta più che puoi ma che cresce fino a diventare maledetta certezza nell’arco di un anno o più anni.

Che dire, ad esempio, della Calabria? Di quella famosa inchiesta televisiva andata in onda una domenica sera su Rai3 sulla politica calabrese? Un’inchiesta al termine della quale ti mettevi le mani nei capelli per aver gioito della vittoria di quei rappresentanti del popolo che teorizzavano, anche dall’estrema sinistra, quanto fosse giusto assumere i propri parenti alla Regione? La Calabria, appunto. La terra in cui un consigliere regionale come Fortugno può essere ucciso per liberare il suo seggio e regalarlo al primo degli esclusi, traghettato fresco fresco nel centrosinistra dal centrodestra per ciucciarsi il suo prezioso (e un po’ sospetto...) pacchetto di voti. Che dire della Campania, dove assistiamo allibiti agli effetti di una gestione dei rifiuti della quale (camorra o meno) una cosa sola capiamo, e cioè che se l’avessero realizzata i nostri avversari, e non personaggi che abbiamo imparato in altri contesti ad apprezzare, ce li sbraneremmo vivi? O che dire del potere politico in Basilicata, la nostra "Umbria del sud", roccaforte dell’ex Ulivo, finito dentro fino al collo nelle inchieste giudiziarie, anticipando di poco, in questi poco onorevoli fasti, il capoluogo di regione dell’Umbria "vera"? Né solo del sud o del centro si tratta. Perché anche Genova, sì, la città della Resistenza, della rivolta contro Tambroni, della classe operaia che non si piega, anche Genova è finita nel tritacarne degli avvisi di garanzia. La sua giunta, il suo consiglio comunale; e la sua istituzione storica, il Porto. Ha scelto di reagire con il suo combattivo sindaco Marta Vincenzi, lancia anzi da oggi la sfida di "Genova città dei diritti", capitale dei diritti umani e civili, dando l’avvio a un fitto ciclo di eventi. Ma è chiamata a vincerla, questa sua sfida in nome del diritto, prima di tutto dentro di sé.

C’è qualcosa che non quadra nel corredo culturale del centrosinistra. Il quale in alcuni luoghi finisce nei guai per mancanza di alternanza -così si dice-, perché a furia di governare sempre gli stessi non c’è più ricambio, si producono le incrostazioni di potere e ci si fa più spregiudicati, ci si sente più impuniti. Ma finisce nei guai, in altri luoghi, per il motivo opposto: ossia per realizzare l’alternanza, per prendere un po’ di voti, quali che siano, pur di vincere e non stare più all’opposizione. Certo, si può agire sulle regole. Si possono pulire e moralizzare i tesseramenti, causa frequente di incetta illegale di fondi, e in tal senso è una buona notizia che Veltroni abbia deciso di portare il Pd sulla strada del rigore e della trasparenza proprio delle tessere. Certo, si possono separare meglio politica e burocrazia. Si possono regolamentare diversamente gli appalti. Ma alla fine, come sappiamo per lunga esperienza, l’inganno per la legge si trova sempre. Perché il problema è culturale. Di testa. Simile a quello del ragazzino dei quartieri degradati che decide di spacciare perché così guadagna di più e più in fretta. La rivoluzione culturale del centrosinistra, a dispetto delle sue illusioni e delle sue tante buone amministrazioni, passa anche per la questione morale. In fondo ci siamo dimenticati molto in fretta che Totò Cuffaro, prima di governare la Sicilia per il centrodestra, l’aveva governata con il centrosinistra...

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Pubblicato il: 16.07.08
Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.25   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. C’è un’Italia che rinasce
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2008, 11:22:39 pm
C’è un’Italia che rinasce

Nando Dalla Chiesa


Su la testa, in alto i cuori. È in arrivo una nuova primavera. Certo, il panorama sembra più fosco che mai. Un governo che farebbe un bel fagotto della Costituzione. Che sta già facendo polpette della giustizia. Una xenofobia diffusa, altro che italiani brava gente. Un’informazione sempre più inginocchiata. Un governo a luci rosse ma che fa dare una mano di vernice sui seni del Tiepolo. La profezia di Pasolini su scuola e tivù che si avvera. L’incultura che si fa istituzione. La sinistra a pezzi. Eccetera. Eppure l’orizzonte non è affatto catastrofico. Anzi, sostengo che in giro si sente un bel profumo di primavera. Che mentre siamo costretti a berci fino in fondo uno dei più amari calici della storia recente qualcosa di segno opposto si sta facendo largo nella nostra vita quotidiana. Qualcosa che non sta nelle stanze della politica e del Palazzo. Ma viene prima della politica e la prepara.

Eccone alcuni, di questi segni. Il cinema, anzitutto. La nuova stagione del cinema italiano. Cinema civile, impegnato. Le cui grandi stagioni hanno sempre accompagnato e preceduto le fasi della speranza. Dalla ricostruzione postbellica agli anni del primo centrosinistra, per arrivare al "Portaborse", che diede voce alla rivolta civile dei primi anni novanta. Si impongono registi e attori capaci di parlare insieme il linguaggio del cinema, del teatro e della tivù. Poi c’è l’esplosione di festival e rassegne culturali. Promossi da assessorati di grandi e piccoli comuni, da associazioni, da biblioteche. Sui temi più vari. In collaborazione con intellettuali nazionali e locali. Festival belli, intelligenti, spesso originali, sempre pieni di pubblico. Non c’è quasi più l’Italia delle sagre di paese e che puntava a riempire le piazze estive con la cantante di grido. C’è una capacità progettuale e inventiva diffusa e assolutamente inedita proprio nel paese che molti di noi ritengono culturalmente inabissato. E se i giornali non informano, si sta ormai strutturando una rete informativa e di opinione libera e incontrollabile, alla quale si rivolge una parte crescente di opinione pubblica. Minoritaria, è vero; ma come lo è, in fondo, quella che legge i giornali senza limitarsi ai titoli, allo sport e ai necrologi. Si parla solo del clamoroso caso del blog di Beppe Grillo. Ma in effetti si è formato un tessuto di siti e di blog che sono in grado, da soli, di promuovere manifestazioni a una velocità superiore a quella di un grande partito. Una vivacità comunicativa straordinaria. Buona non solo per pedofili o bulli scolastici, come sembrerebbe dalle cronache, ma occasione di crescita civile e politica del paese. Anche la cultura della legalità non se la passa affatto male. Lo scorso marzo a Bari, per la giornata della memoria e dell’impegno di Libera, sono arrivate centomila persone da tutta Italia. Attenzione: centomila non "contro Bush" o "contro Berlusconi". O per difendere propri interessi economici. E neppure per l’emozione suscitata da un grande delitto. Mai successo prima.

Ancora? Provate ad arrivare in una città, in un paese. I vostri ospiti vi diranno subito sconsolati che "qui non c’è nessuno". Per spiegare che non ci sono risorse intellettuali, di impegno, in grado di dare speranza alla collettività. Tempo un giorno e avrete già conosciuto qualcuno di valore, che fa cose interessanti e importanti senza che la comunità circostante se ne accorga. E poi ne conoscerete un altro e un’altra ancora. E vi rivolgerete ai vostri primi ospiti per chieder loro conto della loro disillusione. Il fatto è che mentre la cronaca nera o giudiziaria o politica spennellano di nero il nostro cielo, una miriade di protagonisti della vita civile fa, progetta cose nuove, talora geniali, anche supplendo alle tragiche assenze o manchevolezze delle istituzioni. Nell’impresa, nella ricerca, nel volontariato, nella cultura, nella pubblica amministrazione. Il paese sta riscoprendo la scrittura. Il lungo ciclo del declino ha avuto origine, a pensarci, con l’eclisse della scrittura e con il simmetrico trionfo della società della voce e dell’immagine. Ma è la scrittura che, come ci insegnavano i nostri maestri elementari, ci obbliga a dare ordine ai nostri pensieri, a uscire (per quanto ne siamo capaci, ovviamente) dalla superficialità. Oggi stiamo ancora pagando l’immenso prezzo di quell’eclisse, ma grazie a internet la scrittura, la comunicazione scritta, perfino forbita e non banale (in quanto sottoposta a un pubblico vaglio), sta tornando a essere modo di esprimersi primario. Ne vedremo gli effetti benefici tra qualche anno.

Il paese però, direi soprattutto, sta riscoprendo le nascite. Non so che diranno le statistiche prossime venture, ma erano anni che non si vedevano tante donne incinte, tanti bambini. E non solo tra gli immigrati. Se ne vedono ovunque. Per le strade, sugli aerei, nei treni, nei ristoranti. Una volta, specie al nord, donne incinte e bambini erano specie rare. Ora non più. Il declino demografico è sempre anticipatore e sintomo di un inaridimento culturale. Mentre le nascite sono un segno di fiducia nel futuro, di un amore che contrasta il rancore sociale diffuso; quello -per intendersi- del dito medio alzato e delle impronte ai bambini.

Lo so bene. A chi mangia pane e politica, o a chi tutto misura in base a ciò che avviene nel mondo della politica, questi sembreranno segni irrilevanti e sommamente eterogenei. Eppure sono sempre di questa natura i segni che precedono i cambiamenti. Sia nelle democrazie sia sotto le dittature. Poteva mai immaginare la generazione del ’68, ascoltando l’Equipe o i Nomadi nel ’66, che due anni dopo sarebbe esploso qualcosa di grandioso che nasceva o si esprimeva anche attraverso i nuovi gusti musicali? Si poteva immaginare che il teatro di Havel o la musica rock dei paesi dell’est potessero preparare (dentro contesti internazionali anche loro inimmaginabili) il crollo indolore dei regimi di Praga o di Berlino est?

Conosco a questo punto l’ulteriore obiezione. Sarà anche come dici tu. Ma come si può, come possiamo noi tradurre tutto questo in qualità politica, visto lo stato in cui è ridotto il centrosinistra? Non lo vedi che deserto abbiamo intorno? E infatti. La città del centrosinistra è stata bombardata, dall’esterno e dal’interno. E sulle macerie regna il museo delle cere, tali non per anagrafe ma per anemia morale e culturale. Eppure sono proprio le città bombardate che si possono ricostruire. Quelle in piedi si possono solo ritoccare. A meno di realizzare imperiosi allargamenti, annettendo nuovi territori. Ma non è il caso del centrosinistra. Ora la città può essere rifatta. Lo spirito democratico c’è, aleggia. L’importante è che quando si manifesterà più compiutamente non trovi in attesa di interpretarlo (e di soffocarlo) il museo delle cere. Che non gli succeda cioè, per tornare all’esempio già citato, quel che toccò in sorte allo spirito della contestazione giovanile sessantottina, su cui saltarono le culture degli anni trenta e quaranta fino a stremarlo. O di trovare in attesa solo il populismo protestatario, come accadde in gran parte alla rivolta di Mani pulite.

La situazione è chiara. Elettoralmente il centrosinistra non è affatto devastato. Politicamente sì. E accertato che purtroppo è andata così, bisogna trarne ogni vantaggio. Perché infine il dilemma è se vogliamo costernarci e crogiolarci nella descrizione di un paese ignobile e che "non ci merita" o vogliamo riconoscere l’emergere sotto i rigori dell’inverno di un nuovo rinascimento e mettercene alla testa. Come diceva Seneca, nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

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Pubblicato il: 15.08.08
Modificato il: 15.08.08 alle ore 8.09   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Breve viaggio nell’inciviltà
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2008, 06:18:24 pm
Breve viaggio nell’inciviltà

Nando Dalla Chiesa


Il primo a salire sull’aliscafo fu un aitante signore a torso nudo. Un largo cappello chiaro in testa e il passo del dominatore. Centinaia di turisti di ritorno da Stromboli verso Napoli si accalcavano intorno al piccolo ponte levatoio. Ognuno con il proprio bagaglio a rimorchio. Tranne un gruppo di turisti che aveva lasciato sul pontile le sue valigie e i suoi zaini. Enormi, numerosissimi.

Ammassati e poi consegnati diligentemente da un ragazzo ai proprietari quando già erano sul ponte levatoio, così che potessero insinuarsi nella coda con più agio.

Entrai anch’io facendo la fila con il mio bagaglio insieme a mia moglie, anche lei con il suo seguito di valigia e sacchetti. Andammo verso la parte anteriore dell’aliscafo, che appariva praticamente deserta. C’erano solo il signore aitante, che nel frattempo si era messo una camicia, e pochissimi altri viaggiatori. Scoprimmo però che quasi tutte le poltrone erano “presidiate” da borsette e oggettini d’ogni sorta. Cercammo dunque di sederci sulle poltrone vuote, ma il signore, aitante più che mai, gridava che erano tutte occupate. Io contestavo che non c’era nessuno. Lui mi guardò di traverso e mi sibilò, dando a intendere di avermi riconosciuto: «Proprio lei che è un democratico». Lì per lì non capii che diavolo c’entrasse l’essere democratici con il reclamare un posto a sedere. Lo spettacolo era incredibile: quasi un quarto dell’aliscafo era stato requisito dal signore in questione. A questo punto protestai che non poteva farlo. Lui mi ripeté: «Lei che è un democratico», stavolta dicendo la parola “democratico” come Berlusconi dice “comunista”. E io risposi che proprio perché ero un democratico non potevo accettare una prepotenza del genere. Lui allora proclamò con tono offeso che erano posti tenuti per i bambini. Gli chiesi come fosse possibile: il gruppo di bambini che avevo visto sul pontile non superava le dieci unità. “Bambini” giurò, mentre i passeggeri neutrali iniziavano a parteggiare per la mia causa. Poi arrivò il gruppone dei suoi amici. I bambini erano cinque. C’era anche il ragazzo che aveva passato i bagagli sul ponte levatoio, che risultò essere suo figlio, e che evidentemente era stato applicato da lui a quell’ingegnoso compito. Constatata la bufala dei bambini, mi presi due posti di forza accanto a uno dei suoi amici, visibilmente imbarazzato per la sceneggiata cui il capo comitiva aveva costretto la compagnia.

Ma sull’aliscafo costui non era stato l’unico. Pur sapendo che i posti erano tutti, ma proprio tutti occupati, come accade a fine agosto al rientro dalle isole, decine di viaggiatori tenevano sulla poltrona accanto alla loro ogni tipo di oggetto. Per stare più comodi o per avere il bagaglio pronto all’arrivo. Si aprì così l’infuocata disputa tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo. Con la richiesta al comandante di intervenire a garantire i diritti dei passeggeri. Finalmente a quel punto, grazie alle direttive impartite imperiosamente via altoparlante, l’ordine fu stabilito.

Qualcuno potrà pensare, magari traendo qualche conclusione dal torso nudo, che il signore aitante e i suoi compagni di viaggio fossero degli arrembanti turisti con tegami di pastasciutta al seguito e il rifiuto facile sul pavimento. Niente di tutto questo, ed è qui il guaio. Lui era un imprenditore bresciano con master alla Bocconi. Tutti avevano un libro in mano (la persona vicina a me era di grande e piacevole cultura) ed erano vestiti con qualche pregio. Gente da cui non ti aspetteresti mai che non abbia interiorizzato in mezzo secolo e passa il principio della fila e della occupazione del proprio posto, che non provi vergogna a raccontare plateali panzane e che non si senta in grado di fare un viaggio di qualche ora a distanza di pochi metri dal proprio amico o parente. Gente da cui non ti aspetteresti insomma che non conosca le regole civili.

E infatti le regole le conosceva. E pure bene. Tanto che quando vi un cenno di arrembaggio ai bagagli in vista del golfo di Napoli, fu proprio lui, il signore aitante, che - essendo seduto davanti a un immenso deposito di bagagli e temendo l’assalto alla sua parte di aliscafo - incominciò a tenere appassionate concioni sull’importanza delle regole, sulla loro utilità per vivere tutti più ordinatamente, discutendo animatamente con più di una signora e di un giovane. Qualcuno del personale di bordo disse: «Evabbe’, fate come volete». Di nuovo si ebbe un confronto tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo, anche se le due parti avevano un po’ cambiato i loro confini. E di nuovo, su sollecitazione della parte civile dei passeggeri, il comandante fissò le regole per lo sbarco delle tonnellate di bagagli.

Seppi infine, con mia sorpresa e amarezza, che l’imprenditore bresciano era figlio di un imprenditore ucciso molto tempo fa dalla mafia e di cui serbavo memoria chiarissima. Mi resi conto che era saltata anche una regola non scritta, come lo sono tutte le vere regole. L’ho sempre vista praticare tra i familiari delle vittime della mafia: ed è quella del reciproco riconoscimento e rispetto, oserei dire affetto, che scatta verso chi ha subito la stessa tragedia. Per la prima volta avevo visto quel legame di solidarietà infranto.

L’imprenditore mi aveva riconosciuto; ma aveva anteposto a quel rapporto di rispetto il suo fastidio per il mio essere “democratico” e l’interesse più piccolo e minuto, quello a sedersi tutti insieme, della sua comitiva, del suo moderno clan.

Ecco come attraverso gli episodi minimi si può rappresentare l’Italia, la qualità dei suoi problemi veri, profondi. La sua incapacità di superare la storica distanza (quanto ci si arrovellò Sylos Labini...) tra sviluppo economico e sviluppo civile, la doppiezza delle regole (valgono per me ma non valgono per te), l’incertezza del diritto, la rottura dei principi più sacri di solidarietà, la latitanza delle istituzioni, che invece di muoversi autonomamente si muovono solo su pressione dei cittadini e dell’opinione pubblica.

Cose grandi, che dovrebbero impegnare un grande partito. I Paesi crescono con le infrastrutture materiali.

Ma hanno anche e soprattutto bisogno delle infrastrutture immateriali: il senso delle regole, il riconoscimento di diritti e doveri, la fiducia e la solidarietà, l’autorità responsabile, la cultura civile. Il guaio è che a usare in massa i cellulari ci si mettono due anni, a imparare a fare la coda ci vogliono decenni. E sono questi che fanno la differenza.

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Pubblicato il: 03.09.08
Modificato il: 03.09.08 alle ore 13.02   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Ai giovani la discoteca dei boss
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 05:46:58 pm
Ai giovani la discoteca dei boss

Nando Dalla Chiesa


Ballavano coi lupi, i giovani rampolli della Bari bene. La discoteca in cui si davano convegno, la Momart di Adelfia, era decisamente border line. Ci si commerciava in droga. Anzi, secondo gli investigatori proprio da lì, dai traffici di droga, era nata. Riciclaggio di denaro sporco, insomma. Quello del clan dei Palermiti, ultima generazione. Il patriarca, razza ruspante, era conosciuto in Puglia per sfidare i pitbull in recinti da combattimento. Da vero uomo, a mani rigorosamente nude. Oggi la discoteca sarà consegnata con tanto di cerimonia ufficiale alla compagnia del teatro Kismet, da anni impegnato a Bari contro la mafia. Sarà insomma restituita ai giovani, forse non esattamente agli stessi giovani, a circa un anno dal sequestro operato dalla procura barese, mandando in pensione l’idea (un po’ interessata) che per convertire a uso sociale i beni confiscati alle mafie debbano per forza trascorrere tempi biblici.

È una grande notizia. Ma non sono poche le novità che arrivano dall’universo della lotta alle cosche e dei beni confiscati. Domenica scorsa, ad esempio, sempre per restare in Puglia, è stata inaugurata una bottega dei sapori della legalità in provincia di Brindisi. Non in un comune qualsiasi. Ma a Mesagne. Per molti lettori questo sarà forse un nome sconosciuto. Invece Mesagne solo pochi anni fa era considerato il cuore pulsante della Sacra Corona Unita, roccaforte del clan dei Rogoli. Ci ero andato alla fine dello scorso decennio in viaggio di studio e osservazione nella mia veste di parlamentare. Perché di quel comune si parlava come della futura Corleone, della futura Casal di Principe; luogo di incontro, com’era, tra gli astri della nuova mafia pugliese e la malavita in arrivo dall’Albania. E si sciupavano i pronostici sulla scalata che la mafia pugliese avrebbe dato, da lì, ai vertici della criminalità nazionale. Non è andata così. E si è dimostrato che nulla è già scritto. La Puglia ha reagito, si è sentita addosso un corpo estraneo e ha iniziato a scalciarlo. Si sono mossi - e bene - i magistrati, nonostante sia piovuto anche addosso a loro l’effetto indulto (di nuovo complimenti al legislatore...). Gli investigatori e le forze dell’ordine hanno fatto il loro dovere e spesso lo hanno fatto anche gli amministratori locali. C’è stato perfino un coordinamento degli insegnanti contro la mafia, in provincia di Brindisi, guidato da un professore di filosofia, che ha fatto incontrare gli studenti della provincia con tutta la cultura antimafiosa nazionale, da Carlo Smuraglia a Gherardo Colombo a Pino Arlacchi. Un professore che oggi mostra con santa soddisfazione il libro in cui ha riunito quegli interventi; e che lamenta semmai che qualcuno nel tempo si sia sfilato, come quell’ex parlamentare locale che, richiesto di partecipare a un convegno e ormai dedito ad affari e consulenze, lo ha schernito chiedendogli: «E tu ancora all’antimafia stai?». Sì, qualcuno ancora all’antimafia sta. E per fortuna. Perché sta succedendo qualcosa che l’opinione pubblica italiana merita di sapere, visto che non c’è sempre e solo il trionfo degli interessi criminali. Anzi. Domenica chi fosse stato a Mesagne avrebbe visto questa bella bottega, dove si venderanno i prodotti ottenuti dai beni confiscati (vino, taralli, pomodori e molto altro ancora). Avrebbe visto tutte le autorità insieme, regione, provincia e comune e prefettura e carabinieri, riunite intorno al parroco, che con visibile coinvolgimento benediceva quel luogo che solo pochi anni fa sarebbe sembrato sovversivo. E avrebbe visto un pezzo di popolo, di ogni ceto sociale e di ogni età, riempire in festa i locali come una volta si occupavano in festa le terre incolte. Avrebbe visto, perfino, i giovani giapponesi e americani venuti a lavorare qui, sulle terre confiscate, grazie ai campi internazionali organizzati da Legambiente.

Guai a non capirlo. Siamo martellati dal pessimismo sia degli scettici di professione sia di alcuni protagonisti di punta della stessa lotta alla mafia, amareggiati dalle lentezze o accidie o complicità governative. A nulla - si dice - servirebbero le manifestazioni, perché a volte ci vanno gli stessi amici dei mafiosi (e allora stiamo a casa). A nulla servirebbe l’ergastolo (chiedere il parere agli interessati). A nulla le fiction televisive (benissimo, teniamoci il Padrino). A nulla nemmeno le catture dei latitanti perché vengono subito sostituiti da boss più giovani e moderni (ottimo, aboliamo le squadre Catturandi). E invece le vittorie ci sono. Anzi, spesso proprio lo squilibrio degli spazi ottenuti nell’informazione dal “bene” e dal “male” aiuta quest’ultimo a sentirsi il vento in poppa. Chi lavora sui beni confiscati lo sa con tale certezza che ormai non fa nemmeno più comunicati (denunce sì, ma non comunicati) quando subisce un piccolo o medio atto di vandalismo. Altre sono le cifre e le immagini che egli vuole che giungano all’opinione pubblica. Perché ognuna di esse è punto d’arrivo di fatiche, di sfide, di rischi, anche. Che passano talora attraverso momenti da epopea. Foto storiche. Come quello della prima semina che si tenne anni fa a Mesagne. Una grande manifestazione di impegno, un indimenticabile “ci siamo anche noi” che non lasciasse soli i ragazzi della cooperativa che s’erano assunti l’onere di coltivare i terreni. Provate a immaginare bambini e ragazzini delle scuole, contadini di mestiere, insegnanti, amministratori e magistrati che vanno su e giù gettando i primi semi nelle zolle. E poi provate a immaginare centinaia di giovani che ogni anno vengono dal nord a dare una mano gratuitamente, specie nella fase del raccolto o della vendemmia. Non è un fenomeno solo pugliese, perché (quanto oro non luccica…) sono circa duemila, ad esempio, i giovani volontari che ogni anno si muovono dalla sola Toscana per andare ad aiutare i loro coetanei coraggiosi nelle cooperative siciliane. Così, anche così cresce l’antimafia, nel paese in cui spesso ci piace di vedere la mafia onnipotente e “più forte di prima”. Così, grazie a questo volontariato silenzioso, è stato possibile per la cooperativa di Mesagne annunciare, domenica scorsa, il “grande balzo” nella produzione di bottiglie di vino. Dalle 13mila dello scorso anno, il primo, alle 70 o 80mila di quest’anno, metà rosato pugliese metà negroamaro. Bottiglie che entreranno in commercio come le altre, e che i consumatori italiani (almeno quelli sensibili ai nostri problemi civili quanto le studentesse giapponesi di domenica…) vorranno comprare. Perché anche così, da semplici cittadini, senza nulla rischiare, si può fare qualcosa contro la mafia. Per dare forza e senso allo slogan che campeggiava a Mesagne: «la mafia esiste, ma anche l’Italia». www.nandodallachiesa.it

Pubblicato il: 11.09.08
Modificato il: 11.09.08 alle ore 11.13   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Gomorra a Milano
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 05:55:57 pm
Gomorra a Milano

Nando Dalla Chiesa


«Mafia a misura Duomo». Con questo titolo in copertina, vent’anni fa, il mensile Società civile lanciava l’allarme sulla presenza della mafia a Milano. Il sindaco di allora, Paolo Pillitteri, smentì recisamente che in città esistesse un pericolo di infiltrazione o addirittura di presenza delle cosche. Gli andò dietro con garbo la procura generale. Che, ancora nel ’92, dichiarò all’inaugurazione dell’anno giudiziario che non c’era prova processuale della presenza mafiosa a Milano, dal momento che non vi erano ancora state irrogate condanne passate in giudicato. Poi, in pochi anni, la pietosa (e complice) bugia fu travolta dai fatti.

Migliaia di arresti, indagini su Cosa nostra e, soprattutto, sulla ‘Ndrangheta. Maxiprocessi a raffica e condanne altrettanto a raffica. Fino alle operazioni degli ultimi mesi, che hanno toccato l’Ortomercato e l’hinterland meridionale, a partire dal comune di Buccinasco.

Eppure, appena si gratta sotto la superficie delle frasi di circostanza, Milano appare ancora resistente a confessare la sua malattia. Proprio come vent’anni fa. Vive lo stesso, identico riflesso condizionato di tante città e amministrazioni del sud. L’idea che a dichiarare l’esistenza del problema si infanghi il buon nome della città e dei cittadini, gente onesta - sempre così si grida tra gli applausi - abituata a lavorare. Si facciano correre rischi incalcolabili all’economia, agli affari e all’immagine internazionale. Perciò nelle ultime settimane incontra tante resistenze la proposta, presentata in consiglio comunale dal partito democratico, di dar vita a una commissione antimafia che analizzi con logiche autonome da quelle giudiziarie la situazione cittadina, sulla quale (fra l’altro) grava la minaccia di una nuova offensiva degli interessi criminali in vista dei giganteschi finanziamenti dell’Expo 2015. Una commissione per capire, per misurare, per decidere strategie politiche e amministrative. Le obiezioni si accavallano. La situazione non è così grave, non siamo in Sicilia o in Calabria. La mafia c’è, ma ci pensino la magistratura e le forze dell’ordine. Sarebbe uno spreco di fatica e di soldi, una commissione così non servirebbe a niente. Sarebbe una nuova occasione per strumentalizzazioni politiche.

E invece sulla gravità non dovrebbero esserci dubbi. La Lombardia è la quarta regione di mafia d’Italia, la quarta anche per beni confiscati alle organizzazioni mafiose. L’ospitalità della capitale e della sua area metropolitana verso i clan è ormai storia conclamata. Da Joe Adonis che vi aveva messo radici a Luciano Liggio che vi venne catturato latitante. Dalle presenze cresciute sull’onda del vecchio confino a quelle che non hanno avuto alcun bisogno del confino ma sono arrivate a vele spiegate sull’onda dei soldi da riciclare. Basta leggere gli atti della commissione parlamentare antimafia, non solo l’ultima ma anche quella del 2001-2006 guidata dal centrodestra, per rendersi conto di quanto penetrante, insistita e avvolgente sia la carica lanciata dalla ‘Ndrangheta nei confronti della capitale economica e finanziaria del Paese. È una situazione che richiede una mobilitazione immediata, in città e in provincia, dalla quale i consigli comunali non possono chiamarsi fuori. Qualche week end fa la città di Desio è stata testimone silenziosa di una tipica, perfetta scena da Gomorra. Decine e decine di camion dei clan sono andati avanti e indietro per le sue strade rovesciando montagne di sostanze tossiche su terreni privati, di proprietari consenzienti e (forse) intimiditi. Committenti dello scempio, altro che colpa del confino!, imprenditori lombardi, in gran parte bergamaschi. L’altra sera a Telelombardia il sindaco di Buccinasco ha ammesso candidamente di avere ricevuto nel suo ufficio il boss di una nota famiglia calabrese in carcere da luglio. E alle obiezioni del sottoscritto hanno fatto da contrappunto le telefonate di protesta in trasmissione delle sorelle del boss medesimo. In silenzio Milano e il suo hinterland stanno costruendo una propria nuova “normalità”.

La gravità c’è tutta, dunque. E non sarebbe nemmeno una commissione inutile. Vi è infatti il precedente della commissione presieduta da Carlo Smuraglia. Che venne istituita agli inizi degli anni novanta proprio in seguito alle prime polemiche. Essa includeva oltre a consiglieri comunali anche esperti esterni (utilissimi per evitare logiche di “scambio politico”). Benché non avesse poteri speciali, con la sola audizione dei testimoni, quella commissione consentì di capire e intuire quel che ancora l’attività giudiziaria non aveva stabilito con certezza processuale. La stessa, successiva commissione d’inchiesta sulla corruzione nel commercio, presieduta da chi scrive, pur avendo ambiti e compiti di osservazione specifici e differenti, aprì squarci inaspettati e talora eclatanti sulla presenza mafiosa.

Il problema allora mi sembra un altro. Ed è il timore non dichiarato di Milano di farsi mettere addosso la lente d’ingrandimento. Non solo per non mandare in frantumi l’ideologia della pura razza padana; per non rovinare la fiaba della Lombardia inquinata dai mafiosi meridionali estranei al tessuto locale e spuntati come funghi grazie al confino deciso dallo Stato centralista che “ci ha mandato qui i mafiosi”. Ma perché la presenza della mafia a Milano ha sempre toccato nervi delicati del potere. Occorre forse ricordare Michele Sindona e le sue banche al servizio della mafia e l’omicidio, a Milano, dell’eroe borghese Giorgio Ambrosoli che difendeva i piccoli risparmiatori truffati dal “salvatore della lira”? Occorre ricordare Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano e di nuovo il riciclaggio del denaro della droga?

È lunga la serie delle prove e dei sintomi delle relazioni pericolose, pericolosissime. Le denunce del giudice Franco Di Maggio sulla mafia che a Milano investe nelle cliniche. Il leoncino regalato dal boss Epaminonda (su cui il giudice Di Maggio indagò) a Bettino Craxi. I viaggi milanesi degli uomini della Cupola alla ricerca di nuovi settori, quelli delle nascenti televisioni private, in cui investire. La facilità con cui l’emissario dei corleonesi riusciva a mettersi in contatto (gli bastava un solo intermediario) con qualche assessore agli inizi degli anni Novanta. E il boss assassino Vittorio Mangano insediato nella villa di colui che avrebbe guidato più governi della Repubblica. E Marcello Dell’Utri eletto trionfalmente nel centro di Milano mentre accumulava un curriculum giudiziario che lo avrebbe portato a una condanna in primo grado per i suoi rapporti con Cosa nostra.

La città preferisce non vedere. Sembra posseduta dal timore di non sapere esattamente che cosa si potrebbe trovare nelle sue viscere se ci si incominciasse a guardare senza aspettare la magistratura. Quasi che la maggioranza politica, anche nelle sue componenti mai colluse o sospettate, temesse per sesto senso di doversi trovare a maneggiare materia infiammabile senza sapere bene come dominarla. Fu d’altronde per questa ragione, credo, se ai tempi del governo più lombardo della storia d’Italia, dal 2001 al 2006, la commissione parlamentare che pure andò in Veneto e Piemonte ed Emilia evitò di andare a Milano, dove tutte le tracce inducevano ad andare.

Eppure un consiglio comunale ha un dovere verso i cittadini, verso tutti i cittadini. Difenderli. Difenderne il tenore della vita civile ed economica, la qualità della convivenza sociale. Senza strumentalizzazioni, certo. Ma anche senza voltarsi dall’altra parte. Si viene eletti anche per questo. L’Expo con i suoi soldi si avvicina. Letizia Moratti si è detta non contraria alla commissione. Altri nel centrodestra non lo sono. Perché non mettere al primo posto l’interesse della città?

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Pubblicato il: 03.10.08
Modificato il: 03.10.08 alle ore 8.27   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Il giardino di Ombre Rosse
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:14:03 pm
Il giardino di Ombre Rosse

Nando Dalla Chiesa


Si chiama «Ombre rosse» e sta in una stradina del centro storico di Genova. Una trattoria piccola, con qualche coperto supplementare sul giardinetto di fronte, dall’altra parte del vicolo. Ci sono arrivato per caso, chiedendo se c’era posto e domandandomi che rapporto potessero mai avere i proprietari con lo storico filmone di John Wayne. Mi ha accolto una signora all’incirca della mia età. Che mi ha riconosciuto e mi ha sorriso con dolcezza misteriosa. Per poi accompagnarmi con premura a un tavolino nel giardinetto, dandomi del tu. Torno subito, ha detto. Il tempo, per me, di leggere su un muro un avviso di questo tenore, scritto con ogni evidenza da lei o da un suo collaboratore: «Questi giardini sono pubblici, quindi la consumazione non è obbligatoria». Un miracolo, ho pensato, nell’Italia delle appropriazioni abusive di suolo pubblico, nella Liguria dove ogni metro di spiaggia è recintato. Mi sono incuriosito ancora di più. Finché la signora si è riavvicinata e durante le ordinazioni mi ha detto: «Ho conosciuto tuo padre». Me lo dicono in tanti, e dunque quasi automaticamente ho chiesto come mai e dove. «Mi ha arrestato», mi ha risposto lei. Mi hanno arrestato i suoi carabinieri, con l’accusa di stare con i terroristi, di essere una di loro. Poi sono stata scagionata. Ne ho un ricordo bello, ha aggiunto. Devo avere avuto uno o più moti di stupore, mentre andavo realizzando che quell’insegna «Ombre rosse» non aveva probabilmente nulla a che fare con i western. Sì, ha aggiunto. Lo ricordo così, tuo padre, perché si capiva che ci credeva davvero nel suo Stato. Perché ci accorgemmo che era un personaggio di qualità, di un altro livello. E perché ci rispettò. Ci rispettò... mi sono ridetto mentalmente, quasi stordito. Ma perché, quando l’avete visto?, ho chiesto. Ci volle vedere lui. Ma in quale occasione fu, all’epoca di via Fracchia?, ho insistito rendendomi subito conto della banalità, visto che via Fracchia fu solo un’irruzione con sparatoria. No, fu in una retata di universitari, mi ha risposto lei. Quella con Fenzi?, ho azzardato, ricordando bene il ruolo del professore genovese nelle bierre cittadine e le polemiche su una sua assoluzione, che avevano tirato fuori a mio padre l’accusa contro «l’ingiustizia che li assolve». Sì, mi ha risposto lei, proprio quella. Aggiungendo con un sorriso: io sono la moglie di Fenzi. Ho finto indifferenza, mentre gli occhi mi cadevano su un altro piccolo cartello che dall’alto sembrava ammonire e confortare con delicatezza gli avventori: «Questo è un luogo di conversazione e di buone maniere».

Ci trattava con rispetto, ha ripreso lei, Isabella si chiama. Sembrava che lui capisse che eravamo dei nemici, ma dotati di ideali. È vero, ho pensato, lo diceva sempre di loro. Ma non ho potuto fare a meno di chiedermi anche che cosa sia successo in questo Paese se tanti anni fa un generale dei carabinieri trattava con rispetto quelli che volevano ucciderlo e oggi gente innocente, colpevole di nulla, può essere picchiata e umiliata se finisce nel posto o tra le divise sbagliate...

Mi sono trovato in imbarazzo, perché nasconderlo? La signora che mi accoglieva era gentile, colta, amichevole. E anche la figlia più giovane che aiutava ai tavoli era di rara educazione. Ma come dimenticare quanto terribile sia stata la striscia di lutti lasciata dal terrorismo? Ne ho conosciute di vittime. Sicché ho cercato di non dimenticare nulla man mano che il nostro colloquio andava avanti. Sai, le ho detto, io ho qualche imbarazzo a parlare con chi ha sostenuto il terrorismo. Non perché non capisca le persone che ho davanti, i loro diritti, i loro cambiamenti; ma per quelle mogli, quei figli, quei genitori. Io credo che non li dobbiamo mai dimenticare. Le ho raccontato così della mia amicizia con Mario Calabresi, di Galvaligi. Di mia madre morta di cuore sotto il terrorismo, di mia sorella Simona minacciata e in fuga da Torino. Vedi, le ho spiegato, non trovo giusto che la storia di quegli anni l’abbiano scritta e raccontata soprattutto i terroristi. Be’, ha osservato lei, ma avranno bene il diritto di parola. Certo, ho continuato, ma lo esercitano molto meglio delle vittime. La vedova di un appuntato sa raccontare a stento che cosa è successo a lei, che storia d’Italia può mai raccontare... C’è stato un dislivello di possibilità, o no? Lei ha ascoltato con rispetto. «Sì, è giusto pensarci, soprattutto dopo che mi hai ricordato queste cose», ha ammesso. Però, ha continuato, bisogna chiedersi perché migliaia di giovani hanno fatto questa scelta dopo tutte quelle stragi, dopo avere visto che il potere faceva uccidere gente inerme senza che nessuno pagasse mai.

Lì, esattamente lì, ho incominciato a capire di essere davanti a una persona diversa. Primo, si era commossa nel sentirsi ricordare i dolori altrui. Secondo, non aveva detto che la scelta della lotta armata l’aveva fatta, come sogliono dire i brigatisti e i loro cantori, «un’intera generazione». No, aveva detto onestamente «migliaia di giovani». Certo, ha proseguito, poi abbiamo capito che era una scelta sbagliata, che tuo padre era dalla parte giusta. Ecco, e qui per me è cambiato tutto. Non per il riferimento diretto a mio padre. Ma perché era spuntato il discrimine. Quante «notti della Repubblica», quante interviste, quanti libri, ci siamo visti e letti in questi decenni, in cui ex terroristi spiegavano che il loro errore era di non avere capito bene la fase politica, di avere erroneamente immaginato di avere dietro la classe operaia, senza che mai venissero pronunciate chiare parole di dolore per le vittime o sulle ragioni alte e insuperabili della democrazia?

Tuo padre era dalla parte giusta, aveva ragione lui. Detto proprio da chi un minuto prima mi aveva ricordato le stragi di Stato impunite. In quell’attimo ho pensato che questo è l’unico modo di chiudere gli anni di piombo. Sul serio, in profondità. Il dolore per chi è caduto, il riconoscimento delle ragioni dello Stato, senza per questo dimenticarne le brutture più ignobili. Ho scoperto in questa scelta di campo una dignità superiore. Senza chiasso. Quella di un lavoro silenzioso e orgoglioso, nessuna predica, la voglia di partecipare alla costruzione del bene collettivo. Quel giardinetto pubblico realizzato da lei, tirandolo fuori - come un coniglio dal cilindro - dai detriti e dai rifiuti. Verso la fine della serata è venuto a salutarmi il marito, Enrico Fenzi, il docente di lettere poi condannato a non ricordo quanti anni di carcere. Passato lì inusualmente a dare una mano, con il grembiule blu del locale addosso. Bianco di capelli, sorridente anche lui, con un ritegno assai marcato, un pudore gentile, dandomi del lei. Pochi minuti soltanto. Me ne sono andato pensando a quegli anni feroci, alla forza micidiale delle ideologie. A come potevano sposare la lotta armata anche persone così, che mettono al mondo figli dolci e impegnati nel volontariato. A com’era l’Italia quando degli arrestati per terrorismo sentivano il rispetto del loro nemico numero uno.

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Pubblicato il: 24.10.08
Modificato il: 24.10.08 alle ore 9.34   
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Titolo: Nando DALLA CHIESA. Se il Pd non parla al cuore
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 05:08:36 pm
Se il Pd non parla al cuore

di Nando Dalla Chiesa


Giampaolo e Celeste, insegnanti casertani, sono gli ultimi che ho incontrato. Hanno appena organizzato a Como una tre giorni sui diritti umani. Centinaia di persone, molti giovani.Sono tutti e due di sinistra, ma non vogliono più lavorare con i partiti. Anzi, la prossima volta non votano. Di Pietro dice cose giuste, ma non è la nostra cultura. Come loro ne incontro tutti i giorni. Da Como ad Agrigento. L'Abruzzo è l'immagine fedele di questa Italia. Sfibrata, sfiduciata, disincantata. Stufa marcia dei partiti, che si è sentita presa in giro dal Pd e dai suoi slogan fasulli, che ha visto consegnare a Di Pietro la questione morale o della legalità, e si chiede con fastidio e con rassegnazione perché mai dovrebbe votare o addirittura militare per qualcuno.

La sinistra un giorno tutto cuore, e forse troppo ora si scopre scettica e senz'anima. Specchio, suo malgrado, di un partito  senz'anima, ultimo approdo di un centrosinistra in disarmo morale e culturale. L'idea che "non ne vale la pena" ha messo radici  solo apparentemente fulminee; in realtà viene dalle lacerazioni e dagli egoismi che hanno strozzato lentamente e per la seconda volta il governo Prodi, dall'imbroglio delle "primarie sempre", dalla nausea per il partito delle tessere e delle troppe clientele, all'irritazione per la gestione giuliva delle candidature, dal rigetto per un ectoplasma zeppo di prime donne senza seguito.

Giorgio Galli, il politologo inventore del "Bipartitismo imperfetto", l'aveva detto, cifre alla mano, subito dopo il voto delle politiche: non è Berlusconi che ha vinto, è la sinistra che ha perso voti nell'astensionismo. L'Abruzzo conferma e rilancia. Dà la misura di  un'esperienza politica, quella del Pd, incapace di parlare sia al cuore sia alla testa della maggioranza del popolo di centrosinistra. Che esiste. Ma è in cerca di autore.



17 dicembre 2008     

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Titolo: Nando DALLA CHIESA. L'assalto alle nostre coscienze
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 10:39:47 pm
L'assalto alle nostre coscienze

di Nando Dalla Chiesa


Era nata come l’antipolitica. Come l’apologia dello "Stato minimo". Come una rivoluzione liberale di massa. Sta diventando la più poderosa invasione della politica che si potesse immaginare. Un’invasione senza confini, spinta da una volontà di potenza insaziabile. Il potere entra scalciando nelle nostre sfere affettive e mentali con la pretesa di piegare milioni di coscienze private alle proprie ragioni. Di abbattere ogni limite tra ciò che può essere oggetto di pubbliche decisioni e ciò che per la sua sacralità mai può esserlo. Ma la politica che questo pretende si chiama in un modo solo: totalitarismo.

Tecnicamente, non per iperbole polemica. L’hanno scritto "in velo di ignoranza" (come si dice) plotoni di scienziati politici. Ignari che le loro dottrine potessero un giorno applicarsi all’Italia. Ma l’hanno scritto. Ci hanno spiegato - e alla fine sono stati convincenti - che la dittatura di destra (Pinochet per esempio) reprime brutalmente l’opposizione politica, ma non ambisce a presidiare le coscienze, i gusti, gli anfratti della vita civile. Mentre il potere sovietico, quello sì, incombeva su ogni aspetto, anche il più intimo, della vita quotidiana, frugandoci senza rispetto. Per questo, pur essendo entrambe dittature, solo quella sovietica poteva in senso stretto definirsi totalitaria.

D’altronde, a conferma, Vaclav Havel, il grande presidente-intellettuale praghese, proprio lì fissava l’area della silenziosa e decisiva opposizione al regime: nella coscienza individuale, nella privatissima dimensione esistenziale. Lì il luogo da liberare, lì il luogo da cui comunicare. Ecco perché quando quest’area viene invasa si sente un annuncio di tirannia. Corredato dalle frasi da far ribollire il sangue che pronunciano i tiranni (il padre che deve "togliersi di mezzo una scomodità"…), dalla censura tipica delle tirannie (i tiggì vergognosi), dalle menzogne tipiche delle tirannie (Eluana che potrebbe generare!), dalla spinta a travolgere le Costituzioni tipica delle tirannie.

Spero che stavolta non ci si balocchi con i termini, facendo a gara ad ammorbidirli. Ma si abbia la responsabilità di vedere che cosa sta accadendo. Perché qualcosa di mostruoso accade. Il più pagano e immorale dei poteri si è sposato con il Vaticano; e insieme danno l’assalto al campo sacro delle nostre coscienze. Selettivamente. Poiché non si chiede ai medici di denunciare i latitanti in cura, ma gli si chiede di farlo con i dannati della terra. Non si tutela la vita nelle fabbriche e nei cantieri, ma lo si fa con l’accanimento terapeutico verso il povero totem di una ideologia fanatica. Sembra di sentirlo, l’annuncio: "verrà la politica e vorrà la tua anima"…
No, non l’avrà la nostra anima, la politica.
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09 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Nando DALLA CHIESA. Ma i terroristi non sono eroi romantici
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 11:40:55 pm
Ma i terroristi non sono eroi romantici

di Nando Dalla Chiesa

Mi dichiaro d’accordo al cento per cento con B. H. Lévy. «I princìpi non ammettono eccezioni». Appunto. Se qualcuno uccide in Italia una o più persone sconta la sua pena secondo le procedure e le misure previste dalla legge italiana. Senza eccezioni. Anche se è amico o conta importanti protezioni o simpatie presso le élites intellettuali e politiche francesi. Anche se dopo avere assassinato in Italia è diventato scrittore di successo in Francia. Il problema non è, come insinua B.H.Lévy, se Battisti debba pagare perché brutto e cattivo; ma, al contrario, se non debba pagare perché fascinoso e di successo.

E se un paese striato di sangue dal terrorismo si debba sentire accusare di "isteria" da un intellettuale francese, sol perché chiede che un pluriassassino sconti le pene irrogate dai tribunali della Repubblica che lo hanno giudicato colpevole di una cospicua massa di reati.

Sia detto con la dovuta chiarezza. Il vero tema dell’intervento di Lévy non è la vicenda giudiziaria di Battisti, riproposta in un impasto di disinformatja a cui siamo purtroppo abituati. Sulle responsabilità penali hanno già risposto alcuni dei più credibili magistrati italiani, da Giancarlo Caselli ad Armando Spataro. E sulla questione della contumacia si è già espressa la Corte Europea dei diritti dell’uomo. Il tema è un altro. Ed è l’infinita leggerezza mista a presunzione con cui tanti intellettuali e politici francesi hanno guardato alla vicenda del terrorismo italiano. Che torna nell’accusa di volere fare di Battisti «il peggior criminale degli anni di piombo...il diavolo».

In Italia sono state condannate per terrorismo centinaia di persone. Sono state giudicate nei tribunali e non, come ricordò con orgoglio Sandro Pertini, negli stadi. Né pena di morte né torture "algerine". E un intero popolo contro, anche se in Francia può dispiacere.

Sa qualcosa Lévy del travaglio della sinistra, della classe operaia, degli studenti, delle paure e dei coraggi nello schierarsi contro? Possiamo sentirci accusare, nel nome di Battisti «pallida comparsa» di quegli anni, di volerci «sdebitare con poca spesa del lavoro di rimemorazione e di lutto»? E «pallida comparsa» per chi? Per le vittime forse? Le stesse a cui Levy vorrebbe spiegare, lui difensore di Battisti, che cosa «fa bene loro oggi».
Questa pretesa disumana aiuta a spiegare il riparo trovato in Francia da tanti romantici eroi secondo loro. Da tanti terroristi secondo noi.
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24 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Nando DALLA CHIESA. Cosa ci dice gente con don Ciotti
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 06:09:33 pm
Cosa ci dice gente con don Ciotti


di Nando Dalla Chiesa


Certe cose bisogna vederle. Perché molti sanno della "giornata della memoria e dell'impegno" che oggi porterà a Napoli centomila e più persone contro le mafie di ogni tipo. Ma è difficile spiegare quel che rappresentavano ieri nell'auditorium della cattedrale di Napoli le centinaia di persone raccolte intorno a don Ciotti, tutte segnate dalla violenza dei poteri criminali. Centinaia e centinaia e centinaia di storie che accomunavano visi rugosi di antiche società contadine, e bambini sgambettanti, figli o nipoti di vittime vicinissime o già lontane.

Racconti e testimonianze da scriverci libri di storia. Antonella Azoti, per esempio, figlia di uno dei quaranta e passa sindacalisti uccisi dalla mafia nel terribile dopoguerra siciliano. Lei e il dramma di coloro che mai si sono visti riconoscere come familiari di vittime della mafia, per il semplice fatto che nessun processo si è mai tenuto. Fu così per quasi tutti i sindacalisti, ha ricordato Nico Miraglia figlio di Accursio; mentre (quanto brucia l'ingiustizia…) ancora gli si strozzava la voce in gola dicendo"mio padre". E poi Mario Congiusti, un figlio ucciso dalla 'Ndrangheta che ha lanciato a questa inimmaginabile assemblea la sua domanda spiazzante e disperata: "Chi sono io per la legge? Perché chi perde il padre si chiama orfano, chi perde il marito si chiama vedova, mentre io, che m'hanno ammazzato il figlio, non so come mi chiamo?".

Certe cose bisogna vederle. E sentirle. Sentirle raccontare da Vincenzo, fratello di Biagio, studente ucciso un giorno davanti al liceo Meli di Palermo, dall'auto di Borsellino che correva per proteggere il giudice ai tempi del maxiprocesso. Sì, Biagio figlio di operaio e mandato a scuola con fatica da Capaci nel capoluogo, per finire anche lui vittima della città di mafia. O sentire la giovane moglie di Nicola Gioitta, gioielliere ucciso nel suo negozio e poi sfregiato al collo per lezione, chiedersi perché non lo abbiano mai considerato, suo marito, vittima di mafia a Niscemi, ma lo abbiano derubricato tra i morti per rapina.

C'è una storia d'Italia che scorre tra questi volti, apparentemente tanto diversi ma in realtà così simili per quel lampo di malinconia che prima o poi indovini in tutti. Storia di dolore. Ma anche di orgoglio. Oggi questa storia riecheggerà a piazza del Plebiscito ancora una volta, di fronte a una marea di cittadini, soprattutto giovani. Scorreranno di nuovo le centinaia e centinaia di nomi in quell'inesorabile (e irreversibile) ordine cronologico. E chi ci sarà potrà immaginare. Non tutto, ma qualcosa che basti a dargli una coscienza diversa.

21 marzo 2009
da unita.it


Titolo: Nando DALLA CHIESA. Ora la Lega paga il conto
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 05:18:21 pm
Ora la Lega paga il conto

Archivio cartaceo 
di Nando dalla Chiesa

Ma davvero pensavano che nessuno gli avrebbe mai chiesto il conto? Sul serio immaginavano di governare per vent’anni la Lombardia senza dovere spiegare come mai i clan calabresi hanno potuto metterci tende e case impunemente, facendosi beffe dei riti celtici e delle adunate di Pontida? Se il centrosinistra ha dovuto rispondere (giustamente) della spazzatura a Napoli, o del degrado delle periferie romane, in base a quale principio chi ha governato regione, province e comuni lombardi nella Seconda Repubblica non dovrebbe rispondere della stupefacente avanzata della ‘ndrangheta nel cuore della pianura padana? La questione, cristallina, è ormai sul tappeto. Ed è ridicolo pensare di cavarsela gettando la colpa di tutto sulle “leggi romane”, ossia sul soggiorno obbligato. Il quale ha avuto certo un ruolo nel favorire i primi insediamenti mafiosi al Nord. Ma ormai non esiste da più di vent’anni.

Da più di vent’anni, cioè, Cosa Nostra e la ‘ndrangheta arrivano al Nord, a grappoli di boss e di affiliati, unicamente perché ci fanno buoni affari, trovano una certa e incredibile ospitalità ambientale e perché, soprattutto, le istituzioni politiche continuano a negarne l’esistenza. Che è una polizza d’oro, visto che se il nemico non esiste non gli si fa la guerra. Meno male che la lotta ai clan la fanno lo stesso le forze dell’ordine e la magistratura, le quali da tempo con migliaia (migliaia…) di arresti e con decine di processi gridano inutilmente alla nazione quello che accade nelle sue aree più ricche. E che si impegnano lì come in Sicilia, in Calabria e in Campania (a proposito, complimenti per la cattura di Iovine), dove però nessuno si sogna più di dire che mafia, camorra e ‘ndrangheta non ci siano. In quelle regioni un tempo la Dc, non solo lei ma soprattutto lei, ha allevato un sistema in cui i clan sono straripati fino a farla da padroni. Oggi la Lega e i suoi alleati, non solo loro ma soprattutto loro, li stanno facendo straripare in Lombardia. Grazie dunque a chi arresta i boss, a Casal di Principe come a Buccinasco. Ma paghi il conto chi li fa accomodare nell’edilizia, nei lavori pubblici, nei piani regolatori, nel commercio, in politica, senza dire una parola. Al Sud come in “Padania”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/18/ma-davvero-pensavano-che-nessuno-gli-avrebbe-mai/77509/


Titolo: Nando dalla Chiesa. Antimafia, le lettere a Scarpinato che ricordano l’Addaura
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2014, 05:01:32 pm
Antimafia, le lettere a Scarpinato che ricordano l’Addaura

di Nando dalla Chiesa | 12 ottobre 2014

Come vede, sappiamo prenderci cura di Lei. Questo il senso, sconvolgente, del messaggio anonimo lasciato sulla scrivania del procuratore generale di Palermo Scarpinato alcune settimane fa, seguito da altri avvertimenti. Chi ha esperienza e memoria di queste cose capisce al volo che in questo messaggio c’è qualcosa di profondamente diverso da tanti altri generi letterari e pratici dell’intimidazione mafiosa.

Il destinatario, anzitutto: il massimo responsabile dell’attività investigativa giudiziaria palermitana, una delle maggiori memorie antimafia, notoriamente capace di connettere le singole vicende in quadri ampi e dotati di senso storico.

Il luogo: il suo ufficio, riservatissimo, a cui dovrebbe avere accesso diretto solo il titolare, anche se poi si è scoperto che per ragioni inspiegabili non era così. Più esattamente la sua scrivania. Una visita a domicilio, una vicinanza incombente, un fiato che si fa grilletto. Il messaggio: un invito ampolloso e letterario, di un emulo di Sciascia si direbbe, a non superare i confini che altri, ovvero poteri superiori e impersonali, hanno fissato a un magistrato già andato troppo oltre rispetto a ciò che è normalmente consentito. Non l’immagine del sangue ce ne arriva. Ma quella dei corridoi oscuri che avvolgono e si compiacciono di dare consigli affettuosi alla vittima, per risparmiarle gli esiti che “altri” stanno scalpitando per ottenere.

La data, forse non casuale, visto che ha segnato una svolta nei rapporti tra mafia e Stato, pesando sulla stessa attività professionale di Scarpinato: il 3 settembre, anniversario dell’assassinio del prefetto dalla Chiesa. Le circostanze logistiche: un ingresso furtivo ripreso dalle telecamere esterne, la cui memoria, però, è stata poi cancellata proprio nei punti interessati, verosimilmente da persona diversa da chi ha scritto la lettera.

E il contesto recente: il “protocollo Farfalla”, che ha messo in luce lo scenario di servizi segreti che entrano ed escono dalle carceri per avvicinare detenuti al 41 bis, senza lasciare tracce, all’insaputa della magistratura. L’intenzione del procuratore di vederci chiaro, poiché sa bene che la storia maledetta dei rapporti tra mafia e Stato è zeppa di inquinamenti, di verità giudiziarie manipolate, da Portella della Ginestra a via D’Amelio.

I servizi che escono ed entrano nelle carceri senza lasciar tracce ricordano Raffaele Cutolo che si fa Stato e la liberazione di Ciro Cirillo. Ricordano il tentativo (per fortuna non riuscito) di mettere in contatto Patrizio Peci, primo capo Br pentito, con l’allora Sisde prima che con i carabinieri e la magistratura.

E certo se c’è qualcuno che per definizione non può avere frequentazioni “segrete” è ogni singolo mafioso al 41 bis, a cui il carcere duro viene comminato proprio per impedirgli di avere contatti con il mondo esterno. Si intuiscono dunque i soliti intrecci “inquietanti”.

Che stavolta hanno scelto di materializzarsi sulla scrivania del procuratore colpevole di aver capito troppo. Avrebbero potuto raggiungerlo in altro modo, con le sembianze di un collega o di un alto grado ministeriale capace di dargli un consiglio “nel suo esclusivo interesse”, se solo Scarpinato fosse incluso nella lista degli “avvicinabili”. Ma Scarpinato non vi figura. Quella lettera manda dunque i bagliori del pericolo, piena fra l’altro com’è di riferimenti alla sfera privata. Non è una pallottola in busta, che quasi chiunque può mandare. Non è una telefonata minatoria. Non è una voce di attentato o una maledizione di Totò Riina. C’è un salto di qualità.

Per questo sorprende, ancora oggi, l’imbarazzato silenzio di tanti Palazzi. O la sottovalutazione di ambienti anche assai reattivi, come fossimo davanti a una delle tante minacce a chi combatte la mafia. Perché nemmeno le celebri lettere del Corvo del Palazzo di Giustizia di Palermo contro Falcone bastano a rendere l’idea. Quelle andavano in giro, non apparivano impunite e melliflue sulla scrivania del giudice; tendevano a delegittimare, a colpire nel prestigio un magistrato circondato da invidie e gelosie inestinguibili.

Qui, per certi aspetti per fortuna, non è così, perché la magistratura è cambiata e Scarpinato non è isolato in quello che fu il Palazzo dei veleni. Se vogliamo rimanere alla parabola purtroppo esemplare di Falcone, la lettera assomiglia piuttosto alle borse di tritolo dell’Addaura. Lì stavano “il gioco grande” e “le menti raffinatissime” di allora.

Perciò occorre la massima attenzione. La testimonianza di Napolitano al processo sulla trattativa, questione mediaticamente assai più ghiotta, rischia di monopolizzare lo sguardo del paese che “dalla politica arriva alla mafia”. Chi invece “dalla mafia arriva alla politica” (che è poi il percorso intellettuale dello stesso Scarpinato) colga la gravità dei segnali attuali.

Governo e istituzioni, cittadini e associazioni, stampa libera e scuole, sappiano fare diga intorno al procuratore. Leggendo con intelligenza l’agenda della mafia e dei suoi complici. Alzando la partecipazione e la vigilanza civile. Senza accontentarsi dei facili “mi piace”. Questo, purtroppo, non è un mondo virtuale.

Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/12/antimafia-le-lettere-a-scarpinato-che-ricordano-laddaura/1152413/