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Autore Discussione: Nando DALLA CHIESA.  (Letto 18996 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Maggio 24, 2007, 12:01:21 pm »

La legge del discredito

Nando Dalla Chiesa


E parliamone pure del discredito della politica, di questa malattia profonda, di questo tumore civile che in tanti hanno nutrito per ingrandire i propri destini. Parliamo di questa pietanza rancida che cuochi multicolori hanno cucinato nei decenni, uno di qua uno di là, con scrupolo pari all’incoscienza. Le accidie e i narcisismi. Gli affari inconfessabili e i privilegi ingiustificabili. La fine del diritto di voto e le parole senza onore. Ma anche le demagogie a buon mercato e le picconate plebiscitarie.

E il senso di ingiustizia che ci circonda, lo smarrimento davanti al primato di ogni interesse particolare. E la latitanza della politica. Anche quando rivendica grottescamente il suo primato. O al contrario, perfino, il suo essere in prima fila a fare polpette dell'interesse generale brandendo princìpi o ideologie che, alla resa dei fatti, mandano lo stesso suono delle monete false.

Ladies & Gentlemen, a voi il caso Parmalat. A voi un caso paradigmatico dello stato della giustizia nel nostro paese. Di un paese dove ogni giorno si sente parlare dei diritti del mercato. Delle sue regole. Della sua trasparenza. Degli interessi legittimi degli azionisti e dei risparmiatori. Decine di migliaia di persone truffate in allegria e in sostanziale impunità. Con la decisiva complicità di uffici e sportelli bancari che consigliavano riservatamente e «in virtù del nostro rapporto fiduciario» di comprare Cirio, Parmalat e bond argentini, e mica solo singolarmente ma anche tutti insieme. Anzi: più erano anziani i risparmiatori e più insistente si faceva il consiglio di un bel pacchetto tutto compreso.

Ecco a voi dunque le sembianze di un sistema che, forse ormai senza colpe personali di alcuno, protegge con naturalezza i malfattori. Lo scontro in aula tra la procura milanese e i difensori dei risparmiatori nel processo per aggiotaggio che ha come retroterra la Grande Bancarotta parmigiana, è la spia del paradosso che si è consumato: la trasformazione della «giustizia minima» nella «giustizia massima possibile». Il rispetto irrisorio delle aspettative di risarcimento e di punizione come alternativa alla beffa più totale e assoluta. Eravamo stati facili profeti nel dire che l'eredità peggiore degli anni berlusconiani sarebbe stata quella morale. E così è. Il discredito della politica - meglio: di tutto ciò che è pubblico - ci rovina addosso proprio per l'effetto devastante degli atti di governo di chi guida e sobilla l'antipolitica da più di un decennio. Ma anche per altro, ammettiamolo. Anche per l'incapacità dell'altro schieramento di stagliarsi cristallinamente diverso all'orizzonte. Lo scandalo Parmalat maturò in un contesto politico dai contorni sfuggenti, e che in ogni caso il centrodestra non visse come «suo», tanto che ci si gettò a corpo morto per ergersi a moralizzatore del mercato, a Catone mediatico, appena dopo avere licenziato l'indecorosa legge sul falso in bilancio. Furono bagliori ipocriti. Perché poi le leggi berlusconiane offrirono a quello stesso scandalo e ai suoi protagonisti ogni riparo. Uno dopo l'altro, con un'attività legislativa condotta per mano, passo dopo passo, a garantire impunità totale al premier e ai suoi amici. Prima le norme sul patteggiamento, accarezzate alla Camera anche dall'opposizione. E poi la Cirielli, con i suoi tempi di prescrizione scolpiti a riassumere plasticamente la filosofia di un'intera legislatura. E infine, a maggioranze parlamentari cambiate, giunse l'indulto, un indulto mai visto nella storia di alcun paese avanzato. La grande festa era completa.

Non c'è dubbio. Il discredito della politica nasce da una sfiducia secolare verso il potere, intrecciata con un altrettanto secolare servilismo. Poiché nessuno più del servo sa, per esperienza diretta, che il potere non ha etica o moralità. E tuttavia se scontiamo ancora nel Duemila un qualunquismo atavico, è anche perché esso si nutre ogni giorno di ciò che vede, della nausea suscitata da tanta quotidianità, della penuria di esempi grandi e visibili. Si nutre del senso dell'ingiustizia e della percezione di un vuoto di princìpi. Che cosa possono pensare decine di migliaia di risparmiatori (sottolineo: decine di migliaia di persone - di cittadini, di elettori - in un colpo solo!) quando vedono che i loro risparmi sono senza effettiva tutela, che i sacrifici che molti di loro hanno fatto sono stati irrisi e malmenati, non solo perché si sono trovati sul proprio cammino manipoli di lestofanti, ma anche perché la giustizia non funziona, perché anzi la giustizia è stata accomodata -falso in bilancio, patteggiamento, Cirielli, indulto- alle esigenze dei truffatori anche con qualche iniquo patto trasversale tra i partiti? Ricorderanno, quelle decine di migliaia di persone, la scientifica trafila delle leggi berlusconiane? Si ingegneranno di fare la differenza tra il prima e il dopo, daranno un nome alle macerie morali o non vedranno solo le macerie e in mezzo alla polvere confonderanno gli uni e gli altri in una condanna senz'appello?

Dire questo non significa incoraggiare il qualunquismo. Ma capirne le radici e, per quanto possibile, aiutare a prevenirlo. Così come aiuta a prevenirlo -lo vogliamo dire?- il sapere parlare seriamente di sicurezza o delle inefficienze della pubblica amministrazione o delle lottizzazioni selvagge o delle riproduzioni clientelari delle dinastie o delle candidature dei pregiudicati. Il maremoto sale. E non basta assecondare i terreni di discussione prediletti (quelli sì) dal qualunquismo: una Camera sola, dimezzare i parlamentari ecc. Bisogna passare dalla superficie agli strati profondi. Se il parlamento attuale, con le sue due Camere, con i suoi numeri pletorici, avesse comunque fatto buona politica sulla giustizia, se si fosse posto il problema dei diritti diffusi di un'economia di mercato, se avesse rappresentato il senso delle istituzioni e delle leggi agli occhi di chi veniva truffato o (per usare una parola da bar) derubato dei suoi averi, oggi esso avrebbe altro prestigio. E avrebbe contribuito ad arginare un poco questo umore di rivolta che sale dalle viscere, dagli istinti, ma che ha radici nella realtà vissuta, nelle ragioni dei fatti. In fondo dev'esserci un motivo se oggi a riscuotere meno fiducia del parlamento restano solo loro, le banche.

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Pubblicato il: 23.05.07
Modificato il: 23.05.07 alle ore 11.58   
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« Ultima modifica: Settembre 27, 2007, 05:27:42 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 26, 2007, 07:15:09 pm »

LA BUSTINA DI MINERVA

Un'americana a Roma
di Umberto Eco


Alice Oxman ha alcuni handicap. È americana, e questo può spiacere alla sinistra radicale, ma non ha partecipato allo Usa-Day in cui apparivano signore avvolte in bandiere americane, e questo dovrebbe averla resa invisa al 'Foglio'. È ebrea, e di questi giorni può spiacere a molti, a destra come a sinistra. È di sinistra, e questo spiace a destra. Inoltre è la moglie di Furio Colombo, e questo le può provocare diffidenze da destra e da sinistra.

Fortuna che non è anche brutta.

Naturale quindi che sia amaro il suo libro 'Sotto Berlusconi. Diario di un'americana a Roma 2001-2006' (Editori Riuniti). È amaro quando parla in prima persona, per esempio riportando le e-mail con la figlia che ha vissuto l'11 settembre (e il dopo) a New York, è amaro quando parla delle vicende giornalistiche di suo marito (forse troppo citate, con un sospetto di conflitto d'interessi), ma soprattutto è amaro e agghiacciante quando si limita a riportare, senza commento, ritagli stampa e notizie di agenzia. Il che fornisce un documento sconvolgente, per chi ha dimenticato, su uno dei periodi più bui e grotteschi della nostra storia. Mi limito a un modesto florilegio.

2001. "Io punto a liberare il paese da questa escrescenza della magistratura" (Carlo Taormina). "'Genova is so nice'. Presidente, fuori c'è la guerra e un morto per strada. 'Oh yes, I know, it's tragic'" (Bush al G8). "È una guerra di religione" (Oriana Fallaci). "C'è una completa identità di vedute tra Bush e Berlusconi" (TG2).

2002. "L'uso che Biagi, Santoro e Luttazzi hanno fatto della tv è criminoso" (Berlusconi a Sofia). "Ho qui in Sardegna le figlie del mio amico Putin" (Berlusconi). "Per Porto Rotondo si profila un futuro di Camp David italiano" ('Panorama'). "Nel Sud mi seguono in processione come i santi, cantando" (Berlusconi, Rai Uno).


2003. "Apicella accorda la chitarra, gli fa sentire qualche nota e lui, il presidente paroliere, parte in quarta. L'universo sentimentale e musicale del Presidente del Consiglio è proprio questo: lui è lo Julio Iglesias d'Italia" ('Libero'). "I giudici sono matti, sono mentalmente disturbati" (Berlusconi). "Se mi ammazzano ricordatevi che è su mandato linguistico di Antonio Tabucchi e Furio Colombo. Avvertire subito la Digos" (Giuliano Ferrara). "Berlusconi è un uomo autenticamente liberale. È enormemente buono, straordinariamente buono. Ha ragione Ferrara quando lo paragona a Mozart per il candore e la genialità" (Sandro Bondi). "La casa la diamo al primo Bingo Bongo che arriva? Non scherziamo" (Umberto Bossi).

2004. "Comunisti maledetti, quei giudici" (Carlo Taormina). "Berlusconi? Tu non sai quanto è bravo. Io lo ammiro molto. Putin ci fila, Bush ci fila. Finalmente ci fila qualcuno" (Simona Ventura). "La gente gridava a Berlusconi 'Vai a casa'. Abbiamo gridato anche noi. Lui allora mi ha detto: 'Lei ha una faccia di merda'". (Anna Galli, cittadina). "Mi vergogno che sia stato nominato senatore a vita il poeta Mario Luzi. Una persona di questo tipo che offende il nostro mondo. Era meglio Mike Bongiorno" (Maurizio Gasparri).

2005. "Lei quanto è alto? Un metro e 78? Non esageri, venga qui allo specchio, vede, io sono un metro e 71. Ma le pare che un uomo alto un metro e 71 possa essere definito un nano?" (Berlusconi a 'La Stampa'). "L'elettorato è stato distratto dalla morte del Papa, e questo indubbiamente ha avuto un ruolo anche sui dati dell'astensionismo" (Enrico La Loggia). "Una dichiarazione senza stile, gravemente irrispettosa, insensata e che ferisce il dolore di quanti non per 'distrazione' ma per amore sono vicini al Papa" ('L'Osservatore Romano'). "L'Italia vive nel benessere. In classe di mio figlio i ragazzi hanno due telefonini a testa" (Berlusconi al TG2). "Dalla mia villa ho un gran bel panorama. noto anche quest'anno molte barche. Se sono barche da ricchi vuol dire che ne abbiamo proprio tanti. Gli stipendi crescono più dell'inflazione, la ricchezza delle nostre famiglie non ha eguali in Europa" (Berlusconi a 'La Stampa').

(25 maggio 2007)
da espressonline
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 29, 2007, 09:58:12 pm »

POLITICA

Il capo dello Stato interviene sul dibattito in corso esortando la classe dirigente

"Pensare in grande, contro le manovre opportunistiche"

Napolitano: moralità e rigore per superare la crisi della politica

 
AVELLINO - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita ad Avellino, ha aspettato che si chiudessero le elezioni amministrative per entrare in merito alla crisi che ha colpito il mondo politico italiano. Con parole semplici e chiare, il capo dello Stato rifiuta la "denuncia della crisi fine a se stessa" e ha chiesto impegno, da parte di tutti: forze politiche e forze sociali.

Intervenendo ad Avellino in occasione delle celebrazioni per i 60 anni dalla scomparsa del meridionalista Guido Dorso, Napolitano ha sottolineato l'opportunità di "trasmettere la lezione di moralità e di rigore di Dorso", lezione che definisce "ancora sferzante e stimolante, da cui possono trarre ispirazioni le giovani generazioni, nell'avvicinarsi alla politica per rinnovarla".

Per Napolitano si tratta di "un tema scottante, su cui avrò modo di tornare in questi giorni. Un tema che dovrebbe sollecitare una riflessione costruttiva non solo di tutte le componenti dello schieramento politico ma di tutte le componenti della società italiana".

Per il presidente della Repubblica, infatti, "la soluzione ai problemi, sia delle riforme istituzionali sia del rinnovamento della politica, può venire soltanto attraverso un impegno conseguente delle forze sociali, culturali e politiche" anche se significativamente aggiunge subito dopo: "In particolare, di quelle rappresentante in Parlamento, siano esse di maggioranza o di opposizione".

Avverte a tal proposito Napolitano: "Al di fuori di tutto ciò, c'è solo la denuncia che, perdendo il senso della misura, può anche diventare controproducente e pericolosa". Il capo dello Stato fa suo quello che definisce "l'insegnamento che resta di Dorso, al di là delle speranze e della realizzazioni" ovvero "pensare idealmente e in grande la politica, contro la piccola politica delle manovre opportunistiche".

(29 maggio 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 28, 2007, 05:32:54 pm »

La bambina che sfidò Stalin
Nando Dalla Chiesa


Lo sfondo, amici del partito democratico. Il grande sfondo storico su cui si staglia quello che stiamo facendo. Ecco, va illuminato a pieni riflettori. Riflettori belli forti, e perfino un po’ impudenti. O altrimenti capiremo - e faremo capire - poco del passaggio che stiamo realizzando. Perché presentare il partito democratico come l’evoluzione, magari allargata, delle nostre tradizioni «popolari» (e qualcuno intende «democristiane») e «socialiste» (e qualcuno intende «comuniste») rischia di uccidere il bambino in culla. Oserei dire: chiunque si candidi a guidarlo.

C’è un libro, un nuovo libro, che costringe tutti a fare bene i conti con il passato. A misurarlo con curiosità, a soppesarlo palpitando. A vedere lo sfondo, appunto; la storia da cui si viene. Per prenderne le distanze nel modo più radicale possibile, altro che «evoluzione». Questo libro si chiama Una bambina contro Stalin. E l’ha scritto Gabriele Nissim, intellettuale che da anni conduce una meritoria ricerca sul totalitarismo sovietico e su quello nazista; sulle vittime e sui coraggiosi (i «giusti», nel linguaggio biblico) che seppero dir di no. Sua è l’idea della foresta dei giusti (un albero per ciascuno di loro); a lui dobbiamo la scoperta e la valorizzazione di una montagna di micro-documenti storici di valore irrinunciabile.

La storia del libro, elogiato nei giorni scorsi dai maggiori esponenti dei Ds, è perfino semplice nella sua brutalità. È un giorno del 1937 quando Gino De Marchi, poeta, regista e autore di documentari di propaganda socialista, viene prelevato dalla polizia segreta di Stalin negli studi cinematografici di Mosca, in cui lavora per il partito bolscevico. Come sia finito in Russia questo giovane intellettuale italiano è presto detto. Ci venne mandato per punizione; per espiare la colpa di essersi fatto scappare, di fronte alla minaccia dell’arresto di sua madre, il nome di un giovane compagno quando, a diciannove anni, era stato arrestato come militante comunista di Fossano. Era il 1921, era finita l’occupazione delle fabbriche e lui aveva maldestramente organizzato l’occultamento delle armi raccolte dai militanti in vista della possibile insurrezione. Fu accusato di essere una spia del fascismo. Intervenne Gramsci in persona perché gli venisse offerta una possibilità di riscatto. Una volta in Russia, De Marchi venne però incarcerato, perseguitato da quella nomea di «spia del fascismo». Di nuovo giunse un appello di Gramsci in sua difesa. Sicché gli diedero l’incarico di celebrare con la sua macchina da presa le conquiste dell’Ottobre. Lui si mise a farlo con entusiasmo genuino. Girava nei kolchoz, nelle fabbriche, nei luoghi in cui la Rivoluzione sfidava l’arretratezza di un continente intero per aumentare la produzione, per costruire la grande industria socialista. Con lui la moglie Vera, conosciuta e sposata in Russia, e la figlia Luciana.

Ed è proprio lei, Luciana, la «giusta» di questa storia finita solo pochi anni fa. Lei che aveva dodici anni quando il padre sparì per sempre in un’auto nera in mezzo a tre uomini vestiti di scuro. Lei che andò con sua madre a chiederne conto negli uffici della Lubjanka. Lei a gridare alla onnipotente guardia della polizia segreta «mio padre è un comunista, non è un fascista». Lei a battersi per sapere la verità, per avere giustizia, per riabilitare la figura dell’uomo che adorava e che nelle sue lettere, scritte rigorosamente in italiano, la esortava a essere scolara modello nella grande patria del socialismo.

Gino De Marchi venne fucilato neanche un anno dopo l’arresto. Nel 1938. Luciana rimase sola a battersi per il padre perché la madre, terrorizzata dal regime, lo rinnegò accreditando le accuse della polizia segreta. Ci vollero quasi vent’anni perché si rompesse un silenzio disumano. Nel 1956, nell’anno che è passato alla storia come quello della denuncia dei crimini di Stalin, si seppe dunque una prima verità: Gino De Marchi era morto di peritonite in un campo di concentramento.

Ma ci vollero altri quarant’anni per sapere, nel ’96, la verità vera. Il regista era stato fucilato a Butovo, vicino a Mosca. Abbandonato dai compagni di partito, perfettamente coscienti di quanto gli era accaduto. Fu perciò con sorpresa che Luciana, quando giunse a Fossano per incontrare Giuseppe Biancani, un ex partigiano e deputato comunista che con coraggio e umanità straordinari aveva deciso di fare riemergere dal passato la storia del poeta-regista, scoprì che nella città natale del padre era stata dedicata una via a Giovanni Germanetto, esule antifascista, autore di un libro che aveva avuto molta fortuna, Memorie di un barbiere. Perché si sorprese Luciana? Perché Germanetto era l’amico di suo padre. Era il comunista che lei si era abituata a chiamare zio. Colui al quale, con la naturalezza dei bambini, era corsa a chiedere aiuto quando il padre era stato arrestato. E che, con suo sgomento, di punto in bianco, nel momento del bisogno, si era rifiutato di parlarle, di toccarla, di ascoltarla. Pose dunque il problema al sindaco di Fossano. Perché una via a Germanetto, esule antifascista certo, ma testimone silenzioso e infastidito di una tragedia umana e politica, e non una via a suo padre? Il sentimento, la forza dell’ingiustizia vissuta, sfidavano uno dei più grandi drammi e dilemmi posti dalla storia politica del novecento. Il sindaco risolse il dilemma intitolando una via anche a De Marchi. Salomonicamente.

Roba recente, di questi anni. Apparenti «dettagli» che trascinano gli anni trenta fin dentro il nuovo millennio. E d’altronde chi leggerà la lunga storia delle testimonianze accumulate nei decenni su questa vicenda, si renderà conto di come la cultura degli anni di ferro abbia fatto le sue incursioni nei tempi più nuovi; edulcorata, modificata, ma sempre obbediente al principio che c’è Qualcosa a cui la verità, la giustizia, la dignità di un uomo possono e devono inchinarsi. Una cultura, insomma, che non può «evolvere».

Domani Piero Fassino si recherà con Gabriele Nissim a San Pietroburgo, al grande cimitero di Levashovo in cui sono sepolti cinquantamila fucilati dal Terrore staliniano. Molti ancora senza nome. Un cimitero che ha ormai assunto un ruolo prepotentemente simbolico. Visitarlo per ricordare un comunista fatto uccidere da comunisti su delazione di altri comunisti e nel silenzio di altri comunisti è un fatto di valore storico. Significa che non si denunciano «solo» più i carri armati di Budapest e di Praga, gli errori/orrori che vengono da fuori. Significa guardarsi dentro. Con il coraggio necessario per rompere con il passato proprio attraverso l’esercizio della memoria. Una memoria che comunque ci consegna figure di comunisti, da Gramsci a Biancani, che in quella storia seppero starci dando voce a sentimenti e a valori più alti della disciplina di partito.

Ecco perché diventa obbligato il riferimento allo «sfondo» su cui si costruisce il partito democratico. Che senso avrebbe, in effetti, dargli vita senza fare i conti con la Storia del paese che esso è chiamato a governare? Senza acquisire nella sua radicalità il nocciolo del pensiero democratico? Che senso avrebbe se tutti coloro che intendono parteciparvi non rendessero cristallina la superiorità di una cultura politica, del suo nucleo di valori e di principi? Davvero c’è bisogno di una riflessione. Occorre riconoscere come la nostra (non ignobile) vicenda democratica sia stata in fondo percorsa da un’idea amputata della democrazia. Nel clima dei totalitarismi del «secolo breve» e della successiva divisione in due del mondo vi fu chi coprì le tragedie del comunismo e chi finse di non vedere, altrove, le atrocità dei regimi fascisti e di chi li finanziava. O, più modestamente, vi fu chi non vide decine di sindacalisti e di servitori dello Stato uccisi dalla mafia, ritenendo anche lui di doversi inchinare a Qualcosa di superiore: l’occidente, la democrazia, il partito; o perfino la corrente. Come suggerisce Nissim, la vera discontinuità liberatoria si realizza sulla scelta (di Vaclav Havel sotto il regime di Praga, ma già di Gramsci davanti alla tempesta in arrivo) di porre la verità al di sopra di tutto. Nasca da qui, soprattutto da qui, il partito democratico. E da qui Fassino parta domani per dare il senso più alto al suo gesto di onorare a San Pietroburgo le vittime del Terrore.

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Pubblicato il: 28.06.07
Modificato il: 28.06.07 alle ore 9.33   
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« Ultima modifica: Marzo 24, 2008, 12:13:58 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 29, 2007, 12:11:55 am »

Non roviniamo la Festa
Nando Dalla Chiesa


Festa dell´Unità sì o Festa dell´Unità no? Che cosa sarebbe meglio per il Partito Democratico? Prima di rispondere, consegno alcune doverose premesse: a) vengo dalla Margherita; b) credo che il Pd debba esprimere una realtà politica nuova, non certo la somma di realtà preesistenti; c) penso che sia (oso ancora dire: sarebbe) un errore micidiale accompagnare le primarie per il leader con l´elezione spartitoria (tot ai Ds, tot alla Margherita) dei segretari regionali del nuovo partito.

d)Sono convinto che sia stata poco coerente con l'idea del Partito Democratico la scelta dei Ds di presentarsi alle primarie con un solo candidato per difendere la loro unità. Enunciate le premesse, do la mia risposta. E mi dichiaro favorevole, fortemente favorevole al mantenimento delle feste dell'Unità. E proverò a spiegare il perché.

Mi rendo conto, sia chiaro, dello spirito con cui alcuni intellettuali ulivisti ne hanno chiesto l'abolizione o la trasformazione in altro. Quella festa è una festa di partito, si argomenta. Ora che nasce un nuovo partito, mantenerla in vita significa continuare a coltivare una precedente identità, rifiutare di sciogliersi davvero nel nuovo progetto. Di più: specie in certi contesti regionali significa perseguire l'ambizione di una egemonia della precedente identità nel nuovo progetto. Una egemonia politica e organizzativa. Con tanti saluti all'idea di mescolarsi davvero in qualcosa di nuovo, di attrarre e fondersi con pezzi di società estranei alle ideologie del novecento. Preoccupazioni e motivazioni per nulla campate per aria. Io però, proprio partendo dalla concreta realtà delle feste dell'Unità, per come le ho conosciute e per come le ho vissute in questi ultimi decenni, vorrei proporre delle considerazioni che spostano (e alla fine ribaltano) i presupposti del ragionamento.

Siamo davvero sicuri, e quanto, che la Festa sia la festa dei Ds? Che la organizzino loro è certo. Che ci mettano le loro bandiere pure. Che il taglio politico complessivo sia coerente con le loro strategie, di nuovo pure. È anche certo che le esclusioni e inclusioni degli ospiti risentono di innamoramenti e orticarie tipicamente di partito. Così come è certo, infine, che essa venga solennemente chiusa da un discorso del segretario diessino davanti alla massa orgogliosa dei militanti. Non è poco, ci mancherebbe. Anzi, potrebbe bastare per rispondere con un lampo d'intesa: ragazzi non scherziamo, è la festa dei Ds. Eppure c'è qualcosa di più e di diverso, di cui è impossibile non tener conto. La festa infatti mescola culture, le fa incontrare in modo non formale, non diplomatico. Frulla ambienti, personalità, storie collettive, è luogo di confronto autentico e spontaneo di tutta la sinistra, direi di tutto il centrosinistra. Nel suo modo concreto di svolgersi perde quasi totalmente le stimmate di partito. A volte (e neanche sempre) ai dibattiti c'è solo una presenza a ricordare «dove si è», quella del moderatore. Ma poi assisti o partecipi a incontri in cui, su sei o sette relatori, di diessini ce n'è uno solo. E in cui spesso il pubblico applaude con più calore e convinzione relatori non appartenenti al partito ospite (intellettuali senza targa, ma anche esponenti di altri partiti). Nel tempo la mescolanza delle genti che si danno appuntamento alla Festa nazionale o della propria città, ha continuato anzi a crescere, a diventare sempre più palpabile.

E questo per una ragione di cui va comunque dato atto agli organizzatori: la Festa è diventata il più grande evento politico-culturale dell'anno in tutto il paese. Non il più grande evento politico, non il più grande evento culturale. Ma sì il più grande evento politico-culturale, pur con quella quota di dibattiti un po´ improbabili e di pedaggi alle piccole vanità interne che la festa deve scontare. Voglio dire che non c'è occasione in Italia in cui cultura, politica, musica, divertimento, la stessa gastronomia si mescolino con tante offerte e con tale varietà di partecipazione. E siccome non ce n'è davvero altre di paragonabili, tutto il popolo del centrosinistra ha finito per farne progressivamente il proprio appuntamento, al di là della stessa volontà dei dirigenti diessini; i quali infatti ogni tanto registrano dissonanze anche imbarazzanti tra gli orientamenti dominanti nel partito e quelli espressi dal pubblico presente. Come dimenticare l'impulso che venne dalle feste a partecipare alla grande manifestazione di piazza San Giovanni indetta da Moretti e dai girotondi nel settembre del 2002?

Mi spingo ancora più in là. E dirò che le feste dell'Unità, proprio per questa loro natura, hanno dato un potente contributo alla nascita vera dello spirito dell'Ulivo, più che ostacolarla in nome di una separatezza di partito. Nel clima irripetibile della Festa, di quella Festa, mi è capitato più volte di firmare grembiuli o poster o fazzoletti di volontari e di trovarvi sopra le firme di altri ospiti, diessini e non, a testimonianza di quanto sia ampio lo spettro della rappresentanza ideale che quel popolo coltiva. Anche per questo l'appuntamento attrae tanti e tanti giovani che mai si vedono, che mai ci si può sognare di trovare negli altri appuntamenti politici.

Perché dunque chiudere con questa festa, con questo marchio? Essi appartengono a tutto un popolo, a cui proprio il Partito Democratico non può toglierlo con un atto burocratico. Sarebbe un po' (e chiedo scusa per la impropria caduta aziendalista) come se un marchio radicato nella storia della cultura, delle tradizioni e dei gusti venisse cambiato perché cambia l'azionista di maggioranza. E sarebbe anche un'ingiustizia verso quelle decine di migliaia di volontari, irreperibili in qualsiasi altra esperienza politica, che a questa festa hanno dato la propria generosità, vivendola al tempo stesso come la festa del proprio partito e la festa di tutti. Si è detto spesso che il Partito Democratico non dovrà, costruendo una storia nuova, liquidare le sue radici. Ecco, questa Festa è probabilmente uno dei più grandi patrimoni del passato che il Partito Democratico si troverà tra le mani. Lo affidi a chi è in grado di interpretare al meglio la nuova identità, lo emancipi da qualche ostruzionismo illiberale, ne consegni il momento conclusivo (ovviamente) al leader del nuovo partito.

Quando i volontari e quel clima umano e politico non ci saranno più, avrà un senso storico cambiargli il nome. Per ora la Festa è soprattutto una risorsa. A tarpare le ali al nuovo partito sono semmai - come sanno bene gli stessi intellettuali ulivisti - gli accordi tra le segreterie uscenti, l'idea di costruire un partito teleguidato, il sogno di farlo nascere dentro una grande glaciazione di equilibri personali, i ticket decisi a tavolino, i segretari regionali spartiti a percentuali. Sarebbe una beffa se alla fine dovessimo scoprire di trovarci tra i piedi tutti i vizi correntizi sani e pimpanti e per converso, come prezzo per avere vanamente tentato di esorcizzarli, di trovarci senza la festa dell'Unità. Perché invece, ecco l'idea, non chiedere aiuto proprio alle feste dell'Unità e al loro popolo, plurale e appassionato, per fare nascere bene il Partito Democratico? Perché non mettere lì, per esempio, dei bei banchetti, non organizzarci delle belle iniziative contro la fregola di una spartizione Ds-Margherita prossima ventura? Il popolo della Festa ne sarebbe capace...

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Pubblicato il: 28.08.07
Modificato il: 28.08.07 alle ore 8.20   
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 27, 2007, 04:55:57 pm »

Elogio della campanella

Nando Dalla Chiesa


Il degrado, il degrado del paese. Il paese dissestato, scombiccherato, dove dilagano tele-allegria e spensieratezza sociale. Il paese sbrindellato, un po’ cialtrone, dove non si sa mai chi trovi e quando lo trovi. Il paese dell’approssimazione, degli impegni forse-che-sì forse-che-no. Il paese degli inaffidabili. Ecco, questa Italia un po’ deformata ma autentica, che non è tutta ma è quanto basta, dove nasce, dove ha origine? In quale piccolo anfratto dell’animo o della mente di ciascuno prende il via, quando - insomma - si fa embrione sociale? Non sarà che con queste scaturigini misteriose c’entri anche il suono di una campanella?

Su questo mi sono interrogato leggendo sui giornali la vicenda del «Mamiani», il liceo romano balzato una volta di più agli onori delle cronache con la naturalezza che spetta, sorta di noblesse oblige, ai licei romani e milanesi frequentati dai figli di giornalisti, intellettuali e politici. Che cosa è dunque successo al Mamiani?

Semplice: che il preside ha fissato il principio che quando suona la campanella d'inizio giornata, alle 8,10, gli allievi devono entrare a scuola. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, immagino con le debite manciate di secondi di tolleranza. E ha poi deciso che per i ritardatari scatta la carta di riserva della giustificazione. Principio osservato e praticato senza traumi dal sottoscritto quand'era (non docile) studente, e osservato e praticato senza traumi decenni dopo dai miei ancora giovani figli. Ma che è apparso iniquo agli studenti del liceo interessato. Non ho intimità con la storia dell'istituto, e dunque non sono in grado di valutare la gravità o l'inopportunità della misura in relazione al particolare clima civile, politico della scuola o a quella cosa delicata e complessa che sempre è l'antropologia studentesca, così cangiante da città a città, da quartiere a quartiere. E dunque ragiono in generale, come generale è il fenomeno di sbrindellamento che sta investendo i nostri costumi. Perché in effetti nulla o quasi nulla, preso nella sua particolarità, può essere dichiarato con certezza causa o sintomo di declino culturale. Non lo sono, in sé, né Miss Italia, né L'isola dei famosi, né la foto taroccata delle cugine di Garlasco, né l'usanza petulante di dare del tu a tutti (splendido l'articolo di Citati di quest'estate!), né la conversazione a voce alta sul cellulare in treno, né l'andare a sostenere l'esame in bermuda. Eccetera. Eccetera.

Sissignori, nessuna di queste così eterogenee «sostanze», e nessuna delle loro infinite pari-grado, porta in sé con certezza i germi del declino. Ma il solo elencarle insieme, ne converremo, disegna, quello sì, un mosaico che esprime il declino degli usi e costumi. Del tutto compatibile, si intende, con l'aumento dei viaggi, con la crescita del benessere, con l'innalzamento del grado formale di istruzione, con le vertigini del progresso tecnologico. Tutti fenomeni che anzi imprimono a tale declino modalità particolari e spesso pittoresche, proprio come nei film di Verdone.

È in questo contesto che è chiamata a svolgere la sua umile ma insostituibile funzione la campanella. La campanella che suona e dà un orario a tutti. Studiosi e indolenti. Ricchi e poveri. Di destra e di sinistra. Preadolescenti e maggiorenni. La scuola come comunità, in fondo, è anche una campanella rispettata. Vero, verissimo: dietro una campanella rispettata può esserci il vuoto culturale. Ma dietro una campanella bistrattata, in genere, il vuoto culturale avanza con certezza. Lentamente, impercettibilmente, al riparo delle ideologie progressive, ma con regolarità impietosa. Perché la campanella, come altri strumenti più o meno graziosi, sonori o silenziosi, obbliga e forma alla puntualità, abitua quotidianamente al rispetto degli orari. E la puntualità è civiltà. La puntualità esprime il rispetto per gli obblighi collettivi e per gli obblighi interpersonali. Ognuno di noi si infuria quando partono in ritardo il treno o l'aereo, quando il tram arriva venti minuti dopo l'orario indicato alla fermata, quando l’ufficio pubblico apre con suo sommo comodo. Tutti - treno, aereo, tram, ufficio pubblico - indifferenti di fronte agli impegni, alle incombenze, al tempo perso dai cittadini. Così come ognuno si arrabbia quando l'amico, il collega, il cliente, non rispetta la puntualità o quando vede il politico giungere al dibattito o alla pubblica manifestazione con ritardi da sposa bizzosa. Perché il tempo che il ritardatario impiega (fruttuosamente o meno) da un'altra parte, lo fa perdere a chi lo aspetta. L'inciviltà nasce, prospera, nell'indifferenza alla puntualità. E produce a cascata i corollari della società sbrindellata: l'inaffidabilità, l'incertezza delle prestazioni e dei doveri, la precarietà dei servizi.

Non a caso nella società massificata, intessuta di chiacchiera e di approssimazione, i luoghi per eccellenza dell'arte in diretta, il teatro e l'auditorium, sono anche quelli che per eccellenza non tollerano eccezioni alla puntualità. E anzi la associano a una rigorosa e condivisa disciplina. Chi ci va deve rispettare l'orario, viene svillaneggiato coralmente se dimentica il cellulare acceso, di fatto non può nemmeno tossire o starnutire. L'arte, ossia il prodotto dell'intelletto e della creatività, pretende, per esprimersi, contesti altamente regolati. E a ben pensarci la rissa d'agosto in Costa Smeralda tra Zucchero, grande bluesman, e il pubblico del Billionaire proprio questo ha rumorosamente registrato: il fatto che la società sbrindellata nemmeno il silenzio davanti all'artista accetta più. Prima viene la chiacchiera, meglio se gorgogliante intorno a tavole imbandite.

È paradossale che mentre tutti siamo impegnati a notare e a confidarci i segni della superficialità e della sciatteria che ci travolge, non riusciamo a stabilire i modi, gli strumenti, le semplici abitudini capaci di riportarci ai comportamenti utili a una convivenza più civile e intelligente. Che non riusciamo, nemmeno noi adulti, a capire che il massimo delle libertà personali non coincide affatto con la massima libertà collettiva. E che anzi spesso la stessa libertà individuale, quella vera, può essere mortificata, tarpata da un'esistenza vissuta fuori da ogni regola e disciplina. Dice: e il Mamiani? Niente, è stato solo un pretesto. Perché in fondo se, parafrasando Hemingway, ci chiedessimo per chi suona la campanella di ogni scuola, dovremmo rispondere che, oggi più che mai, suona per tutti.

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Pubblicato il: 27.09.07
Modificato il: 27.09.07 alle ore 8.58   
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 28, 2007, 05:27:45 pm »

Se la politica andasse dallo psicanalista

Nando Dalla Chiesa


Per favore uno psicanalista. E anche bravo. Meglio: un’équipe di psicanalisti. Da pronto soccorso, se ce ne sono. Perché qui c’è una folla di personaggi in preda a turbe che vanno guarite in fretta. Non tanto per loro. Ma per i cittadini che se le vedono rovesciate addosso. Per il paese che qualche diritto ce l’ha pure lui, per quanto vecchio e maneggione sia, accidenti. Vengano gli psicanalisti, mettano su comodi lettini i (dis)turbati, scegliendoli «per titoli» nel variegato mondo dei dirigenti del centrosinistra italiano e li curino in fretta. Perché psicanalitica, assai più che politica, è la crisi che divora il governo dell’Unione e che vuole riconsegnare il paese a Berlusconi, ora o tra un anno. Basta guardarsi intorno. Si affastellano le sindromi più varie. Ecco a voi la sindrome dei capponi di Renzo, che si beccano furiosi tra loro mentre vanno a farsi tirare il collo. Ecco a voi la sindrome da suicidio egoistico, affermo davanti al mondo la mia identità uccidendomi. Ma anche quella da suicidio anomico, mi uccido perché perdo il senso delle cose, perché non ho più né regole né significati. Ecco a voi la sindrome dei trenta denari, pagatemi e tradisco (finisce con altro suicidio, come è noto). E poi quella di Narciso, innamorato della sua immagine fino (è destino...) a morirne, sia pure poeticamente. Sindromi. Sindromi a bizzeffe, che si richiamano e si esaltano tra loro. Un campionario squisito e interminabile, che viaggia tra parlamento, partiti e ministeri. E non risparmia neanche pezzi di opinione pubblica. E dietro questa follia autodistruttiva, guizza la fiamma della follia estrema, la convinzione che da questo spettacolo si possa uscire più forti e rigenerati, in grado di ricevere un nuovo mandato a governare prima del 2025.

C’è del metodo, occorre convenirne. Era l’autunno del 1997, lo ricordo come fosse oggi, quando alla Camera un deputato della sinistra diessina mi incontrò una sera prima di cena per dirmi che si andava alle elezioni. Alle elezioni?, chiesi stupito e soprattutto sbigottito. Perché alle elezioni dopo un anno che governiamo, e per giunta dopo aver vinto per grazia ricevuta, ossia solo per la corsa solitaria della Lega? Non si può più andare avanti, mi venne risposto. Con Rifondazione non si resiste, torniamo alle urne. Riunione del gruppo parlamentare. Osai dire che mi sembrava una follia. Ma quasi tutti marciavano in quella direzione, qualcuno temeva di giocarsi il collegio a esprimersi contro. Poi gli stati maggiori ci ripensarono. Un anno e tre mesi; erano bastati un anno e tre mesi, comunque, per pensare che si potesse buttare all’aria un governo, il primo governo dell’Ulivo. Poi venne il ’98 e Prodi e Veltroni caddero davvero, e per carità di patria non riapro quella pagina. Traversie e governi vari si susseguirono, giusto per consentire alla destra di dire che avevamo fatto quattro governi in cinque anni, altro che la seconda Repubblica. Vennero le elezioni del 2001. E siccome i sondaggi, dopo cotanta dimostrazione di coerenza e di affidabilità, pronosticavano sconfitta, invece di unirci ci dividemmo per tre: l’Ulivo, Di Pietro e Rifondazione. Insieme prendemmo più voti del centrodestra ma, genialmente, mandammo lo stesso al governo Berlusconi. Furono cinque anni di attacchi continui alle finanze dello Stato e ai princìpi di legalità e decenza civile, fino al limite del collasso istituzionale. Ma nessuno (lo vogliamo dire?) ha mai pagato per quella assurda divisione.

Finché è arrivato il 2006. Con le nuove elezioni. Una notte al cardiopalma. Le splendide previsioni che vanno in frantumi. E alla fine una vittoria risicata, risicatissima; annunciata da Fassino in diretta televisiva prima dei conteggi ufficiali. Un autentico miracolo: al governo di una delle maggiori potenze industriali per ventiquattromila voti di scarto. Roba da tenerselo stretto, il governo. Caro, ma proprio tanto caro. Da provare verso di lui e verso gli italiani che avevano votato Unione un senso di responsabilità infinito, come quando si maneggia un bambino appena nato, al quale ogni urto e ogni imprevisto può essere fatale. Roba da sentire ogni giorno all’alba l’imperativo kantiano di esibire il meglio di sé, di dimostrare di avere meritato quello scarto fortunoso. Di mantenere gli impegni elettorali, quelli possibili naturalmente (già, perché in effetti tanti critici a gogo dimenticano che al Senato c’è un solo voto di differenza, che si traduce subito in più voti di svantaggio appena si toccano alcuni temi). L’imperativo di mettere ovunque le donne e gli uomini migliori. Di seguire una rigorosa disciplina di squadra. Di ascoltarsi con rispetto. Di porre da parte ogni vanità personale. Di dare un’immagine di armonia e di serietà. Così doveva essere. Così dovrebbe essere. Se si vuole dare a questo paese un governo responsabile. E soprattutto se si vuole spiegare agli italiani che il centrosinistra sa governare, che l’amore per il proprio paese sa tenere uniti perfino più dei soldi e del potere di Berlusconi.

Un po’, un bel po’ ci si è sberciati, ci si è sfregiati. Un po’ di aria tossica la si è lasciata lungo i propri passi. Un po’ si hanno gli abiti sgualciti. Ma si è ancora in tempo per intervenire, per rassettarsi, per pettinarsi e magari cambiare d’abito. Per incominciare (ma sì!) a mettere sulla scrivania una bella foto capace di simboleggiare l’Italia o la sua storia migliore; da guardare con rispetto e anche un poco di emozione ogni mattina invece di fare un compiaciuto inchino alla foto propria o alla bandiera del proprio partito (il che è molte volte la stessa cosa). Ma per riuscirci occorre un bravo psicanalista, anzi un gruppo di psicanalisti. Bisogna fare in fretta per guarire questa follia che ci sta portando verso il baratro. La follia di chi, avendo vinto la lotteria, butta poi il biglietto al vento affacciandosi al balcone. Così, giusto per provare il brivido di vedere se riesce a ritrovarlo per strada dopo cinque minuti. L’importante è che chi soffre o ha sofferto di turbe sia disposto, anche in silenzio, anche in un recesso dell’animo, ad ammetterlo. Se no, come è noto, sul lettino nessuno sarà mai capace di portarcelo. E addio speranze di resipiscenza. E allora, fuor di metafora, il popolo italiano trarrà la conclusione che il centrosinistra non è in grado di governare. Buono per amministrare le città, d’accordo. Ma il governo non è cosa.

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Modificato il: 28.10.07 alle ore 12.20   
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 28, 2007, 05:36:16 pm »

A Mastella dico niente censure

Nando Dalla Chiesa


Arimortis. Confermo qui il solenne impegno a non criticare pubblicamente alcun atto del mio governo. Ma la proposta del ministro della Giustizia Clemente Mastella di chiudere anzitempo la fiction sul «Capo dei capi» non è atto di governo. È un’opinione che solleva un dibattito culturale, civile e politico. Al termine del quale potrebbe anche esserci un atto di governo per censurare la fiction. Un atto atto gravissimo, un precedente dalle implicazioni incalcolabili. E dunque voglio qui misurarmi proprio con le opinioni del ministro. Liberamente e responsabilmente.

Spero che mi si crederà se dico che non ho alcuna simpatia per ciò che dall’Ottocento in poi, in letteratura, in antropologia, nel teatro, nel cinema, in televisione, è servito a legittimare la cultura mafiosa e i suoi protagonisti, a circondarli di un alone di normalità, di simpatia o perfino di fascino. Ecco, credo che la fiction di cui viene oggi chiesta la soppressione non abbia proprio nulla a che fare né con il folclore corrivo del Pitré né con la grande saga del «Padrino». Dirò anzi di più: di avere provato anch’io qualche perplessità iniziale sulla scelta di dedicare una sequenza di spettacolari serate a Totò Riina e ai corleonesi, ossia a personaggi vivi e suscettibili di incarnare un mito agli occhi più sprovveduti. Ma la realizzazione narrativa ha fatto piazza pulita dei miei dubbi e dei miei timori. E sarebbe ben strano che così non fosse stato scorrendo i nomi di chi ci ha lavorato, a partire da Claudio Fava. Che delle simpatie e delle complicità verso i mafiosi ne sa - come me - qualcosa per esperienza molto diretta.

Qual è il problema sollevato dal ministro e non solo da lui? Che in qualche landa della Sicilia ci sono ragazzi che scorgono in Riina e Provenzano i loro modelli di riferimento? Che in qualche angolo d’Italia c’è chi può fare il tifo per loro? Ebbene, lo confermo. Il problema c’è. Ma non nasce, questa è la scomoda verità, dalla fiction. Nasce da chi la guarda, dagli spettatori. Loro, non altri, sono il problema.

Se davanti alla tivù ci sono cittadini “neutri” o predisposti a giustificare il crimine e la violenza, giovani che per varie vie hanno maturato una cultura congeniale al “messaggio” mafioso, essi saranno attratti, anche inconfessabilmente, dalle gesta criminali dei corleonesi. Se invece davanti alla tivù ci sono cittadini o ragazzi dotati di una minima sensibilità umana e civile, quella minima sensibilità che ogni paese democratico dovrebbe sapere assicurare alla quasi totalità dei suoi membri, allora le imprese dei corleonesi saranno le gesta di un pugno di criminali, rappresenteranno un’epica sanguinaria e ributtante. È da questo fatto elementare che bisogna partire. Ed è rispetto a questo, semmai, che vanno misurate le responsabilità del nostro sistema televisivo.

Perché (vogliamo dircelo?) occorrono alcune condizioni affinché uno spettatore si trovi nella predisposizione psicologica di tifare, anche in modo latente, per un boss mafioso. Occorre, anzitutto, che per lui la vita e la morte siano eventi o concetti superficiali, intercambiabili; ludici perfino, come in un videogioco. E la nostra televisione questo gli ha insegnato. Il delitto come gioco, come rappresentazione da intrattenimento, con i plastici dei luoghi in cui si è ucciso e una compagnia di attori - psicologi, magistrati, giornalisti, ma alla fine tutti attori - che ne chiacchierano amabilmente come in un salotto.

Occorre poi che egli abbia realizzato una certa assuefazione alla violenza, si sia abituato a considerarla parte ovvia, nel senso di “moralmente ovvia”, della realtà quotidiana. Che abbia interiorizzato le sue proiezioni immaginarie, i suoi bellicismi, i suoi linguaggi, le sue autogiustificazioni. E questo la nostra televisione gli ha insegnato. Decenni di dibattiti calcistici (e non solo) gestiti e animati da invasati pronti all'urlo e all’invettiva, da applauditissime e richiestissime figure di “opinionisti” intenti a giustificare e talvolta a un pelo dall’istigare alle violenze più sconsiderate. Occorre, ancora, che quello spettatore abbia coltivato dentro di sé, giorno dopo giorno, i miti del potere e soprattutto del denaro e del successo facile. A qualsiasi costo. Dall’evasione fiscale alla prostituzione (magari su consiglio materno) in cambio di una comparsata da velina. E questi miti la nostra televisione ha egregiamente contribuito a coltivare, iniettando nel sangue della società teledipendente -non solo nelle case benestanti e libere dal bisogno ma anche nei vicoli dell'ignoranza e della disperazione- la convinzione che ci si possa arricchire facilmente rimuovendo ogni ostacolo di troppo. Costruendo l’idea della “società desiderabile” intorno a un ristretto gruppo di figure pubbliche (in quanto televisive) baciate dalla fortuna del fisico e/o trascinate al successo dalla loro spregiudicatezza.

Occorre ancora altro per avere il nostro spettatore ben predisposto? Certo. Occorre anche, e infine, che egli abbia sviluppato una neutralità verso il senso della legge, o addirittura una avversione nei confronti delle regole e di chi, con una divisa o con una toga addosso, cerca di farle rispettare. E la televisione, che pure ha realizzato cose buone per ricordare alcuni rappresentanti dello Stato o per promuovere un’idea positiva dei poliziotti e dei carabinieri, si è spalancata per anni come una voragine per ospitare gli attacchi più violenti e ossessivi contro i giudici e le forze dell’ordine. Attacchi senza contraddittorio da parte dei condannati di giornata, attacchi a reti unificate da parte di inquisiti eccellenti, accuse a tonnellate in dibattiti teleguidati con i criteri di utilità politica che ci sono stati anche documentati recentemente. Eccolo dunque completato l’apprendistato “civile” del nostro spettatore. Ed è lui che si mette a vedere «Il capo dei capi» accanto al cittadino democratico, come un atleta che venga allenato e massaggiato abilmente fino al momento di scendere in campo.

Domanda: su che cosa bisogna intervenire, dunque? Sulla televisione che prepara e predispone lo spettatore complice o sulla fiction che tanto fiction non è ma racconta i fatti crudi e per alcuni delitti evoca perfino scenari politicamente imbarazzanti, non i soliti santuari “al di sopra di ogni sospetto” ma Riina che fa uccidere un prefetto per fare un favore a un politico romano? Una fiction che forse potrebbe riservare prima della fine ancora qualche dialogo bruciante sugli ultimi anni onnipotenti di Totò Riina?

La censura è sempre pessima cosa. Se fosse andata in onda una sequela di falsi clamorosi, ancora ancora avrebbe senso prendere in considerazione l’ipotesi. Per concludere che sarebbe comunque meglio evitarla. Ma qui, purtroppo, mentre i falsi vanno in onda tranquillamente da anni, sono le verità scomode che vengono accusate di fare il gioco della mafia. Già lascia uno strano sapore in bocca il rinvio (sperando che sia tale) della «Vita rubata». Ma se dopo un pugno di giorni tocca anche al «Capo dei capi», bisogna dedurne che in quella nebbia che avvolge in certi momenti la trama delle affabulazioni e dei pensieri politici, sia nata una convinzione inconfessabile. Che con questi film e spettacoli sulla mafia bisogna farla finita.

Il ministro Mastella non ha sicuramente questa convinzione. Ma qualcun altro che ce l’ha gli ha passato, con addolorata ipocrisia, la richiesta di censura. E lui l’ha rilanciata in buona fede, senza, come ha ammesso, avere visto una puntata. Ma chiedo: nel 2007, e sulla mafia, si chiede la censura “per sentito dire”?

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Pubblicato il: 28.11.07
Modificato il: 28.11.07 alle ore 13.21   
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« Ultima modifica: Dicembre 08, 2007, 03:09:59 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 08, 2007, 03:09:35 pm »

Non spegniamo la musica

Nando Dalla Chiesa


Questo è un appello appassionato in difesa delle accademie e dei conservatori d’Italia. È un appello rivolto pubblicamente al governo di cui faccio orgogliosamente parte e alla maggioranza che lo sostiene. Un appello per venti milioni di euro, meno del costo di un chilometro di autostrada. Venti milioni calcolati con precisione chirurgica per consentire al nostro sistema di alta formazione artistica e musicale di non affondare. Si badi: non aggiuntivi rispetto al 2007. Ma reintegrativi dei fondi dell’anno scorso; quelli, cioè, che hanno permesso al sistema di tirare la testa fuori dall’acqua in cui stava affogando dopo la micidiale cura da cavallo subita nell’ultimo anno del governo Berlusconi-Moratti.

Si resta a bocca aperta, c’è da non crederci. L’Italia e la sua tradizione artistica. L’Italia e la sua tradizione musicale. Il nostro biglietto da visita all’estero. Il made in Italy di secoli e millenni. Ciò che nessuno ci potrà mai imitare. Il nostro petrolio. I nostri giacimenti. Il nostro futuro è il nostro passato. Non si contano davvero le metafore usate dai leader politici e dagli intellettuali per definire il ruolo che la produzione artistica gioca e può giocare nelle nuove vie di sviluppo del Paese, nella sua competitività internazionale, nella sua crescita civile. La produzione ma, ovviamente, anche la formazione artistica. Perché la musica del passato qualcuno dovrà ben interpretarla e rinnovarla. E gli artisti italiani non dovranno solo riposare nei cimiteri illustri, ma dovranno soffiare il loro talento nella civiltà contemporanea, produrre nuovi capolavori, innervare della loro incessante creatività le nostre città, le nostre gallerie, i nostri stessi prodotti industriali e culturali. Siamo d’accordo su questo? È importante capirlo: siamo d’accordo o no? E allora perché è così difficile, quasi proibitivo, ottenere questi venti milioni in Finanziaria? Attenzione: non venti milioni per questo o quel centro di ricerca o culturale, legato a un potentato politico regionale. Non venti milioni per un’opera clientelare. Ma venti milioni per l’intero sistema pubblico, una trentina di accademie e un’ottantina di conservatori e istituti pareggiati. Contati e ricontati, proprio l’osso e nulla di più. Perché, nella penuria di mezzi trovata, il ministero dell’università in quest’anno e mezzo di governo ha ben cercato (e anche con qualche successo) di trasmettere il messaggio che un euro usato lavorando con intelligenza, entusiasmo, diligenza e fantasia vale dieci euro. Ma l’euro ci deve essere. E invece, incredibilmente, anche quell’euro sfugge, viene lesinato, forse non ci sarà. Così ci sono ormai accademie e conservatori, anche di qualità, che rischiano di chiudere; e che chiuderebbero, sia chiaro, pure se raddoppiassero le tasse agli studenti. Istituti a cui basta poco perché con poco ormai si sono abituati a vivere. Così come poco basta ai docenti per il rinnovo dei loro contratti, e che oggi si sentono comunicare senza appello che i soldi che c’erano se ne sono già andati tutti via per il rinnovo dei contratti della scuola.

Davvero il Paese vuole umiliare, marginalizzare, cacciare in cantina quel sistema dell’alta formazione artistica e musicale che può esserne uno dei più strepitosi gioielli? Certo, accademie e conservatori, da sempre lasciati a se stessi da un’Italia incolta e senza progetti, hanno i loro difetti e i loro ritardi. Le loro autoreferenzialità, le loro litigiosità e anche le loro mediocrità (come, peraltro, anche il sistema universitario). Ma io le ho girate in lungo e in largo, queste istituzioni. E vi ho trovato tesori indescrivibili di bravura e di passione, geni giovanili purissimi, inventiva e spirito creativo. Pianisti, violoncellisti, grafici, pittori, scenografi d’eccellenza. E non posso accettare l’idea che per questo intero sistema, per farlo sopravvivere, non si possano trovare venti milioni. Non voglio criticare nessuno e niente. Nel mio anno e mezzo di partecipazione al governo nessuno mi ha mai sentito dissentire pubblicamente da un collega, nessuno mi ha mai sentito dire una parola non dico di pessimismo ma neanche di disincanto. Ho recitato con convinzione assoluta e doverosa la parte del soldatino al fronte. Ma risulta difficile vedere stanziare somme ingenti, assai più ingenti, per opere e scelte di ogni tipo (tutte assolutamente legittime, sia chiaro), compresi gli istituti di formazione privati, e assistere all’apnea di un pezzo cruciale del nostro patrimonio formativo pubblico, comprensivo - dobbiamo ricordarlo? - di valori inestimabili in opere d’arte, architetture, biblioteche e archivi storici.

E tuttavia, passando dai princìpi di cultura civile alla politica purissima, dirò di più. Davvero il governo, questa maggioranza, vogliono rinunciare a dire davanti al Paese di avere per la prima volta restituito a dignità, di avere dato prospettive di sviluppo a questo settore? Perché il paradosso politico è proprio questo. Che con il governo Prodi viene attuata - dopo otto anni di attesa! - la riforma dell’intero settore, che una legge del ’99 portò a pieno titolo (“a costo zero”, stava scritto...) nel sistema universitario. Non solo. Mentre viene finalmente attuata la riforma, vengono anche varati i poli di alta formazione artistica e musicale in alcune grandi città (Genova, Milano, Napoli e Verona le prime), sistemi economici-artistici in grado di cambiare radicalmente gli orizzonti, anche internazionali, di queste istituzioni. Ed ecco che mentre si spinge in avanti tutto il sistema, arriva il rigurgito del passato, la vecchia ideologia del mettere l’arte in cantina. Così chi soffia contro il governo ha buon gioco. Da giorni si susseguono le occupazioni di accademie e conservatori. Napoli. Poi Roma. Lunedì Pesaro. E altre se ne annunciano. È vero che gli studenti sono spesso disinformati, che vien fatto loro credere che i loro titoli di studio siano carta straccia e che incontrarli nelle loro assemblee può aiutare a fare chiarezza; ma essi esprimono comunque un disagio autentico che nasce da una sensazione di fondo, quella che per loro (più di sessantacinquemila) ci sarà sempre, alla fine, una condizione di abbandono. E altrettanto esprimono i sindacati; i quali, umiliati nelle loro (modeste) richieste, minacciano il blocco delle attività. Ma ha un senso politico tutto questo? Ha un senso che proprio il governo che potrebbe vantarsi di avere dato al paese una nuova, più avanzata formazione artistica e musicale, diventi l’obiettivo di una protesta che sta dilagando nel paese? Per venti milioni e per pochi altri milioni di rinnovo contrattuale? Dice che l’Unione paga dall’inizio un difetto di comunicazione. Ecco, io sto provando a ovviare a questo difetto dopo avere cercato con il ministro Mussi di sensibilizzare i luoghi di decisione politico-parlamentare della Finanziaria.

Mi rivolgo a chi può intervenire nelle sedi istituzionali, ma anche agli intellettuali, a chi ha a cuore il futuro della nostra produzione artistica, affinché questo taglio non si compia. Perché un chilometro di autostrada, magari di qualche opera che rimarrà incompiuta, si converta nella tranquillità minima di più di cento istituzioni di alta formazione artistica e musicale. Al resto penseranno il lavoro, l’intelligenza, la parsimonia, la passione, la fantasia. Perché l’uno si può moltiplicare per dieci. Lo zero no.

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Pubblicato il: 08.12.07
Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.17   
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 22, 2008, 06:24:19 pm »

Il Senso della Misura

Nando Dalla Chiesa


E così sull´Angelus di domenica è scoppiata la guerra delle cifre e delle smentite. Proprio come sulle migliori manifestazioni politiche e sindacali. Logica conclusione di una giornata politica e per tanti aspetti surreale. Una domenica «per difendere il diritto di parola del Papa». Che partiva dal teorema che qualcuno avesse impedito al Papa di parlare. Teorema già smentito ieri, a piazza svuotata, dagli stessi organizzatori.

Vogliamo dunque ricordare i fatti, i puri fatti?

Il rettore della Sapienza aveva invitato Benedetto XVI a partecipare all´inaugurazione dell´anno accademico. Scelta che si può considerare, a seconda dei punti di vista (entrambi legittimi), felice o poco opportuna. L´1,5 per cento dei docenti della Sapienza, alcuni certo di grande prestigio accademico, aveva ritenuto di dichiararla inopportuna al rettore in una lettera scritta molte settimane fa. Non è l´occasione appropriata, avevano detto.

Questo significa che si è voluto impedire o che - in assoluto - «si vuole impedire al papa di parlare»? O forse il limite delle circostanze di tempo e di luogo non si applica anche alle autorità politiche, militari o ai leader civili, senza che questi si sentano, per ciò, imbavagliati o cacciati in esilio? Fatto sta che, più di recente, centinaia di studenti (forse, in rapporto alla popolazione studentesca, ancor meno di quell´1,5 di docenti) avevano a loro volta annunciato che avrebbero contestato la presenza del papa a quell´inaugurazione. E il solo loro annuncio ha indotto il pontefice a non andare alla Sapienza. Dove, in virtù delle misure di sicurezza allestite, egli avrebbe potuto parlare tranquillamente, come hanno parlato Mussi e Veltroni, nei confronti dei quali pure era stata annunciata una dura contestazione.

Chi dunque ha impedito che cosa? Ieri il Vaticano ha fulmineamente cambiato la sua versione. Nessuno ha impedito nulla, ha spiegato. È stata invece una scelta «magnanima» del Santo Padre quella di non creare, fuori dall´università, i problemi di ordine pubblico paventatigli dal ministro dell´Interno (che smentisce). Ma se fosse andata così, a maggior ragione, perché una chiamata dei fedeli alla mobilitazione antiregime? Forse si vorrebbe vivere in una società dove non ci siano neanche più piccole minoranze dissidenti, che esprimano ora un giudizio di inopportunità, ora (specie se minoranze giovanili) un´intenzione di contestare?

Davvero è in discussione in questo paese la libertà di parola del capo della comunità cattolica, visto che egli ha più di chiunque accesso ai media televisivi, e che sul territorio egli parla ai fedeli attraverso decine di migliaia di parrocchie, centinaia e centinaia di scuole, associazioni e riviste? Eppure un ricco campionario di esponenti politici ha pensato di manifestare in Vaticano proprio per «difendere il diritto di parola del papa». Ossia per una causa che non esiste. Fin quasi a far temere che il dissenso altrui sia considerato, esso, la «vera» minaccia, la dittatura laicista in arrivo, nuova cavalleria lanzichenecca o cosacca all´orizzonte di Roma.

Forse è tragico, come ha detto Arturo Parisi. Ma la sensazione è che la risposta stia altrove. Che questo paese abbia il suo primo, grande problema non nella legge elettorale, non nella divisione tra laici e credenti, non nella giustizia. Ma in qualcosa che viene ancora prima. Ossia nel senso della misura. Nella capacità delle sue classi dirigenti di misurare e raccontare la realtà. Di non farsi trasportare come foglie morte dai venti dell´ideologia e delle campagne mediatiche. Di sapere distinguere il surreale, il comico e il tragico che con tanta disinvoltura si mescolano nelle nostre vicende quotidiane.

Totalmente comica, nemmeno surreale, è stata ad esempio la veglia notturna del Foglio in difesa della libertà di espressione del papa. Eppure c´è chi, da sinistra, vi ha visto serietà di causa e di fini e quindi ha ritenuto di parteciparvi. Ma contemporaneamente è tragico il collegamento immediato tra quella veglia e la campagna di Ferrara contro la legge sull´aborto. Tragico che si vogliano ricacciare indietro i diritti civili o le legislazioni conquistate trent´anni fa, invece di farle progredire. Ma è di nuovo comico che a guidare l´esercito che inalbera la bandiera (sempre più grifagna) della «famiglia» siano sterminate truppe di divorziati e libertini. Tragico è che la Regione Sicilia abbia un presidente che avverte i boss mafiosi delle indagini che la magistratura conduce nei loro confronti, specie se si pensa che un suo predecessore di nome Piersanti Mattarella cadde assassinato proprio per difendere la Sicilia dalla mafia. Ma è comico, irresistibilmente comico, che egli esulti e baci amici e benefattori per avere avuto «solo» cinque anni di galera. Sembra un film inventato da un nemico insolente quello di lui che festeggia la condanna offrendo cannoli; o dei suoi alleati che gli danno solidarietà compiaciuta, perché non è mica complice della mafia, perbacco, l´avevamo sempre detto noi, ma solo dei mafiosi.

Poi ci sono le tragedie vere, non fatte di panna montata; e in cui le sfumature comiche proprio non sono possibili. E che però, diversamente dalle altre, non vengono viste fino al collasso sociale o allo scandalo mondiale. Quella della spazzatura, ad esempio, non vista per quindici anni, e che bene ha fatto Prodi a trattare, in questi mesi, come il più serio e vero dei problemi proposti dall´agenda politica. Oppure quella dei morti sul lavoro, che da poco tempo sta sulle prime pagine per merito più del presidente della Repubblica che di tutti gli altri messi assieme. Così come è tragedia (tragedia vera e rimossa) la crisi di legittimità della classe politica. Per risolvere la quale, ammesso che sia ancora possibile, occorre impegnarsi anima e corpo nei propri compiti più che imbucarsi ogni giorno in quella realtà virtuale fatta di televideo e agenzie e della loro interminabile esplorazione. Certo non si risolve, quella crisi, con gli improvvidi applausi bipartisan contro i magistrati. Perché è ben vero che i reati contestati a Mastella sono in realtà i comportamenti praticati da gran parte della politica e non solo in Campania, e che in tal senso egli finisce per diventare una specie di capro espiatorio (oddio quante mammolette spuntano in questi giorni... ma perché, ignoravano come si conquistano le poltrone e le direzioni ospedaliere, o pensavano che i moralisti esistessero per uno sfizio personale?). E tuttavia è anche vero che una politica che marcia a una sola spanna di distanza dal codice penale è una tragedia, anch´essa non vista; forse la più efficiente spiegazione dei nostri ritardi sulla scena dello sviluppo civile ed economico internazionale.

Ecco, oggi occorre alla guida del paese proprio questo: qualcuno dotato dell´autorevolezza per parlare con senno e coraggio a un´opinione pubblica perennemente agitata dalle mille notizie che si gonfiano su se stesse. Capace di indicare i confini tra il fatuo e l´importante, tra il reale e il surreale, tra il comico e il tragico. Che rifaccia l´agenda politica, che fornisca tutti di un accettabile senso della misura, e consenta per questa via di fissare i traguardi e di scegliere la bussola per arrivarci. Il Partito democratico dovrebbe aspirare, prima di ogni altra cosa, ad avere questa autorevolezza. Senza, gli sarà tutto maledettamente più difficile.

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Pubblicato il: 22.01.08
Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.12   
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 29, 2008, 05:05:04 pm »

La nostra preferenza

Nando Dalla Chiesa


Ma delle preferenze ne vogliamo parlare? Siamo sicuri di avere orecchie buone, almeno quanto basta per ascoltare, non si dice i cittadini, ma i nostri stessi elettori? Siamo certi di sapere annusare anche alla lontana le ragioni che stanno scavando un baratro fra la politica e la “gente”? Ferve il dibattito sulle riforme elettorali, sulle urgenze della politica, ma sembra che ci sia un tacito patto per non sfiorare nemmeno il tema. E vien da chiedersi perché.

Perché il centrosinistra sia così timido, assolutamente balbettante, sulla questione delle questioni: il fatto che gli elettori vogliono (pensa la stramberia) scegliersi i propri eletti. Si ha un bel parlare di dimezzare i parlamentari, di frullare un po’ di sistema spagnolo con un po’ di sistema tedesco o francese. Ma quel che ha generato rabbia, nella legge elettorale voluta dal centrodestra, ciò che la fa apparire fino in fondo “una porcata”, è proprio l’impossibilità di scegliersi in qualsiasi forma i propri rappresentanti. Certo, il rischio dell’ingovernabilità in un’Italia divisa in due. Certo, l’assurdità dei premi di maggioranza regionali per il Senato. Ma la vera, profonda linea di frattura sta in quel listone bloccato, nell’ordine di servizio giunto a sostituire il libero menù di una volta, nell’obbligo di sorbirti la minestra cucinata dagli apparati. Nel non poterti nemmeno prendere il gusto di punire il “tuo” partito se ti presenta un incapace o un corrotto perché in ogni caso, da qualunque parte ti volti, proprio non hai la possibilità di scegliere una donna o un uomo di tua fiducia. Listoni bloccati dappertutto.

È vero che anche con i collegi uninominali ti piovevano addosso candidati scelti dalle segreterie. Ma se non ti piacevano o ti piacevano meno dei candidati dell’altra parte (succede...), potevi scegliere la soluzione alternativa. Non per caso alla Camera almeno duecento collegi (circa un terzo del totale) dipendevano dalle qualità personali dei candidati. Di più. Una volta eletti, i candidati erano tendenzialmente obbligati a mantenere un rapporto di collegamento diretto con gli elettori, o almeno con le loro espressioni organizzate - politiche, civili e sociali -. Con la “porcata”, invece, tanti saluti a tutti; il rapporto si è azzerato.

Si consuma così il più eclatante dei paradossi. In una società che personalizza tutto e attraverso la comunicazione mediatica trasforma l’individuo in spettacolo e l’idea politica in individuo; in una società televisiva che ha fatto della politica una compagnia di giro di signore e signori; in una società che predica la centralità della persona, viene fatta sparire proprio la persona. Contano così solo due cose: un simbolo su cui mettere la croce e il futuro premier, lasciando il cittadino con la convinzione di non avere più in parlamento il “suo” riferimento. È davvero assurdo quel che è avvenuto e a cui sembra non si voglia cocciutamente porre riparo: un parlamento padre di una legge che incoraggia sentimenti di estraneità popolare al parlamento medesimo. O, detto più bruscamente: un parlamento che fomenta l’antiparlamentarismo.

Al di là dei problemi che produce in termini di stabilità e di coerenza istituzionale, la “porcata” proprio qui si esalta. E da qui rischia di incidere in profondità sull’antropologia politica del paese. Poichè se questo cruciale aspetto della legge non verrà affrontato con ogni chiarezza ed energia, nulla restituirà alla nostra democrazia l’indipensabile collegamento tra la Piazza e il Palazzo. Qual è dunque il motivo che spinge a rischiare il baratro? Il motivo per cui non si ritiene di intervenire? Lo sappiamo: la ragione inconfessabile è che i partiti, tutti i partiti, all’assenza delle preferenze ci hanno preso gusto. In misura diversa ma ci hanno preso gusto. Conviene alle segreterie scegliere i candidati perché questo garantisce un maggiore livello di fedeltà personali. Conviene a molti maggiorenti diventati tali per cooptazione sottrarsi a ogni misurazione dei propri consensi sul campo. Conviene ai gruppi dirigenti evitare scomode e impreviste ascese di qualche candidato in virtù dei consensi popolari, i quali ogni tanto (anche questo accade...) possono non rispecchiare i pacchetti di tessere ma certificare piuttosto l'appoggio dell’opinione pubblica. Sono convenienze mai dichiarate, è ovvio. Ma che si sono esplicitate in più momenti, dai tempi del dibattito parlamentare sulla stessa legge alla più recente scelta delle liste bloccate per le primarie del Pd.

Ci sono, è vero, anche le ragioni per così dire nobili di questa riluttanza. Le preferenze, si dice, innescano lotte intestine; le campagne individuali danno chances maggiori ai più ricchi e ai più famosi (magari per “meriti” televisivi); le spese crescenti di una campagna individuale incoraggiano la corruzione. Ma ognuna di queste ragioni può essere smontata o ridotta in minoranza. Perché se tutto si decide ai vertici degli apparati, la corruzione può trasferirsi nel tesseramento o nelle correnti di partito e nel procacciamento di risorse “per il partito”. Quanto alla “lotta intestina” (che potrebbe essere più benevolmente essere chiamata “competizione”), essa nei collegi uninominali non c’è. Mentre le spese potrebbero, quelle sì, finalmente essere oggetto di una legge seria, che indichi non solo il tetto ma anche i modi per verificarne l’osservanza e i soggetti chiamati a esercitare i controlli più penetranti (almeno sulle voci misurabili: spot, tipografie, affissioni, eventi pubblici). Su una cosa si può essere d’accordo: che alle elezioni per il parlamento europeo, se non si cambieranno le dimensioni delle circoscrizioni, davvero il successo ottenuto a colpi di preferenze diventerà sempre più direttamente legato al censo. Ma questo vale appunto per le elezioni europee, non certo per una delle vecchie circoscrizioni proporzionali e meno che mai per il collegio uninominale.

In realtà, una volta per tutte, bisognerebbe acquisire un principio, anche se fastidioso per gli equilibri partitici: la preferenza o l’indicazione di un nome per il parlamento è ragione e conferma dell’essenza della democrazia. Specie per la storia di questo paese. Non capirlo, rifiutarsi di vedere il problema ci spingerebbe sempre più velocemente verso la diffidenza, verso l’apatia o verso l’ostilità popolare. E voglia il cielo che quest’ultima si limiti a prendere le forme del grillismo.

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Pubblicato il: 29.01.08
Modificato il: 29.01.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 26, 2008, 10:57:47 pm »

Il coraggio dell'abbraccio

Nando Dalla Chiesa


La violenza come sublimazione della fede politica, come prova suprema della sua coerenza. L’assassinio come pedaggio da pagare alla realizzazione dell’“Ideale”. Pedaggio sgradevole, è vero, ma non ignobile, visto che «la rivoluzione non è un pranzo di gala». La vita umana come valore sacro solo per i cattolici piccolo-borghesi, non certo per i rivoluzionari.

Chi pensa che questo corredo ideologico sia appartenuto solo a frange di fanatici, a gruppuscoli impazziti che hanno costellato di sangue la storia degli anni settanta in totale estraneità al contesto culturale dei tempi, sbaglia. E chi lo dice mente (spesso) sapendo di mentire. Quel corredo giunse a centinaia di migliaia di giovani, di destra e più frequentemente di sinistra, come un deposito della storia; grazie alle culture fuoriuscite allo stato brado dagli argini delle teorie politiche della rivoluzione, ciascuna munita delle proprie salvifiche doppiezze, o dall'effervescenza creativa del sessantotto.

Difficile teorizzare la rivoluzione armata senza lasciar covare sotto le ceneri l’idea che - oggi o domani, dipende - la storia possa camminare sull’esercizio della violenza fisica, concimarsi con la morte dei nemici di classe. Difficile teorizzare l’estetica della rivoluzione, il valore antiborghese del “gesto” sovversivo senza inoculare il veleno della purezza del delitto. Specie se in ascolto è un naufrago diciottenne o uno sbandato della lotta di classe in cerca di grandi ragioni per vivere.

I cattivi maestri, anche di nobili intenzioni, figli di tempi tragici o (più tardi) padri di tempi tragici, sono stati legioni, da una parte e dell’altra. Hanno avvelenato a lungo i pozzi della politica, trascinando le speranze più generose verso l’orrore senza ritorno. Ragazzi di buona famiglia uccidevano il missino Sergio Ramelli. Ma ben più numerosi erano i ragazzi di buona educazione e animati da ideali di cambiamento pronti a scrivere che «uccidere un fascista non è un reato»; o ad aggiungere al «Ramelli vive» che campeggiava rabbioso e orgoglioso su qualche muro, uno spietato «tra i vermi». E ancora molti più ragazzi leggevano imperturbabili quell’aggiunta disumana e ne ridevano. No, per quanto tutto sia storicizzabile, per quanto ogni generazione abbia dovuto incolpevolmente respirare e assimilare i suoi veleni culturali (ci sono anche i veleni pacifici, infatti, anche quelli odierni dell’ipnosi catodica), ciò che accadde negli anni settanta non può non fare orrore e non può essere coperto dal fatto - vero, verissimo - che essi, oltre a essere anni di piombo, furono anche e forse soprattutto anni di conquiste civili, sindacali e culturali.

L’abbraccio di domenica scorsa a Roma tra Giampaolo Mattei e la madre di Valerio Verbano sotto lo sguardo di Walter Veltroni intreccia due delle tragedie più agghiaccianti di quel periodo, dipingendocelo - quel periodo - con un’unica, terribile pennellata. L’abbraccio offre però qualcosa di più alto di una “riconciliazione”. Non si sono abbracciati infatti l’autore della violenza e la sua vittima. Ma le vittime di violenze opposte. Che fra di loro nulla hanno da perdonarsi. Innocente è Giampaolo Mattei, fratello di Virgilio (ventidue anni) e di Stefano (otto!). Innocente è Maria Zappelli, madre di Valerio (diciannove). Il primo piange ancora la tragedia di una famiglia con sei figli; a cui tre militanti di Potere Operaio decisero una notte di dare alle fiamme la piccola casa, avendo perfettamente l’età della ragione per sapere che quella tanica sciagurata e le fiamme che ne sarebbero divampate avrebbero potuto distruggere otto vite nel modo più orrendo. Da allora l’immagine dei due corpi carbonizzati resiste negli archivi della memoria a spiegare in quale abisso di vergogna possa precipitare il mito rivoluzionario.

La seconda, Maria Zappelli, fu costretta a un’atrocità senza pari per una madre. Dare ospitalità a tre “amici” del figlio che, una volta in casa, si riveleranno esserne gli assassini. Attendere che il figlio torni, anzi, sperare che non torni, perché davanti a lei e suo marito, legati e imbavagliati, ci sono quelli che lo uccideranno. Sentirlo tornare. Disperarsi nel silenzio di un secondo. Sentirlo uccidere. Un bel gesto rivoluzionario, non c’è che dire. Un bel modo, per i tre militanti dei nuclei armati rivoluzionari della estrema destra, di “vendicare” i morti della propria parte.

Trent’anni dopo, l'abbraccio di domenica dice la superiorità dei sentimenti umani davanti alla politica che li rinnega; la forza suprema del dolore di fronte al quale ogni ideologia dovrebbe rannicchiarsi e farsi sospettosa di se stessa. Mescola due storie nel punto esatto in cui vanno mescolate, fuse. Quello della vita, lei sì valore supremo, che è stata violata. Quello della pietà che si erge sopra tutto e pretende l’omaggio di chi si è perso a onorare falsi idoli. Riporta al centro il valore immenso della pìetas latina, il valore che, continuamente aggredito e insultato, dà sempre senso, alla fine, alle comunità umane. E che può essere offeso, prima di giungere all'assassinio e alla sua rivendicazione, in tante altre forme, attraverso tutte le (lecite) manifestazioni del pensiero e della parola, dai documenti politici alle barzellette, dagli articoli di giornale ai discorsi da osteria o a quelli che si fanno nelle istituzioni. È lunga la catena che legittima l’offesa alla pìetas. E lunga è la catena degli offesi, dal bimbo rom fino al potente giusto. Per questo la natura politica dell’omicidio, nei due casi ricordati come in tutti gli altri, lungi dall’essere attenuante ne diventa aggravante. Non certo agli occhi di un tribunale, ma certo davanti alla coscienza di chi ama la politica e si batte per renderla strumento di cambiamento; perché essa obbedisca, prima di tutto, ai grandi valori che fondano le comunità umane.

È stato un abbraccio speciale. Degno di tempi che scoprono ingiustizie sepolte. Volendo, non c'è stata infatti riconciliazione neanche nell’accoglienza riservata di recente al bel libro di Mario Calabresi, «Spingendo la notte più in là». Anche in quel caso nessun incontro, nessun abbraccio, tra chi uccise e le vittime. E nemmeno tra chi orchestrò una campagna spietata contro il commissario e la sua famiglia. Ma il trionfo della pìetas; la scoperta, da parte di un'opinione pubblica finalmente vigile verso se stessa, finalmente disposta a scrutare nei pozzi neri della storia, di una famiglia che a quella pìetas aveva diritto dopo decenni di diffidenze e rimozioni.

Un abbraccio che certo sembra suggellare una “fine degli anni di piombo”, quella fine tante volte e un po’ ipocritamente invocata per chiedere amnistie per terroristi e (nella classica logica dello scambio politico) per altre categorie di criminali. E tuttavia non è la fine di quegli anni perché oggi i nemici di ieri si parlino. È la fine perché i nemici di allora, da quell’abbraccio tra innocenti, vengono sconfitti insieme nell’infinita miseria della loro idea di politica. Perché tutt’e due insieme, in quell’abbraccio tra un giovane uomo e una donna anziana, possono specchiarsi e provare ripugnanza per se stessi. E scoprire di essere uguali, maledettamente uguali.

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Pubblicato il: 26.02.08
Modificato il: 26.02.08 alle ore 12.02   
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 16, 2008, 12:30:05 am »

G8, la giustizia si è fermata a Genova

Giancarlo Ferrero


I fatti di Genova-Bolzaneto in occasione del G8 meritano ben più di qualche colonna su alcuni giornali, di una sia pur agghiacciante ricostruzione televisiva, di una corale, indignazione popolare e qualche sommesso balbettio politico, richiedono una dolorosa e profonda presa di coscienza collettiva ed una ferma volontà di cambiare radicalmente natura e “modus operandi” delle istituzioni statali.

All’estero si parla apertamente di rigurgito di fascismo, di complicità dei vertici, di inadeguatezza della giustizia, di atonia morale e di deresponsabilizzazione generalizzata. .Sono gentili all’estero, biasimano, ma non gridano allo scandalo, si mantengono entro i limiti della buona creanza e del buon vicinato, non scuotono il mantello, non puliscono i sandali sullo stoino del confine italiano. Dovrebbero farlo perché quanto è accaduto è indegno di una nazione civile, tanto più se membro della comunità europea. I fatti sono conosciuti in tutto il loro orrore, immortalati dalla cruda riproduzione fotografica e confermati sul piano probatorio in tribunale. Su dei giovani, magari malvestiti e forse scalmanati, si è scatenata la furia cieca e distruttiva di una banda di teppisti in divisa, preposti a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Con il loro inqualificabile comportamento sono stati inflitti, in forme e modi diversi tutti ispirati al male, dolore e sofferenze completamente gratuite.

Poichè lo Stato democratico e di diritto non può che tendere al bene dei suoi cittadini, la prima conseguenza logico-giuridico che deve trarsi dai fatti incriminati è che quegli uomini in divisa non erano espressione dello Stato, ma semplicemente traevano occasione dalla posizione che rivestivano abusandone. Era ed è fondamentale dovere dello Stato di diritto prendere le distanze da questi indegni servitori, estirpandoli dal suo tessuto vitale, sanzionandoli sia con le pene previste per i delitti commessi sia destituendoli dal loro impiego. Non ci risulta che il ministero dell’interno abbia compilato e divulgato una lista di proscrizione,avviando e concludendo uno specifico procedimento disciplinare. Non ci risulta che la parte sana della polizia di Stato, che pure esiste ed è attiva, abbia preso una drastica posizione contro gli autori dei misfatti, sottolineando l’enorme differenza che la separa da questi ultimi, ribadendo la sua vicinanza ai cittadini onesti e la loro umana attenzione contro chi viola le leggi e va punita. Come non richiamare l’attenzione alla preghiera della polizia, recitata nelle cerimonie ufficiali: «ispiraci, o madre di Dio, misericordia verso coloro che soffrono, in modo che siano in noi conciliati il sentimento fraterno e la necessità del dovere... ispiraci sentimenti di misericordia verso coloro che soffrono...». I reati sono stati commessi nel luglio del 2001, la procura di Genova si sarà certamente resa conto della gravità dei fatti e del loro enorme impatto con l’opinione pubblica, dagli occhi ancora feriti dalle immagini viste in televisione. Il processo era indubbiamente delicato e complesso, difficile da gestire per la povera ed a volte scorretta collaborazione della polizia,ostacolato dai mille intrugli processuali del nostro faraonico codice, ma poteva comunque svolgersi in tempi molto più contenuti. Dopo quasi sette anni si è ancora alla fase dibattimentale di primo grado, a cui dovranno aggiungersi i tempi storici per gli altri due gradi successivi di giudizio; la prescrizione arriverà molto prima e nessuno dei violenti aggressori sconterà un solo giorno di pena detentiva.

Questa della lentezza della nostra cosiddetta giustizia è un cancro in fase terminale ed il Csm ha sinora brillato per proteste verbali, raccomandazioni e qualche limitato ricorso contro i magistrati più neghittosi (è di questi giorni lo scandalo di una sentenza di condanna che ha dovuto attendere anni perché venisse depositata la relativa motivazione). Non è solo su questo punto che il Csm ha dimostrato di non sapersi muovere con la concretezza e la rapidità che la giustizia richiede (sull’attuale problema della magistratura onoraria basterebbe sentire le opinioni dei presidenti delle Corti di Appello). I pubblici ministeri che si sono ultimamente occupati dei fatti di Bolzaneto hanno compiuto un lavoro molto accurato, ma non hanno potuto fare altro che applicare le leggi vigenti. Con un ritardo in perfetta armonia con la sua malacoscienza, la classe politica, nonostante le pressioni della comunità europea, non ha ancora introdotto nel nostro codice il reato di tortura che all’art. 593 bis c.p. del disegno di legge fermo al Senato recita: «il pubblico ufficiale... che infligge ad una persona... dolore o sofferenza, fisiche o mentali... è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale, raddoppiata se ne deriva la morte». Difficile contestare che lo strappo di una mano, di un labbro, di manganellate, di minaccia di stupro alle ragazze non rientrassero a pieno titolo nelle fattispecie prevista dall’art.593 bis citato.

Non essendo, peraltro, ancora legge dello Stato, i magistrati inquirenti non hanno potuto che far ricorso alle ben più modeste figure di lesioni personali (poco più di una percossa), di abuso d’ufficio (hanno un pò ecceduto dal loro compito di individuazione dei fermati) e di altre intemperanze goliardiche. Non occorre essere degli esperti per comprendere che le gravissime violenze perpetrate dal nutrito manipolo di indegni agenti sono frutto non solo del loro istinto brutale, ma dall’implicita convinzione che in ogni caso sarebbero stati protetti dall’alto ed avrebbero ottenuto il silenzio per intimidazione dal basso. Per questo è l’intero sistema che deve essere rivisto a fondo, dal reclutamento, all’addestramento, ai controlli, alla trasparenza; il Paese ha un estremo bisogno di una polizia capace e vicina ai cittadini, democratica e fortemente motivata, istintivamente e culturalmente agli antipodi da quella ispirata al modello cileno. Il caso, comunque, non è chiuso: i giudici debbono ancora emanare la sentenza e, soprattutto, debbono motivarla con l’attenzione e l’intelligenza giuridica che il caso richiede, dedicando qualche parola alla situazione umana ed istituzionale ed alle cause che possono aver scatenato la violenza. Alle parti offese non resta che avanzare pesanti richieste risarcitorie certamente non limitate ai danni patrimoniali subiti, ma a quelli ancor più gravi di carattere morale, esistenziale e,se ne ricorrono i presupposti (riduzione della vita di relazione) biologici che lo Stato (salvo poi rivalersi nei confronti degli imputati) dovrà corrispondere (oltre all’indennizzo per ritardata conclusione del processo) Resta poi aperta la via della Corte europea, di fronte alla quale l’Italia andrà incontro alla solita pessima figura. Ci resta la speranza che di fronte ad una vergogna così grande la classe politica abbia un sussulto di dignità e riveda l’intera organizzazione e struttura della polizia, a tutela sia dei cittadini che del buon nome e reputazione di tutte le forze dell’ordine.


Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.53   
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 22, 2008, 08:07:50 am »

2008-03-21 11:34

G8, AMATO: SU DIAZ E BOLZANETO SI VA AL DI LA' DI OGNI COMPRENSIONE


ROMA - "Non possiamo giudicare quei comportamenti inumani e vessatori semplicemente come violenza privata e abuso d'ufficio. E' qualcosa di più. Deve esserci una severità maggiore quando si esercita violenza contro chi è assoggettato al tuo potere". Lo dice il ministro dell'interno Giuliano Amato, in un'intervista pubblicata questa mattina da 'la Repubblica', su quel che accadde a Bolzaneto dopo il G8.

"Per la Diaz e Bolzaneto si va al di là di ogni capacità di comprensione". E questo, secondo Amato, "é vero soprattutto per Bolzaneto dove più che la polizia, c'era soprattutto la polizia penitenziaria che non doveva fare i conti con la pressione della piazza e che, custodendo persone assoggettate, dovrebbe guardarsi dall'abuso di autorità, dovrebbe saper rispettare la dignità umana". Ma per il ministro dell'Interno quella di Bolzaneto "é stata una bruttissima storia", che ci ha riportato agli anni cinquanta/sessanta, in un'Italia prepasoliniana in cui vigeva "un'interpretazione riduttiva dei principi costituzionali","una cultura dello Stato non ancora consapevole di dover essere al servizio del cittadino".


SI VOLEVA DE GENNARO AL ROGO

"Io non credo che immolare il capo della polizia avrebbe risolto il problema". Dopo Genova "si voleva mettere al rogo De Gennaro per fare l'incendio più fiammeggiante". E' quanto sostiene il ministro dell'Interno Giuliano Amato in un'intervista a 'la Repubblica' sui fatti del G8 di Genova. "Il capo della polizia ha ritenuto di non dimettersi - prosegue Amato - Ha con fermezza detto di non essere il responsabile di quanto accaduto. Le violenze di Genova gli sono parse così lontane dalla sua cultura professionale, dalla sua storia di poliziotto che ha pensato di restare al suo posto, di difendere se stesso". Secondo Amato, dopo Genova si voleva la testa di De Gennaro "perché lui era quello più in vista" ma il ministro ritiene che "va sempre accertato chi ha fatto cosa"."Anche per questo - aggiunge - non vedo l'ora che i processi di Genova si concludano in modo che se ne possa riprendere il bandolo e riportarlo all'interno dell'amministrazione assumendo le decisioni opportune".

da ansa.it
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 22, 2008, 09:28:55 pm »

Quando dissi Garage Olimpo

Nando Dalla Chiesa


Garage Olimpo. Usai d’istinto quest’immagine un paio di giorni dopo la «macelleria messicana» della Diaz. Su queste pagine, ancora sconvolto dalla visita alla scuola che era stata usata come dormitorio da un centinaio di giovani no-global; mentre nella colonna a fianco Giuliano Pisapia raccontava gli orrori di Bolzaneto. Venni autorevolmente rimproverato per quella metafora. Ma come? Accostare i comportamenti della nostra polizia repubblicana e democratica a quelli degli agenti di una dittatura militare? Qui si è perso il senso della misura, venne detto e scritto, anche su fogli progressisti.

Ora quell’immagine è diventata senso comune. Ed è un successo della Storia, la quale alla fine pesa sempre più delle frenesie polemiche e delle omertà politiche del momento. Perché l’atto di accusa della Procura di Genova non fa che trasferire sul piano giudiziario i racconti e le testimonianze che iniziarono a giungere all’opinione pubblica internazionale già la notte di quel sabato di terrore e di follia. I giovani e i meno giovani che subirono di tutto, letteralmente di tutto, alla Diaz come a Bolzaneto, non mentivano. E, contrariamente a quel che si insinuò allora, non avevano alcun interesse a mentire. Non erano terroristi e in grandissima parte non avevano neanche partecipato agli scontri ingaggiati da non più di diecimila manifestanti su trecentomila contro le forze dell’ordine nei due giorni prima.

Forse, anzi senz’altro è giusto elencare quali convenzioni e quali trattati internazionali siano stati violati nell’occasione. Ma io continuo a pensare che Diaz e Bolzaneto siano semplicemente il capitolo più nero, il più indecente scempio del diritto consumatosi nella storia della Repubblica. E continuo a pensare che tutti coloro che se ne resero responsabili debbano vedere consegnato il loro nome alla storia più che ai tribunali. Mai ho visto le tracce di violenze tanto gratuite e convinte della propria futura impunità. Mai, dai luoghi di una democrazia, ho ascoltato racconti così drammatici, così capaci di rimescolare indignazione e commozione in tutta Europa. Certo, abbiamo saputo di terroristi tedeschi uccisi in carcere. Abbiamo visto squadre di poliziotti americani pestare a morte un nero. Abbiamo saputo di pestaggi a morte anche in Italia, magari scatenati da futili motivi. Singoli, intollerabili episodi. Mai però pestaggi o torture, fisiche o psichiche, di massa. Senza preoccupazione alcuna per le reazioni delle famiglie, delle ambasciate, del parlamento, dei mezzi d’informazione.

Che cosa fuoriuscì d’improvviso dai sotterranei delle nostre culture e prassi istituzionali? Che impazzimento di logiche, di comportamenti, prese il sopravvento anche su storie fin lì onorevoli di funzionari di polizia di tutta Italia? Dunque a nulla era valsa la sindacalizzazione delle forze dell’ordine per ancorarle a un’idea democratica della loro funzione? E il legame, il profondo legame, stretto con il popolo e con gli studenti negli anni duri ed eroici della lotta al terrorismo e alla mafia, quel legame anche morale, perfino affettivo, dov’era finito? D’altronde, che quanto successe nella notte tra sabato e domenica alla Diaz e a Bolzaneto non facesse, in quei giorni, "storia a sé", è testimoniato da una sequenza incancellabile in ogni coscienza civile: i fotogrammi del vicequestore in borghese che prende la rincorsa e sferra un calcio sulla testa di un quindicenne inerme a terra (altro che il risarcimento civile, in questi casi ci sta solo la radiazione...). Reazioni inconsulte e poco professionali davanti allo stress di un evento carico di tensioni e paure o anche davanti alle aggressioni delle tute bianche? No. Queste reazioni inconsulte, sempre possibili, durano sulla piazza un’ora o due; poi vengono ricomposte, riportate sotto il controllo delle autorità più alte in grado. E si cerca di farle dimenticare, specie se nel frattempo c’è stato l’omicidio (per paura, per perdita di autocontrollo o altro ancora) di Carlo Giuliani; non le si rilancia a freddo quando arriva la notte scegliendo di infierire in massa su persone che dormono o addirittura scatenandosi su persone che sono già state private della libertà personale.

E dunque? Che venne fuori in quelle ore? Io non credo affatto che nel loro insieme le forze dell’ordine italiane considerino carta straccia i princìpi di una Costituzione democratica alla quale giurano fedeltà. Sono anzi convinto che le nostre forze dell’ordine, al di là delle idee che possono coltivare, abbiano ben presente la qualità della loro funzione di garanzia istituzionale. A volte più dello stesso potere politico. Se così non fosse, non si capirebbe neanche il largo tributo di sangue che esse offrono ogni anno alla nostra convivenza civile. A Genova dunque non venne fuori la loro "vera" natura. A Genova esplose una vena di pazzia, come può accadere alla persona più normale. Ma le ragioni di quell’esplosione devono essere ricostruite. E forse la commissione d’inchiesta parlamentare più volte invocata avrebbe aiutato a farlo. Che messaggi vennero dati, che clima venne montato intorno all’evento, che rappresentazione venne data del "nemico", che direttive vennero impartite, al di là dell’autentico disastro logistico-organizzativo che si consumò nella gestione dell’ordine pubblico per le strade della città?

Ed ecco che si arriva dunque diritti alla presunzione di impunità. Che forse ebbe un suo appiglio nella gestione degli scontri di Napoli della primavera precedente. Ma che certo si espresse esponenzialmente in luglio; nel fuoco della prima grande prova affrontata davanti al mondo dal nuovo governo Berlusconi sul terreno dell’ordine pubblico. Perché solo la certezza dell’impunità può portare a violare sistematicamente le principali garanzie di decine e decine di arrestati. Solo quella certezza può indurre a commettere violenze fisiche e psichiche diffuse sapendo che ci sono i ministri in città. E solo una campagna ideologica forsennata può portare a vedere nelle persone costrette in carcere dei nemici privi di dignità umana. Solo una campagna ideologica forsennata può portare a compiere verso semplici manifestanti comportamenti di cui le nostre forze dell’ordine, sottoposte a ben altre tensioni, non si erano macchiate -si badi- neanche ai tempi dell’Autonomia armata e del terrorismo.

Bolzaneto, la Diaz, quella settimana, ci dicono che molto c’è ancora da fare nella formazione dei quadri delle forze dell’ordine, per renderli assolutamente neutrali -come debbono essere- alle suggestioni ideologiche di qualunque tipo e colore. Ci dicono che i fantasmi di una vecchia cultura repressiva (che mai giunse a tanto, comunque) sono purtroppo sempre in agguato. Ci dicono che quando questi fatti accadono bisogna saperli vedere e giudicare subito, anche se si debbano contemporaneamente deprecare, come è giusto, le violenze di una minoranza facinorosa di manifestanti. Il fatto è che per troppo tempo si è lasciata sola Genova a chiedere giustizia per le offese inflitte alla sua cultura civile. E per troppo tempo una società e un parlamento ipergarantisti hanno taciuto o balbettato di fronte alla più grave violazione delle garanzie e dei diritti umani vissuta dalla nostra Repubblica.

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Pubblicato il: 22.03.08
Modificato il: 22.03.08 alle ore 14.52   
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