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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 150730 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Agosto 18, 2008, 11:21:00 pm »

Se tace la politica

Luigi Bonanate


Quale sia oggi il problema che attanaglia il mondo è presto detto: sta ritornando l'era delle guerre, che credevamo superata e al massimo avvicendata da estemporanee operazioni anti-terroristiche. Improvvisamente il fuoco si è riacceso: nel clima olimpico che doveva celebrare il trionfale ingresso della Cina nel club delle grandi potenze, abbiamo scoperto che «il re è nudo», cioè di grandi potenze non ce n'è più, e quelle che cercano di diventarlo si ingeriscono in questioni da cui non possono trarre alcun vantaggio.

Ma la politica internazionale ha ancora bisogno di grandi potenze? Se guardiamo ai fatti di Georgia in questa vecchia e tradizionale logica non capiremo perché la Russia possa invischiarsi in una banale vertenza di irredentismo che non appare all’altezza di un grande disegno politico. A loro volta, gli Stati Uniti si ritrovano nuovamente a difendere — tra le due parti in conflitto — quella più indifendibile, una Repubblica senza storia, senza identità (nel che non c’è nulla di male, se solo tutti lo accettassero), che rincorre gli aiuti (anche militari) occidentali con un mero spirito di rivincita post-comunista. Tanto Putin quanto Bush si sono scordati, intanto, della Cecenia, che un’identità storica pur l’aveva.
Ma perché la Georgia e perché ora? Il primo e più significativo elemento è che il cuore delle tensioni internazionali si va a collocare definitivamente nella cerniera caucasica che separa Est e Ovest e collega Nord e Sud (lungo l’asse del 40° meridiano), partendo dalla Turchia e incontrando, accanto alla Georgia appunto, altre Repubbliche ex-sovietiche come il Turkmenistan e l’Uzbekistan; ma anche Iran e Iraq, Afghanistan e Pakistan: un pugno di paesi, la cui corona si chiama Libano, Israele, Ukraina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, per non dire Cina. L’Asia centrale, che dopo la fine del bipolarismo doveva inquadrarsi nella politica internazionale, è diventata il luogo sia fisico sia simbolico nel quale sta iniziando la nuova grande partita della politica internazionale.

Tutt’altro che stranamente, i tavoli sui quali il gioco si sta svolgendo si occupano di petrolio (ma sarebbe meglio dire: fonti energetiche, o come si diceva una volta: materie prime — e ci capiremmo anche meglio) e nazionalismi, cioé di confini, separazioni, indipendenze. Verrebbe da dire che di fronte a immensi problemi come questi, tutt’altro che nuovi (si potrebbe dire che il primo causò la prima guerra mondiale, e il secondo la seconda), i grandi stati dovrebbero saggiamente e fin d’ora disegnare una politica fondata su un progetto di ordine internazionale, se non consensuale almeno solido e rigoroso. E invece, l’Occidente commisera grettamente il suo declino, il de-industrialismo, quando potrebbe impegnarsi nello sviluppo dei paesi più arretrati, nell’aiuto ai poveri, nella loro democratizzazione, e invece li usa come basi militari e punti di osservazione.

L’unilateralismo statunitense (con un Presidente scadente e in scadenza) e l’attivismo russo (con un Presidente che diventa Primo ministro in attesa di rifare il Presidente) appaiono oggi l’espressione di una totale incapacità di progettazione politica. Se i fondamenti della politica estera americana erano il contenimento dell’islamismo, il controllo del petrolio, e l’avanzamento dello scudo spaziale, ebbene il bilancio si rivela del tutto fallimentare: l’Islam non è arretrato, anzi avanza non per quella via militare e violenta che Bush immaginava ma sull’onda del messaggio revanscistico che galvanizza popoli secolarmente oppressi dall’Occidente. Il petrolio sembra evaporare di minuto in minuto ma per intanto consente enormi profitti alle grandi centrali petrolifere, le cui riserve si rivalutano minuto per minuto (posizionate, guarda caso, negli Stati Uniti). La politica strategica infine, una volta esauritasi la spinta provocatoria delle guerre stellari di Reagan — il gradino finale su cui Gorbaciov inciampò e cadde — è diventata monopolio di un militarismo antiquato che trascura gli alleati di sempre, gli europei dell’UE, e sogna di accerchiare il nemico.

Già, ma quale nemico? Ci avevano detto trattarsi dell’Iran. Ma poiché il terrorismo nucleare non si ferma con lo scudo spaziale (ovviamente), non rimane che un’ipotesi, quella di una Russia rampante e aggressiva che, una volta liquidate le macerie del comunismo, risorge e si rilancia nel sogno zarista della Grande Russia. Ma se il progetto americano non brilla, quello russo appare ridicolmente velleitario. Salvo a chi piace un regime come quello russo, corrotto, inefficiente, arrogante come il suo Primo ministro, che s’aggrappa alla Georgia (che poi è vicina alla Cecenia) perché gli offrirebbe il controllo dello snodo caucasico (anche di lì dovrebbero passare gli oleodotti), l’attuale politica russa appare così ingiustificata da lasciar di stucco. Basta pensare che se l’Occidente avesse già accolto la richiesta georgiana di entrare nella NATO, oggi saremmo in guerra con la Russia, sulla base della famosa clausola dell’art. 5...

Siamo sull’orlo del paradosso: gli Usa spostano l’obiettivo collocando in Polonia missili che guardano strabicamente la Russia, mentre dovrebbero guardare verso l’Iran; Putin se la prende con la Polonia e il Presidente polacco Kaczynski non si fa attendere per evocare i fantasmi di un lugubre passato. Potremmo ridimensionare il problema pensando sia comprensibile che la Russia umiliata voglia ritornare all’onor del mondo riprendendosi almeno i confini di un tempo: ma qui scoppia quell’altra bolla, l’autodeterminazione dei popoli, che l’Occidente ha sempre accarezzato e raramente praticato. E del resto: quanto ci tengono a loro volta i kazakhi, che poggiano i piedi su uno dei più ricchi territori della terra, e non hanno mai combattuto per la loro indipendenza nazionale?
Quando la situazione internazionale ci sfugge di mano non è per cause naturali, ma politiche. Se non si fa politica, ma si rimane invischiati in una logica di potenza sperando soltanto di arraffare qualche cosa qui e qualche cos’altro là, le prospettive non possono essere rosee. Non sarebbe il momento di dare spazio alla politica, facendosi aiutare da quella dimensione che vive nel rifiuto della violenza, e si chiama democrazia?



Pubblicato il: 18.08.08
Modificato il: 18.08.08 alle ore 9.39   
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« Risposta #151 inserito:: Agosto 21, 2008, 10:54:58 am »

Il Regime delle idee

Nicola Tranfaglia


Chi ha passato una parte non piccola della propria vita a studiare i fascismi sa che il modello primogenito, quello di Mussolini, è morto ma ha lasciato in Italia una pesante eredità e che la frase di Marx, citata da Umberto Eco, sul passaggio nella storia dalla tragedia alla farsa, quando un fenomeno si riproduce, ha una sua, innegabile validità.

Ma quali sono le caratteristiche di quel fenomeno che emergono dalla terza ascesa di Berlusconi e dei suoi alleati al governo nazionale?

Prima di tutto la salda fede anti-democratica che li contraddistingue e li spinge a pattugliare le città con l´esercito, a prendere le impronte ai bambini dei Rom con la scusa del censimento, a trattare le prostitute con le botte e la pubblica esposizione, ad esibire una versione della società italiana, gravemente mistificata dei rapporti tra uomini e donne, tra italiani ed immigrati.

Si potrebbe continuare ancora con molti esempi che stanno vivendo in questi ultimi mesi gli italiani in tutta la penisola.

Ma quel che conta di più e di cui si parla troppo poco è l´egemonia culturale (e qui interviene Gramsci, un autore poco letto dai nostri connazionali) di cui non si parla mai.

I seguaci di Berlusconi al governo, in parlamento, nelle città (e sono tanti) dispongono di quasi tutti i mezzi di comunicazione in questo paese: sei reti televisive su sette, tutti i grandi quotidiani se si esclude la Repubblica e migliaia di settimanali e periodici di ogni genere. Giornali e televisioni sono oggi più efficaci e penetranti delle squadre di ribaldi che usò il fascismo per conquistare le campagne e poi le città.

E il centro- sinistra, dobbiamo dirlo per la verità dei fatti, non si oppone, almeno fino ad oggi, con forza sufficiente a quella egemonia che sta distruggendo un´opinione pubblica contraria ai dogmi berlusconiani.

Nando Dalla Chiesa ha scritto su questo giornale che ci sono episodi e fenomeni (come quello dell´attività di molti siti Internet) che gli fanno sperare che qualcosa cambi in Italia.

Mi auguro sinceramente che abbia ragione ma sono un po´ meno ottimista.

Vedo, ad esempio, gli episodi costanti di disinformazione e di mistificazione che rimbalzano dai media sugli italiani.

L´altra sera parlavo qui in Calabria con un giovane avvocato non berlusconiano che trovava buono il lodo Alfano, già diventato legge dello Stato, perché - diceva - è quello che si è fatto in tutti i paesi europei e occidentali.

In quei paesi - sosteneva l´avvocato - tutte le cariche dello Stato hanno una immunità giudiziaria per la durata del mandato.

Gli ho fatto osservare che questo vale per il Capo dello Stato ma non è previsto, nella maggior parte dei paesi, per il capo del potere esecutivo, come invece si è fatto in Italia.

Era stupito di quello che gli dicevo ma potevo pretendere che quel giovane avvocato consultasse da solo tutta la legislazione costituzionale, tra luglio ed agosto, per arrivare alla chiara conclusione cui sono arrivato io?

Direi di no. Spettava ai mezzi di comunicazione televisivi e giornalistici fargli arrivare il messaggio e questo (tranne l´eccezione costituita dall´Unità) non è stato, come tutti possono verificare.

In questo senso l´opinione pubblica in Italia latita o fatica ad esistere. E se un simile costume e modo di funzionare dei mezzi di comunicazione proseguono c´è da preoccuparsi della tenuta democratica dell´Italia repubblicana.

Anche perché molte leggi che un parlamento, con larga maggioranza filoberlusconiana, sta approvando a rotta di collo non pongono con altrettanta chiarezza la scelta tra soluzioni democratiche e soluzioni antidemocratiche.

E non fanno capire dunque ai cittadini comuni il nuovo edificio autoritario che si vuol costruire, uno stato di polizia nel quale il Moloch dello Stato centrale si impone per un´idea astratta di ordine e sicurezza non meglio determinata.

Il problema italiano è sempre quello di classi dirigenti e politiche che son le prime a non osservare le leggi ma che impongono ai cittadini regole ferree destinate a produrre un ordine più o meno perfetto ma questo rimane il paese in cui le associazioni mafiose dominano intere regioni ed hanno legami oscuri con le centrali del potere, in cui la circolazione stradale provoca più vittime che in ogni altro paese europeo, in cui i diritti individuali vigono se si dispone di amici potenti e si indeboliscono se si è diversi o deboli rispetto al resto della popolazione, in cui la giustizia favorisce i potenti e opprime chi non lo è. E si potrebbe continuare.

Ma come si fa a capire se l´informazione resta lacunosa e indirizzata in maniera prevalente a tranquillizzare le masse popolari e a non mettere in luce le deficienze delle classi dirigenti e le loro responsabilità nell´assetto politico e sociale, oltre che economico, del paese?

È a questi interrogativi che le opposizioni parlamentari, e quelle assenti dal parlamento, dovrebbero porre al governo più di frequente, che si dovrebbe rispondere.

Ma questo, dalle ultime elezioni politiche, avviene assai di rado. Ed aumenta negli italiani la sfiducia, se non la rassegnazione, che qualcosa possa cambiare in maniera positiva e l´Italia possa uscire da uno stallo che rischia di riportarla indietro rispetto all´Europa e all´Occidente.

Pubblicato il: 20.08.08
Modificato il: 20.08.08 alle ore 11.15   
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« Risposta #152 inserito:: Agosto 21, 2008, 11:03:19 am »

21/8/2008
 
L'opinione pubblica, signora mia
 

 
 
ANDREA ROMANO

 
Signora mia, non c’è più l’opinione pubblica di una volta». Viene spontaneo rifarsi ad Alberto Arbasino leggendo i molti necrologi che in questi giorni ci hanno raccontato di un’Italia ormai docile e incapace di dissenso. Ha iniziato un Nanni Moretti più prevedibile del solito, lamentando una realtà italiana grossolana e un’opinione pubblica ridotta all’impotenza. Ha proseguito Walter Veltroni, con molte citazioni colte e un unico messaggio politico: il Paese è ridotto ad «un’informe massa nera», l’Italia è vittima di uno «sfarinamento morale e sociale» e tutti stiamo ormai precipitando in un «vuoto di senso e di memoria».

Ohibò, è in corso una catastrofe e non ce ne siamo neanche accorti! Non sarà invece che le lenti degli apocalittici sono appannate dalla mancanza di risposte, dall’incapacità di comprendere il Paese o anche solo dall’assenza di quell’umiltà necessaria a mettersi in discussione? In realtà proprio Moretti, quando torna a parlare da regista, si mostra assai più capace di cogliere i segni di novità che si muovono intorno a sé.

Ericonosce giustamente nel cinema di Sorrentino, Garrone, Munzi e altri i tratti di «una nuova generazione di autori, produttori e sceneggiatori», che hanno saputo restituire vitalità ad un cinema italiano che fino a pochi anni fa era snobbato innanzitutto dal pubblico.

La stessa lucidità con cui Moretti guarda al suo mestiere potrebbe essere utilmente applicata alla sua visione di un Paese che qualche mese fa ha eletto in Parlamento una maggioranza di centrodestra e punito un Partito democratico incapace di innovare e convincere. Perché di questo si è trattato e non di una catastrofe di civiltà da cui la società italiana non si riprenderà più.

Chi come Veltroni si occupa di politica e non di cinema potrebbe smettere i panni lamentosi del Savonarola e dedicarsi con maggiore impegno a comprendere come e perché la sua offerta sia risultata tanto impopolare. In questo senso prendersela con il Paese invece che con sé stessi risulta una scorciatoia priva sia di fascino che di verità. Perché l’opinione pubblica italiana è viva e vegeta, carica di dissenso e fermenti critici che attendono di essere intercettati e tradotti in politica da una proposta che sia finalmente all’altezza di tempi nuovi e non ancora del tutto compresi.

Un esempio tra tutti: negli stessi giorni in cui si celebrava il funerale della società civile un sondaggio Gallup, citato ieri dal Corriere della Sera, descriveva i giovani italiani come i più pessimisti d’Europa. Cos’è questo se non il sintomo di una società tutt’altro che quieta e addomesticata, che reclama di essere sedotta da una politica finalmente capace di offrire fiducia e innovazione? A quei sintomi Veltroni, Moretti e gli altri apocalittici rispondono con un’alzata di spalle insieme altezzosa e moralistica, scambiando per assenza di vitalità civile quello che è invece l’inaridirsi di strategie e risposte politiche che hanno cessato da tempo di essere leggibili, ma che non di meno continuano ad essere replicate come se niente fosse.

È in quelle risposte il nodo del problema e non certo nel vigore di un’opinione pubblica tutt’altro che rassegnata. Così come è facile immaginare che un Paese costretto ancora una volta a scegliere tra berlusconismo di ritorno (eventualmente trasformato in tremontismo) e veltronismo terminale possa guardare con interesse ad una proposta che esca da questo arcinoto seminato, che sappia innovare uomini e prospettive, che riesca a fare quanto avviene in qualunque Paese normale: archiviare finalmente ciò che non funziona e scommettere su ciò che risponde meglio al proprio dinamismo.

 
da lastampa.it
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« Risposta #153 inserito:: Agosto 26, 2008, 10:50:56 am »

Sosta nella Bielorussia svuotata da un secolo di pogrom

Qui manca la generazione degli anziani; sono spariti gli ebrei

Questo non è un paese per vecchi

di PAOLO RUMIZ

 

La corrente verdescura del Niemen cerca la sua strada in un cielo arancione. La guardo, imbambolato dalla quiete immensa che emana, tra le scarpate boscose di Grodno, antica città di chiese e sinagoghe nel Nordovest della Bielorussia, al confine con la Polonia. Niemen, un nome come una ninna nanna. Il portale di un labirinto di acque che conduce ad altri fiumi leggendari dell'Europa di mezzo, Bug, Dniestr, Berezina. È impressionante la regolarità di queste correnti che non nascono da nessuna montagna, ghiacciano d'inverno, divagano con favolosi meandri in un finimondo di basse colline e scelgono se andare nel Baltico o nel Mar Nero solo per una questione di centimetri.

Non riesco a capire dove sono finito, che cosa sia questo pezzo di frontiera che percorro, forse il più arcano, il meno leggibile di tutti. Il primo impatto con l'ultimo Paese comunista d'Europa è persino rasserenante: un verde assoluto che domina ogni cosa, un paesaggio agricolo disseminato di case di legno in ottimo stato di conservazione, oche in libertà attorno ai villaggi. Niente dice che Chernobyl è a due passi. E poi questa Grodno, polacca fino al 1939, città-vetrina dal lindore austriaco, in piena attività di restauro, barocca come Vilna e la vecchia Bialystok, piena di giovani, donne bellissime e rondini in picchiata.

Ma presto i conti non tornano. L'albergone grigio dove trovo da dormire è un monumento al grigiore dell'era Kruscev, ma le stanze sono piene di cingalesi in fregola, che tutta notte trafficheranno nei corridoi per contendersi le ragazze in affitto. Un medico d'ospedale guadagna centocinquanta dollari al mese, ma i prezzi dei vestiti nei negozi e quelli dei menu nei ristoranti sono più alti di quelli polacchi. In stazione per cento euro mi hanno messo in mano un "panino" di banconote grosso così: e un tassista, di fronte al mio stupore, mi ha detto "benvenuto nel Paese dei milionari". Era dal tempo della guerra jugoslava che non vedevo cartamoneta con tanti zeri.

Venendo in treno dalla Polonia ho letto che il Paese è in bolletta e il prossimo inverno non potrà pagarsi il gas di Putin. Ma allora da dove saltano fuori i soldi per tutti questi restauri? Chi ha potuto finanziare questa gigantesca operazione immobiliare? "Il Gospodarsvo", ti dice la gente, lo Stato. E se chiedo come li hanno trovati tutti quei soldi, la risposta è: "Semplice, non pagano chi lavora. Mentre chi non lavora se la spassa". In stazione Aleksej, un ex ufficiale dell'Armata in pensione, mi ha detto, papale: "Rubano. Uno schifo. E un giorno si troveranno la stella rossa nel c...". Insomma, tutto il mondo è paese.

Ma la cosa più straordinaria è che alle sette della sera la popolazione adulta scompare. Per strada, sulle panchine, nelle piazze o lungo la passeggiata sul Niemen, solo giovani con patatine e lattine di birra in mano. Non so con chi parlare, non c'è nessuno che mi dia l'impressione di poter discorrere sulla storia del luogo. Alla fine trovo un gruppo di bei ragazzi che si passano un narghilè, seduti sull'erba nel tramonto. Mi dicono che "Grodno non è Minsk, è una città vera, antica, con una storia", e loro la amano per questo. Mi indicano la sinagoga illuminata dall'ultimo sole e, dall'altra parte del fiume, la chiesa di Boris Glebskij, vecchia di quasi un millennio.

In un'ora di esplorazione nel centro constato di essere l'essere umano più vecchio in circolazione e, in modo autoironico, immagino che a Grodno e forse nell'intera Bielorussia sia in corso un misterioso "sterminio dei sessantenni", come se la febbre gialla o la spagnola stessero davvero falcidiando la popolazione anziana. Non basta l'alcolismo, micidiale da queste parti, a spiegare il terremoto anagrafico di un intero Paese. Sento oscuramente di essere in un Paese in bilico, vulnerabile, diviso tra vetero-comunismo, capitalismo nudo e una civiltà agricola millenaria ancora ingenua, a rischio di estinzione.

La mattina dopo, in sinagoga per la funzione del sabato assieme a dieci superstiti di una comunità un tempo fortissima, mi rendo conto del vuoto che si è aperto, un vuoto del quale gli ebrei sono solo l'espressione più clamorosa. Sono spariti anche i polacchi, i lituani, i tedeschi, gli ucraini, gli armeni: un secolo di pogrom, deportazioni e sterminii ha semplificato etnicamente il Centro Europa e tolto ai suoi popoli il loro collante transnazionale.

"Adonai", "Elohim" ripetono i vecchi nella sinagoga corale ormai vuota, e tutto sembra appeso al filo di queste antiche parole che garantiscono la continuità del mondo. Ma è proprio questo che spaventa: quando esse non saranno più ascoltate da nessuno, allora sarà l'Europa a perdere definitivamente se stessa. E già te ne accorgi quando nello spazio corale torna il silenzio, carico di nostalgia del canto che non c'è più. C'erano diciassette sinagoghe a Grodno, ora ce n'è una sola.

Marija, la vecchia custode, è un'ortodossa convertitasi all'ebraismo e la sua fede è un ibrido perfetto tra le due religioni. Dice, con gli occhi febbrili: "Tutti aspettano l'arrivo del Messia. Arriverà quando tutti si armeranno contro Israele: allora il cielo si aprirà e lui andrà in suo soccorso. Sarà il secondo arrivo di Cristo. Il momento arriverà presto, così è scritto nella Torah. Allora gli ebrei crederanno, Gesù li benedirà, e Israele sarà il primo di tutti i popoli".

Sull'altra riva del fiume c'è un vecchio cimitero ebraico. Immenso, coperto di sterpaglia, devastato dalle radici delle betulle. Per entrare scavalchiamo un muro sbrecciato coperto di ortica. Poljakov Abram Lazarevic. Rosenzweig David Bulfovic. Le tombe con la stella di Davide emergono dalla vegetazione come menhir, coperte di licheni grigi e giallo-senape. Qualcuna ha la stella rossa. Su tutto, la luce incendiaria della sera. Migliaia di morti, e sono la minoranza. Gli altri sono passati per il camino.

Nella boscaglia, una donna in vestito rosso-papavero spazza una tomba. Sembra una visione, una Morgana. Con lei un bambino che l'aiuta. Poco lontano, un uomo che falcia la sterpaglia. La donna in rosso chiama Lilia e racconta una storia straordinaria. "Io e mio marito siamo ortodossi, ma abbiamo adottato questo luogo.

Da quando siamo in pensione, ogni giorno puliamo una tomba. Abito in quella casa lì in fondo, accanto al muro di cinta e da anni lotto perché questo spazio non decada. Conosco tanti di quelli che abitano qui". Dice "abitano", perché ne parla come se fossero ancora vivi.
Il piccolo Igor dice a Monika: "Vieni, ti porto a vedere la tomba di un santo", e si arrampica su un pilastro coperto di caratteri ebraici. "Era un rabbino, vengono in tanti a salutarlo. Gli chiedono sempre qualcosa".
Abbaiano due cani lupo. Sono i guardiani della casa di Lilia. Hanno fiutato estranei oltre la cancellata. Lilia vede ragazzi che cercano di entrare; urla, li minaccia, li fa scappare.

"Vandali! Hanno rotto le tombe anche nel cimitero ortodosso. Vengono qui a ubriacarsi; fumano, sporcano, scopano. Spesso di notte arrivano malintenzionati e noi abbiamo paura. Per questo abbiamo i cani. Possibile che con tutti gli sfaccendati ubriaconi che ci sono in giro, il Comune non trovi un custode da mandare qui a rimettere le cose in ordine?".
"Amo gli ebrei. Gente straordinaria. Tanti sono morti e tanti se ne sono andati. Negli anni Novanta c'è stato il grande esodo e ora ci sentiamo più soli". "Sai, io non vivo con i morti. Io vivo con i vivi e per i vivi. Per quelli che ritornano, e sono tanti. E poi questo passatempo mi dà senso alla vita. E mio marito si tiene in esercizio".

Torniamo in città, sul Niemen è sorta la Luna. Davanti alla chiesa della Madre di Dio, a fine funzione, donne col fazzoletto annodato escono tumultuosamente assieme tra i ceri accesi, velocissime, come per meglio prendere la rincorsa della giravolta finale verso la chiesa, quella da cui nasce l'inchino e poi, come per rimbalzo, l'elevazione della mano destra verso la lunga parabola celeste del segno della croce ortodosso.

(20-continua)


(26 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #154 inserito:: Agosto 28, 2008, 09:04:49 pm »

Alitalia, terreni, immobili, servizi: il grande affare è a terra

Roberto Rossi


Ci sono i terreni di Pianabella a Fiumicino, una porzione di immobili a Sesto San Giovanni, tutti da vendere. Ci sono i terreni dell’Expo di Milano da sfruttare. C’è tanta terra al sole nei pressi di Linate da riconvertire. Ci sono gli investimenti negli aeroporti italiani, corposi, pesanti, da tutelare. Ci sono le società di handling da sviluppare. Chi crede che la partita Alitalia si giochi solo negli uffici di Air France o Lufthansa corre il rischio di guardare il dito e non la luna. Il grande affare sta altrove. E si chiama speculazione, riconversione, sfruttamento. Soldi, tanti, difficilmente quantificabili se non parzialmente. D’altronde non è un caso se tra i sedici capitani coraggiosi pronti a sacrificare l’oro alla patria e salvare Alitalia dallo straniero sei sono immobiliaristi o costruttori: Salvatore Ligresti, Francesco Caltagirone Bellavista, la famiglia Benetton, Marco Tronchetti Provera, il gruppo Gavio, il gruppo Fratini. Tutti pronti ad assecondare i desiderata di Berlusconi a condizione che il loro sforzo renda, e non solo con la vendita della propria quota nella nuova Alitalia, fra qualche tempo.

Si prenda il caso Benetton. La famiglia di Ponzano Veneto entrerà in Alitalia con un investimento tra i 100 e i 150 milioni di euro. Lo farà attraverso la controllata Atlantia, società che controlla le autostrade, già beneficiata da una revisione delle tariffe. Ma i Benetton gestiscono anche Adr Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino), che controllano attraverso Gemina (di cui fa parte anche Ligresti e il fondo Clessidra, altro azionista Alitalia). Adr, da tempo, è in trattativa proprio con Alitalia per la cessione di circa 50 ettari di terreno in località Pianabella attorno all’aeroporto di Fiumicino. Lo scorso marzo Adr aveva valutato quei terreni 120 milioni di euro. Che fine faranno ora? A quanto venderà quei terreni Benetton azionista forte di Alitalia a Benetton azionista forte di Adr? C’è da scommettere che in Alitalia i soci non faranno troppe resistenze. Quei terreni, non edificabili, serviranno poi allo sviluppo dell’aereoporto romano. Sul quale Adr ha fatto una scommessa di lungo periodo. Nel piano industriale 2007-2016 la società ha preventivato uno sviluppo del traffico che in un decennio dovrebbe raggiungere i 50 milioni di passeggeri (oggi fermi a 33 milioni). Per farlo ha messo in piedi un programma di investimenti decennali per due miliardi. Tanti soldi che, come si legge anche nella semestrale, corrono il rischio di non avere il ritorno sperato se Alitalia dovesse fallire.

La tutela dell’investimento preme anche agli altri azionisti di Gemina e quindi di Adr, come Ligresti per esempio. Che, per la verità, ha anche altre aspettative. Lui, attraverso la controllata Fonsai (assicurazioni), impegnerà non più di 30-50 milioni. Briciole per il costruttore amico di Berlusconi. Che, però, gli consentiranno di avere un posto in prima fila nel grande affare Expo Milano 2015. Sarà quella la grande scommessa per immobiliaristi e costruttori. La torta è enorme: 3,2 miliardi, infatti, saranno destinati per le infrastrutture altri 892 milioni saranno il budget dell’evento.

A tavola c’è posto per tutti, come per Marco Tronchetti Provera e la sua Pirelli Real Estate o Francesco Caltagirone Bellavista con la società Acqua Pia Antica Marcia. I due in Alitalia metteranno non più di 50 milioni a testa. E aspetteranno. E anche se non dovessero avere troppe soddisfazioni dall’Expo, c’è l’immobile Alitalia di Sesto San Giovanni da alienare (2mila metri quadri per una decina di milioni di euro), ma soprattutto c’è la partita Linate da giocare. Comunque andrà l’aeroporto milanese sarà ridimensionato e molti terreni saranno liberati. Si prospetta la possibilità di una grande speculazione. Quantificarla è ora impossibile, ma negli affari, alle volte, si va a fiuto.

Lo stesso che ha portato ancora Benetton e Caltagirone Bellavista a fare il loro ingresso nell’aeroporto di Bologna. Piccola quota azionaria, in vista della privatizzazione, e gestione della società di handling. E se va in porto l’idea del multihub, che prevede la presenza di Alitalia in diversi aeroporti oltre Roma e Milano, si brinda. Una volta di più.

Pubblicato il: 28.08.08
Modificato il: 28.08.08 alle ore 15.28   
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« Risposta #155 inserito:: Agosto 29, 2008, 05:50:23 pm »

Vi racconto Pio La Torre

Vincenzo Consolo


Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso, all’aeroporto, dove il Governo di Spadolini aveva deciso di far installare i missili Cruise. Ero là in uno dei giorni in cui facevano il blocco davanti al cancello centrale dell’aeroporto i pacifisti giunti d’ogni dove. Erano ragazzi accovacciati a semicerchio per terra. Volevano così impedire ai camion, alle impastatrici, agli operai di entrare nel campo. Tutti avevano maglie, giacconi variopinti sopra le teste di capelli ricciuti.

Alcuni avevano tute e casacche bianche, e sul petto e le spalle dipinte grandi croci scarlatte. Le ragazze portavano giacchette indiane con ricami e specchietti o la kufia palestinese sopra le spalle. Sul muro di mattoni sovrastato dal filo spinato e da un filare di eucalipti erano scritte di calce e appesi striscioni di tela. Dicevano «Pace», «Amsterdam contra militarisme», «Testate nucleari - Carcero speciali - È questa la guerra contro i proletari», «Vogliamo vivere, Vogliamo amare - Diciamo no alla guerra nucleare». Erano ancora tutti assonnati e di più assonnati i poliziotti e i carabinieri che chissà in quali ore notturne erano stati fatti partire dalle caserme di Ragusa o Catania. Erano giovane anch’essi e schierati davanti al cancello, a fronteggiare quegli altri accovacciati per terra. M’aggiravo sullo spiazzo di terra battuta e di stoppie, da un capo all’altro, e guardavo quei visi di giovani e volevo capire chi era dell’Isola, vedere se ne riconoscevo qualcuno. Ma nessuno; mi sembravano tutti d’un luogo di cui non avevo cognizione. Fu allora che mi sentii chiamare, richiamare. E mi corsero incontro alcuni del mio paese lì alle falde del Nébrodi, figli o nipoti di vecchi amici e compagni. Erano Aldo, Antonella, Francesco, Rino, Grazia, Saro. Mi dissero che era stato là, nei giorni passati, Pio La Torre, che li aveva spronati a resistere, a opporsi a quel progetto terribile dei missili Cruise, che avrebbero dovuto essere installati anche su rampe mobili e scorazzare per tutta la Sicilia.

Arrivano quindi le impastatrici e i camion degli operai decisi a entrare. I ragazzi fecero blocco, li fermarono. Arrivava intanto altra gente, politici, preti, un abate di Roma ch’era stato sospeso dal suo ufficio. Arrivò anche il questore, un omino atticciato in giacca e cravatta. Si mise a dire che doveva entrare nel campo, che doveva telefonare a Roma. Tutti dissero no, no! e serrarono le file davanti al cancello. E si misero a scandire slogan. «Dalla Sicilia alla Scandinavia - No ai missili e al patto di Varsavia». Il questore, a un punto, si mise a urlare, a dare ordini. Si mossero subito i militari con elmi, scudi e manganelli. Picchiarono e picchiarono sopra teste, schiene nude e braccia. Urla si sentirono, lamenti e un gran polverone si levò da terra. Sparavano lacrimogeni e nel cielo si formavano nuvole. Inseguivano e picchiavano tutti, giovani e no, deputati, medici e infermieri, giornalisti e fotografi. Stavo là impietrito a guardare. E vidi Luciana Castellina scaraventata per terra e picchiata; un giovanissimo carabiniere che s’inginocchia e piange; un poliziotto che sta per sparare, quando un altro a calci nel polso gli fa cadere l’arma di mano... Vidi che afferravano per i capelli e a calci e spintoni facevano salire sui furgoni i catturati. Mi sorpresi trasognato a urlare, a chiamare i miei giovani compaesani: «Antonella, Mino, Saro...», i quali arrivarono sanguinanti, pallidi, storditi. «Scappiamo, scappiamo!» dissero. «Hanno preso Grazia» dissero «Hanno preso Francesco»... Li lasciai raccomandando loro di tornarsene a casa, ché tanto a Roma il governo aveva deciso a tener duro su Comiso, a far rispettare a ogni costo gli impegni con gli Usa.

E invece no. Per merito di Pio La Torre e del movimento dei pacifisti, i missili Cruise vennero portati via, l’aeroporto sgomberato da quella minaccia. E l’aeroporto, già intitolato al generale di Mussolini Magliocco, venne poi intitolato, nell’aprile del 2007, a Pio La Torre, ucciso dalla mafia, venticinque anni prima. Ed ora, vergognosamente, il sindaco di An di Comiso vuole restituirlo alla memoria fascista di quel generale. Vergogna e ancora vergogna!

Pio La Torre, uno dei martiri siciliani, dei combattenti contro la mafia, l’oscuro e terribile potere politico mafioso. Nel secondo dopoguerra è il combattente martire insieme a Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale... Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni, quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della Riforma Agraria, per l’assegnazione ai contadini di «fazzoletti» di terra nei feudi dei Gattopardi. Eletto nel Parlamento italiano, poi La Torre decide di tornare in Sicilia. Torna perché sente che sono tre i grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana all’aeroporto di Comiso. Col suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarmemolte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, e soprattutto la legge, che porta la sua firma, del sequestro dei beni dei mafiosi, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. La Torre viene ucciso la mattina del 30 aprile 1982 mentre è in macchina, in via Generale Turba, a Palermo, insieme al suo autista Rosario Di Salvo.

È Pio La Torre, sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi caduti nella lotta alla mafia, sono loro l’onore di Sicilia, e di tutto questo nostro Paese. Paese oggi irriconoscibile e irriconoscente. Paese in cui l’attuale sindaco di Comiso di An Giuseppe Alfano (tanto nome!) immemore o smemorato o incosciente, vuol togliere il nome di La Torre all’aeroporto e restituirlo al generale fascista Vincenzo Magliocco. Dopo la via di Roma da intitolare as Almirante, le impronte digitali ai bambini rom, la criminalizzazione dei clandestini, dopo il lodo Alfano e tanto, tanto altro di questo onorevole Governo Berlusconi, questa è la poitica di ministri e piccoli sindaci del nostro irriconoscibile paese.

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.34   
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« Risposta #156 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:00:13 pm »

29/8/2008
 
Compagnia di bandierina
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Il tentativo di sistemazione di Alitalia, condotto dall’attuale governo, presenta caratteri di novità nel panorama della politica industriale italiana e va quindi analizzato prima in un contesto istituzionale e poi al livello del settore e dell’impresa. Il precedente governo aveva seguito inizialmente una procedura da manuale anglosassone: aveva indetto una vera gara internazionale per la vendita della propria quota in Alitalia, sollecitando manifestazioni di interesse poi trasformatesi in un’unica offerta concreta, quella di Air France. A questo punto, dall’empireo della finanza globale si passò bruscamente a un tipico scenario italiano: Air France fu chiamata a incontrare il sindacato per quella che riteneva poco più di una semplice illustrazione e che il sindacato, con incredibile e colpevole miopia, considerava invece punto di partenza della trattativa «vera» per spuntare un netto miglioramento dell’offerta. Non ci si deve meravigliare che Air France sia scappata, lasciando Alitalia senza prospettive, senza amici, con perdite di un milione di euro al giorno che il governo tamponò - ossia mise a carico di tutti gli italiani - con un ingente prestito ponte, di dubbia legittimità europea.

In campagna elettorale, l’attuale presidente del Consiglio si impegnò solennemente, forse con un po’ di demagogia, a trovare una soluzione privata e italiana al problema Alitalia, giocando sul tasto dell’irrinunciabilità a una «compagnia di bandiera».

Si è realizzato così, dopo molti anni, un intervento «pesante» dello Stato per pilotare la ristrutturazione del settore, facendo leva su imprese nazionali e puntando comunque alla fusione operativa tra Alitalia e Air One, la seconda compagnia aerea nazionale. L’attuale governo ripete in tal modo, con qualche variante, la politica francese di ristrutturazione seguita per l’aeronautica, l’elettronica e per lo stesso settore dei trasporti aerei: il libero mercato è solo un ricordo, sostituito da una concertazione di interessi. Il governo di centro-destra si dimostra più «socialista», ossia più interventista, di quello di sinistra-centro.

Da una gara aperta a livello internazionale si è così passati a trattative private rigidamente limitate e assai poco trasparenti. Anche così, ci sono voluti molti mesi e molti sforzi per «convincere» una quindicina di imprenditori italiani a costituire una «cordata» e mettere assieme una somma relativamente modesta - un miliardo di euro -, comunque insufficiente a una vera politica di rilancio di Alitalia. È quindi ragionevole pensare che questa «cordata» sarà sostenuta da un forte credito bancario; essa potrebbe inoltre andare incontro a forti obiezioni europee per il possibile conflitto di interessi di alcuni dei partecipanti alla «cordata» in quanto gestori di servizi pubblici in potenziale competizione con i servizi aerei di Alitalia. L’attuale tentativo di soluzione mostra comunque una netta discontinuità, rispetto al passato recente, non solo per il suo allontanamento dal mercato, ma anche per i nuovi rapporti governo-grandi imprese e per l’esclusione delle forze sindacali dalle decisioni-chiave: a loro è riservata una trattativa successiva per la sola sistemazione dei lavoratori in esubero.

Ben difficilmente la soluzione ieri delineata eviterà di porre le perdite di Alitalia a carico della collettività: la separazione della «polpa» di Alitalia (in sostanza la posizione dominante nel traffico aereo sulle principali rotte italiane e soprattutto sulla Milano-Roma) dal suo «osso» (un mare di debiti e di dipendenti in esubero confluiti in una nuova società pubblica) è la premessa perché quest’osso influisca in maniera negativa e piuttosto pesante sui conti pubblici, il che, del resto, è successo in altri salvataggi del passato, come quello del Banco di Napoli. È dubbio che essa favorisca davvero lo sviluppo del Paese, non dovrebbe essere in ogni caso salutata con toni trionfalistici.

La «polpa», del resto, se produrrà utili, lo farà solo tra alcuni anni. Nessuno dei partecipanti alla cordata ha una «vocazione» al trasporto aereo e quanto è stato reso noto del piano industriale è piuttosto vago e non appare molto convincente. La nuova Alitalia sarà una compagnia aerea molto ridimensionata, quasi una «compagnia-bonsai», priva di un punto centrale (hub), senza vere prospettive di crescita fuori dall’Italia. Per questo è ragionevole supporre che il piano ora presentato sia solo un abbozzo, sulla base del quale negoziare più ampie intese con qualcuno dei veri «grandi» del trasporto aereo europeo; non a caso, Air France si è già rifatta ufficialmente avanti e potrebbe ottenere i risultati che si proponeva qualche mese fa - ossia l’integrazione di Alitalia nel proprio sistema globale - a un costo molto inferiore al previsto, risultando il vero vincitore di quest’operazione. La «bandiera» italiana di questa compagnia, in nome della quale si è condotta questa complicata operazione, potrebbe risultare una «bandierina», - secondo l’espressione usata ieri dal capo dell’opposizione - e per di più italo-francese.

La prospettiva più probabile è quella della continuazione di un’ulteriore, lenta riduzione della presenza di Alitalia sulla scena europea, insufficientemente compensata da una ragguardevole presenza iniziale sul mercato nazionale.

mario.deaglio@unito.it
 
da lastampa.it
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« Risposta #157 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:08:46 pm »

La linea Sircana: campagna anti intercettazioni

Lo staff del Professore: «Piano contro di noi»

Ovi: ascoltate richieste, che male c'è?



ROMA - Quando ha saputo che cosa avrebbe pubblicato oggi Panorama ha reagito così: «Non ho nulla di cui dovermi preoccupare. Scrivano pure quello che gli pare». Una reazione forse scontata, per chi conosce Romano Prodi. Come un'alzata di spalle di una persona che non riesce, parole sue, «a essere nemmeno seccato». Meno scontata è invece la nota con cui qualche ora dopo, mentre l'affare si stava mediaticamente ingrossando, l'ex presidente del Consiglio ha replicato ufficialmente, e da Losanna, al settimanale della Mondadori. «In tutta questa cosa c'era evidentissimo l'odore di una operazione costruita per fare una bella campagna contro le intercettazioni telefoniche. Tanto valeva fargli subito tana», spiega Silvio Sircana, senatore del Pd e storico portavoce del professore bolognese.

Una tesi, quella dell'obiettivo politico di queste rivelazioni, condivisa da tutti nel fronte prodiano: che nell'attuale opposizione è sempre stata la componente più critica verso la proposta di legge della maggioranza. C'è chi, come l'ex ministro Giulio Santagata, interpreta l'iniziativa di Panorama come la prova che «Prodi fa ancora paura al centrodestra», aggiungendo con crudezza: «Mi sembra che queste intercettazioni irrilevanti vengano utilizzate come vasellina nei confronti dei nostri per quanto riguarda le intercettazioni». E Sandra Zampa, ex capo ufficio stampa di palazzo Chigi che dopo l'esperienza di governo ha avuto un seggio alla Camera, citata dal settimanale edito da Silvio Berlusconi fra le persone che avevano seguito una delle vicende emerse nelle intercettazioni, non è da meno. «L'operazione è smaccata. Si vuole spingere la sinistra, compresi i prodiani, a dire di sì al bavaglio per la stampa. Berlusconi vuole arrivare a farsi anche questa legge senza che si dica che la sta facendo soltanto per se stesso», afferma. E precisa: «Noi non abbiamo nulla da nascondere». Dove per «noi» si intende chiaramente tutti quelli incappati nelle intercettazioni pubblicate da Panorama. Per non parlare di Alessandro Ovi.

La fonte, se così si può definire, di questa nuova bufera telefonica (sua era l'utenza intercettata) rivendica tutti i passaggi delle vicende, confermando per filo e per segno i fatti. «Lei lo sa che alla presidenza del consiglio arrivano dozzine di richieste tutti i giorni, e da ogni parte? Il problema esiste se qualcuna di queste sollecitazioni viene accontentata in modo scorretto. Se ciò non è avvenuto, e non è mai avvenuto quando eravamo a palazzo Chigi, che male c'è?», dice l'ex consigliere di Prodi. Che giudica privi di significato anche i vincoli di parentela esistenti fra l'ex premier e i destinatari dei suoi interessamenti. «Prodi è stato così presidente del consiglio, in questo caso, che non ha mosso un solo dito», ironizza Ovi. «Tanto che nessuna di quelle vicende si è poi concretizzata». La storia dell'iniziativa scientifica di Bologna per cui Pier Maria Fornasari, padre di Veronica, moglie del primogenito di Prodi, Giorgio, avrebbe sollecitato contributi pubblici? «Era una di quelle iniziative dove c'erano di mezzo gli enti locali, che come sempre vanno a cercare soldi. Tra l'altro Fornasari non avrebbe nemmeno potuto gestirla, visto che è primario all'istituto Rizzoli. L'operazione poi non è stata possibile, mi sembra per difficoltà sorte al ministero dell'Università di Mussi. Ma se fosse andata a buon fine non sarebbe stata una buona cosa? Poi ci lamentiamo che in Italia non si riesce a fare niente...»

E la vicenda del progettato coinvolgimento dell'industriale Claudio Cavazza nella società di Luca Prodi (figlio del fratello dell'ex premier, Vittorio), che avrebbe voluto sostituire il socio di maggioranza relativa, la Euroclone? «Anche in quel caso, che cosa c'è che non va? Non si può forse chiedere una mano a un amico imprenditore farmaceutico? Tenga presente che il valore totale di quell'operazione era modestissimo. E poi non se ne fece nulla. Era la classica storia di uno start up scientifico nel quale sorge un contrasto fra i ricercatori azionisti e il socio imprenditore. Cavazza non è entrato nella società perché c'era un problema tecnico». Evidentemente insormontabile. «Pensi che Prodi disse: "guardate che Luca ha bisogno di soldi posso metterli anche io..."», racconta Ovi. Il quale, per inciso, ricorda bene anche la richiesta che fece Cavazza per rientrare nell'elenco delle fondazioni beneficiarie di sgravi fiscali. «Fu una cosa normalissima, senza un pelo di prevaricazione. Ma Cavazza aveva fatto trascorrere il termine stabilito. E semplicemente gli fu risposto che non era possibile. Tutto qua. Ripeto: c'è qualcosa di male?»

Sergio Rizzo
29 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #158 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:31:51 am »

CRONACA



TEST ANTI DROGA E ALCOL IN TUTTA ITALIA

E' iniziata in provincia di Verona la sperimentazione del test alcol-droga sugli automobilisti. In un laboratorio mobile, un medico sottopone l'automobilista a un tampone, che stabilisce se il guidatore ha bevuto troppo o ha assunto droghe prima di mettersi al volante. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, ha intenzione di estendere questo sistema di prevenzione a tutta l'Italia. Siete d'accordo?
 
Si
 (202 voti) 80%

 
No
 (47 voti) 19%

 
Non so
 (5 voti) 2%

 
254 voti alle 10:25. Sondaggio aperto alle 19:14 del 30.08.2008


AVVERTENZA
Questo sondaggio non ha, ovviamente, un valore statistico. Si tratta di una rilevazione aperta a tutti, non basata su un campione elaborato scientificamente. Ha quindi l’unico scopo di permettere ai lettori di esprimere la propria opinione su un tema di attualità. Le percentuali non tengono conto dei valori decimali. In alcuni casi, quindi, la somma può risultare superiore a 100
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« Risposta #159 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:47:43 am »

Ieri 30 agosto 2008, 15.24.11

Alitalia: i capitani coraggiosi


La cordata preannunciata da Berlusconi in campagna elettorale dopo tanti mesi è finalmente realtà. Voglio segnalare, affinché tutti li conoscano, un breve profilo di alcuni tra i “capitani coraggiosi” che piloteranno Alitalia fuori della crisi.

Roberto Colaninno Da manager diventa imprenditore senza capitali. Conquista Telecom facendo debiti. Insieme a Gnutti e Consorte non hanno soldi necessari, ma agganci politici: le banche concedono mega prestiti milionari e con un sistema di scatole cinesi conquistano il 51% di Telecom. Hopa (controllata al 51% da Colaninno e Gnutti, con dentro Monte dei Paschi di Siena, Unipol e Fininvest, nel miglior spirito bipartisan) possiede il 56,6% di Bell (oscura società con sede nel paradiso fiscale del Lussemburgo).
Bell controlla il 13,9% di Olivetti, che possiede il 70% di Tecnost, che controlla il 52% di Telecom.
Praticamente Colaninno e soci controllano Telecom detendone solo il 1,5%. C’è il dubbio che il controllo di Bell su Olivetti sia avvenuto per effetto di notizie riservate di Colaninno (reato di incidere trading, che tuttavia la Consob non ha accertato).
Il Financial Times parla di “rapina in pieno giorno”. Telecom viene gestita così bene che dopo due anni affoga nei debiti, ma Colaninno riesce a venderla a Tronchetti Provera (Pirelli) e a Benetton, con una plusvalenza di 1,5 miliardi di Euro (praticamente esentasse). Naturalmente i veri sconfitti sono i piccoli azionisti della società. Nel 2005 la Consob lo condanna al pagamento di una sanzione per conflitto d’interessi.

Marco Tronchetti Provera Subentra a Colaninno e lascia nel 2006 dopo aver causato danni disastrosi alla società (il titolo crolla) ed ai piccoli azionisti. Certo anche lui come azionista ci rimette (circa 100 milioni di euro), ma ne incassa 295, tra stipendi e stock options.

Carlo Toto Parte dall’azienda di famiglia, la Toto costruzioni, che sotto la sua guida di Carlo negli anni '60 non perde una commessa da amministrazioni pubbliche (come le Ferrovie) ed enti locali abruzzesi. Carlo Toto è di casa all'Anas e piano piano passa dai semplici rifacimenti stradali alla costruzione di ponti, gallerie e corsie. Tutto fila liscio fino al 1981, quando lo arrestano con un funzionario Anas in una delle poche indagini pre-mani pulite. L'accusa per falso riguarda l'appalto del ponte sul fiume Comano (crollato nel giugno del 1980). Nel 1988 arriva la condanna in appello con i benefici di legge. Patteggia 11 mesi di condanna per le mazzette pagate per l'appalto di un mega-parcheggio. Nel giugno ‘94 comprò il suo primo Boeing a un fallimento per quattro milioni di dollari. Anche grazie a quel Boeing, che poi fu rimesso a nuovo dalle officine Lufthansa, Toto finì per firmare un preziosissimo accordo di partnership - era il 2000 - con la compagnia tedesca. Al matrimonio con Lufthansa Toto portava una dote ricca: Air One aveva occupato sistematicamente tutte le rotte nazionali «trascurate» da Alitalia. Quando tuttavia Toto si propone come acquirente di Alitalia, le banche che avrebbero dovuto sborsare 2 miliardi di euro, manifestano scarsa fiducia nell’operazione. Vanta una grande amicizia con il segreterio generale della Cisl Bonanni, uno di quelli che ha detto "no" all'accordo con Air France.

Francesco Bellavista Caltagirone Lo troviamo socio di Hopa, sembra con i finanziamenti erogati dalla ex Popolare Lodi alla società off shore Maryland, utilizzata in passato anche per comprare Rcs e titoli della stessa Popolare Lodi. Risulta indagato nell' inchiesta sull' aggiotaggio Antonveneta. Insieme a Sergio Billè (già Presidente di Confcommercio) risulta coinvolto nelle vicende che riguardano il “furbetto del quartierino” Stefano Ricucci.

Gilberto Benetton Partecipa con Tronchetti Provera all’operazione Telecom, acquistata da Colaninno. Nel 1999 acquista l’altra grande azienda pubblica privatizzata, cioè la società Autostrade. Anche in questo caso l’operazione avviene attraverso il debito, che poi dovrebbe essere pagato dalla nuova “gallina dalle uova d’oro” (Autostrade appunto). Nel 2005 la società insieme ad Argofin di Marcellino Gavio entra in Impregilo, alla vigilia della gara per il Ponte di Messina.

Marco Fossati La Star è l’azienda storica della famiglia. La finanziaria Findim entra nel giro Telecom, quando Tronchetti Provera lascia. Si dichiara convinto che la società nei prossimi due anni migliorerà fortemente. Si fa portatore di un piano alternativo per il rilancio Telecom, che prevede l’ingresso nella società di Mediaset. Per convincere Silvio Berlusconi, Fossati ha addirittura portato Alierta (della spagnola Telefonica socia di telecom) ad Arcore appoggiandosi al lavoro diplomatico di Alejandro Agag, genero dell´ex premier spagnolo Aznar ed ex segretario del Ppe, e di Flavio Briatore, entrambi amici del Cavaliere. Gli stessi uomini che tre anni fa fiancheggiavano la scalata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera. Ma intanto il titolo scende.

Marcellino Gavio I suoi successi “autostradali” prendono le mosse dai rapporti politici, in particolare con il Partito Socialdemocratico di Romita e Nicolazzi. All’epoca del Ministro Prandini (pluricondannato) ottiene mille miliardi di appalti pubblici. Nel 1992 il suo amministratore delegato Bruno Binasco è stato imputato in processi per corruzione (è stato infine condannato insieme a Primo Greganti per finanziamento illecito ai partiti, nell'ambito dei processi di Mani Pulite). Su di lui nel 1992 fu spiccato un mandato di cattura, per presunte tangenti a Gianstefano Frigerio, segretario regionale DC, riguardo l'appalto per l'allargamento della Milano-Genova. Gavio si rifugiò all'estero, a Montecarlo, fino al settembre '93, fino a quando decise di presentarsi ai giudici di Milano, dove si salvò grazie alle solite prescrizioni. Interessanti le intercettazioni con il Ministro Lunari ed Emilio Fede: dimostrano il suo metodo di lavoro. Risulta indagato, insieme a Ugo Martinat, nelle vicende della Torino-Lione. Attraverso Argofin controlla un terzo di Impregilo, in cui entra poco prima dell’appalto per il Ponte di Messina.

Salvatore Ligresti Chiacchierato per i suoi presunti rapporti con la mafia, è finito in carcere per l'inchiesta Mani Pulite e condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione. Speculatore su aree edificabili, di lui si sa che passava le mazzette direttamente a Craxi propria manu e che è stato più volte salvato dalle grandi banche, prone la potere politico. Il suo ex rivale in affari Berlusconi lo nomina nel luglio 2004 amministratore delegato della Rcs Media Group, che controlla il Corriere della Sera, guarda caso. Insieme a Gavio e Benetton è socio di Impregilo, coinvolta nella vicenda dell’appalto per il Ponte di Messina.

Salvatore Mancuso Nel 2007 la sua nomina alla Presidenza del Banco di Sicilia, con il consenso di Totò Cuffaro e le congratulazioni di Francesco Musetto, viene salutata come un evento. Ma di li a poco dovrà dimettersi. Ma il suo fondo Equinox, con sede in Lussemburgo, è presente in molte operazioni discutibili. Così Mittel, finanziaria guidata da Giovanni Bazoli (presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo), e il fondo Equinox di Salvatore Mancuso hanno sottoscritto un accordo con Banca Mps e Banco Popolare, creditrici di Fingruppo, per liquidare in bonis Hopa, la società della galassia del finanziere bresciano Emilio Gnutti - finito in disgrazia in seguito alla calda estate dei furbetti del quartierino, anno 2005, quando fu coinvolto nella vicenda giudiziaria delle scalate bancarie e delle intercettazioni telefoniche - e degli imprenditori a lui vicini. Qualche giorno prima di partecipare alla cordata Alitalia acquista il 65% di Air Four, compagnia aerea executive con sede a Milano.

Claudio Sposito E’ uno degli uomini chiave del salvataggio di Fininvest dal fallimento all’inizio deglia anni ’90.All’epoca operava come plenipotenziario italiano per conto della banca d’affari Morgan & Stanley ed il rapporto con Berlusconi divenne così solido che nel 1998 diventerà amministratore delegato di Fininvest. Nel 2003 ritroviamo Sposito ed il suo fondo Clessidra ad operare con Gnutti, Presidente di Hopa, con l’intervento di Mediobanca. Sposito controlla oggi ADR, che gestisce gli aeroporti di Roma.

Emilio Riva E’ il re italiano dell’acciaio. Non è sconosciuto alla giustizia, che lo ha condannato per il reato di inquinamento della Ilva Siderurgica prima a Genova e ora a Taranto. Inoltre nel 2006 veniva riconosciuto colpevole di frode processuale e tentata violenza privata nei confronti di numerosi dipendenti di Taranto. Pene mai scontate grazie ai vari indulti e sconti. Il suo metodo di lavoro è la privatizzazione dei guadagni e la socializzazione delle perdite: In una lettera al Governo del 14 dicembre Emilio Riva avverte che l'eventuale riduzione delle emissioni di anidride carbonica comporterebbe "la necessità di fermare parte significativa degli impianti in uso. Il personale - afferma - colpito da tali riduzioni non potrebbe essere inferiore, anche nell'ipotesi più conservativa, alle quattromila unità".

Molti degli imprenditori coinvolti risultano legati dal “filo rosso” della vicenda Telecom, che dunque merita nuovi e ulteriori approfondimenti. Molti degli imprenditori sono stati condannati, in più di un caso per vicende di tangenti e corruzione. Quasi sempre hanno fatto i loro affari a debito, cioè grazie a prestiti delle banche. In particolare di una e così sono debitori di Banca Intesa. Sarebbe interessante conoscere l’entità del prestito.

Non è che in realtà Banca intesa stia soltanto cercando di recuperare i suoi crediti? Molti di loro sono Cavalieri del Lavoro.

Nel sito ufficiale si legge che “Gli imprenditori insigniti di questa onorificenza, dalla sua istituzione ai nostri giorni, rappresentano l'élite imprenditoriale del paese e che “L'Ordine al "Merito del Lavoro" premia l'insignito non solo per una specifica attività intrapresa, ma lo vincola ad un impegno etico e sociale volto al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro del paese”. Complimenti!

C’è qualcuno che si aspetta che imprenditori siano mossi dall’intento di rendere un servizio alla collettività?

C’è qualcuno che non pensa che, comunque vadano le cose, alla fine usciranno dalla vicenda con la loro brava e ingente plusvalenza?


da italiadeivalori.ecc ecc. (quando smetterà di essere firmato da Di Pietro? Che bisogno c'è?)
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« Risposta #160 inserito:: Settembre 01, 2008, 11:23:24 am »

1/9/2008 - VERTICE CON I SINDACATI
 
Alitalia, Stato e mercato
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Il presupposto concettuale di ogni dibattito di politica economica è la contrapposizione tra Stato e mercato. Sotto quali condizioni è auspicabile l’intervento dello Stato in una economia di mercato? Una risposta corretta a questa domanda non può essere puramente dettata da considerazioni ideologiche astratte: non può infatti prescindere dalle condizioni strutturali del sistema economico.

In una economia in cui i salari siano determinati in un mercato del lavoro competitivo e in cui l’istruzione e la sanità siano privati, forme di assicurazione sociale pubblica sarebbero in generale desiderabili, e spesso necessarie. In una economia socialista sarebbe invece generalmente vero l’opposto.

In Italia il dibattito su Stato e mercato è meno ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare. Lo stesso trucchetto retorico, infatti, falsa gli argomenti sia a destra sia a sinistra. La sinistra alternativa e quella di governo concordano sulla «morte del pensiero unico monetarista e liberista». Critiche al «neoliberismo estremista», al «fondamentalismo di mercato», hanno fornito supporto, a sinistra come a destra, a politiche protezionistiche nei confronti di prodotti cinesi e a politiche industriali di intervento a difesa dell’«italianità» di banche e imprese. Nel mercato del lavoro, poi, a ogni accenno alla liberalizzazione dei contratti si prefigura un mondo neoliberista popolato da soli precari indigenti.

Il trucchetto retorico è ovvio (e anche poco sofisticato): si critica una posizione estrema e irragionevole e si ricavano da questa critica conclusioni che riguardano questioni di politica economica specifiche hic et nunc, in Italia oggi. Ma in Italia oggi è difficile trovare un neoliberista estremista, di quelli che «il mercato funziona comunque e ovunque». Ma soprattutto, in Italia oggi, non si può proprio dire che tutto sia libero mercato e concorrenza perfetta: i salari sono per la maggior parte determinati a mezzo di contrattazione centralizzata, con minima considerazione per le differenze di produttività e di potere d’acquisto, l’istruzione è pubblica, la sanità è pubblica (così pubblica che i primari ospedalieri sono spesso espressione della politica, così come gli imprenditori le cui case di cura sono convenzionate col sistema sanitario), le banche e i mercati finanziari si stanno solo ora aprendo alla concorrenza (ma non i fondi pensione), rendite monopolistiche sono liberamente offerte all’imprenditoria privata (dalle tariffe autostradali ai canoni demaniali sulle spiagge), e così via.

Ma proprio per questo il trucchetto retorico di criticare una posizione estrema e inesistente è necessario. Addirittura Giulio Tremonti, mente economica della PdL e ora ministro dell’Economia, conia con successo il termine «mercatismo» per definire il nemico intellettuale da criticare (in La paura e la speranza, Mondadori, 2008). E naturalmente ricava da questa critica supporto a politiche economiche «colbertiste» di protezionismo mercantile.

Data la qualità del dibattito su Stato e mercato in Italia, non è poi sorprendente che la politica economica sia caratterizzata da una mancanza di rispetto (ma vorrei dire di comprensione) per il funzionamento dell’economia di mercato. Il caso Alitalia è oggi ovviamente sintomatico (ma lo stesso si potrebbe dire del caso Telecom in passato). Alitalia ha perso più di due miliardi di euro in quattro anni (dai dati di bilancio 2004-2007) offrendo ai propri dipendenti (incluso il management) condizioni notevolmente favorevoli rispetto a quelle di mercato. In questo contesto il governo si adopera per un piano di salvataggio che prevede la copertura a carico del bilancio dello Stato delle perdite passate e di quelle che sono in effetti perdite future (il costo degli esuberi) e l’elargizione di eventuali profitti futuri a imprenditori privati, scelti secondo procedure non certo degne di un mercato dei capitali trasparente.

Sarà anche colbertismo, ma non è diverso dal buon vecchio statalismo. Non solo, ma i profitti futuri agli imprenditori privati sono in qualche forma garantiti da rendite monopolistiche; cioè a scapito dei consumatori che pagheranno tariffe aeree più elevate. Si annulla infatti la concorrenza tra Alitalia e AirOne e si parla della chiusura dell’aeroporto di Milano-Linate per blindare la rotta Milano-Roma dalle compagnie straniere. Tutto questo è per giunta realizzato modificando con grave precedente la disciplina antitrust e in disprezzo della normativa europea. È davvero «fondamentalismo di mercato» sostenere una trasparente liquidazione fallimentare di un’azienda quotata in Borsa?
 
da lastampa.it
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« Risposta #161 inserito:: Settembre 01, 2008, 11:36:39 am »

CENTRODESTRA E SERVIZI PUBBLICI

La rendita dei comuni


di Francesco Giavazzi


L'Italia è il Paese, dopo gli Stati Uniti e l'Australia, che consuma il maggior numero di litri d'acqua per abitante: quasi 600 litri al giorno negli Usa, 500 in Australia, 400 in Italia. In Gran Bretagna se ne consumano solo 150, in Germania 190. In parte ciò è dovuto al fatto che la nostra rete idrica è un colabrodo, con una perdita media del 30% e punte del 50%; ciononostante per migliorare i nostri acquedotti investiamo meno della metà di quanto investono gli inglesi (in realtà non tutta l'acqua persa è sprecata: una buona parte viene rubata, spesso per irrigare i campi con acqua potabile. Ad Agrigento, quando i carabinieri hanno sequestrato alcuni invasi illeciti, le cisterne in città quasi scoppiavano tanta acqua arrivava). L'elevato consumo dipende anche dal fatto che nelle nostre città il prezzo dell'acqua è fra i più bassi al mondo: circa 80 centesimi al metro cubo a Roma, contro 4,30 euro a Berlino, 3,50 euro a Copenaghen, 2 euro a Londra. La nostra acqua costa poco, ma illudendoci che sia pressoché gratuita ne consumiamo troppa e alla fine le nostre bollette non sono molto inferiori a quelle inglesi o tedesche. Ciò che accade per l'acqua accade per i rifiuti: oneri di smaltimento molto bassi e quindi, con rare eccezioni (Trento ad esempio), un eccesso di rifiuti. Un altro esempio è il trasporto pubblico locale. I biglietti coprono un terzo del costo: non c'è da stupirsi se i passeggeri, non conoscendo quanto costa davvero il servizio, trattino male gli autobus. Dovrebbero bastare questi esempi per convincerci che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui sono gestiti i nostri servizi locali.

Essi dipendono, pressoché senza eccezioni, dalla politica e i politici, anche i meglio intenzionati, si illudono che il modo per aiutare i cittadini — e ottenere i loro voti — sia far pagare poco i servizi. In realtà così facendo contribuiscono al degrado dell'ambiente e, come abbiamo visto nel caso dell'acqua, alla fine non riescono neppure a mantenere basse le bollette. Solo il 5% dei nostri acquedotti è gestito da privati ai quali il servizio è stato affidato in seguito a un'asta competitiva. Gli altri sono gestiti direttamente dagli enti locali, o comunque da società controllate dagli enti locali a cui sono stati affidati senza mai chiedersi se esistesse qualcuno disposto a offrire il servizio a condizioni migliori. Nella scorsa legislatura il ministro Linda Lanzillotta cercò, invano, di condurre in porto una riforma. Per superare il veto di Rifondazione dovette accettare che gli acquedotti rimanessero pubblici. Ma per gli altri servizi quella legge aveva il merito di porre i Comuni di fronte a una scelta chiara: o gestivano il servizio direttamente, o lo affidavano tramite una gara a società terze. Deroghe alla procedura di assegnazione tramite gara dovevano essere approvate dall'Antitrust. La legge non passò non per l'opposizione di Rifondazione, che si accontentò dell'acqua pubblica, ma perché fu considerata un attentato alla tranquilla sopravvivenza del nuovo «capitalismo pubblico locale», le centinaia di aziende a partecipazione pubblica create negli ultimi anni per gestire i servizi locali.

Queste società sono diventate il fulcro del potere politico locale: non c'è fusione che non sia accompagnata dal passaggio al modello societario duale in modo che non un solo presidente, non un solo consigliere di amministrazione perda il suo posto. Oggi, grazie alla Lega hanno ottenuto ciò che volevano: l'art. 23-bis del decreto fiscale approvato l'1 agosto prevede che le deroghe alla procedura di gara siano solo comunicate all'Antitrust. Tolte di mezzo le gare, la sopravvivenza del capitalismo pubblico locale è assicurata. La Lega ha definito l'approvazione del 23-bis una vittoria del federalismo. In realtà anziché parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni, sembra piuttosto la misera difesa di qualche poltrona alle spalle dei cittadini. All'interno della maggioranza l'opposizione al 23-bis è venuta soprattutto da Alleanza nazionale che ha inutilmente difeso le gare e ora annuncia la presentazione di un nuovo disegno di legge per rivedere in senso più rispettoso del mercato l'intero assetto dei servizi locali. Ma vi sarebbe un modo più concreto per segnalare la propria diversità: An gestisce Roma, una città dove i servizi pubblici sono tutti assegnati senza gara. Quale lezione ai propri colleghi, e anche all'opposizione, se il sindaco Alemanno annunciasse che d'ora in poi a Roma tutti gli affidamenti avverranno tramite gara.

01 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #162 inserito:: Settembre 02, 2008, 12:12:40 am »

Epifani: «Niente atti di forza su Alitalia»

Angelo Faccinetto


Crisi Alitalia, con una cordata di salvataggio che - dice - non sembra essere mossa da interessi industriali. E poi inflazione, bassi salari, riforma del modello contrattuale, emergenze per affrontare le quali il governo ha fatto finora poco o nulla. Appena tornato dagli Usa dove, ospite dei sindacati americani, ha partecipato alla convention democratica per l’investitura di Barack Obama per la corsa alla Casa Bianca, il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, si trova a dover fare i conti con una situazione difficile. Ma con qualche speranza in più.

Epifani, qual è il messaggio che porta da Denver?
«I giornali, anche in Italia, hanno dato molto risalto ai contenuti della convention democratica. Un punto, però, è rimasto in ombra: il sostegno di tutte le organizzazioni sindacali alla candidatura di Obama e il grande peso che hanno avuto i temi del lavoro in tutti gli interventi. Da quelli del candidato presidente a quelli di Ted Kennedy, di Joe Biden, di Bill e di Hillary Clinton. È il segno di uno spostamento a sinistra del Partito democratico americano ed è un segnale importante anche per l’Europa e per l’Italia».

Perché?
«Perché in quella che Obama chiama la “promessa americana” c’è il superamento della teoria reaganiana che ha dominato gli ultimi decenni, c’è la proposta di una società non più fondata sugli interessi individuali ma sulla coesione sociale. Non a caso è partito un segnale forte per una nuova politica del welfare, per una nuova legislazione del lavoro, per una politica fiscale esplicitamente redistributiva, Ed è stato sottolineato il principio “paga uguale a lavoro uguale”, che permette il superamento delle differenze di genere e si è insistito sull’importanza del contratto collettivo, un richiamo di grande attualità anche per noi».

In che modo questi orientamenti potrebbe incidere sulle scelte politiche italiane ed europee?
«Incidono come sempre incidono le grandi scelte americane. Se Obama vincerà la sfida per la Casa Bianca diventeranno decisivi e imporranno anche da noi una riflessione seria. E poi, più in generale, anche se Obama ha sottolineato che la sua non è una candidatura di razza, una sua vittoria sarebbe un segnale in fortissima controtendenza con la cultura xenofoba, razzista e discriminatoria, oggi presente in Europa, Italia compresa. Come dimostrano l’atteggiamento del governo e di diverse amministrazioni locali».

Uno stimolo anche per il nostro Partito democratico che oggi appare in difficoltà?
«Penso di sì. Una parte del gruppo dirigente, guidato dal segretario Veltroni, ha partecipato alla convention. Mi aspetto che malgrado le difficoltà, questa scelta netta del partito americano possa aiutare il dibattito interno al Pd a decollare».

Come interpreta queste difficoltà?
«Non sono una sorpresa, per me. Come ricorderà, avevo mosso diverse critiche sul modo in cui il Pd è nato. Andava seguito un percorso diverso ed inverso rispetto a quello intrapreso. Adesso bisogna correre ai ripari. Non può essere che la più grande forza di opposizione non abbia una sua fisionomia forte e un altrettanto forte radicamento sociale. Ma credo che il gruppo dirigente lo abbia chiaro».

Intanto, con la sfida elettorale americana alle porte e, in Italia, un Pd in cerca di identità, comincia un autunno carico di problemi. Cito i principali che, come si dice, si “tengono” tutti: Alitalia, inflazione, emergenza salariale, crisi dei consumi, riforma del modello contrattuale. Come li affronterà il sindacato? Cominciamo da Alitalia e dal suo carico di esuberi.
«La nostra posizione è chiara. Non siamo disposti a discutere di esuberi se non si discute di piano industriale. E piano industriale vuol dire investimenti, qualità e quantità dei collegamenti, della flotta. Significa perimetro aziendale, cioè attività da tenere e da abbandonare. Solo dopo aver convenuto su questi punti è possibile affrontare il tema organici».

A proposito dei quali il ministro Sacconi, l’altro giorno ha parlato, di circa 5mila unità. Più o meno del previsto?
«Lo ripeto: noi non vogliamo partire dagli esuberi. Passera dice che è fondamentale l’accordo con il sindacato? Bene. Ma questo significa confrontarsi con le nostre opinioni. Quello che si aprirà domani (oggi per chi legge, ndr) deve essere un confronto vero sul piano industriale, non un prendere o lasciare. Se fosse così non ci sarebbe il nostro consenso».

Intanto però un’idea sulla cordata se la sarà fatta...
«La mia opinione è che questa cordata - sulla quale Passera stava lavorando da tempo e per la quale il governo ha cambiato in corsa le regole - sia formata da imprenditori che, per una parte, hanno altri interessi (penso a quelli che operano nell’edilizia o nel campo delle concessioni pubbliche) e per l’altra puntano sul guadagno finanziario. E ciò è un problema, perché in un mercato difficile come quello del trasporto aereo, se gli azionisti non si concentrano sul cuore dell’attività, c’è il rischio di fallire nell’intento».

Non vede nessun interesse industriale in questa cordata?
«Allo stato non è visibile. E mi chiedo quali problemi porrà, nell’immediato e in prospettiva, il vincolo temporale di cinque anni che questi imprenditori si sono posti. Perciò è importate un piano industriale all’altezza dei problemi di Alitalia. Chiediamo un impegno che sia, insieme, di risanamento e di sviluppo, non accetteremo una politica dei due tempi».

E non c’è solo l’Alitalia. L’inflazione non scende, i consumi crollano, lavoratori e pensionati perdono giorno dopo giorno potere d’acquisto. Come è stata sin qui l’azione del governo?
«Questa è la grande emergenza nazionale e su questo il governo ha fatto poco. Poco sui prezzi, poco sulle tariffe, niente sulla restituzione fiscale a lavoratori e pensionati. Questo segna oggi il maggior dissenso tra noi e il governo. Ovviamente tutto ciò rende anche più difficile il confronto sulla riforma dei contratti».

Che sembra irto di ostacoli.
«Un intervento di redistribuzione fiscale l’avrebbe sostenuto, non averlo fatto acuisce i problemi. Noi puntiamo ad un aumento dei salari attraverso tutti i livelli contrattuali, mentre non pare che Confindustria si muova in questa direzione».

I tempi? Sacconi e industriali, ma anche Cisl e Uil, fanno pressing perché si concluda tutto entro settembre.
«Anche noi abbiamo l’esigenza di non diluire i tempi, ma non accettiamo diktat. Né dal governo, né da Confindustria, né da altri sindacati. Credo che dopo la metà del mese avremo un quadro più preciso che ci consentirà di capire se sarà possibile giungere o meno ad un accordo».

Lei ha sottolineato che, mentre tutti i governi europei si stanno muovendo per fronteggiare la crisi, il nostro rimane inerte. Cosa pensa di fare per dargli la sveglia?
«Penso che a sostegno dei nostri obiettivi si debba avviare una vasta mobilitazione di massa. Nei prossimi giorni faremo una verifica con Cisl e Uil, poi decideremo».

Tra i problemi al centro dell’attenzione mediatica non c’è l’occupazione. Il ministro Sacconi magnifica l’aumento delle ore di straordinario ottenuto grazie ai suoi provvedimenti, mentre si tace il fatto che la cassa integrazione continua ad aumentare. Come mai?
«Il governo non intende rappresentare la realtà italiana per quello che è, con la sua economia in recessione, con la cassa integrazione che cresce, con le sue filiere produttive in crisi. Non solo, credo, per una questione di immagine, ma anche perché non ha una proposta. Per questo preferisce dare una lettura ideologica della situazione plaudendo all’incremento del 9% delle ore di straordinario e dimenticando che, nel complesso, il Paese perde ore di lavoro. Per via della crisi».

Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 01.09.08 alle ore 13.08   
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« Risposta #163 inserito:: Settembre 05, 2008, 10:50:44 am »

Liberalizzazioni verso il rilancio

di Marco Rogari
 
 
 
Liberalizzazioni, a partite dai servizi pubblici locali, e privatizzazioni, con la Fincantieri nel "mirino". Non conterrà soltanto tagli e razionalizzazioni il piano triennale sulla finanza pubblica da 30 miliardi, che sta mettendo a punto già da giorni il ministro Giulio Tremonti e che sarà presentato attorno al 20 giugno insieme ad un decreto per anticipare la Finanziaria 2009. Il processo per ridurre la spesa pubblica sarà accompagnato da un plan ad hoc per lo sviluppo. Che spazierà dalle infrastrutture al programma per il ritorno al nucleare, dal piano-casa agli interventi in chiave "banda larga" fino alla nascita della banca per il Sud e alle semplificazioni per facilitare l'attività d'impresa.

Un'operazione che dovrà essere sostenuta da un efficace dispositivo per garantire risorse e coperture. E Tremonti avrebbe già individuato i meccanismi chiave: contenimento della spesa a livello territoriale grazie all'avvento del federalismo (che dovrebbe vedere la luce insieme all'anticipo della manovra); consistenti risparmi dalla pubblica amministrazione con l'attuazione del piano Brunetta.

Ieri il ministro dell'Economia ha fatto il punto della situazione con i colleghi Renato Brunetta, Roberto Calderoli, Altero Matteoli, Maurizio Sacconi e Claudio Scajola. Una task force che seguirà lo sviluppo del piano targato Tremonti. In una nota del Tesoro si sottolinea che con questo incontro sono stati mossi «i primi passi» per l'anticipo della Finanziaria 2009 «in un provvedimento che integrerà il Dpef». Un provvedimento «che – prosegue la nota – conterrà tanto un piano triennale di stabilizzazione della finanza pubblica, quanto un piano mirato allo sviluppo economico. Sta prendendo così forma – si fa notare da Via XX settembre – in maniera non virtuale ma sostanziale, come espressione dell'azione del Governo, un vero e proprio "piano Attali"».

Al Tesoro, dunque, l'orientamento è di non perdere tempo. Il decreto per anticipare la Finanziaria 2009 sarà agganciato al Dpef e la manovra estiva dovrebbe ammontare a 8-10 miliardi, un terzo del valore complessivo del piano triennale da 30 miliardi che sta allestendo Tremonti per giungere al pareggio di bilancio concordato con la Ue nel 2011. A giungo dovrebbe scattare anche il progetto di federalismo fiscale, che il ministro Umberto Bossi sta congegnando d'intesa con il Tesoro. Tremonti lo considera una carta fondamentale da giocare per responsabilizzare le Regioni sugli eccessi di spesa e spostare le poste in bilancio. Non a caso l'aggancio al federalismo è espressamente previsto anche dal piano Brunetta (passaggio di funzioni e strutture dal "centro" agli enti territoriali).

Ci saranno ovviamente anche i tagli. Oltre all'opera di potatura delle voci del bilancio dello Stato, potrebbe arrivare una sorta di nuovo "taglia spese" per tutte le amministrazioni, con un taglio del 20% dei costi di gestione e funzionamento in tre anni (pari a oltre 10 miliardi). Nel menù anche un rigido blocco del turn over (1 ingresso ogni 7-8 uscite), lo stop alla sanatoria dei precari, il ricorso alla mobilità e la dismissione delle sedi periferiche sotto i 20-30 dipendenti. Risorse arriveranno anche dalla prima fase della vendita del patrimonio pubblico, dalle privatizzazioni e dalla trasformazione in Spa degli enti pubblici, Inail in testa.

Un altro decreto dovrebbe prendere corpo tra giugno e luglio per "gestire" 500 scadenze di misure e provvedimenti non solo fiscali (dall'agricoltura alla class action) fissate proprio per l'estate, che rischiano di trasformarsi in un collo di bottiglia per l'attività dell Governo. Con tutta probabilità sarà il ministro Calderoli a tracciare un percorso semplificato anche per evitare il rito delle mille proroghe. E sempre Calderoli potrebbe inserire nel testo altre delegificazioni e semplificazioni, a partire da quelle per facilitare l'avvio della attività d'impresa.

 
da ilsole24ore
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« Risposta #164 inserito:: Settembre 06, 2008, 04:31:04 pm »

La versione completa dell’intervento di Filippo Andreatta e Pier Ferdinando Casini

«Pd timido con Berlusconi e Putin»

«Il Ministro degli Esteri e il suo omologo ombra si sono trovati su una posizione di sostanziale sostegno a Mosca»



Caro Direttore, la bipartisanship in politica estera è un valore importante, che permette ad un paese di avanzare i propri ideali e difendere il proprio interesse nazionale con continuità. Entrambi, pur da posizioni politiche distinte e in contesti differenti (le istituzioni o l’accademia), abbiamo sempre sostenuto che - sui temi di politica internazionale - maggioranza e opposizione debbano convergere il più possibile almeno sulle linee di fondo. Questa convergenza non era possibile all’inizio della Repubblica, quando l’Italia era divisa proprio sulla collocazione nell’ambito della guerra fredda, ma gran parte dei progressi politici del dopoguerra sono stati accompagnati da una progressiva accettazione delle provvidenziali intuizioni di De Gasperi, che volle fermamente un’Italia atlantica ed europeista. Le stagioni del centrosinistra degli anni '60 e della solidarietà nazionale negli anni '70 furono pertanto aperte da un allargamento della base di consenso sulla collocazione italiana, quando il Psi e il Pci, rispettivamente, accettarono l’adesione italiana alla Nato e al processo di integrazione europea.

Non è quindi senza rammarico che segnaliamo la nostra insoddisfazione verso l’approccio del governo italiano nei confronti della crisi con la Russia, proprio quando il governo e il principale partito d’opposizione sembrano aver trovato un’intesa su questo punto. Il consenso è infatti un valore quando è espresso su una politica giusta, mentre la bipartisanship è, purtroppo, doppiamente dannosa quando le decisioni sono sbagliate. Il Ministro degli Esteri e il suo omologo ombra si sono infatti trovati su una posizione definita come equidistante nei confronti del conflitto tra Russia e Georgia, ma che equivale ad una sostanziale sostegno alle posizioni di Mosca. Sebbene come in tutte le crisi sia difficile allocare torti e ragioni, nel caso della guerra del Caucaso la maggiore potenza russa, e la sua determinazione nel perseguire i propri obiettivi anche a scapito del diritto internazionale e degli inviti della maggioranza degli Stati, rappresentano infatti di gran lunga il problema principale. La Russia ha risposto alla crisi in Sud Ossezia con una forza sproporzionata, ha cercato di ottenere la caduta del regime democratico georgiano ha esteso l’area dei combattimenti all’Abkazia, è penetrata nel territorio non conteso e bombardato le città della Georgia, rifiutandosi poi di ritirarsi nei termini dell’accordo che aveva appena firmato, e ha infine dichiarato - unilateralmente e illegalmente - l’indipendenza delle due regioni, accusando gli Stati Uniti di aver orchestrato un’aggressione. Per questo comportamento inaccettabile non è sufficiente esprimere «rammarico», come ha fatto il Ministro Frattini con il sostanziale appoggio dell’onorevole Fassino, che ha invece invocato una nuova Helsinki per negoziare con la Russia.

È giunto invece il momento di interrogarci a fondo sui rapporti con la Russia dell’Italia e delle istituzioni - Nato e Ue in testa - di cui l’Italia fa parte. In primo luogo, ci siamo a lungo illusi che la Russia fosse diventata una potenza democratica e responsabile, ed infatti ci sono stati dei progressi in questo senso. Allo stesso tempo però, abbiamo forse troppo spesso chiuso gli occhi di fronte alla repressione in Cecenia e nei confronti delle altre minoranze in seno alla federazione, e nei confronti di ogni opposizione. Ora che questi metodi violenti e spregiudicati non sono più confinati all’interno della Russia, ma vengono utilizzati con uno stato sovrano, non è più possibile ignorarli. In secondo luogo, la crisi delle ultime settimane ha dimostrato un cambiamento della strategia russa non solo nel Caucaso, ma anche nei confronti delle altre Repubbliche ex sovietiche e dell’Occidente. La Russia ha minacciato ritorsioni contro eventuali sanzioni e contro l’installazione di missili americani in Europa, e ha ventilato la possibilità di un’alleanza destabilizzante con la Siria. In terzo luogo, sebbene alcuni paesi abbiano mantenuto una certa cautela, una crescente ondata di condanna delle posizioni russe è cresciuta nelle ultime settimane, che comprende gli Stati Uniti e - in Europa - la Gran Bretagna e gli Stati che hanno aderito recentemente all’Unione Europea (Baltici e Polonia in testa), e alla quale l’Italia deve una risposta.

Ci saremmo quindi aspettati una posizione più netta dell’Italia, che segnalasse, ovviamente senza una rottura nei rapporti con la Russia, una maggiore preoccupazione. Siamo invece il paese che, nelle discussioni con gli alleati, ha tenuto la posizione più filo-russa di tutti, e non è un caso che il Presidente Medvedev si sia sentito in dovere di ringraziare il nostro paese in un’intervista televisiva al Tg1. La familiarità tra il Presidente del Consiglio e la leadership del Cremlino può essere un’opportunità solo se è utilizzata per rafforzare la posizione di chi vuole convincere la Russia a interrompere la sua politica aggressiva, mentre è un’occasione persa - per l’Italia, ma anche per Berlusconi - se l’amicizia dovesse essere percepita come un elemento di indebolimento del fronte occidentale e di acquiescenza di fronte a comportamenti destabilizzanti per il sistema internazionale. Sotto questo aspetto, anche la posizione del Pd è deludente, in quanto rinuncia ad incalzare il governo su un tema così importante. Il Cremlino, ci pare, non ha bisogno di difensori d’ufficio. Ci sono ben altri temi sui quali varrebbe la pena di impostare un dialogo bipartisan per il bene del paese. Quello di una sostanziale capitolazione al nuovo, e pericoloso, corso della politica estera russa non è, a nostro avviso, tra questi.


Filippo Andreatta e Pier Ferdinando Casini
06 settembre 2008

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