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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 150754 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:10:33 am »

LETTERA AGLI AMICI di padre Alex Zanotelli - Napoli, 12 luglio 2008

“ E’ AL COLMO LA FECCIA”



Carissimi,
è con la rabbia in corpo che vi scrivo questa lettera dai bassi di Napoli, dal Rione Sanità nel cuore di quest’estate infuocata. La mia è una rabbia lacerante perché oggi la Menzogna è diventata la Verità. Il mio lamento è così ben espresso da un credente ebreo nel Salmo 12


“ Solo falsità l’uno all’altro si dicono: bocche piene di menzogna, tutti a nascondere ciò che tramano in cuore.
Come rettili strisciano, e i più vili emergono, è al colmo la feccia.”



Quando ,dopo Korogocho, ho scelto di vivere a Napoli , non avrei mai pensato che mi sarei trovato a vivere le stesse lotte.
Sono passato dalla discarica di Nairobi, a fianco della baraccopoli di Korogocho alle lotte di Napoli contro le discariche e gli inceneritori.Sono convinto che Napoli è solo la punta dell’iceberg di un problema che ci sommerge tutti.Infatti, se a questo mondo, gli oltre sei miliardi di esseri umani vivessero come viviamo noi ricchi (l’11% del mondo consuma l’88% delle risorse del pianeta!) avremmo bisogno di altri quattro pianeti come risorse e di altro quattro come discariche ove buttare i nostri rifiuti. I poveri di Korogocho, che vivono sulla discarica, mi hanno insegnato a riciclare tutto , a riusare tutto, a riparare tutto, a rivendere tutto, ma soprattutto a vivere con sobrietà.

E’ stata una grande lezione che mi aiuta oggi a leggere la situazione dei rifiuti a Napoli e in Campania, regione ridotta da vent’anni a sversatoio nazionale dei rifiuti tossici.Infatti esponenti della camorra in combutta con logge massoniche coperte e politici locali, avevano deciso nel 1989
, nel ristorante “La Taverna” di Villaricca”, di sversare i rifiuti tossici in Campania.Questo perché diventava sempre più difficile seppellire i nostri rifiuti in Somalia. Migliaia di Tir sono arrivati da ogni parte di Italia carichi di rifiuti tossici e sono stati sepolti dalla camorra nel Triangolo della
morte (Acerra-Nola- Marigliano), nelle Terre dei fuochi (Nord di Napoli) e nelle campagne del Casertano. Questi rifiuti tossici “bombardano” oggi ,in particolare i neonati, con diossine, nanoparticelle che producono tumori, malformazioni , leucemie……

Il documentario Biutiful Cauntri esprime bene quanto vi racconto .

A cui bisogna aggiungere il disastro della politica ormai subordinata ai potentati economicifinanziari.
Infatti questa regione è stata gestita dal 1994 da 10 commissari straordinari per i rifiuti,scelti dai vari governi nazionali che si sono succeduti.(E’ sempre più chiaro, per me, l’intreccio fra politica, potentati economici-finanziari, camorra, logge massoniche coperte e servizi segreti!). In 15 anni i commissari straordinari hanno speso oltre due miliardi di euro, per produrre oltre sette milioni di tonnellate di “ecoballe”, che di eco non hanno proprio nulla : sono rifiuti tal quale, avvolti in plastica che non si possono nè incenerire ( la Campania è già un disastro ecologico!) né seppellire perché inquinerebbero le falde acquifere. Buona parte di queste ecoballe, accatastate fuori la città di Giugliano, infestano con il loro percolato quelle splendide campagne denominate “Taverna del re “.

E così siamo giunti al disastro! Oggi la Campania ha raggiunto gli stessi livelli di tumore del Nord-Est, che però ha fabbriche e lavoro.Noi, senza fabbriche e senza lavoro, per i rifiuti siamo condannati alla stessa sorte. Il nostro non è un disastro ecologico -lo dico con rabbia- ma un crimine
ecologico, frutto di decisioni politiche che coprono enormi interessi finanziari. Ne è prova il fatto che Prodi, a governo scaduto, abbia firmato due ordinanze:una che permetteva di bruciare le ecoballe di Giugliano nell’inceneritore di Acerra, l’altra che permetteva di dare il Cip 6 (la bolletta che paghiamo all’Enel per le energie rinnovabili) ai 3 inceneritori della Campania che “trasformano la merda in oro -come dice Guido Viale- Quanto più merda, tanto più oro!”

Ulteriore rabbia quando il governo Berlusconi ha firmato il nuovo decreto n.90 sui rifiuti in Campania. Berlusconi ci impone, con la forza militare, di costruire 10 discariche e quattro inceneritori. Se i 4 inceneritori funzionassero, la Campania dovrebbe importare rifiuti da altrove per
farli funzionare. Da solo l’inceneritore di Acerra potrebbe bruciare 800.000 tonnellate all’anno! E’ chiaro allora che non si vuole fare la raccolta differenziata, perché se venisse fatta seriamente (al 70%), non ci sarebbe bisogno di quegli inceneritori. E’ da 14 anni che non c’è volontà politica di fare la raccolta differenziata. Non sono i napoletani che non la vogliono, ma i politici che la ostacolano perché devono ubbidire ai potentati economici-finanziari promotori degli inceneritori. E tutto questo ci viene imposto con la forza militare vietando ogni resistenza o dissenso, pena la prigione. Le conseguenze di questo decreto per la Campania sono devastanti. ”Se tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (articolo 3 della Costituzione), i Campani saranno meno uguali, avranno meno dignità sociale-così afferma un recente Appello ai Parlamentari Campani

Ciò che è definito “tossico” altrove, anche sulla base normativa comunitaria, in Campania non lo è; ciò che altrove è considerato “pericoloso”qui non lo sarà. Le regole di tutela ambientale e salvaguardia e controllo sanitario, qui non saranno in vigore. La polizia giudiziaria e la magistratura in tema di repressione di violazioni della normativa sui rifiuti , hanno meno poteri che nel resto d’Italia e i nuovi tribunali speciali per la loro smisurata competenza e novità, non saranno in grado di tutelare, come altrove accade, i diritti dei Campani”.

Davanti a tutto questo, ho diritto ad indignarmi. Per me è una questione etica e morale. Ci devo essere come prete, come missionario. Se lotto contro l’aborto e l’eutanasia, devo esserci nella lotta su tutto questo che costituisce una grande minaccia alla salute dei cittadini campani. Il decreto
Berlusconi straccia il diritto alla salute dei cittadini Campani.

Per questo sono andato con tanta indignazione in corpo all’inceneritore di Acerra, a contestare la conferenza stampa di Berlusconi, organizzata nel cuore del Mostro, come lo chiama la gente.

Eravamo pochi, forse un centinaio di persone. (La gente di Acerra, dopo le botte del 29 agosto 2004 da parte delle forze dell’ordine,è terrorizzata e ha paura di scendere in campo). Abbiamo tentato di dire il nostro no a quanto stava accadendo. Abbiamo distribuito alla stampa i volantini :”Lutto
cittadino.La democrazia è morta ad Acerra.Ne danno il triste annuncio il presidente Berlusconi e il sottosegretario Bertolaso.” Nella conferenza stampa ( non ci è stato permesso parteciparvi!) Berlusconi ha chiesto scusa alla Fibe per tutto quello che ha “subito” per costruire l’inceneritore ad Acerra!(Ricordo che la Fibe è sotto processo oggi!). Uno schiaffo ai giudici! Bertolaso ha annunciato che aveva firmato il giorno prima l’ordinanza con la Fibe perché finisse i lavori! Poi ha annunciato che avrebbe scelto con trattativa privata, una delle tre o quattro ditte italiane e una straniera, a gestire i rifiuti.Quella italiana sarà quasi certamente la A2A ( la multiservizi di Brescia e Milano) e quella straniera è la Veolia, la più grande multinazionale dell’acqua e la seconda al mondo per i rifiuti. Sarà quasi certamente Veolia a papparsi il bocconcino e così, dopo i rifiuti , si papperà anche l’acqua di Napoli.Che vergogna! E’ la stravittoria dei potentati economici-finanziari, il cui unico scopo è fare soldi in barba a tutti noi che diventiamo le nuove cavie. Sono infatti convinto che la Campania è diventata oggi un ottimo esempio di quello che la Naomi Klein nel suo libro Shock Economy, chiama appunto l’economia di shock! Lì dove c’è emergenza grave viene permesso ai potentati economico-finanziari di fare cose che non potrebbero fare in circostanze normali. Se funziona in Campania, lo si ripeterà altrove. (New Orleans dopo Katrina insegna!).

E per farci digerire questa pillola amara, O’ Sistema ci invierà un migliaio di volontari per aiutare gli imbecilli dei napoletani a fare la raccolta differenziata, un migliaio di alpini per sostenere l’operazione e trecento psicologi per oleare questa operazione!! Ma a che punto siamo arrivati in
questo paese!?! Mi indigno profondamente! E proclamo la mia solidarietà a questo popolo massacrato! “Padre Alex e i suoi fratelli “ era scritto in una fotografia apparsa su Tempi (inserto di La Repubblica). Sì, sono fiero di essere a Napoli in questo momento così tragico con i miei fratelli (e sorelle) di Savignano Irpino, espropriati del loro terreno seminato a novembre , con i miei fratelli di Chiaiano, costretti ad accedere nelle proprie abitazioni con un pass perchè sotto sorveglianza militare.

Per questo, con i comitati come Allarme rifiuti tossici, con le reti come Lilliput e con tanti gruppi, continueremo a resistere in Campania. Non ci arrenderemo.Vi chiedo di condividere questa rabbia, questa collera contro un Sistema economico-finanziario che ammazza ed uccide non solo i poveri
del Sud del mondo, ma anche i poveri nel cuore dell’Impero. Trovo conforto nelle parole del grande resistente contro Hitler, il pastore luterano danese, Kaj Munk ucciso dai nazisti nel 1944. ”Qual è dunque il compito del predicatore oggi ?Dovrei rispondere: fede, speranza e carità. Sembra una bella risposta. Ma vorrei dire piuttosto :coraggio. Ma no, neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l’intera verità... Il nostro compito oggi è la temerarietà..Perchè ciò di cui come Chiesa manchiamo non è certamente né di psicologia né di letteratura.Quello che a noi manca è una santa collera”.
 
Davanti alla Menzogna che furoreggia in questa regione campana, non ci resta che una santa collera. Una collera che vorrei vedere nei miei concittadini, ma anche nella mia Chiesa..

“I simboli della Chiesa Cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba e il pesce -diceva sempre Kaj Munk- mai il camaleonte”.
 
Vi scrivo questo al ritorno della manifestazione tenutasi nelle strade di Chiaiano, contro l’occupazione militare della cava.

Invece di aspettare il giudizio dei tecnici sull’idoneità della cava, Bertolaso ha inviato l’esercito per occuparla. La gente di Chiaiano si sente raggirata, abbandonata e tradita .

Non abbandonateci. E’ questione di vita o di morte per tutti. E’ con tanta rabbia che ve lo scrivo.

Resistiamo!

Alex Zanotelli

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« Risposta #136 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:18:52 am »

Cronache       Il sedicesimo anniversario della strage di via D'Amelio

Napolitano: «Ricordare Borsellino per diffondere la cultura della legalità»

Messaggio del presidente della Repubblica alla vedova: «Il dolore e lo sgomento restano vivi nella memoria»



ROMA - «Ricordare tutti coloro che hanno pagato con il sacrificio della vita i servigi resi alle istituzioni contribuisce in modo determinante a diffondere la cultura della legalità contro ogni forma di violenza e sopraffazione». Lo sottolinea il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato ad Agnese Borsellino nel sedicesimo anniversario della strage di via D'Amelio, per la quale «il dolore e lo sgomento restano vivi nella memoria di tutti». «Nel sedicesimo anniversario del barbaro agguato di via D’Amelio a Palermo, che il 19 luglio 1992 spense la vita di suo marito e dei giovani agenti - Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina - dedicatisi alla sua sicurezza, desidero - scrive il capo dello Stato - far giungere a lei, gentile signora e - suo tramite - a tutti i familiari dei caduti di quel giorno il mio pensiero commosso e partecipe».

RICORDO - «Rinnovare anno dopo anno il ricordo di Paolo Borsellino e della sua scorta - sottolinea Napolitano - costituisce il doveroso riconoscimento che il Paese tributa al dramma da voi vissuto e al coraggio con il quale avete saputo affrontarlo nei lunghi anni trascorsi. Il dolore e lo sgomento per la strage di via D'Amelio restano vivi nella memoria di tutti. La inaudita violenza con cui si colpì un magistrato esemplare, costantemente impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata suscitò nel Paese - già segnato dal barbaro attentato di Capaci - una condivisa stagione di lotta contro la brutale spirale mafiosa». «Ricordare tutti coloro che hanno pagato con il sacrificio della vita i servigi resi alle istituzioni - prosegue il presidente della Repubblica - contribuisce in modo determinante a diffondere la cultura della legalità contro ogni forma di violenza e sopraffazione. Le iniziative e la mobilitazione delle forze sane della società e in particolar modo delle generazioni più giovani testimoniano la funzione rigeneratrice dell’esempio e dell’eredità morale che Paolo Borsellino ci ha lasciato. Con commosso ricordo sono vicino a Lei, gentile signora, ai suoi figli e ai familiari degli agenti caduti e, con questo spirito, le rinnovo i sentimenti di gratitudine e di solidarietà di tutti gli italiani».

«NON DIMENTICATE PAOLO» - Dal canto suo, la vedova si è rivolta ai politici presenti in via d'Amelio: «Non dimenticate Paolo» ha detto. E sono stati molti a ricordare Borsellino. Renato Schifani, presidente del Senato: «Credo che il miglior modo per ricordare Borsellino, Falcone e tutti i caduti della mafia sia la risposta che la Sicilia sta dando in questi ultimi tempi». Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano: «È un giorno di dolore ma anche di speranza. Cinquantasette giorni fa, quando il 23 maggio commemorammo Falcone, il governo aveva approvato importanti misure riguardanti la sicurezza e di contrasto forte alla criminalità organizzata. Oggi, dopo 57 giorni, quelle misure sono diventate leggi in Parlamento e leggi dello Stato. Noi ne siamo lieti perchè è un segnale di speranza, che lo Stato reagisce». Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «La mia presenza a Palermo non è solo un omaggio, ma anche un atto di rispetto che richiama tutto il mio percorso politico. Ricordare Borsellino è doveroso e serve a farci riflettere e a fortificare il nostro amore per la libertà». Walter Veltroni, segretario del Pd: «Il 19 luglio è per l'Italia un giorno triste nel quale si ha il dovere di ricordare con onore e gratitudine un uomo che ha incarnato con coraggio e spirito di sacrifico l'essenza vera di uomo dello Stato». Gianfranco Fini, presidente della Camera: «Quello di Paolo Borsellino è un esempio luminoso di italianità e di servizio allo Stato testimoniati fin all'estrema ed eroica coerenza».




19 luglio 2008


da corriere.it
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« Risposta #137 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:20:38 am »

16/07/2008

Ricerca storica e veti ideologici

Scritto da: Dino Messina


In Italia spira un brutto vento, e non da oggi. Un vento ideologico che spinge le amministrazioni muncipali del nostro Paese a occuparsi poco di depuratori, asili nido, manutenzione dei marciapiedi e molto di questioni storico politiche che poco hanno a che fare sia con la vera ricerca storica sia con la vera politica. E' quanto successo al comune di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, dove doveva svolgersi la normale presentazione di un libro scritto da un mio collega. Invece tutto si è tramutato in una disputa ridicola, similculturale e similpolitica, che secondo me è uno dei sintomi dell'arretratezza del nostro Paese. Forse mi sbaglierò, ma si anuncia un nuovo caso Pansa.

Ecco l'articolo che in proposito ho scritto per il "Corriere della sera"


Come può la normale presentazione di un saggio sui giovani neofascisti nell’immediato dopoguerra trasformarsi in una «giornata di mobilitazione antifascista»? E l’incontro nella sala municipale di un comune toscano dedicato allo stesso libro trasformarsi in un Consiglio comunale aperto sul tema «La memoria collettiva della Resistenza e della Liberazione dal fascismo, radice della Costituzione italiana»? Sembra una commedia degli equivoci, invece è la realtà del nostro Paese, dove a volte non si riesce a distinguere tra storiografia e politica. Ecco i fatti. Qualche settimana fa Antonio Carioti, giornalista del Corriere della Sera, autore del saggio Gli orfani di Salò, edito da Mursia, è stato invitato da Giacomo Mannocci, capogruppo di An al Comune di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, a presentare il suo libro. Data prefissata sabato 19 luglio, relatori previsti, oltre all’autore, il senatore di An Achille Totaro e lo storico dell’Università di Pisa, Paolo Nello. Luogo prescelto per l’incontro, la sala consiliare del Comune retto da una maggioranza di sinistra.

L’intenzione era di ripetere quanto già avvenuto al festival di storia di Gorizia, dove a presentare il libro di Carioti c’era lo storico Mimmo Franzinelli, e a Milano, dove a discuterne era intervenuto Luigi Ganapini. Franzinelli e Ganapini sono eccellenti studiosi con dichiarate simpatie di sinistra e hanno trovato Gli orfani di Salò un saggio innovativo. Ma la presentazione probabilmente non sarà nella sala consiliare di San Giuliano Terme, prima concessa e poi negata. Gli organizzatori, nell’imminenza dell’evento, hanno distribuito un invito con una scritta un po’ imbarazzata, «la località sarà comunicata prossimamente».
È successo che i capigruppo della maggioranza hanno protestato contro l’utilizzazione «dell’aula di un’istituzione democratica... per iniziative che esaltano i protagonisti e gli orfani della repubblica di Salò». Ai consiglieri si sono rapidamente accodati i gruppi della sinistra estrema di Indymedia. Così la presentazione del saggio di Carioti, autore anche di una biografia di Di Vittorio e di uno studio su Mario Vinciguerra, diventa il pretesto per una delle solite litanìe contro il vento neofascista e «i tentativi di riabilitare la dittatura mussoliniana», come dice un appello dei gruppi «antagonisti».

Ad allontanare il rischio del veto ideologico non sono certo servite le risposte che i capigruppo e il sindaco di San Giuliano Terme, Paolo Panattoni, hanno inviato alla Mursia. L’ufficio stampa ha infatti mandato una copia del volume ai capigruppo, chiarendo che si tratta «di un saggio storico, non di un libro apologetico». Il sindaco, per spiegare la marcia indietro sulla concessione della sala consiliare, ha scritto che «a microfoni spenti ed accesi» nella seduta del 30 giugno «c’è stata una chiara strumentalizzazione della presentazione del libro come attestazione di identità di una parte politica».Forse una parola chiarificatrice arriverà dal segretario del Pd, Walter Veltroni, cui Antonio Carioti ha scritto ricordando un incontro di molti anni fa: «Svolsi il ruolo di moderatore in un dibattito cui partecipò anche lei. Si presentava nell’occasione il libro Fascisti immaginari, in cui Filippo Rossi e Luciano Lanna (attuale direttore responsabile del quotidiano di An Secolo d’Italia) avevano analizzato la cultura diffusa e i miti della destra nell’Italia repubblicana. Ricordo il suo intervento aperto al dialogo con un ambiente politico assai distante da quello cui lei appartiene».
Dino Messina

Pubblicato il 16.07.08 10:43

da lanostrastoria.corriere.it
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« Risposta #138 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:26:30 am »

CRONACA

Angelini, il re della sanità sull'orlo della bancarotta

Una vita tra quadri, tangenti e politica

Il Grande Elemosiniere con il culto del denaro

 

dal nostro inviato CARLO BONINI

CHIETI - Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma ora che la polvere degli arresti comincia a posarsi, è evidente che la chiave di questa storia, per ora abruzzese, è e resterà lui. Vincenzo Angelini. Il Grande Elemosiniere. E dunque: chi diavolo è davvero Vincenzo Angelini? Un bugiardo, un maligno e astuto mistificatore, che ha covato in silenzio una sapiente e artefatta vendetta, dicono gli uomini che da lunedì sono in carcere schiacciati dalle sue accuse.

"Un chiamante in correità soggettivamente attendibile - scrive il gip Michela Di Fine - che si risolve a raccontare delle pressioni e minacce degli amministratori pubblici, delle dazioni di denaro che gli ha corrisposto, con una scelta sofferta, spontaneamente maturata (...)". Per ragioni che nulla hanno a che vedere con l'etica, ma con un calcolo costi-benefici. Angelini parla "quando si vede "scaricato"".

L'alternativa secca, così come proposta dalle parti processuali, liquida la storia che è in mezzo e gli indizi che propone. Quella di un cinquantaseienne psichiatra di provincia che nella vita, a un certo punto, ha una fortuna e un'intuizione. Angelini ha ereditato dal padre Guido (cui è intitolato lo stadio della città) una clinica di Chieti, "Villa Pini". Una struttura piccola, che tale resta fino a quando non sposa Annamaria Sollecito, psichiatra come lui e, soprattutto, figlia di Antonino Sollecito, direttore sanitario dell'ospedale di Chieti.

Improvvisamente, infatti, da quella struttura sanitaria pubblica, con la diagnosi di "disturbi psichici del comportamento", cominciano ad uscire legioni di pazienti per essere trattati in convenzione a "Villa Pini". A Chieti, prima, e presto in tutto l'Abruzzo, diventa un modo di dire: "Sei un tipo da villa Pini". I pazzi in quanto tali, ma soprattutto dichiarati tali, crescono con ritmi esponenziali e "Villa Pini" diventa un'altra cosa. Un gioiello di sanità privata alimentata da denaro pubblico. Un polmone che pompa centinaia di milioni di euro nella "Novafin", la cassaforte di famiglia, mentre le strutture raddoppiano e alla "Villa Pini" si affianca la "Sanatrix".

Solo Vincenzo Angelini resta quello di sempre. L'uomo è afflitto - come racconterà anche a verbale ai magistrati - da una costante e invasiva forma di diffidenza per l'umanità che lo circonda, che sfocia spesso in paranoia. Del prossimo dice: "Ogni uomo ha un prezzo, bisogna solo stabilire qual è". Perché per misurare il prossimo usa se stesso e ciò che governa i suoi umori: il denaro. "Sono uno spendaccione, lo sanno anche in Tibet", dice ai pubblici ministeri che lo interrogano per giustificare goffamente 120 milioni di euro distratti negli anni dalle casse della "Novafin" e spesi o spostati chi sa come e chi sa dove (in almeno un caso, accertato dalla Procura, nelle piazze off-shore del Delaware e delle Cayman).

Ma il "Tibet" come la passione per i quadri (raccolti in una collezione che si dice pochi hanno avuto il privilegio di contemplare) è un eufemismo che nasconde un rapporto con il denaro e la ricchezza parossistico. Per dire: finché non li lascia per trasferirsi nella vecchia casa al mare di famiglia, a Francavilla, abita 2 mila metri quadri di attico e superattico (settimo e ottavo piano) in viale Europa 5, cuore residenziale di Chieti, che trasforma in una fortezza di lusso ostentato. Almeno due berline con autisti all'ingresso, marmi di Carrara, vasca idromassaggio, giardino pensile. Al terzo piano del palazzo mette a vivere il suocero e ai vicini che, un giorno, chiedono il perché dell'arrivo di decine di telecamere e maxischermi di cui affolla il condominio, spiega che la sicurezza non è mai troppa. Intanto munge le casse del bilancio regionale per un'ottantina di milioni di euro, vantando crediti per altri 110.

Angelini è ossessionato da telecamere, cimici, registrazioni nascoste. Ne riempie anche le sue cliniche, dove non c'è sussurro o passo del personale e dei pazienti che non venga scrutato. Arriva ad usarle con un prete "sindacalista" che incrocia nelle corsie. Conserva e registra metodicamente "a futura memoria" tutto ciò che ritiene possa tornare utile un giorno (contabili bancarie, numeri di cellulari riservati, come quello di Del Turco, scontrini autostradali, agende). Lo fa, appunto, con Del Turco, con Quarta. Con chi li ha preceduti. Con tutti coloro cui - dice - deve "baciare la pantofola", fare "l'uomo di dozzina". Anche se, per quel che oggi è agli atti dell'inchiesta, lo fa solo in parte, lasciando improvvisamente e curiosamente bui (nessuna registrazione, nessun video) i momenti chiave delle "dazioni" milionarie cui sarebbe stato costretto.

In uno degli interrogatori, i pubblici ministeri chiedono spiegazioni di questo "vuoto". Soprattutto, domandano: "Come mai, non è venuto prima in Procura? Avrebbe risparmiato dei soldi e avrebbe lasciato fare il lavoro tecnico alla polizia giudiziaria". Angelini si smarca dicendo che lui è fatto così. Che neppure della Procura poteva fidarsi, perché "gli era stato detto che era in mano a quelli là", i potenti della Regione. E quasi lascia intendere che le foto alla casa di Collelongo, alle mazzette, potrebbero non aver esaurito il suo archivio. Ma, ora, forse sa anche lui che non è più padrone del gioco. La Procura gli era arrivata addosso quando ancora non lo immaginava e lo voleva dentro già con Del Turco. E se un giorno il gruppo dovesse fallire (da tre mesi nelle sue cliniche non si pagano gli stipendi), la sua sorte di bancarottiere è segnata.

(19 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #139 inserito:: Luglio 21, 2008, 02:52:48 pm »

21/7/2008  - INCHIESTA

Rotelli, il Re delle cliniche e lo scivolone sui rimborsi
 
Milanese, è a capo del primo gruppo ospedaliero in Italia

FRANCESCO MANACORDA


Per farlo innervosire - lui che solitamente è persona affabilissima - bastano tre paroline: «Re delle cliniche». Il professor avvocato Giuseppe Rotelli non ama infatti che il suo impero sia confuso con il circoscritto mondo delle cliniche private, sebbene proprio sulla sanità privatizzata abbia costruito le proprie fortune. Basta comunque una scorsa ai dati del suo gruppo San Donato - «il primo gruppo ospedaliero in Italia» recita il sito aziendale - per essere investiti da una valanga di numeri che, cliniche o meno, ne confermano il ruolo forte nella Sanità italiana e centrale in quella lombarda. Ad esempio 2,2 milioni di pazienti transitati dai suoi 18 ospedali nell’anno appena passato, 4000 posti letto e cinque milioni di prestazioni ambulatoriali, quasi 10 mila dipendenti e 101 sale operatorie.... L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma la sostanza è che in mano al professore pavese di 63 anni - nato come giurista, cresciuto come esperto di diritto sanitario e dal 1980 trasformatosi in imprenditore rilevando l’attività paterna - c’è un impero che è al primo posto in Italia nella salute privata e addirittura, lo certifica una ricerca di Goldman Sachs, al quinto in Europa. Un impero che dall’iniziale lascito del padre Luigi cresce di colpo quando nel 2000 Rotelli rileva da Antonino Ligresti, ancora scottato dalla tragedia del Galeazzi, tre ospedali e due cliniche tra cui la celebre Madonnina. Oggi l’imprenditore fattura 725 milioni di euro ed ha ambizioni di crescita anche oltreconfine, visto che in queste settimane sostenuto da Intesa-Sanpaolo, è stato in gara per aggiudicarsi in Francia il gruppo Vitalià, titolare di ben 50 cliniche. Perché stupirsi di tanta forza, del resto, se come ama spiegare lui stesso, «la Lombardia è la seconda Regione più ricca d’Europa dopo l’Ile de France»?.

Ricca e anche generosa, visto che tra le attività del gruppo San Donato ci sono anche quelle nella cardiochirurgia infantile in Africa, di cui Rotelli ha appena festeggiato il quindicesimo anniversario, annunciando l’apertura di dieci centri nel continente. Altri numeri sono quelli che invece hanno attratto l’attenzione della Procura milanese che il 15 luglio ha chiesto e ottenuto il sequestro preventivo di 2 milioni di euro che la Asl di Melegnano avrebbe dovuto versare proprio al Policlinico San Donato. Questo perché il pm considera che che la stessa cifra sia stata conseguita dal gruppo di Rotelli come «ingiusto profitto», derivante dai reati di falso in atto pubblico e truffa aggravata. E del resto già da gennaio lo stesso Rotelli e altri dirigenti del suo gruppo sono indagati per presunti rimborsi gonfiati richiesti al servizio sanitario. Accuse, ovviamente respinte al mittente dal diretto interessato, che esprime fiducia di prammatica nella magistratura, ma ricorda anche come un’analoga inchiesta del 1992 si sia conclusa con la piena assoluzione di tutti gli imputati. Così come Rotelli respinge le critiche al sistema dei Drg, in pratica il tariffario delle prestazioni rimborsate dal settore pubblico agli operatori privati. Ne ha parlato pubblicamente a metà giugno, mentre esplodeva a Milano lo scandalo della clinica Santa Rita: «I Drg sono scelti dal singolo medico ed è lui che ne risponde. Non si deve criminalizzare un’intera categoria, una Regione o un modello». E ancora: «Il precedente modello era scandaloso. Le prestazioni si pagavano a “piè di lista”», mentre quello attuale «è virtuoso perché si paga la prestazione». L’imprenditore sa bene quello di cui parla, visto che le regole del sistema sanitario lombardo sono anche frutto del suo lavoro. Nel 1972 l’allora presidente della regione Lombardia Piero Bassetti lo chiama nel gruppo di esperti che dà vita all’ufficio legale della giunta regionale: ricopre per due mandati la presidenza del Comitato regionale per la programmazione sanitaria oltre a collaborare alla stesura del piano ospedaliero regionale del ‘74. Dunque, le regole che segue adesso il Rotelli imprenditore derivano da quelle norme che il Rotelli studioso ha contribuito a scrivere. Del resto è proprio nel sistema sanitario lombardo - vero marchio di fabbrica del governatore Roberto Formigoni - che il suo impero è saldamente radicato.

A parte un ospedale a Bologna tutti gli altri «stabilimenti ospedalieri» del gruppo sono in Lombardia. E anche qui i numeri spiegano perfettamente chi sia e quanto pesi Rotelli: sono suoi l’8% dei posti letto della regione, va nelle sue casse il 9,2% del valore di ricoveri, con punte che superano un quinto del totale - il 21,65 a essere precisi - in comparti quali la cardiochirurgia o l’ortopedia. La proprietà è privata - in testa a tutto c’è la holding Papiniano di cui Rotelli è amministratore unico - ma il fatturato di tutto rispetto viene in gran parte dalle casse pubbliche che pagano le prestazioni convenzionate. Inevitabile, in questa situazione, coltivare rapporti con la politica. Negli Anni ‘80 era vicino a Bettino Craxi, «un uomo molto intelligente, ma il suo grande difetto fu la mancanza di morale», ha detto proprio a La Stampa. Adesso sta ben attento a non farsi marchiare politicamente anche se è oggettivamente legato alla giunta Formigoni. Del resto il modello lombardo secondo Rotelli si può migliorare ancora, e molto. In maggio, appena entrato in carica il governo Berlusconi, ha pubblicato un intervento sul Sole 24 Ore nel quale spiega che «per la Sanità è tempo di iniziative serie e concrete, dopo un lungo periodo di chiacchiere ispirate a visioni ideologiche e propagandistiche». Novità che, secondo l’imprenditore, dovranno essere sostanzialmente la trasformazione degli ospedali in società per azioni «pur mantenendone la proprietà totalmente pubblica» anche in modo da «adottare modelli di organizzazione più flessibili, più adatti alla competizione, abbandonando l’uniformità imposta dal principio di legalità, che imprigiona la Pubblica amministrazione». E poi, spiega, serve un rinnovamento profondo delle vecchie strutture ospedaliere, visto che «oltre il 60% dei 750 ospedali italiani ha più di 60 anni». La soluzione, qui, sarebbe il «project financing», nel quale i privati si accollano le spese e «consentirebbe anche la gestione economica di alcuni ospedali che per i successivi 30 anni potrebbero essere gestiti dai promotori».

Accanto al Rotelli imprenditore e a quello che programma le politiche pubbliche c’è poi una terza e più recente incarnazione. Il Rotelli editore, già coinvolto nell’avventura della Voce di Indro Montanelli e che adesso, raccattando dal Banco Popolare i resti della disastrosa avventura di Stefano Ricucci dalle parti di via Solferino, ha messo insieme una quota - tra partecipazione effettiva e opzioni d’acquisto - che lo proietta al secondo posto tra i soci della Rcs con quasi l’11%. Sarà l’anticamera obbligatoria all’ingresso nel tempio dei «poteri forti» finanziari, ci si interroga da mesi a Milano? No, è pura passione per l’editoria, assicura lui che però a causa di quella passione e del crollo dei titoli Rcs ha perso finora perso 200 milioni. E mentre risponde gentilissimo alle curiosità dei cronisti senza mai schierarsi per l’uno o l’altro dei grandi protagonisti della finanza - in primis Giovanni Bazoli - ai quali lo si vorrebbe vicino, le sue cliniche - pardon, ospedali - continuano a fatturare e l’impero della sanità «made in Lombardia» a crescere.

da lastampa.it
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« Risposta #140 inserito:: Luglio 21, 2008, 02:57:13 pm »

21/7/2008
 
Immunità dei politici? Sì, però
 
 
MICHELE AINIS

 
L’immunità della politica non è la prima emergenza nazionale. Però in quest'avvio di legislatura ha guadagnato la ribalta, oscurando ogni altra questione sotto una nube di veleni. Tanto vale dunque prendere il toro per le corna, cercando una soluzione duratura. Significa che dovremmo smetterla di ragionarci sopra indossando una casacca, una maglietta da tifoso, quella dei giudici o quella dei giudicati. E perciò significa in primo luogo riconoscere che l'immunità non è affatto un privilegio odioso, un salvacondotto per i briganti seduti in Parlamento. È odiosa casomai la modalità con cui il nostro ordinamento ne disciplina l'uso, la regola schizoide che protegge una quota degli eletti cacciando all'inferno l'altra quota.

D'altronde non è un caso se tale speciale protezione viene assicurata da tutte le democrazie di questo mondo. Quanto all'irresponsabilità per le opinioni espresse in Parlamento, la sua prima origine risale nientemeno che all'Inghilterra del 1397, durante il regno di Riccardo II. L'immunità dagli arresti prende invece corpo nella Francia rivoluzionaria, con un decreto del 26 giugno 1790, dopo l'incriminazione del deputato Lautrec. In ambedue le fattispecie l'inviolabilità delle assemblee legislative servì a difenderne l'indipendenza, o meglio la libertà rispetto a persecuzioni politiche intraprese con strumenti giudiziari. In altre parole, la garanzia protegge la funzione, non i singoli. Ecco perché essa è sempre irrinunciabile, come il Parlamento subalpino chiarì fin dal 1854. Ed ecco perché non sta né in cielo né in terra la rinunciabilità inventata dal Lodo Alfano: un'invenzione che davvero trasforma la prerogativa in privilegio.

Ma non è tanto di questo che si tratta. Nel 1947 i costituenti disegnarono un sistema equilibrato, che ruotava attorno all'autorizzazione a procedere, concepita quale antidoto al fumus persecutionis. Sicché il diniego - disse nel 1988 la Giunta del Senato - va espresso contro ogni azione penale persecutoria, «per il tempo e le modalità del suo esercizio ovvero per la sua manifesta infondatezza». Poi, sotto il vento di Tangentopoli, nell'autunno del 1993 i casi sottoposti ad autorizzazione subirono una robusta sforbiciata. Non senza incongruenze, giacché al contempo fu introdotto il preventivo assenso delle Camere per intercettare un loro membro, che è un po' come se il marito avvisasse la consorte che il giorno dopo la sorprenderà in flagranza d'adulterio. Passa ancora qualche anno, e nel 2001 la riforma federalista eleva alla massima potenza il ruolo dei presidenti regionali, senza però dotarli di alcun ombrello protettivo. Il resto è cronaca di oggi: il lodo Alfano, col suo scudo di ferro per quattro uomini delle nostre istituzioni.

Il risultato di tutti questi aggiustamenti in corso d'opera è un sistema sbilenco e strampalato. Rende signori della legge i presidenti delle Camere, ma lascia esposti all'abuso giudiziario quelli regionali, che nelle loro venti repubblichette sommano le funzioni di capo di Stato e di governo. Senza dire del sindaco di Roma o di Milano, che pesa ormai come un ministro, ma non ha le garanzie riconosciute ai consiglieri del Molise. Serve dunque, in primo luogo, recuperare un'omogeneità di trattamento. E serve in secondo luogo riesumare la vecchia autorizzazione, depurandola però dalle storture che ne viziavano la resa ai tempi della prima Repubblica. Perché allora non c'era neanche un termine per rispondere alle domande della magistratura, tanto che fin dalla I legislatura ne vennero insabbiate 215 su 530. Ma soprattutto perché mancava la distinzione fra controllante e controllato. Da qui la prassi corporativa del diniego di autorizzazione (186 casi su 229, nella legislatura precedente la riforma), anche per reati come gli assegni a vuoto o la sfida a duello. Da qui, in conclusione, l'esigenza di affidare ogni valutazione sul fumus persecutionis a un organo terzo, né giudiziario né politico. Del resto quest'organo c'è già, e ha sede alla Consulta. Diamogli quest'altra competenza, e non ne parliamo più.

micheleainis@tin.it
 
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« Risposta #141 inserito:: Luglio 22, 2008, 11:53:54 pm »

Le immunità negli altri Paesi


Le legislazioni sull'immunità per le più alte cariche dello Stato e per i parlamentari nei maggiori Paesi occidentali sono molto variegate. Ecco in sintesi cosa è previsto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia e Germania in materia di immunità.

STATI UNITI - Il principio di base negli Stati Uniti è che nessuno è al di sopra della legge. Anche il presidente può essere messo in stato di accusa, attraverso lo strumento dell' impeachment, qualora venga sospettato di avere commesso gravi crimini nell'esercizio delle sue funzioni. Nella storia Usa solo due presidenti sono stati comunque sottoposti ad impeachment: il repubblicano Andrew Johnson (nel 1868) e il democratico Bill Clinton (1999). Il presidente Richard Nixon era stato a sua volta impegnato in un braccio di ferro con la Corte Suprema, per la consegna delle registrazioni fatte nello Studio Ovale, ma si era dimesso prima che si giungesse ad un verdetto. Il presidente ha a sua disposizione lo strumento del ‘privilegio dell'esecutivo' che lo protegge dal fornire informazioni che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. George W. Bush ha fatto ampio uso di questo privilegio rifiutandosi, ad esempio, di consegnare al Congresso documenti riguardanti il suo vice Dick Cheney ed il suo ex consigliere Karl Rove.

GRAN BRETAGNA - In una monarchia costituzionale come il Regno Unito, l'immunità è garantita solo al Re o alla Regina, perché storicamente è dal sovrano che emana lo Stato, ed è lui (o lei) che crea i tribunali «per proteggere il popolo». Dopo il Crown Proceedings Act del 1947, è possibile portare in tribunale il governo (che è il governo della regina), ma in nessun caso la sovrana, per qualsiasi sua attività. Da qui l'espressione ‘The Queen can do no wrong' (la regina non può far nulla di sbagliato). L'immunità non riguarda gli altri membri della famiglia reale o gli esponenti di governo. I parlamentari sono immuni, per il tempo che restano in carica, dalle denunce per diffamazione o vilipendio, ma sono perseguibili per ogni altro reato, senza autorizzazione del Parlamento.

GERMANIA - Il presidente della Repubblica federale tedesca e tutti i membri del Parlamento, incluso il presidente del Bundestag, godono dell'immunità contro eventuali procedimenti legali. L'immunità può essere revocata solo dal Parlamento, anche nel caso del presidente della Repubblica, il quale non è membro del Parlamento. Tutte le altre cariche, incluso il cancelliere ed i suoi ministri, non godono dell'immunità, a meno che non siano allo stesso tempo membri del Parlamento. Il presidente della Corte Costituzionale tedesca non gode di alcuna immunità.

FRANCIA - La protezione di cui gode il presidente della Repubblica francese dall'accusa di aver commesso reati è stata rafforzata dalla riforma voluta da Jacques Chirac al termine del suo mandato, l'anno scorso. Il Parlamento in seduta congiunta (si chiama allora Alta Corte) può votare a maggioranza dei 3/5 l'impeachment del presidente nel caso di gravi mancanze incompatibili con la sua funzione o per alto tradimento. Per il resto, l'immunità quasi totale è garantita da una legge costituzionale che riguarda non solo indagini penali, ma anche iniziative amministrative. L'immunità dura fino ad un mese dopo la scadenza del mandato. Per i parlamentari vige il principio di ‘irresponsabilita', nel caso di atti compiuti nell'espletamento delle proprie funzioni. Per quanto riguarda invece tutti gli atti suscettibili di denuncia penale commessi al di fuori dei propri poteri di deputato o senatore durante il periodo in cui si è in carica, è prevista l'immunità, ma dagli anni '90 il cosiddetto ‘regime di inviolabilita' è stato ristretto in quanto non protegge più dall'apertura delle inchieste da parte della magistratura. Le autorizzazioni a procedere sono automatiche per la flagranza di reato e in caso di condanne definitive nel corso del mandato si procede direttamente all'arresto.


Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 20.00   
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« Risposta #142 inserito:: Luglio 24, 2008, 06:49:52 pm »

Per il diritto a non Morire

Cesare Damiano


La settimana scorsa si sono commemorate le vittime del Molino Cordero di Fossano, in provincia di Cuneo. Cinque lavoratori persero la vita a seguito dell´esplosione del Molino, con una tragica sequenza di morte.
Era il 16 luglio del 2007 quando avvenne la tragedia, ricordata con una iniziativa alla quale hanno partecipato, ad un anno di distanza, i familiari delle vittime con la loro Associazione "16 luglio 2007: per non dimenticare", i cittadini di Fossano, le forze politiche e sociali.

Sabato scorso, a Campello sul Clitunno, i familiari delle vittime dell´esplosione della «Umbria Olii», hanno promosso una fiaccolata per ricordare la morte di quattro lavoratori, morti due volte dopo la richiesta dell´azienda di risarcimento dei danni rivolta ai familiari delle vittime, bambini compresi. Due luoghi distanti, ma simili e vicini. Quel Molino squarciato dal terribile scoppio; quei silos esplosi e scaraventati verso il cielo. Due scenari di guerra. Vere stragi sul lavoro, dietro le quali si celano delle persone, dei volti, delle famiglie disperate, dei nomi: Valerio Anchino, Marino Barale, Antonio Cavicchioli, Massimiliano Manuello, Mario Ricca, a Fossano; Giuseppe Coletti, Maurizio Manili, Tullio Montini, Vladimir Toder, a Campello. Ero presente a quelle due cerimonie, partecipe di quel dolore, e ho ritrovato il filo comune che unisce questi tragici eventi: la voglia di non dimenticare, di non permettere che il tema del lavoro ritorni nel silenzio e nell´oblio dal quale ci eravamo illusi di averlo sottratto, dopo una breve ma intensa stagione di iniziative politiche, sociali e culturali che lo avevano nuovamente posto all´attenzione del paese nella sua dimensione soggettiva e collettiva. Pensioni migliori, tutele nel mercato del lavoro, stabilità, ammortizzatori sociali, lotta contro il lavoro nero e la precarietà, sicurezza nei luoghi di lavoro. Tutti questi argomenti sono stati oggetto di una lunga e difficile concertazione e hanno prodotto risultati importanti : il protocollo del 23 luglio 2007 e il Testo Unico sulla Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ci hanno confortato in questi ultimi anni i continui richiami del Presidente della Repubblica sul valore della vita e sull´esigenza di proteggerla nei luoghi di lavoro. Abbiamo visto primi miglioramenti, anche se ancora insufficienti, scorrendo le statistiche dell´INAIL. Nel 2006, secondo i dati dell´Istituto, sono morte 1341 persone e 1210 nel 2007: una diminuzione del 10%, anche frutto dell´intesa tra governo e parti sociali sulle norme che hanno consentito di combattere il lavoro nero e aumentare la sicurezza. Anche se una sola morte sul lavoro rappresenta un dolore per una famiglia, per una comunità aziendale, per un territorio.

Pensiamo che per ricordare in modo degno ed adeguato tutte le vittime occorra non abbassare la guardia nella lotta al lavoro nero e alla precarietà; applicare le norme contenute nel Protocollo sul Welfare del 23 luglio 2007 e nel Testo Unico sulla Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro, contro i tentativi di dilazione e manomissione operati dal Governo Berlusconi; attuare la delega sui lavoro usuranti, entro il 31 dicembre di quest´anno, come previsto da un ordine del giorno votato da tutto il Parlamento. Vogliamo sostenere l´iniziativa promossa da «Articolo 21» insieme a molte associazioni e cittadini per promuovere una «carovana per il lavoro sicuro», che colleghi idealmente i luoghi coinvolti negli eventi tragici più recenti che ci vengono alla memoria: Fossano, Campello sul Clitunno, Molfetta, Marghera, Torino, Mineo e Casale (da ricordare per le numerosi morti causate dall´amianto). Percorriamo insieme questi luoghi, uniamoli con altri luoghi che vogliano ricordare, organizzando incontri, eventi, dibattiti: manifestazioni capaci di unire lavoratori, amministratori locali, forze politiche, sociali, culturali e dell´informazione, perché la sicurezza è un diritto dei lavoratori e una nazione che voglia essere civile deve sapere che il lavoro è innanzitutto difesa della vita.

Pubblicato il: 24.07.08
Modificato il: 24.07.08 alle ore 10.28   
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« Risposta #143 inserito:: Luglio 25, 2008, 10:12:50 am »

Di Pietro: «raccolta firme per abrogare questa legge immorale»

L'Unità critica Napolitano: «Disagio»

Veltroni: «No, il suo era un atto dovuto»

Editoriale del direttore Padellaro contro il lodo Alfano: «Ci sono 4 cittadini più uguali degli altri»


 
MILANO - Disagio. Il direttore del quotidiano L'Unità, Antonio Padellaro, usa questa parola per descrivere l'imbarazzo nei confronti del presidente Giorgio Napolitano in merito alla firma apposta al lodo Alfano. «Non saremmo sinceri se nascondessimo il nostro forte disagio per la norma sull'immunità delle quattro più alte cariche dello Stato dietro il rispetto formale per l'istituzione che ne ha convalidato il testo o nell’attesa di una decisione successiva - scrive Padellaro nel corsivo intitolato 'Caro presidente' -. Da oggi dunque ci sono quattro cittadini più uguali degli altri e tutto per consentire a uno solo, e sappiamo a chi, di non essere più sottoposto ai dettami della giustizia, come un sovrano senza limiti. Caro presidente - scrive ancora il direttore dell'Unità - siamo convinti che lei troverà il modo e le parole per rispondere anche a questo largo malessere. In nome dell’unità nazionale che lei rappresenta e che qualcuno cerca di calpestare per esclusivi interessi personali, gliene saremo grati».

VELTRONI - Nel tardo pomeriggio, dopo numerose reazioni all'editoriale dell'Unità, arriva il commento di Walter Veltroni. «Quello del Capo dello Stato - spiega il segretario del Partito democratico in una nota - è un atto dovuto. «Sono convinto che il presidente Napolitano - afferma Veltroni - in tutta la vicenda del cosiddetto 'lodo Alfano' abbia svolto con il consueto equilibrio il suo compito in una fase certamente non facile Così come penso che, dopo l’approvazione delle Camere, la firma del provvedimento sia stata un atto dovuto». «Al Presidente nella nostra costituzione - prosegue il leader del Pd - viene riservato in casi come questo una sola valutazione di "manifesta incostituzionalità" del provvedimento. E in questo caso il testo approvato teneva conto di molti dei rilievi di costituzionalità sollevati dalla Corte in occasione della precedente bocciatura di quello che allora si chiamava lodo Schifani». «Manteniamo questa ferma convinzione sull'operato del Presidente, senza con questo rinunciare - chiarisce Veltroni - in alcun modo al nostro giudizio negativo sul lodo Alfano, e anche all'idea che, una materia di questa delicatezza, la maggioranza avrebbe fatto bene ad affrontarla con una legge costituzionale e non con un provvedimento ordinario fatto approvare in maniera tanto frettolosa da apparire autoritaria».

DI PIETRO: REFERENDUM - Nello schieramento di centrosinistra L'Unità trova invece un alleato in Antonio Di Pietro. Il leader dell'Idv già 'a caldo' aveva parlato di «legge immorale e incostituzionale», e poi ha annunciato che il suo partito raccoglierà le firme per farla abrogare. «È immorale che quattro persone possano commettere ogni tipo di crimine e non possano essere processate. Penso che chi è al governo dovrebbe essere processato prima di essere eletto, non dopo».

CICCHITTO: GUINZAGLIO DI PIETRO - Spara a zero il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto: «Il fatto che Di Pietro dia una valutazione negativa del lodo Alfano è già di per sé una dimostrazione della bontà della legge. Poi attacca anche il presidente della Repubblica e questo è significativo. In terzo luogo, vedremo cosa ci aspetta in futuro: se Veltroni riuscirà a togliersi il guinzaglio che finora gli ha messo Di Pietro».

CAPEZZONE: «SCONCERTANTE» - «È davvero sconcertante la sintonia de L'Unità, di Di Pietro e di frange del Pd nell'esprimere attacchi immotivati e gravi contro il presidente della Repubblica - commenta Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia -. C'è da pensare che il presidente Napolitano, agli occhi di qualcuno, sia colpevole di esercitare al meglio le sue funzioni di garanzia, e di usare la sua moral suasion per rendere degni di un paese normale i rapporti tra politica e magistratura. E invece questi sono altrettanti meriti del capo dello Stato. A meno che qualcuno non speri, prima o poi, di trasferire il Quirinale a piazza Navona».



24 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #144 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:18:19 am »

Minniti: «Urla e allarmi per coprire il loro fallimento»

Luca Sebastiani


Di emergenza in emergenza, una cosa è certa, prima o poi la «bolla speculativa sulla sicurezza esploderà». Marco Minniti, ministro ombra degli Interni, è infatti convinto che la «strategia dell’allarmismo» della maggioranza prima o poi si rivelerà un «boomerang». Perchè su un tema come quello della sicurezza, «il governo corre i cento metri, quando invece bisognerebbe correre un mezzo fondo». Alla fine, sul medio periodo «c’è la prova», ci sono i dati che finiranno per smascherare l’inefficacia di questa destra che «urla per coprire le proprie contraddizioni».

Minniti, però intanto il governo ha decretato lo stato d’emergenza. C’era questa necessità?
«È solo una bufala. Basta leggere il comunicato del Viminale e poi ascoltare le dichiarazioni della maggioranza. Da una parte c’è un testo che spiega come in realtà si tratti della proroga e dell’estensione di un provvedimento che già c’era per tre regioni. Dall’altra parole allarmastiche e la solita politica dell’annuncio».

Eppure secondo i dati gli sbarchi sembrerebbero in aumento. È realmente un’emergenza?
«I dati parlano di un quadro simile a quello degli altri paesi europei che si confrontano su questa questione. Non c’è un caso Italia in Europa».

Perchè allora questo allarmismo per l’aumento degli sbarchi?
«Perchè è la parte più visibile dell’immigrazione, anche se minoritaria. E poi per coprire quella che è già una sconfitta alla loro politica ideologica sull’immigrazione. Gli sbarchi sono aumentati proprio quando al governo c’è la destra. E questo dimostra che la durezza dei simboli non ha alcuna validità di deterrenza, che non è certo la dichiarazione infuocata di un Calderoli che potrà bloccare un immigrato che mette in gioco la propria vita. La loro è solo politica dell’annuncio».

Cioè?
«La destra fa un annuncio che aumenta l’insicurezza nel paese, e poi ne fa un’altro che la rilancia ulteriormente. Come se si fosse in una perenne campagna elettorale. Con la paura puoi vincere le elezioni, ma non puoi governare. Altrimenti si entra in un circolo vizioso e, direi, pernicioso. Perchè al di là degli annunci, ci sono le cose concrete che tornano indietro come un boomerang».

E qual è la reale politica di questo governo in tema d’immigrazione?
«Una politica inefficace. Perchè rispetto ad un problema comune all’Ue come quello dell’immigrazione, il governo conduce una forte iniziativa solitaria ed eccentrica rispetto ai nostri partner europei. Penso ad esempio al caso delle impronte prese ai bimbi rom. Bisognerebbe agire a livello comunitario e attraverso la cooperazione. E invece si fa una politica completamente ideologica. Si introduce l’aggravante di clandestinità che complica le cose e fa un unico fascio di badanti e delinquenti. La stessa Bossi-Fini non è solo una bandiera da brandire, senza alcun effetto».

Cortine fumogene insomma. Per nascondere cosa?
«Sullo sfondo dell’emergenza decretata dal governo rimane un paese in piena crisi economica con gli stipendi più bassi d’Europa e i problemi reali derubricati in secondo piano. Rimangono i tagli».

Quelli alla sicurezza?
«Più che di tagli bisognerebbe parlare di un vero colpo di scure. I 3,4milardi in meno rischiano infatti di compromettere le capacità funzionali e operative del comparto sicurezza».

Cosa vuol dire concretamente?
«Tra i 6 e gli 8mila uomini in meno in un organico già in deficit. Meno mezzi e meno soldi per gli straordinari. E poi la cosa più dolorosa, lo slittamento sine die della questione contrattuale. Oggi il 60% dei militari guadagna meno di 1.200 euro al mese. L’unico risultato che ha ottenuto il governo è stato di riunire tutti i sindacati e i Cocer su una piattaforma comune. Non era mai successo».

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.55   
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« Risposta #145 inserito:: Luglio 27, 2008, 10:57:39 am »

27/7/2008
 
Mercati senza privacy
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Nella filosofia politica classica inglese il diritto alla privacy è concepito principalmente come difesa dell’individuo dal potere dello Stato.
Nella sua prima formulazione sistematica, ad opera dei giuristi americani Samuel Warren e Louis Brandeis nel 1890, il diritto alla privacy è definito conseguentemente in modo minimale: come il diritto «di essere lasciati in pace» - «to be let alone». Da allora l’interpretazione del concetto di privacy è stata estesa enormemente dalla pratica giuridica americana come da quella europea.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la Corte Suprema ha basato sul diritto alla privacy la legislazione riguardante i matrimoni interrazziali e l’aborto.

Il diritto alla privacy non è però saldamente riconosciuto come un diritto individuale inalienabile, alla specie ad esempio della libertà di pensiero. Alcuni giuristi ed economisti ritengono che il controllo di un individuo riguardo alla disseminazione di informazioni anche private che lo riguardano possa tendere in generale a ledere gli interessi di altri individui. Questo sarebbe il caso, ad esempio, di un professionista che nasconda ai propri clienti aspetti della sua vita privata dalla conoscenza dei quali essi potrebbero essere indotti a dubitare della sua onestà professionale.

Più generalmente, abbondano gli esempi di situazioni nelle quali limitazioni al diritto di privacy sono naturalmente richieste dai mercati nei confronti di coloro che esercitano posizioni pubbliche. Si pensi all’amministratore delegato di una società quotata in Borsa che rende pubblico il proprio portafoglio finanziario e al politico che garantisce accesso alla propria cartella clinica. Un amministratore di una società quotata che nasconda i propri interessi finanziari privati agli azionisti vedrà cadere il valore di mercato della società. Gli azionisti assumeranno che egli stia riducendo i propri interessi nella società stessa, possibilmente sulla base di informazioni private sfavorevoli sulla sua profittabilità: se le sue informazioni fossero favorevoli, l’amministratore non avrebbe infatti alcun incentivo a nascondere le proprie posizioni finanziarie. Si comprendono così anche le recenti pressioni dei mercati finanziari per meglio conoscere lo stato di salute di Steve Jobs, presidente di Apple Computers, considerato uno dei principali artefici del successo della società. Si comprende anche il crollo di Apple in Borsa in seguito al tentativo della società stessa di difendere la privacy del presidente. La gravità di questa situazione va oltre gli effetti economici di una eventuale malattia di Steve Jobs, perché alimenta il rischio di manipolazione del valore di mercato della società da parte di coloro che hanno informazioni private sulla sua salute.

La trasparenza delle attività degli amministratori delle società quotate in Borsa è generalmente richiesta per legge in quei paesi il cui codice civile maggiormente protegge gli investitori. L’intervento legislativo è giustificato in quanto il sistema giudiziario e le istituzioni incaricate del controllo del mercato dei capitali sono più facilmente nelle condizioni di monitorare le attività degli amministratori che non i singoli azionisti. Ma in un mercato finanziario competitivo ed efficiente, sono gli stessi operatori che hanno interesse a «legarsi le mani» per legge in modo da garantire gli investitori e così da limitare l’eventuale sconto dei valori delle proprie aziende sulla base di infondate aspettative negative. La questione non è affatto diversa per quanto riguarda la politica.

L’interesse degli uomini politici alla propria privacy è infatti chiaramente in opposizione all’interesse degli elettori ad essere informati riguardo ai rappresentanti alla gestione del bene pubblico. Non si vede ragione alcuna per cui l’interesse degli elettori dovrebbe riguardare solo l’attività politica in senso stretto dei propri rappresentanti e non debba includere, ad esempio, le loro attività economiche, le loro condizioni di salute, così come i loro comportamenti privati qualora essi rivelino aspetti rilevanti della loro condotta morale. Come però in ambito finanziario sono i mercati a richiedere trasparenza, così spetta agli elettori penalizzare quelli tra i politici che nascondano i propri interessi economici e privati dietro al diritto alla privacy. Se così si comportassero gli elettori, non sarebbe nell’interesse di alcun politico richiedere mezzi per poter meglio esercitare controllo sulle funzioni di una magistratura ed una stampa che attentino alla loro privacy.
 
da lastampa.it
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« Risposta #146 inserito:: Luglio 31, 2008, 03:15:54 pm »

L'ALTA  CORTE TEDESCA BOCCIA DIVIETO NEI LOCALI

FUMO "VERBOTEN" E' INCOSTITUZIONALE

 
Il divieto di fumare nei locali pubblici come birrerie e discoteche e' incostituzionale perche' minaccia la sopravvivenza degli esercizi piu' piccoli che non possono dotarsi di una sala fumatori. Lo ha stabilito questa mattina la Corte Costituzionale tedesca, che ha accolto il ricorso di due proprietari di birrerie di Berlino e Tubinga e quello del titolare di una discoteca di Heilbronn.

La sentenza impone alle autorita' della citta'-Stato di Berlino e del Baden-Wuerttemberg di rivedere la legge entro il 2009.

Nel frattempo gli attuali divieti di fumare resteranno in vigore. I ricorrenti avevano lamentato una forte diminuzione del loro fatturato e la discriminazione subita dai loro locali, che disponendo di un unico ambiente non potevano offrire una sala fumatori ai clienti. Negli altri 14 laender tedeschi fumare resta "verboten" in ristoranti e birrerie, con il divieto applicato con norme differenti in ogni singolo Land.

La decisione dei giudici di Karlsruhe incoraggera' altri proprietari a presentare ricorso alle autorita' locali.

In Sassonia, nello Schleswig-Holstein e nella Renania-Palatinato i giudici hanno gia' abolito il divieto di fumare nei locali con un unico ambiente, a patto che a servire le bevande siano i proprietari stessi. Il primo luglio dell'anno scorso il divieto di fumare nei locali pubblici e' stato adottato anche dall'ultimo dei 16 Lander tedeschi. E nel quarto trimestre del 2007, in un Paese in cui un adulto su tre fuma, il fatturato di discoteche e birrerie e' diminuito del 14%, e quello dei ristoranti hanno subito un calo degli incassi del 6,3%.

da  (AGI) - Berlino, 30 lug. -
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« Risposta #147 inserito:: Agosto 03, 2008, 07:56:04 pm »

3/8/2008 (7:29) - L'INTERVISTA

"Seviziato come un animale"
 
Libero dopo un anno il torinese arrestato alle Seychelles: "mi hanno picchiato tutti i giorni"


LODOVICO POLETTO

TORINO


Il primo caffè da uomo libero è al bar del terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa, alle 18,20 di ieri. «Finalmente in Italia. Finalmente via da quell’inferno maledetto» dice. Telefonata rapida a nonna Bianca: «Tutto bene, tra poco sono lì». E poi uno sfogo fatto di lacrime e silenzi.

Capelli lunghi legati in una treccia, pizzetto, T-shirt, jeans e sandali neri: eccolo qui Federico Boux, 33 anni domani, il ragazzo torinese arrestato un anno fa alle Seychelles dove si era trasferito con la famiglia. Un anno di galera, durissima. Pestaggi, vessazioni. E tutto per 6 dosi di eroina, trovate nella sua automobile. «Droga non mia» ripete come in una litania, raccontando una storia che ha il sapore della congiura. Due anni in attesa di un processo che non veniva mai. Poi, il suo avvocato di Torino, Domenico Peila, ha giocato d’astuzia. E alla fine Federico è finito in un’aula di tribunale.

Ovviamente c’è stata la condanna, ma a tempo di record è arrivata anche l’espulsione. Tre anni per la droga e poi subito via: imbarcato sul volo in partenza ieri mattina da Mahè che, dopo 9 ore di volo, è atterrato in Italia. Milano. Casa.

Federico, la prima domanda è ovvia: ma quella droga era sua?
«Ma cosa dice? Io non ho mai usato stupefacenti. Mi hanno incastrato per togliermi di mezzo, per una complicata storia di interessi ed affari. Insomma: togliendo di mezzo me hanno tolto di mezzo anche i miei genitori».

Vuole raccontarla?
«Ci eravamo trasferiti laggiù per lavoro. Avevamo un ristorante in società con un altro. I miei genitori ci hanno rimesso un sacco di soldi perché sono stati incastrati da quel tipo. E adesso sono in causa con lui».

Scusi, ma lei non ha mai sospettato nulla, non ha mai temuto nulla?
«E come no. Mia madre, Oriella, me lo ha detto mille volte di stare attento. Ma chi andava a pensare una cosa così».

E in carcere com’è stata? Le fotografie mandate con il telefonino la mostravano piena di lividi. L’hanno picchiata?
«Tante volte. Il carcere laggiù è durissimo: vivi in una condizione difficile. Con gente che non ha nulla da perdere».

Era con altri italiani?
«No, nel mio braccio non c’erano. I detenuti erano soltanto sei, tutti stranieri. Gli altri, però, erano tutti grossi trafficanti di droga. Tutta gente che è stata fermata con chili di stupefacente. Eroina, immagino. Roba pesante, per cui si rischiano anche trent’anni di reclusione laggiù».

E lei che c’entrava con quelli?
«Io? Niente di niente: e sono stato trattato come il peggiore dei delinquenti per una cosa che non ho mai fatto».

Com’era la sua cella?
«Guardi al mia cella era due metri per uno e mezzo. Un buco. Luce accesa tutto il giorno, e niente possibilità di respirare un po’ aria. Stare sempre lì dentro ti senti impazzire».

E le condizioni di vita?
«Indescrivibili. Pensi che nel braccio dov’ero rinchiuso non c’era neanche il bagno. Se avevi bisogno dovevi chiedere agli agenti di custodia di farti uscire. Ma lo sa quante volte quella porta, nonostante le mie insistenze, non è stata aperta? Una quantità infinita».

Tante botte?
«Ne ho prese tantissime, e pure molto spesso». I giornali delle Seychelles parlavano di violenza dei poliziotti in carcere.

Lei è mai stato picchiato da loro?
«Sì, purtroppo ho preso le botte anche da loro. Una volta o due, ma eravamo all’inizio della detenzione. Poi è accaduto anche dell’altro».

Cioè?
«Una volta, durante un trasferimento in auto, abbiamo avuto un incidente. Mi sono fracassato un dito, mi sono fatto male alla testa. Guarire è stato una tragedia».

E con gli altri detenuti?
«Sono stato picchiato da uno che era grosso, molto grosso. Ho provato a resistere. A cercare di fermarlo, ma quello mi ha fatto a pezzi. Ne ho subite di tutti i colori».

E non ha mai avuto paura di non uscire mai più da quell’inferno?
Scoppia a piangere adesso Federico. «Paura? Tutti i giorni che Dio mandava in terra ho avuto il terrore di non potermene andare da lì. Tutti i giorni ho pregato che accadesse il miracolo, che le porte del carcere si aprissero».

Qualcuno le è stato vicino?
«Mia madre, Oriella, sempre. Dalle Seychelles andava e veniva in continuazione. Non aveva più la residenza, perché avevamo perso l’attività, ma ha fatto i salti mortali per farsi fare i permessi di soggiorno turistici. E poi mio padre, Ezio. Verso la fine anche i poliziotti del carcere mi erano vicini, anche le istituzioni e il Console onorario. Tutti, insomma».

Che farà adesso?
«Adesso voglio soltanto dimenticare tutte le cose brutte che ho visto e che mi hanno fatto. Voglio portare in Italia la mia compagna, la sua bimba, e rifarmi qui una vita con loro. Soltanto questo. Niente altro».

Ma lei è sempre convinto che si è trattato di un complotto, una trappola quella che l’ha fatta finire in galera laggiù?
«Sempre. E lo dimostrerò».

da lastampa.it
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« Risposta #148 inserito:: Agosto 12, 2008, 10:42:21 pm »

La Caritas: «Questa politica dà sfogo ai peggiori istinti»

Sandra Amurri


Ha appena terminato di scrivere l’editoriale per il mensile Italia Caritas, don Vittorio Nozza, direttore di Caritas italiana, coscienza lucida, puntuale come la sua penna che con severità, spirito critico, forte senso di appartenenza, non smette di evidenziare le debolezze di una politica forte e inefficace. Una politica - quella di Maroni & co. - che «mette radici»: come per le scene di «caccia al nero» viste negli ultimi giorni sulle spiagge e raccontate da l’Unità.

Don Nozza, sembra che non siamo più esseri umani, liberi, uguali. Persone che costruiscono il futuro della stessa terra...
«È il risultato del carosello mediatico subito dai cittadini. Della battaglia messa in atto in alcune città ai lavavetri, all’accattonaggio, la cacciata dalle spiagge, accolta da una sorta di silenzio consenso, come se fosse diventato improvvisamente normale interdire ai poveri, agli extracomunitari, città che passano per essere un patrimonio dell’umanità, ma finiscono per esserlo solo per quella parte che se lo può permettere: amministratori, cittadini benpensanti. Le battaglie contro i poveracci trovano ampia soddisfazione. Non stupisce che si tenti di nascondere agli occhi del paese una parte di vita che non piace, ma che continua ad esistere, e per farlo si ricorra a complesse architetture per la grande spettacolarità ma dalla dubbia tenuta in tempi medio-lunghi. Molti cittadini interpellati dai tg, senza alcun imbarazzo, paiono unanimi nel bollare i mendicanti come un fastidio. Fastidio, infatti, è stata la parola più gettonata, quasi fosse un termine neutrale e di galateo e non contenesse una sottile, perversa e inconfessabile carica di violenza. Non fosse altro perché sotto quello straccio di vestito, c’è una persona che vale più dei marciapiedi e del giusto decoro delle nostre spiagge e delle nostre città... ».

Vede delle responsabilità chiare?
«Intristisco poichè il mondo politico per mitigare le frustrazioni di un popolo che vede riflesse nei poveri le proprie paure, predica federalismo contro la crisi economica e pratica metodi che ci rende tutti più sbrigativi, più superficiali e spietati. Stupisce anche l’enfasi con cui tali decisioni vengono cucinate e servite agli italiani. Rovistare in un cassonetto, tentare di vendere bigiotteria sulle spiagge in cambio di un pezzo di pane, non è certamente un divertimento per un povero o un per extracomunitario».

Condiviso anche da politici che si dicono cristiani...
«Essere cristiano non è una proclamazione ma una testimonianza, uno stile di vita, un modo di stare nel mondo: è la partecipazione solidale, costruire insieme, non gestire separatamente le questioni. Occorre coniugare con una serie di politiche l’una strettamente legata all’altra: l’accordo con gli stati di provenienza, l’accompagnamento di questi disperati a partire dal loro stato di appartenenza al territorio di arrivo, con una politica dell’investimento nell’integrazione. Lavorare molto su quei 3 milioni e mezzo di regolari che vivono inseriti nelle scuole, nelle case, nelle fabbriche perché sempre più questo zoccolo duro diventi capace di legarsi, favorito anche dalla struttura del nostro territorio, fatto di comuni piccoli e medi, che si presta all’integrazione. Solo un territorio solidale è sicuro, diversamente un territorio presidiato non è sicuro, per chi arriva e per chi ci vive. È scontato che là dove c’è violenza vada perseguita. Noi siamo per l’impasto tra legalità e accoglienza, non si può disgiungere la legalità dalla giustizia, dall’ accoglienza. Il problema è che questa politica separa».

Dalla sua storia che coniuga esperienza cristiana e laica quali consigli a chi governa?
«Che se investiamo soltanto nel contrasto il rischio è togliere sicurezza a tutti, anche a noi stessi diventando anziani, malati, senza riferimenti, senza servizi domiciliari, senza opportunità. Solo garantendo un pezzo di amicizia, la gente si sente parte, altrimenti è insicura e dà sfogo agli istinti peggiori. Chi è chiamato a governare non può prescindere dall’ascolto. Quando ero direttore della Caritas della mia città, Bergamo,20 anni fa, c’era un campo rom dove accadeva di tutto, il problema è stato risolto solo quando il sindaco ha inviato una presenza del territorio».

La "disgregazione delle coscienze" per dirla con Gramsci, a cui assistiamo, è il frutto del linguaggio, anche dei gesti?
«Sì. Il linguaggio utilizzato in questi ultimi mesi rischia di montare molto l’immaginario, di distorcere la mentalità. Così si finisce con il considerare il venditore di bigiotteria, di pupazzetti di pelouche sulle spiagge un nemico, chi espone il piattino un sovvertitore della serenità. Assistiamo ad un linguaggio che fa paura in quanto disgrega, appunto. Da quando opero nell’ambito Caritas, ormai da 25 anni, non mi era mai accaduto di ricevere lettere in cui ci accusano di essere responsabili della venuta di queste persone che non verrebbero se noi non ce ne occupassimo. Anche gli operatori se lo sentono ripetere. Allora, il pericolo è che questo modo di pensare monti dentro quella ordinarietà che solitamente è capace di sopportare alcune fatiche. E che non si accetti più di sopportare o di portare alcune fatiche come il legare il diverso con la bellezza dell’altra persona, con la possibilità di comprendere e costruire insieme futuri diversi da quelli conosciuti».

Pubblicato il: 12.08.08
Modificato il: 12.08.08 alle ore 8.31   
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« Risposta #149 inserito:: Agosto 15, 2008, 11:31:49 pm »

15/8/2008
 
Nel grande vuoto lasciato dai cattolici democratici
 
 
 
FRANCO GARELLI
 
E’ un ferragosto di fuoco quello che sta vivendo Famiglia Cristiana, il celebre settimanale dei Paolini oggi al centro di varie tensioni. Anzitutto lo scontro col governo in carica, che si è offeso per l’ultimo editoriale della rivista che paventa la nascita in Italia di un fascismo «sotto altre forme». E di riflesso a questa vicenda, la netta presa di distanza del Vaticano dai commenti «politici» di Famiglia Cristiana, giudicata come una testata importante della realtà cattolica, ma che non esprime «né la linea della Santa Sede né quella della Conferenza episcopale italiana».

Singolare dichiarazione quest’ultima, sia perché la direzione della rivista non si è mai sognata di parlare a nome dei vertici della chiesa (italiana e no), sia perché è evidente l’intento del Vaticano di non creare zone d’ombra tra il mondo cattolico e l’attuale governo italiano, anche a costo di mettere la sordina a qualche sua realtà autorevole. La Santa Sede, in altri termini, non vuol rovinare il rapporto con un esecutivo (e un’area politica) che considera attenti ai valori e agli interessi dei cattolici, in grado - molto più del precedente governo di centro-sinistra - di promuovere una politica che tuteli quei pilastri sociali (famiglia, vita, scuola libera, educazione, ecc.) che a suo dire maggiormente rispecchiano la visione cristiana della realtà.

Non è che Famiglia Cristiana metta in discussione questi valori di fondo, anche se da tempo ha scelto la politica delle mani libere, promuovendo un’informazione sui fatti di casa nostra che non fa sconti a nessuno, che non si lega per partito preso a qualche forza politica, attenta a verificare di volta in volta la congruenza tra dichiarazioni e scelte concrete, tra fatti e intenzioni.

Con questo cambio di pelle (relativamente recente), Famiglia Cristiana ha accentuato la sua presenza critica nella realtà italiana, passando da «pacioso» settimanale delle parrocchie a rivista di impegno civico di rilievo, che sta sulla breccia delle questioni emergenti; e ciò pur continuando a essere una testata che diffonde informazione e cultura religiosa, attenta al lato umano e spirituale dell’esistenza.

Questa trasformazione sembra dovuta a due ragioni di fondo. Anzitutto l’esigenza di meglio collocarsi nel mondo della comunicazione, superando l’immagine di rivista per tutte le stagioni che era la Famiglia Cristiana del passato, quando il mondo cattolico era una realtà molto solida e poco differenziata. Nell’epoca del pluralismo, nessuna grande istituzione (quindi anche nessuna realtà comunicativa) può sopravvivere senza operare delle scelte precise, senza optare per un pubblico particolare di riferimento.

Un altro fattore che può aver spinto Famiglia Cristiana a interessarsi maggiormente delle questioni sociali e politiche emergenti è l’attuale debolezza del cattolicesimo politico, il fatto che esso è ormai ridotto a una minoranza con poca risonanza pubblica. Al tempo in cui la Democrazia cristiana rappresentava gli orientamenti dei cattolici nella società italiana, Famiglia Cristiana era il collante comunicativo di un mondo cattolico perlopiù politicamente allineato. Oggi, invece, nella stagione dell’Italia bipolare, i cattolici sembrano relegati ad un ruolo comprimario sulla scena politica; e ciò sia che il governo sia targato centro-sinistra (come quello diretto da Prodi nella passata legislatura) o sia espressione del centro-destra (come quello attuale di Berlusconi). In entrambi i casi prevalgono esecutivi in cui (al di là di dichiarazioni formali) i cattolici sembrano avere poco peso e possibilità progettuale. In questo quadro, dunque, Famiglia Cristiana tende ad occupare uno spazio lasciato vuoto dalla politica «cattolica», dando voce ad istanze inascoltate, richiamando i governi ad una soluzione ai problemi che rifletta anche una visione solidale della realtà.

Si può dire, come qualcuno ha sostenuto, che Famiglia Cristiana sia l'ultima espressione del cattocomunismo italiano, il gruppo editoriale che non si piega alla deriva a destra del Paese? Credo che il taglio socialmente aperto della rivista sia evidente, nel senso che Famiglia Cristiana rappresenta la punta comunicativa di quel cattolicesimo di impegno sociale che è una delle più grandi realtà della tradizione cattolica italiana. Ma detto questo, la rivista non sembra tirare in una sola direzione e applica lo stesso metro alle varie forze politiche e ai diversi governi. Ieri ha bacchettato Prodi sulla questione dei Dico e Veltroni sull’apertura del Pd ai radicali. Oggi è critica verso Berlusconi quando accusa i pm di essere sovversivi o quando la sua maggioranza sembra compiere scelte populiste sulla questione sicurezza.

In un tempo di grandi silenzi e allineamenti (che coinvolgono anche il mondo cattolico), c’è una forza d'animo in queste prese di posizioni da non sottovalutare, che ha i suoi costi sociali ma che è foriera di una presenza sociale più partecipe e riflessiva.

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