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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 151085 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Giugno 24, 2008, 04:24:50 pm »

Questa idea fissa ha ''il sopravvento sui problemi del Paese"

'Famiglia Cristiana': ''Berlusconi ossessionato dai magistrati''

In un'editoriale del settimanale: ''Il pacchetto sicurezza brucia il capitale di fiducia degli italiani assieme all'immagine di grande statista''.

Sul Guardasigilli: ''Un ex segretario personale messo a fare il ministro della Giustizia''.

Rotondi: ''Ingenerosi con Alfano''



Roma, 23 giu. (Adnkronos)

- "Il Cavaliere ha un'ossessione: i magistrati.

E una passione: gli avvocati. Naturalmente, i primi sono contro di lui, gli altri li fa eleggere in Parlamento. E uno, ex segretario personale, lo mette ministro della Giustizia".

Si legge in un'editoriale del settimanale 'Famiglia Cristiana' dedicato a Silvio Berlusconi (nella foto).

"Il 'pacchetto sicurezza' è inquinato dal 'complesso dell'imputato' (definizione di Bossi), e brucia il capitale di fiducia degli italiani (che l'hanno votato a larga maggioranza), assieme all'immagine di grande statista. Ma - si conclude nell'editoriale - allontana anche il Colle più alto della politica.

L'ossessione personale ha il sopravvento sui problemi del Paese".

A commentare l'editoriale è il ministro per l'Attuazione del programma Gianfranco Rotondi. ''Famiglia Cristiana è ingenerosa verso il ministro Alfano, giovane cattolico di Agrigento prima che collaboratore di Berlusconi - sottolinea - .

La parola 'segretario personale' usata nei confronti del Guardasigilli come dispregiativo è prosa arrogante e priva di misericordia cristiana''.
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« Risposta #106 inserito:: Giugno 24, 2008, 04:29:26 pm »

Vigilia di polemiche e contestazioni sul tema Giustizia

Il decreto sicurezza approda al Senato

Famiglia Cristiana scrive: «Il Cavaliere ha un'ossessione: i magistrati. E una passione: gli avvocati»

 
ROMA - Non si abbassano i toni del dibattito tra maggioranza e opposizione sul tema della giustizia alla vigilia della seduta del Senato, che martedì ha all'ordine del giorno dichiarazioni di voto e voto finale sul decreto sulle misure urgenti in materia di sicurezza.

IN 500 CONTRO BERLUSCONI - Davanti al palazzo di giustizia di Milano, nonostante il grande caldo, circa 500 persone hanno risposto all’appello del «comitato milanese per la legalità» al fine di contrastare l’approvazione della norma che sospende i processi e tra questi il dibattimento in cui Silvio Berlusconi e David Mills sono accusati di corruzione in atti giudiziari. Lo striscione è bianco e in rosso c’è scritto: «Buffone fatti processare». A reggere il mezzo lenzuolo c’è anche Piero Ricca che a Berlusconi nei corridoi del Tribunale gridò proprio quelle parole. Ricca, condannato in primo grado dal giudice di pace a versare 500 euro venne poi assolto dalla Cassazione. «L’indifferenza opera potentemente nella storia, Italia svegliati» si legge su un cartello e su un altro: «Berlusconi d’accordo con Caselli (Caterina): nessuno mi può giudicare». Sui cancelli d’ingresso invece è stato messo un piccolo pezzo di cartone e c’è scritto. «Stiamo diventando un Paese a misura d’uomo, sì però di uno solo». Sul piccolo palco si alternano al microfono Nando Dalla Chiesa, Carlo Monguzzi dei Verdi, esponenti di diversi partiti, da Rifondazione all’Italia dei Valori al Pd.

IL PUNTO - Il tutto, mentre la prima commissione del Csm ha deciso di acquisire l'istanza con cui Silvio Berlusconi ha ricusato il presidente del collegio giudicante Nicoletta Gandus, per il caso Mills, e il parere negativo riguardo la ricusazione della Procura generale di Milano. È invece slittata a martedì pomeriggio, sempre davanti al Csm ma in Sesta commissione, la discussione sul parere riguardante l'emendamento al Dl sicurezza che sospende per un anno i processi commessi prima del 30 giugno 2002 e riguardante reati puniti con meno di 10 anni di reclusione. A palazzo dei Marescialli, la decisione di far slittare la discussione sarebbe stata presa per «ragioni di opportunità» legate alle tensioni provocate dall'anticipazione sulla bozza del parere. Il rinvio comunque non dovrebbe comportare un allungamento dei tempi di redazione del parere, anche se sembra difficile che si arrivi a una conclusione entro questa settimana.

FAMIGLIA CRISTIANA - In questo clima «Famiglia cristiana» dedica un editoriale dal tono critico: «Il Cavaliere ha un'ossessione: i magistrati. E una passione: gli avvocati. Naturalmente, i primi sono contro di lui, gli altri li fa eleggere in Parlamento. E uno, ex segretario personale, lo mette ministro della Giustizia. Il «pacchetto sicurezza» è inquinato dal «complesso dell'imputato» (definizione di Bossi), e brucia il capitale di fiducia degli italiani (che l'hanno votato a larga maggioranza), assieme all'immagine di grande statista. Ma -si conclude nell'editoriale- allontana anche il Colle più alto della politica. L'ossessione personale ha il sopravvento sui problemi del Paese».

PD - Per quel che riguarda il decreto, è intervenuto il vice presidente del Pd al Senato Luigi Zanda: «Il governo e la maggioranza ci obbligano a dare un voto contrario al decreto sicurezza. In questo decreto sono state inserite misure che nulla hanno a che fare con la sicurezza dei cittadini e che, per giunta, sono incostituzionali. Soprattutto la clandestinità come aggravante e le cosiddette norme salva premier. Le misure salva premier sospenderanno processi per reati molto gravi come lo stupro, l'usura, lo sfruttamento della prostituzione, l'omicidio colposo per i pirati della strada, il traffico di rifiuti. Di conseguenza quelle misure avranno effetti negativi per la sicurezza dei cittadini. Infine, per le esigenze processuali del Presidente del Consiglio, le norme che verranno votate martedì dal Senato aggraveranno la crisi della giustizia e ingolferanno il sistema giudiziario». Critico anche il ministro ombra della Giustizia del Pd, Lanfranco Tenaglia: «Il centrodestra cerca di utilizzare la vicenda del parere del Csm per imbavagliarlo.

CSM - Il vicepresidente Mancino ha chiarito definitivamente che non è mai esistito un parere, neanche in bozza, del Csm e che l'organo si esprimerà solo nelle forme e nei modi di legge. Chiunque neghi la facoltà del Csm, prevista per legge, di dare pareri al ministro della Giustizia in materia di processo e organizzazione giudiziaria è in malafede».

IL CASO MILLS - I magistrati del processo Mills, sono accusati dal premier Silvio Berlusconi di agire per «finalità politiche». Ora il Csm acquisirà la documentazione necessaria per procedere; ossia, l'istanza con cui Berlusconi ha ricusato il presidente del collegio giudicante Nicoletta Gandus e il parere negativo riguardo la ricusazione della Procura generale di Milano. Tra i documenti che la commissione di palazzo dei Marescialli intende acquisire, anche il resoconto stenografico della seduta al Senato in cui il presidente Renato Schifani lesse la lettera in cui Berlusconi accusava i pm del processo Mills. Infine agli atti della commissione dovrebbero esserci le dichiarazioni riportate sulla stampa in cui il premier ha accusato le toghe; ultime le accuse lanciate da Berlusconi da Bruxelles.

COSSIGA - A tentare di svelenire il clima è il presidente emerito Francesco Cossiga, che in una lettera aperta indirizzata al capo dello Stato ha suggerito di stralciare dal Dl sicurezza le norme che sospendono i processi per favorire una pausa di riflessione e alleggerire il clima di scontro tra governo e maggioranza da un lato e magistratura e opposizione dall'altro.

MARONI - Il ministro Maroni, sulla vicenda, ha sottolineato: «Al Senato il pacchetto sicurezza verrà votato martedì e alla Camera vogliamo farlo approvare senza modifiche. Sono molto soddisfatto di queste norme che danno molto potere ai sindaci». Altero Matteoli, ministro dei Trasporti, ha invece criticato l'opposizione: «Non c'è nulla di politico, quello dell'opposizione è solo un attacco strumentale. Non si può pensare che per qualsiasi provvedimento sulla magistratura ci sia questo accanimento da parte dell'opposizione. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole».

CI VUOLE UNA TREGUA - Una «tregua» ha invece chiesto Roberto Castelli, sottosegretario alle Infrastrutture: «Pare che l'agenda politica sia dettata dalla magistratura. Occorre trovare mezzi costituzionali e amministrativi per uscire da questa situazione. Serve una tregua. Bisogna lasciar lavorare le più alte cariche dello Stato e, come in Francia, fare i processi al termine del mandato».


23 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #107 inserito:: Giugno 24, 2008, 04:34:43 pm »

24/6/2008
 
La legalità secondo il Cavaliere
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Alcune settimane fa Berlusconi aveva affermato che, quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge può diventare opinabile. Parlava del caso Napoli e della sua immondizia. Si riferiva, in particolare, alle infrazioni compiute in Campania da alcuni funzionari nel nome di un asserito interesse generale e criticava le indagini penali compiute nonché le misure cautelari assunte nei confronti dei responsabili delle infrazioni. Se agire era necessario per risolvere un gravissimo problema, occorreva comunque operare, qualunque cosa stabilissero le leggi.

Nei limiti posti, il problema poteva anche costituire oggetto di discussione fra i giuristi. Non sempre rispettare alla lettera la legge corrisponde all’interesse pubblico del momento. Una legge inadeguata alla situazione può recare danno anziché sollievo. Fino a che punto, allora, nel nome del rispetto della legalità, è ragionevole rischiare di non risolvere i problemi?

Fino a che punto l'osservanza del precetto può essere, invece, sacrificata all'esigenza di salvaguardare gli interessi minacciati? Legalità è sempre, e soltanto, rispetto della norma o può diventare, talvolta, tutela concreta, per necessità, degli interessi in gioco? Teoricamente si possono sostenere entrambe le posizioni. Si può affermare che la legge deve essere rispettata sempre e comunque, pena la perdita di autorità dello Stato; si può affermare che in via del tutto eccezionale, quando sono minacciati interessi vitali delle persone, è consentito infrangerla nel nome di una ragionevole valutazione degli interessi in gioco. La prima tesi corrisponde a una visione formale e rigorosa della legalità; la seconda inquadra il tema nella prospettiva di una valutazione anche di sostanza. In questa seconda ipotesi la legalità è comunque salva, si dice, poiché a cose fatte dovrebbe essere in ogni caso un giudice a stabilire se vi era lo stato di necessità idoneo a giustificare la condotta.

Qualche giorno fa, alzando i toni contro la magistratura politicizzata che lo avrebbe dolosamente vessato, parlando addirittura di magistrati eversivi che si sarebbero infiltrati nell'istituzione giudiziaria per contrastarlo, Berlusconi ha fornito un ulteriore suo concetto di legalità. Quando un Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa pertanto direttamente in nome del popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti. Sarà il popolo, a fine legislatura, a giudicare la sua azione, approvando o bocciando, con il voto, l'attività compiuta. In questa prospettiva poco spazio deve essere lasciato ai controlli in corso d'opera, siano essi politici da parte dell'opposizione, giuridici da parte degli organi di garanzia, di legalità da parte di una magistratura indipendente. L'opposizione, se è rigorosa, deve essere considerata automaticamente faziosa, gli organi di garanzia, se possibile, devono essere resi domestici con riforme che ne sviliscano i poteri, la magistratura deve essere a sua volta contenuta. Quest'ultima esigenza costituisce priorità assoluta.

In tale prospettiva si spiegano le iniziative legislative in materia di giustizia. Con un disegno articolato e complesso sono state progressivamente programmate, con ritmi incalzanti per dimostrare determinazione e disorientare gli avversari, limitazioni delle intercettazioni, meno notizie sui giornali in materia di indagini penali, sospensione dei processi, nuovo lodo Schifani a copertura delle alte cariche dello Stato, in grado di eludere, se possibile, le vecchie censure della Corte Costituzionale. Chissà quant'altro ancora, a questo punto, verrà progettato, nella medesima direzione, nei mesi prossimi venturi.

Ecco che si profila, allora, il volto nuovo dello Stato di diritto voluto dal presidente del Consiglio. Non si tratta più, soltanto, di valutare come legittime condotte antigiuridiche necessarie per fronteggiare asserite situazioni d'eccezione, come egli aveva sostenuto alcune settimane fa a Napoli in un clima politico ancora molto diverso. Con una escalation di progetti, con l'innalzamento dei toni, con l'aggressività delle parole, egli sembra, oggi, volere instaurare un nuovo sistema di governo sostanzialmente senza regole e controlli, introdurre una nuova Costituzione materiale. In questo modo, egli sostiene, il governo potrà diventare più efficiente, risolvere finalmente i molti problemi incancreniti, rilanciare il Paese. Gli italiani avranno finalmente più sviluppo, più benessere, più felicità.

Poche sono, a questo punto, le discussioni possibili fra i giuristi. O si accetta il nuovo concetto di legalità o lo si rifiuta in blocco. Non sono più possibili mezzi termini, parziali benedizioni, condiscendenze. Fino a ieri si era sperato che un nuovo clima di non contrapposizione fra maggioranza e opposizione potesse favorire l'accordo per un approccio ragionevole al tema delle indispensabili riforme elettorali e costituzionali. Oggi il barometro segna, purtroppo, tempesta. Abbozzare, condividere, acconsentire diventa molto più difficile, forse impossibile.

 
da lastampa.it
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« Risposta #108 inserito:: Giugno 25, 2008, 08:54:14 am »

04/06/2008
Seggio in regalo a segretarie e portavoce
Scritto da: Sergio Rizzo alle 15:51
Tags: parlamento, segretarie

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Piero Longo, almeno lui ha parlato chiaro. «Con questo sistema elettorale non siamo eletti, ma nominati», ha dichiarato durante una udienza del processo Mills l’avvocato del premier Silvio Berlusconi, apprestandosi a diventare senatore. Non che l’andazzo fosse molto diverso con la vecchia legge elettorale: in quel caso c’erano i cosiddetti collegi sicuri, e anche allora in Parlamento entrava (nella stragrande maggioranza dei casi) chi decideva la segreteria di partito. Però la forma, almeno quella, era salva. Adesso nemmeno quella. Il Parlamento è diventato sempre più una questione personale dei leader politici, che possono gratificare a loro piacimento gli amici e i fedelissimi con un seggio alla Camera o al Senato. E Longo è soltanto l’ultimo caso: prima di lui, del resto, altri avvocati del Cavaliere sono diventati onorevoli.
Pur conoscendo le assurdità di questa legge elettorale, questa volta era tuttavia legittimo aspettarsi qualcosa di più. Almeno qualche segnale di ricambio, anche se deciso dall’alto: non fosse altro per le polemiche che avevano investito un sistema politico sempre più ingordo e autoreferenziale, a destra come a sinistra. Uno sguardo agli elenchi dei parlamentari della sedicesima legislatura fa invece sgorgare un fiume di domande.

Per esempio, se possa considerarsi un atto di ricambio politico la «nomina» a senatore di Salvatore Sciascia, già tributarista di Berlusconi, attualmente presidente della Holding italiana quattordicesima, una degli scrigni nei quali sono custodite le azioni della Fininvest, nonché vicepresidente della Immobiliare Idra, la società che gestisce le ville del premier, destinatario di una condanna definitiva a un paio d’anni per le tangenti alla Guardia di finanza. Oppure se fosse proprio necessario mandare in Senato anche il vicepresidente di Mediolanum, Alfredo Messina. E passi per Mariella Bocciardo, ex cognata del Cavaliere (è stata la consorte del fratello Paolo Berlusconi) che nel curriculum si definisce «dirigente di partito », come pure per Sestino Giacomoni, per anni prima portavoce e poi factotum dell’ex ministro Antonio Marzano: entrambi erano già parlamentari dal 2006. Passi anche per Silvio Sircana, fedelissimo portavoce di Romano Prodi: anche lui era già deputato. Ma che cosa ha determinato la candidatura a Montecitorio di Deborah Bergamini, ex direttrice del marketing della Rai ed ex assistente personale del Cavaliere?

Che dire poi della nomina, sempre alla Camera, dell’ex capo della segreteria politica di Claudio Scajola ed ex commissario della Cit Ignazio Abrignani? E di quella dell’ex consigliere politico dell’ex ministro della Difesa (di centrosinistra) Arturo Parisi, Pier Fausto Recchia? Oppure del fatto che nella lista dei neoparlamentari si trovino anche i nomi dell’efficiente ex portavoce dell’ex ministro della Difesa Antonio Martino, Giuseppe Moles e del bravissimo braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese? O ancora, erano proprio ingiustificate le polemiche che hanno accompagnato la nomina alla Camera di Luciana Pedoto, già segretaria particolare del ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, esponente di spicco del Partito democratico, che si professa «non raccomandata»? E si potrebbe andare avanti ancora, con una doverosa precisazione: se questi casi appaiono più numerosi nel centrodestra, dipende anche dal fatto che lo schieramento di Berlusconi conta un bel numero di parlamentari in più rispetto all’opposizione.

Per carità, siamo certi che in Parlamento tutti quanti si faranno onore, indipendentemente dagli sponsor. Qualche dubbio invece, esiste, eccome, sul fatto che questo sia il modo migliore per rinnovare la classe politica.

Pubblicato il 04.06.08 15:51 | Permalink| Commenti(2) | Invia il post
04/06/2008
Un posto in Parlamento aumenta il reddito del 78%
Scritto da: Gian Antonio Stella alle 15:49
Tags: Palamento, stipendi

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«Spirito di servizio». Non c’è deputato o senatore, ministro o sottosegretario, che non giuri con tono solenne di far politica solo per questo: «Spirito di servizio». Manco fossero tutti emuli di Alcide De Gasperi che per andare alla Casa Bianca si fece prestare il cappotto da Attilio Piccioni. Sarà... Ma i numeri dicono che l’elezione al Parlamento ha sempre meritato il «cin cin» con lo spumante migliore: coincideva infatti con un aumento medio del reddito personale del 78%. A Roma! A Roma!

Oddio, una volta era un po’ diverso. Nel 1983, un quarto di secolo fa, chi sbarcava a Montecitorio o a Palazzo Madama vedeva i suoi guadagni salire mediamente del 33%. Un incremento buono, ma ridicolo rispetto alla botta di vita dei successori. Chi diventò parlamentare nel 1996 si ritrovò in tasca, in media, addirittura il 109,2 per cento in più di quanto aveva dichiarato l’anno precedente. Al punto che, dopo aver assaggiato tutte le leccornie del Palazzo, quelli che hanno via via deciso per loro scelta (e non perché trombati) di tornare al mestiere di prima sono diventati più rari del dugongo. Perfino gli imprenditori, una volta «discesi in campo», scelgono nella misura del 37% di lasciar perdere quanto facevano per restare sui diletti scranni. Per non dire dei medici (che decidono di rimanere in politica e non rientrare nei reparti o negli ambulatori nel 45% dei casi), dei giornalisti (44%), degli autonomi (49%), degli operai (61%) o dei rappresentanti di categorie professionali: solo uno su cinque rientra nell’ufficio da cui proveniva, sei su dieci si avvinghiano al seggio e non lo mollano più.

Lo dice la ricerca formidabile di un gruppo di economisti: Antonio Merlo, della University of Pennsylvania, Vincenzo Galasso della Bocconi, Massimiliano Landi della Singapore Management University e Andrea Mattozzi del California Institute of Technology. Si intitola «Il mercato del lavoro dei politici » e accenderà sabato mattina il dibattito, a Gaeta, sul tema «La selezione della classe dirigente ». Un convegno promosso dalla «Fondazione Rodolfo Debenedetti» che ruoterà poi intorno all’altra metà del tema, vale a dire «La classe dirigente imprenditoriale», studiata da Luigi Guiso, dell’Istituto Universitario Europeo, insieme con tre docenti della London School of Economics, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Raffaella Sadun.

Un dato: la «fedeltà» alla famiglia proprietaria dell’azienda conta così tanto, da noi, da rovesciare il rapporto che vale in tutto l’Occidente, dove contano i risultati: da uno a tre a tre a uno. Un altro: dei manager italiani, quelli che lavorano in Lombardia sono il 42%, nel Sud il 5. Una sproporzione apocalittica. Che preannuncia un futuro di nuvoloni neri neri.

Ma torniamo ai politici. Dice la ricerca, coordinata come l’altra da Tito Boeri, il docente della Bocconi animatore de «lavoce. info», che prendendo in esame tutti gli eletti dal 1948 al 2007 non ci sono dubbi: la classe parlamentare della Prima Repubblica era nettamente migliore. Certo, la percentuale di donne è nei decenni triplicata, pure restando lontana da quella dei paesi europei più avanzati. Ma il livello qualitativo, per non dire della «freschezza» generazionale, si è drammaticamente abbassato: «I nuovi deputati erano più giovani e più istruiti durante la prima repubblica. L’età media in cui si entrava in parlamento era di 44,7 anni, contro i 48,1 anni della Seconda. La percentuale dei nuovi eletti in possesso di una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo: dal 91,4% nella I Legislatura, al 64,6% all’inizio della XV Legislatura».

Un crollo di 27 punti. Che risulta ancora più vistoso e preoccupante nei confronti internazionali. Come quello con gli Stati Uniti dove, al contrario, i laureati presenti in Parlamento sono saliti dall’88% al 94%. Trenta punti sopra di noi. C’è poi da stupirsi che l’università (e non parliamo della scuola) sia sprofondata nel pressoché totale disinteresse dei governi al punto che nelle classifiche internazionali del Times di Londra e della «Shanghai Jiao Tong University» non riusciamo a piazzare un solo ateneo tra i primi cento e neppure uno del Mezzogiorno nei primi trecento?

Scrivono Merlo e i suoi colleghi che quasi due parlamentari su tre «rimangono in Parlamento per più di una legislatura, anche se solo uno su dieci vi rimane per più di 20 anni» e che «dopo l’uscita, il 6% va in pensione, quasi il 3% in carcere, ma quasi uno su due rimane in politica». Spiegano inoltre che, per quanto siano difficili questi calcoli, alcuni «indicatori di qualità » (e cioè il livello d’istruzione, il grado di assenteismo e la «abilità intrinseca di generare reddito nel mercato del lavoro») consentono di affermare non solo, come si diceva, che la classe politica attuale è più scarsa di quella precedente al 1993. Ma che la statura dei nostri parlamentari d’oggi è inferiore anche professionalmente, nella vita privata, a quella dei loro predecessori. Quelli, nei loro mestieri da «civili», stavano tutti (dalla Dc al Msi, dal Psi al Pci) al di sopra della media nelle rispettive professioni. Questi, con la sola eccezione di Forza Italia (+0,04) stanno mediamente al di sotto.

Eppure, via via che calava la loro statura culturale, politica, manageriale, sono stati sempre più benedetti da un acquazzone di denaro. Quante volte ci siamo sentiti dire «faccio politica per passione perché economicamente guadagnavo di più prima»? Falso. Dati alla mano, quelli che nella Prima Repubblica ci perdevano a fare il deputato anziché il medico, il notaio o l’avvocato erano il 24% dei democristiani, il 21% dei socialisti, il 19% dei repubblicani... Oggi sono solo il 15% degli azzurri, l’11% degli ulivisti, l’8% dei neo-democristiani, il 6% dei nazional-alleati. Gli altri, a partire dai rifondaroli per finire ai leghisti, ci guadagnano e basta. E tanto.

Dal 1985 al 2004, dice la ricerca curata dal gruppo che ruota intorno a «lavoce.info», l’approdo sugli scranni delle Camere «è stato particolarmente redditizio. Infatti, il reddito reale annuale di un parlamentare è cresciuto tra 5 e 8 volte più del reddito reale annuale medio di un operaio, tra 3,8 e 6 volte quello di un impiegato, e tra 3 e 4 volte quello di un dirigente». Di più: grazie alla possibilità di cumulare altri lavori, esclusa salvo eccezioni in paesi seri come gli Stati Uniti, «dalla fine degli anni ‘90, il 25% dei parlamentari guadagna un reddito extraparlamentare annuale che è superiore al reddito della maggioranza dei dirigenti». Quanto al «prodotto», lasciamo stare. È così scarso, rispetto alle remunerazioni, da aver creato un paradosso. Forse, ironizzano gli economisti, è per colpa dell’ «aumento dell’indennità parlamentare che ha portato in Parlamento persone le cui maggiori competenze erano altrove nel mercato del lavoro, ma non in politica ». Un gentile eufemismo per non parlare di certi somari incapaci di fare qualunque altro mestiere se non quello del politico a tempo pieno. Certo è, suggeriscono, che «per ridurre quest’effetto di selezione avversa si potrebbe eliminare il cumulo dei redditi dei parlamentari con gli altri redditi, come già avviene negli Stati Uniti, e indicizzare l’indennità parlamentare al tasso di crescita dell’economia. Ciò consentirebbe anche di aumentare l’impegno parlamentare dei deputati, poiché in media ogni 10.000 euro di extra reddito si riduce la partecipazione in Parlamento dell’1%». Avete letto bene: chi col secondo mestiere prende 50mila euro in più lavora il 5% in meno, chi ne guadagna 100mila il 10% e così via. Morale: vuoi vedere che per far lavorare di più certi assenteisti cronici occorre farli guadagnare di meno?

Pubblicato il 04.06.08 15:49
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« Risposta #109 inserito:: Giugno 25, 2008, 08:55:20 am »

21/06/2008

Rimborsi elettorali: ce n'è per tutti, anche per chi non è stato eletto

Scritto da: Sergio Rizzo alle 19:01

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Come accade ogni anno elettorale, le presidenze di Camera e Senato stanno stilando gli elenchi dei rimborsi elettorali che spettano ai partiti per i prossimi cinque anni. Saranno pronti fra un mesetto, e andranno letti con attenzione. Perché una spolveratina di manna toccherà anche a qualcuno che è rimasto fuori dal Parlamento, non avendo superato la soglia di sbarramento del 4% previsto per la Camera e non avendo avuto nemmeno un seggio al Senato. Miracoli della leggina con la quale, nel 2002, venne aumentata senza colpo ferire l'entità del rimborso elettorale a carico di ogni cittadino iscritto alle liste elettorali, portandola da 40 centesimi a un euro l'anno per ogni anno di legislatura e per ogni elezione (Camera, Senato, regionali ed europee). In quel provvedimento si pensò bene di stabilire che per accedere ai rimborsi era sufficiente non già aver superato la fatidica soglia di sbarramento del 4%, come sarebbe stato logico, ma aver raggiunto almeno l'1% dei suffragi. Nel 2002 questa piccola modifica consentì anche all'Italia dei Valori di Antonio Di PIetro, che si era attestata al 3,97%, di avere il finanziamento pubblico. Ora, in virtù di questa regola, alla formazione politica di Daniela Santaché, che ha racimolato 885.229 voti, pari al 2,4% del totale, dovrebbero spettare per gli anni dal 2008 al 2013 circa 1,1 milioni di euro l'anno, pari a 5,5 milioni di euro per l'intera legislatura: oltre dieci miliardi di lire. Anche la Sinistra arcobaleno, sonoramente battura alle elezioni e senza nemmeno un deputato né un senatore, avrà comunque diritto a riscuotere, secondo calcoli attendibili, un milione e mezzo l'anno, pari a circa 7 milioni e mezzo in cinque anni: grazie al fatto di aver portato a casa il 3,1% dei suffragi. Il leader dello Sdi, Enrico Boselli, invece si mangerà le mani. Ha fallito l'obiettivo per 8.944 voti. Tanti gliene sono mancati per arrivare all'1%: si è fermato allo 0,975%. Al suo posto godranno gli altri. La legge stabilisce che i rimborsi non assegnati non restano (come sarebbe giusto) nelle casse dello Stato, ma vengono suddivisi fra gli altri partiti.

Pubblicato il 21.06.08 19:01 | Permalink| Commenti(6) | Invia il post


16/06/2008
Soldi pubblici ai partiti: è italiano il record mondiale
Scritto da: Sergio Rizzo alle 16:25

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Grazie a una leggina approvata nel 2006 che consente ai partiti di incassare i contributi elettorali per la durata dell'intera legislatura (cinque anni), anche se le Camere vengono sciolte in anticipo, per il 2008, il 2009 e il 2010 il finanziamento pubblico alla politica in Italia sfiorerà i 300 milioni di euro. Illuminanti sono i contenuti di uno studio elaborato dalla Camera dei deputati. Nel quale si spiega, per esempio, che il finanziamento pubblico dei partiti in Francia, Paese con un numero di abitanti paragonabile a quello dell'Italia, è stato pari, nel 2006, a meno di 73 milioni e mezzo di euro. Doveva essere di 80 milioni e 264 mila euro, ma è stato ridotto da circa 7 milioni di euro di sanzioni inflitte ai partiti che non hanno applicato regole di pari opportunità fra uomini e donne. In aggiunta, al di là delle Alpi i partiti che non raggiungono almeno il 5% dei suffragi al primo turno non ha diritto a vedersi rimborsare neppure la metà di quanto ha speso, tanto che il glorioso ma ammaccatissimo Pcf potrebbe vendere parte delle opere d' arte avute in dono negli anni buoni da artisti amici.

La Spagna, dove i parlamentari sono 575, circa metà dei nostri, spende invece 60 milioni 752 mila euro. per la spesa pro-capite è di 2,13 euro. In Germania, con una popolazione di 23 milioni più numerosa di quella italiana, esiste un tetto massimo di 133 milioni l' anno agli stanziamenti statali. Il risultato è che ogni cittadino francese contribuisce al mantenimento dei partiti con circa 2,54 euro, ogni spagnolo con 2,13 euro e ogni tedesco con 1,61 euro. Mentre ogni italiano è costretto a versare di tasca propria ai partiti ben 3 euro e 38 centesimi negli anni "normali", come è stato il 2006. Negli anni come il 2008, nei quali c'è invece razione doppia, il contributo procapite sale a 5 euro e 7 centesimi. Il doppio che in Francia, addirittura il triplo rispetto alla Germania. Per non dire dei confronti imbarazzanti con paesi come il Regno Unito dove, spiega il dossier della Camera, «Il finanziamento pubblico - se si escludono alcuni servizi messi a disposizione dallo Stato nel corso delle campagne elettorali - è limitato ai contributi concessi ai partiti di opposizione in Parlamento». Totale nel 2006: 5 milioni 603.779 sterline, pari a circa 7 milioni 374 mila euro. O degli Stati Uniti, dove «il finanziamento pubblico della politica è limitato al finanziamento della campagna presidenziale» e nel 2004 è costato 206 milioni di dollari, circa 50 centesimi di euro per abitante. Ovvero, considerando che negli Usa, cascasse il mondo, si vota sempre ogni quattro anni, 12,5 centesimi l'anno. Quaranta volte meno che in Italia. Si può andare avanti così?

Paese contributo pubblico annuo in euro
Italia 295.357.091,04
Germania 133.000.000,00
Francia 80.264.408,00
Spagna 75.543.395,00
Gran Bretagna 4.969.808,77

Fonte: Camera dei deputati.

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« Risposta #110 inserito:: Giugno 25, 2008, 10:46:40 am »

D'Alema battezza "Red": «Diamo sfogo al malessere»

Andrea Carugati


Non sarà solo un'associazione di parlamentari e intellettuali. Ma un'organizzazione capillare, radicata sul territorio, con coordinamenti a livello regionale e provinciale. Il "tesseramento", 100 euro a testa, è partito già martedì pomeriggio al cinema Farnese, dove «Red», Riformisti e democratici, l'associazione che sarà la costola politica della Fondazione di Massimo D'Alema Italianieuropei, è stata tenuta a battesimo. 110 i parlamentari Pd già arruolati, 4 gli eurodeputati guidati dal capogruppo italiano nel Pse Gianni Pittella, prodian-lettiano il presidente Paolo De Castro, mariniano uno degli uomini forti del progetto, l'ex responsabile organizzativo della Margherita Nicodemo Oliverio. Che dice: «Avremo tantissime associazioni Red su tutto il territorio nazionale, luoghi dove nasca l'amicizia».
«Non sarà una corrente», hanno ripetuto in coro tutti gli intervenuti, da Livia Turco a Bersani, fino a D'Alema che ha chiuso l'incontro. Ma la Turco parla esplicitamente di una «doppia militanza: ben vengano luoghi che ci aiutino ad avere coraggio e schiena dritta». L'ex ministro degli Esteri ha battuto più volte sul rapporto tra Red e il Pd. «Non vogliamo destabilizzare, fare casino, o rompere le scatole a Veltroni». «Non vogliamo organizzare un pezzo del Pd, o fare un partito di massa», ha aggiunto. «Fare una corrente sarebbe stato più semplice- avverte- non avremmo avuto bisogno di tutta questa impalcatura. Qui ci sono persone che hanno votato candidati diversi alle primarie, io ad esempio ho sostenuto Veltroni e non ne sono pentito».

L'obiettivo dichiarato di D'Alema è aprire «un luogo di confronto tra politica e società», costruire «una forma politica di tipo nuovo», con una fondazione, una associazione, una tv satellitare, collegamenti internazionali, sulla falsariga del modello americano. «Vogliamo fare cultura politica», dice Bersani. «Solo il conformismo e la pigrizia possono far pensare a una corrente- dice D'Alema- ma noi non ci possiamo far condizionare, ricattare o intimidire da questo conformismo. Il successo di Red può essere importante per il decollo del Pd». D'Alema spiega di non volersi «sostituire», con Red, al momento della decisione politica: «Sono da tempo fuori da organismi di direzione politica, e non ho in mente di tornarci. Il nostro lavoro sta a monte delle decisioni, vogliamo fornire alla politica materiali ed elementi che aiutano». L'esempio c'è già, e lo descrive con nettezza Ignazio Marino, che proprio dentro Italianieuropei negli anni scorsi ha prodotto elaborazioni e progetti sui temi della sanità e della bioetica.

D'Alema parla di Red come di «un canale di partecipazione in più», in grado di dare sfogo «al malessere che c'è» nel Pd, di «canalizzarlo verso azioni positive e non distruttive». Spiega che il successo di Red si misurerà non con il numero dei parlamentari aderenti, ma dal «numero di persone, anche e soprattutto non iscritte al Pd, che aderiranno». Ma guai a chi volesse usare l'associazione per pesarsi dentro il Pd. Lo dice De Castro: «Nessuna ambizione di pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». E D'Alema si rivolge alla platea: «Se qualcuno vi dice "vediamoci prima della tale riunione", resistete. Non usate Red per scopi, pure legittimi, ma che sono diversi dal nostro».

Poi c'è l'idea di elaborare idee per la sfida a un centrodestra «che ha preparato la sua vittoria anche con tante iniziative culturali di questo tipo». Ma anche il governo e la sua maggioranza saranno interlocutori di Red, a partire dal convegno sulle riforme elettorali e costituzionali che sarà organizzato a metà luglio e che, ha detto D'Alema, tra gli invitati vedrà anche il ministro delle Riforme Bossi. In autunno altro appuntamento sui temi della competitività, con inviti ad alto livello nel mondo industriale e sindacale. «Credo nel dialogo- ha spiegato D'Alema- il punto è chi fissa l'agenda». Ed è chiaro che uno degli obiettivi di Red sarà fissare l'agenda, non solo dentro il Pd.

Uno dei temi più battuti nel bollente pomeriggio romano è la necessità di fissare in modo più netto la differenza tra centrosinistra e centrodestra. L'ha detto Bersani: «Non può essere la destra a dire che il mondo così non va bene, il Pd deve anche litigare con l'opinione del momento». Barbara Pollastrini: «La Lega vince perché ha un'identità chiara, non dobbiamo seguire il senso comune, Zapatero e Obama sanno osare». Livia Turco sprona a difendere gli immigrati da questa «caccia» che si è aperta, a non considerare «ineluttabile» l'introduzione del reato di immigrazione clandestina. Gianni Pittella, invece, punta sulla «felicità di chi è venuto qui oggi», una neanche tanto velata stoccata all'assemblea del Pd di venerdì a Roma. E introduce un altro tema, in contrapposizione al nordismo di molti dirigenti del Pd: «Red nasce per affermare una nuova politica meridionalista». Musica per Nicola Latorre, padrone di casa della giornata, che sorride a un paragone tra Red e il Correntone: «No, porta sfortuna, quelli sono stati sempre minoritari...».


Pubblicato il: 25.06.08
Modificato il: 25.06.08 alle ore 8.58   
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« Risposta #111 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:53:38 pm »

Rompere steccati per costruire unità


1.    Se la sinistra (e SD) vuole ritornare ad avere un peso e fuoriuscire dalla sua irrilevanza (affermazioni tipo sconfitta ma non domata; c’è ancora bisogno di una sinistra; la sinistra è viva nella società; ecc. sono solo tentativi consolatori) deve operare a due livelli:   
-    svolgere una ricerca scomoda sulle prospettive concretizzate che offriamo ai giovani, lavoratori, donne, vecchi, ecc. E’ necessario, cioè,    tentare di declinare concretamente il socialismo (o il comunismo, per alcuni di noi) in questa fase storica. Si dice e si ripete che si è persa la consapevolezza delle realtà  (il cambiamento del lavoro,  l’immigrazione, la finanziarizzazione dell’economia, le nuove povertà, la distruzione dell’ambiente, le nuove soggettività, ecc.) sicuramente si tratta di un tratto di verità, abbiamo molte incertezze sulla realtà, ma non esagererei, c’è qualcosa di più grave:  non siamo capaci di prospettare, in questa “nuova” realtà, una prospettiva sociale e politica di trasformazione che sia affascinante e convincente.  Non vorrei essere frainteso, è certo che una prospettiva non si può costruire nell’ignoranza della realtà, e quindi approfondimenti e riflessioni appaiono necessari, ma non si tratta né di una descrizione più o meno puntuale delle diverse realtà, né della formazione di una sorta di “pagine gialle dei nuovi soggetti”, ma soprattutto dell’individuazione delle nuove forme del “capitale” e dello sfruttamento, dei processi di accumulazione e di valorizzazione, dell’articolazione sociale strutturata, ecc. (si lo so siamo alle solite, ma si tratta di una necessità). Solo così si può dare alimento alla costruzione di una prospettiva. Per molto tempo la “sinistra”, ovunque collocata, ha giocato al + 1, ma questo atteggiamento si paga, come si è visto. La politica di sinistra si fa con tensioni e tentazioni forti;
-    contemporaneamente non può mancare l’iniziativa politica nella società e nei territori; anche questa operazione non solo è scomoda ma risulta difficile, soprattutto fino a quando non si sarà realizzata una forte ragione d’essere della sinistra. La generosità dei compagni è grande ma tale generosità deve essere alimentata, aiutata, resa forte. La prospettiva di ricostruire un blocco sociale, non egoistico né parziale, ma generale,  è possibile solo attraverso il disvelamento della realtà e l’indicazione di un destino di libertà e uguaglianza che sappia convincere e trascinare.
2.    Il congresso nella scelta dei gruppi dirigenti non solo dovrà stare attento che abbiano tutte le rappresentanze possibili (di genere, culturali, ecc., come richiesto da molti compagni), ma soprattutto deve essere  chiaro ed esplicito nel delineare i precedenti due compiti; come dire, che ci sia un mandato esplicito e non implicito.
3.    Molti compagni invidiano il radicamento della Lega (e gli operai che la votano), ma una cosa deve essere chiara, si tratta dell’esito di una battaglia ideologica e di prospettiva che la Lega ha intrapreso da lungo tempo, non di mero attivismo, né di mero radicamento, semmai questo è il risultato di una impostazione fortemente ideologica. A questo proposito sembra necessario che uno sforzo sia fatto per comprendere l’interclassismo dei nostri giorni. Che frazioni di “operai” (o più in generale di “lavoratori”) non votino a sinistra fa parte della storia della nostra repubblica, non sarebbe una novità, la novità sta, da una parte, nella dimensione del fenomeno e dall’altra nel fatto che la “sinistra” non è in grado né di parlare convincentemente con i “lavoratori” (non è questione di radicalità come alcuni credono) né di coinvolgere in ideali di sinistra ceti intermedi. Non mi convince far risalire il “disamore” verso la sinistra con la sua esperienza di governo, se fosse così semplice non avremmo fallito data la netta dichiarazione di opposizione fatta durante la campagna elettorale c’è qualcosa di più profondo nella cultura della società che non siamo stati capace né di battere né di svelare. Non sarebbe inutile un approfondimento congressuale sulla natura dell’interclassismo dei nuovi partiti (PD compreso), sulla cultura che l’alimenta, e sulla cultura “nazionale” che lo facilita. Così come sarebbe utile approfondire il ruolo della Chiesa, la sua pretesa di costruzione di uno “stato etico cattolico”, tutta di facciata ed utile a svolgere il perenne ruolo di  “agenzia elettorale”, che guarda non tanto ai contenuti ideali (dei partiti)  ma, piuttosto,  al voto di scambio contro privilegi e soldi.
4.    La sconfitta è culturale, come sostengono molti compagni, e sulla dimostrata incapacità di rinnovarsi. Non si tratta di rinchiudersi in vecchi e spesso angusti spazi, rivendicare primogeniture incerte, ma piuttosto navigare, si dice così oggi, in mare aperto. La stessa storia del movimento operaio è densa di “diversità” (non solo Marx ma anche Lenin, Rosa Luxemburg,  Bernstein, non solo Stalin, ma anche Trockij e Bucarin, non solo Togliatti ma anche Gramsci, Turati, Kuliscioff, Basso), così come ricche e molteplici sono le esperienze di forme di lotte (lo sciopero, l’occupazione delle fabbriche, ma anche il ’68, la pratica dell’obiettivo) un patrimonio teorico e di pratiche  al quale attingere a piene mani, ma non da ripristinare nella lettera. Non si tratta, come sostengono i nostri antagonisti, di strumenti ed elaborazioni buoni per il secolo scorso, ma piuttosto base culturale, strumenti di interpretazione che sono utili per fare luce sul presente e per elaborare una prospettiva. Si parla molto, al nostro interno, di un movimento plurale che sappia cogliere nuove esigenze, nuove elaborazioni e l’espressione di nuovi soggetti, ecc. chi potrebbe essere contrario, ma a condizione che non si costruisca un contenitore multilingue, ma piuttosto un’occasione per riportare le parti ad unità, un lavoro per delineare una prospettiva di cambiamento della società sul piano strutturale, aumentando i diritti individuali, affermando libertà e uguaglianza. 
5.    Non è poco per un piccolo movimento, ma solo in questa prospettiva forse, ripeto forse, sarà possibile rompere le modeste identità che tendono a prevalere per costruire una prospettiva fondata e non irrilevante.
     
*Facoltà di Pianificazione del Territorio dell'Università di Venezia

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #112 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:59:49 pm »

26/6/2008
 
Le bottiglie del Quirinale
 

 
LUIGI LA SPINA
 
Nella storia della nostra democrazia, raramente è capitato un momento così difficile per colui che ha il compito di esercitare il ruolo del Presidente della Repubblica. E’ vero che la Costituzione, nell’indeterminatezza delle norme che regolano le sue funzioni, lascia ampi margini al Quirinale per un’interpretazione molto elastica del mandato. Ma Napolitano, dopo il nuovo violento attacco di Berlusconi ai «magistrati politicizzati» e dopo il parere di incostituzionalità sul decreto che sospende alcuni processi depositato dalla commissione del Csm, si trova in una condizione del tutto eccezionale. Lui stesso, con un’amara metafora, si è paragonato a «un naufrago» che, disperato, lancia messaggi in bottiglia che nessuno sembra voglia raccogliere. In una condizione di normalità democratica, il Presidente della Repubblica è garante di quell’equilibrio di poteri sul quale si regge la moderna concezione dello Stato.

Un incarico che si può svolgere in una forma asettica e notarile o in un modo più incisivo e interventista, a seconda delle circostanze o del temperamento dell’inquilino al Quirinale. Ma che presuppone, sempre, una contrapposizione di poteri che il capo dello Stato cerca di comporre, in una posizione di arbitro, al di sopra delle parti. L’offensiva politica e mediatica del presidente del Consiglio contro i magistrati che lo indagano, con i toni esagitati e personalistici sfoderati ieri alla Confesercenti, rischia di impedire a Napolitano di mantenere proprio quel ruolo di «terzietà» a cui finora il Quirinale si è ostinatamente aggrappato. Perché, oggi, il potere sembra tutto concentrato sul governo e sul suo capo e i contropoteri o sono debolissimi o sono scarsamente autorevoli e credibili.

Forte di una netta vittoria elettorale, con la conseguente robusta e disciplinata maggioranza in Parlamento, confortato da un vasto consenso d’opinione, che solo negli ultimi giorni sembra farsi più tiepido, Berlusconi ritiene questo il momento più opportuno per sconfiggere definitivamente i giudici che lo vogliono processare. La scelta, al di là della sentenza sul caso Mills che sembra imminente, coglie l’opposizione parlamentare in una fase di estrema difficoltà. Divisa tra l’intransigentismo agitatorio di Di Pietro e la ricerca di un contrasto non pregiudiziale di Veltroni, alla chimerica caccia di un impraticabile dialogo. Insufficiente nei numeri, spaccata nel metodo, azzoppata da una sconfitta dalla quale non sa come uscire, la minoranza in Parlamento non può certo essere definita, ora, un contropotere.

Anche il potere della magistratura pare in un periodo di acuta debolezza. Come paiono lontani gli anni dell’entusiastico sostegno popolare, a colpi di fax, dell’epoca di «Mani pulite». La persistente incapacità di fare giustizia, in tempi ragionevoli e con sentenze ragionevolmente certe, il protagonismo di alcuni giudici, la faziosità e la incapacità professionale palesate in alcune indagini hanno scavato un fossato di delusione, di diffidenza e di risentimento tra l’opinione pubblica e la categoria. Ecco perché quel potere, che una volta rappresentava una forza temuta e difficilmente fronteggiabile dalla politica, oggi sembra costretto a una difesa affannosa e abbastanza isolata.

In queste condizioni il «naufrago» Napolitano rischia, anche per la sua carica di presidente del Csm, di dover esercitare due funzioni apparentemente inconciliabili: quella, tradizionale, di arbitro imparziale tra politica e magistratura. Ma anche quella di supplire, con la forza della sua personale credibilità, alla debolezza degli altri infiacchiti contropoteri che devono pur essere rappresentati e difesi davanti a quello, straripante, del governo. Così la «zattera» del capo dello Stato, se si aggrappa alla fune di Berlusconi, rischia di essere sommersa dall’onda soverchiante di chi potrebbe costringerlo a rinunciare ai suoi doveri di garante delle regole costituzionali; se accoglie le truppe sbandate degli oppositori del presidente del Consiglio, potrebbe affondare sotto il peso dell’accusa di faziosità e di pregiudizio.

Come Napolitano riuscirà a comporre queste due esigenze cominceremo a capirlo presto. Quando, per esempio, il capo dello Stato dovrà sottoscrivere il decreto legge sul quale il Csm ha dato un parere di incostituzionalità. L’avviso dell’organo di autogoverno della magistratura, certo, non è vincolante. Ma sicuramente costituisce un’opinione ingombrante. L’autonomia di giudizio del presidente della Repubblica è tale, comunque, da consentirgli l’assoluta libertà di scelta tra i salvagenti a cui il «naufrago» potrebbe attaccarsi.

Con l’augurio che la sua decisione non salvi solo lui, ma anche la nostra democrazia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #113 inserito:: Giugno 26, 2008, 04:01:14 pm »

Martedì, 24 Giugno 2008

Il test di inizio estate lo propone Pornopolitica (che non ha niente di porno) e si chiama Sei veltroniano o dalemiano (o magari parisiano?). Questionario a risposte chiuse, del tipo:
Francesco Rutelli?
A - Rutelli chi?
B - Rutelli chi?Che?!?
Una cosa è certa: la blogosfera democratica (nel senso del Pd) ha ripreso a discutere. Con vari toni nel registro: la matita satirica di Artefatti (qui accanto, dove lo scontento del lavoro è il segretario del Pd) o i conti correnti di Zoro, che ci fa notare che la conferenza stampa di Veltroni sul “buco” al comune di Roma è quasi in sovrapposizione con la presentazione della dalemiana “red”. Insomma si parla, cioè si scrive molto. A cominciare dai giovani quarantenni che vogliono il partito in mano, ma per legge delle libere associazioni, si attinge alla cronaca, quindi al calcio.

Parlando di Lippi e Veltroni
Così è per Ivan Scalfarotto che pare che parli di calcio e invece è proprio del Pd che parla nel post “palle perpetue”, dedicato al ritorno di Lippi: Il fatto che il nuovo allenatore dell’Italia sia il vecchio allenatore dell’Italia è la perfetta metafora (calcistica) di un paese che quando è in difficoltà finisce col guardare soprattutto all’indietro (…) Benvenuti nel paese dei perpetui. Mica è il solo. In Riformismi, Aldo Torchiaro annota: Ma insomma, come si fa a guidare una macchina, veloce o lenta che sia, guardando sempre e solo nello specchietto retrovisore? Io promuoverei una regola generale: per svecchiare il Paese, è necessario un First Time Player. C’è chi teorizza, in Sfera Pubblica: Il calcio è diventato emblema comunicativo .

Beati gli italiani all’estero, qui i giovani hanno 40 anni
E se al circolo Pd di Londra si tengono aggiornati con la proiezione di Nazirock, nel think tank liberista di NoisefromAmerika un pezzo che propone paralleli fra la sinistra d’Italia e quella degli Usa ma parla sopratuttto di Barack Obama. Insomma gente lontana e felice. Qui si rimugina attorno alla questione dell’età. Lo fanno alcuni dei protagonisti della vicenda: Mario Adinolfi in un post di 48 ore fa ma che stamattina riproponeva le sue domande su Veltroni a Nessuno Tv. Così Marta Meo, Avevo scritto a Uòlter mi ha risposto Rosy, così Ciwati : Vogliamo trasmettere ai cittadini qualche segnale, qualche ‘cosa’, piuttosto che quell’atmosfera da eterno conclave (tra l’altro mezzo vuoto)? Ci decidiamo a costruire una nostra agenda (altro che ombre cinesi) e fare opposizione al governo B? Come, quale opposizione? Tutto ruota attorno all’assemblea de iMille

Quelli che non c’entrano niente
Ma questo è già un conclave, un dibattito interno. Da fuori cosa si dice? Un po qui, Schegge di Vetro, un po’ Il Nuovo Mondo di Galatea, che propone la lunga satira del Portavoce giovane con la giacca grigia. Ed Alfonso Fuggetta, che col Pd non c’entra, è un tecnologo e professore universitario e che si conquista il “post per intero” di Netmonitor (vedi alla fine). Ma si potrebbe rubare una citazione a Tom, presa direttamente da Truman Capote e dire con la protagonista di Colazione da Tiffany: it’s tacky to wear diamonds before you’re forty (è un po’ privo di gusto mettersi diamanti prima dei 40)

La politica degli altri? Personal Democracy Forum
C’è un manipolo di blogger italiani che partecipa al Personal Democracy Forum : intreccio di politica, rete e capacità di comprendere la politica attraverso la comprensione della rete. Un binomio da noi impossibile. I tre sono Sergio Maistrello (blog omonimo), Antonio Sofi di Webgol e Svaroschi. I primi due tengono una cronaca ora per ora delle giornate di dibattito. Insostituibile per gli interessati anche perché ricca di link.

E il Tibet che c’entra?
Proteste e diversi pareri per la pubblicità della Fiatcon Richard Gere e pro-Tibet. Da Klochov (Tibet e paraculaggine) e da LiberaliperIsraele

Un post per intero. Che palle sta storia dell’età
A parte il fatto che c’è gente a 40 anni che non ha un briciolo di idee in zucca, ma quelli nella fascia da 40 a 65 che devono fare? Gli attaccapanni? Da un lato si continua a ripetere che la vita si allunga e che bisogna lavorare fino a 65 anni almeno. E io sono d’accordo. Poi però nella politica come nelle professioni si dice che bisogna fare largo ai giovani e ai 40enni. (da Alfonso Fuggetta)

(a cura di vittorio zambardino)

da netmonitor.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #114 inserito:: Giugno 30, 2008, 09:22:26 am »

DIRITTO E PARLAMENTO

Rebus del lodo


Dal «lodo Schifani» del 2003, miseramente naufragato di fronte alla Corte costituzionale, all'odierno progetto di «lodo Alfano» il passo non è breve, anche prescindendo dalle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi.
Difficoltà possono sorgere non solo, e non tanto, sul piano dei contenuti, quanto soprattutto sul piano delle procedure di approvazione, trattandosi di materia costituzionale. Circa i contenuti, bisogna riconoscere che il disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri per sottrarre alla giurisdizione penale i «presidenti» titolari di una delle quattro più alte cariche dello Stato (mediante sospensione dei processi, ma non delle indagini, nei loro confronti, per reati comuni, cioè non inerenti all'esercizio delle loro funzioni) si è sforzato di adeguarsi alle indicazioni desumibili dalla sentenza n. 24 del 2004, con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima la corrispondente disposizione del «lodo Schifani».

In questo quadro si spiega, per esempio, che sia stata oggi sancita la temporaneità dello «scudo immunitario» proposto a favore di tali soggetti, circoscrivendolo alla durata della carica, salva l'ipotesi di «nuova nomina» nel corso della stessa legislatura e nella medesima funzione; che sia stata ammessa la possibilità di rinuncia al relativo meccanismo di tutela da parte dei soggetti interessati; ed inoltre che sia stato consentito ai danneggiati dal reato di far valere le loro ragioni agendo davanti al giudice civile.
Anzi, in analoga prospettiva di attenuazione delle più vistose anomalie che una disciplina del genere potrebbe provocare rispetto alla sorte dei processi da sospendersi, si spiega altresì che sia stata di regola prevista la possibilità di acquisire prove urgenti perché «non rinviabili»; e, su un piano diverso, che sia stata correlativamente stabilita la sospensione dei termini di prescrizione.
Tutto ciò potrebbe dunque facilitare la «digeribilità», all'interno del sistema, di una disciplina che di per sé configura pur sempre un innegabile trattamento privilegiato, in chiave di temporanea immunità processuale, a vantaggio dei quattro «presidenti» posti al vertice dello Stato (a parte la non superata obiezione, proveniente ancora dalla Corte costituzionale, circa la «intrinseca irragionevolezza» della riserva di un tale privilegio soltanto ai suddetti presidenti, e non anche agli altri componenti degli organi da essi presieduti). Resta vero, tuttavia — ed il rilievo assume carattere pregiudiziale rispetto all'intero impianto della disciplina in questione — che la introduzione di un simile regime processuale differenziato in capo ai titolari delle suddette alte cariche, comporta comunque una deroga profonda al fondamentale «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione», che secondo la stessa Corte si colloca «alle origini della formazione dello Stato di diritto».

Sicché, anche ad ammettere che una deroga del genere possa accogliersi, nel quadro di un equilibrato bilanciamento dei valori in gioco, con riguardo alla esigenza di assicurare il «sereno svolgimento» delle funzioni inerenti alle medesime cariche (esigenza peraltro piuttosto vaga, e di incerta copertura a livello costituzionale), occorrerebbe in ogni caso che la relativa disciplina venisse adottata non già con legge ordinaria, ma con legge costituzionale.
E, quindi, con le particolari procedure imposte dall'articolo 138 della Costituzione.
Che si tratti, del resto, di materia tipicamente costituzionale, non possono esservi dubbi, come è dimostrato tra l'altro dalla circostanza che le particolari prerogative riconosciute al presidente della Repubblica ed al presidente del Consiglio (nonché agli altri ministri) di fronte alla giustizia penale, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, trovano specifico fondamento nella stessa Costituzione, o in leggi costituzionali. Le quali, invece, tacciono (con ciò escludendola) rispetto ad ogni altra eventualità di deroga al principio di eguaglianza a tutela di tali soggetti.
A maggior ragione, dunque, si realizzerebbe una pericolosa forzatura, se si pensasse di disciplinare con legge ordinaria addirittura una ipotesi di sospensione dei processi per reati comuni, quindi extrafunzionali, addebitati ai «presidenti» in questione.
Ciò che, evidentemente, potrebbe giustificarsi (sotto il profilo di una pur discutibile «presunzione assoluta di legittimo impedimento», correlata alla durata della carica) non già per obiettive ragioni processuali, ma solo in rapporto allo status istituzionale rivestito dagli stessi. E pertanto si risolverebbe, in definitiva, in una prerogativa costituzionale propria dei medesimi soggetti, la cui fonte non potrebbe essere una legge ordinaria.


Vittorio Grevi
30 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #115 inserito:: Luglio 01, 2008, 03:58:15 pm »

1/7/2008
 
Chi vince in campo non vince in Europa
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
Non da oggi il calcio, più di altri sport, è considerato una metafora della vita. In una stessa partita, attacco e difesa, resistenza nelle fasi grigie, ritorno d’iniziativa o rassegnazione. Ed essendo un gioco di squadra e di squadre, il calcio è anche una metafora della politica e della strategia. Un personaggio come Henry Kissinger ne è da tempo un accanito cultore: certo, per passione sportiva, ma anche, e l’ha detto, per un’occasione di analisi dei comportamenti collettivi. Allora, quali riflessioni sociopolitiche suggerisce il campionato europeo appena concluso con la vittoria della Spagna sulla Germania? Siamo su una linea di confine tra divertimento e realtà, che però vale la pena di esplorare.

Partendo da un dettaglio: in Spagna il gusto della vittoria ha avuto la meglio su antiche divisioni regionali e, almeno in Catalogna, i tifosi hanno sventolato la bandiera nazionale. E dunque (sebbene non sempre e dovunque) c’è un riflesso anche interno degli eventi sportivi. Che tuttavia è subalterno al confronto tra i diversi Paesi in competizione. E questo secondo aspetto è forse il più interessante, almeno in questo caso.

Alla partita finale sono arrivate la Spagna e la Germania. Cioè i due Paesi oggi più vitali dell’Unione europea. La Germania è la locomotiva dell’economia continentale, nonostante l’avversa congiuntura internazionale, e non nasconde più l’intenzione di recuperare un corrispettivo ruolo politico. La Spagna, con tutti i suoi secoli di storia, anche controversa, appare oggi come il membro più giovane e volitivo dell’Ue, per molti versi il più moderno, pur se tra discussioni e problemi. Addirittura, con punte a volte eccessive di entusiasmo nazionale, magari a spese di noi italiani (che tuttavia ci meritiamo la lezione...). La Germania e la Spagna sono arrivate alla finale battendo rispettivamente la Turchia e la Russia. Vale a dire i due maggiori Paesi esterni all’Unione europea, sulla quale premono in modi diversi e per il cui futuro rappresentano, diciamo, le due sfide più grandi.

La Turchia, chiedendo di esservi ammessa, con tutto il suo peso demografico e geopolitico, ma anche con tutte le sue profonde contraddizioni interne, tra Islam e laicità, non sempre democratica. La Russia, essendo ormai consapevole, superata la storia dell’Urss, di poter essere non meno influente del vecchio impero (o forse di più, per le sue valorizzate ricchezze energetiche) sulle scelte economiche e politiche dell’Europa tradizionalmente liberale. Insomma, tedeschi e spagnoli hanno difeso, per così dire, lo «statu quo», tenendo alla larga i due maggiori sfidanti e oggettivamente inducendoli a più realistiche considerazioni.

Non varchiamo il confine tra divertimento e realtà. Lo sport è una cosa, la politica un’altra. Ma lo sport in generale, e il calcio in particolare, hanno spesso superato i limiti del terreno di gara per diventare simboli d’una situazione più ampia e complessa. Hanno fotografato (casualmente, inconsapevolmente, ma anche per un intreccio insondabile di fattori psicologici, di energia fisica, e persino di fattori storici, di «ambiente» storico) un quadro di rapporti di forza presenti e di problemi futuri per intere società e nazioni.

Potrebbe essere accaduto anche in questi campionati europei, nei quali i due Paesi intrinsecamente oggi più saldi e coesi hanno fornito un’immagine vincente all’Unione europea, fermo restando che poi con Turchia e Russia bisognerà discutere, in amicizia, su problemi specifici. Ovviamente, tedeschi e spagnoli si son giocati la gara decisiva tra loro. E anche questa è una lezione, o un’indicazione politica. Anche nelle partite in famiglia, alla fine, c’è uno che vince e uno che perde. Questa volta ha vinto la Spagna. Meritatamente.


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« Risposta #116 inserito:: Luglio 02, 2008, 12:41:46 am »

Il ministro della Difesa in visita a Kabul parla della zona di Farah

La Russa: «I soldati italiani combattono da un anno: Prodi e i giornali zitti»

«L'avrei fatto anch'io al loro posto. Grazie a Dio non abbiamo subito lutti e sofferenze»

 

KABUL - I soldati italiani sono coinvolti già da un anno in combattimenti contro i talebani nella zona di Farah, ma né i giornali né il governo Prodi l'hanno reso noto. La rivelazione è del ministro della Difesa Ignazio La Russa, in visita in Afghanistan, a margine dell'annunciato dell'incremento delle forze italiane nell'area di Farah.

ZITTI - «I nostri militari combattono da un anno, ma sui giornali italiani non se ne parlava», ha detto il ministro a Kabul dopo aver visitato Herat e Farah. «Il governo Prodi ha tenuto giustamente questa informazione riservata. Lo avrei fatto anch'io al suo posto. Ora però possiamo confermare che i nostri militari hanno partecipato ad azioni anche di combattimento, hanno salvato vite umane di militari appartenenti ad altri contingenti e neutralizzato attentati. Si tratta di compiti pericolosi e ringrazio Dio che non abbiamo subito lutti e sofferenze», ha aggiunto La Russa.

RINFORZI - Finora la presenza delle truppe italiane a Farah - circa 200 uomini, un centinaio delle forze speciali appartenenti all'Esercito e all'Aeronautica e alla Marina e due plotoni di fucilieri della brigata Friuli - non era stata ufficializzata, nonostante diverse indiscrezioni di stampa. La Russa ha sottolineato che «non è che improvvisamente siamo diventati guerrafondai: è che prima non si diceva». Dall'inizio di agosto, quando l'Italia lascerà ai francesi il comando della regione centrale, circa 500 militari e tre elicotteri verranno riposizionati nella zona di Farah, dove ci sono rischi di infiltrazione di ribelli da sud. L'incremento delle forze italiane in quell'area sarà a regime entro novembre. In Afghanistan potrebbero essere impegnati anche istruttori della Guardia di finanza. L'ipotesi, lanciata dal presidente afghano Karzai, «dovrà essere vagliata dal governo e dal ministro competente», ha detto La Russa. «Un nucleo di Fiamme Gialle potrebbe essere impegnato nella lotta alla corruzione finanziaria incrementando così il ruolo formativo che già oggi alcuni finanzieri svolgono sul versante dei controlli doganali». A Kabul sono giunti i primi dei circa 40 carabinieri che avranno il compito di addestrare la polizia afghana.


01 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #117 inserito:: Luglio 02, 2008, 12:42:46 am »

Afghanistan, La Russa: a novembre 500 soldati in guerra


Nonostante l’articolo 11 della Costituzione e il mandato della missione italiana in Afghanistan, il governo Berlusconi vuole fare la guerra. E il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha già messo l’elmetto ed è partito per il fronte. In un incontro a Herat, presso il comando italiano, tra il ministro e il comandante del contingente italiano, il generale Francesco Arena, è stato l’occasione per rompere gli indugi e partire per spezzare la schiena ai talebani. Visto che i militari statunitensi, inglesi e tutti gli altri della coalizione non riescono a contenere i nemici, La Russa ha annunciato che a novembre invierà a salvarli ben 500 soldati italiani, che saranno trasferiti nel sud dell'Afghanistan, a Farah, uno dei posti più caldi del Paese.

I rinforzi destinati al fronte, assicura La Russa, non faranno aumentare il numero degli italiani impegnati in Afghanistan perché alla fine di agosto l'Italia lascerà il comando della capitale Kabul ai francesi e quindi saranno «liberati» ben ottocento uomini: trecento rientreranno in Italia e cinquecento verranno utilizzati per rinforzare il contingente nel sud, dove l’Italia però non c’era finora, visto che gli italiani sono di stanza solo a Kabul e Herat. L'operazione sarà conclusa entro il prossimo novembre.

Per dar forza al suo proclama, La Russa ha sentenziato che il comando italiano di Herat controlla un territorio grande quasi quanto l'Italia, ma può disporre della meta degli uomini normalmente destinati al derby Roma-Lazio. Forse è un preludio a qualche altra iniziativa del governo Berlusconi: sarebbe bello, nei sogni del ministro della Guerra, magari aumentare il contingente italiano in Afghanistan. Nell’attesa, La Russa ha proclamato l’assoluta necessità di aumentare il numero degli elicotteri. «Sarebbe necessario avere molti più elicotteri - ha detto La Russa - innanzitutto per migliorare gli spostamenti e anche per superare il problema delle tante mine disseminate sul terreno».

Ad Herat è arrivato, intanto, un altro elicottero Mangusta mentre una compagnia di fucilieri della Brigata Friuli sono stati inviati a Delaram, nel punto più lontano della regione controllata dai militari italiani proprio per evitare che gli insorti possano arrivare da quella parte. La Russa ha inoltre sottolineato la sua intenzione di soddisfare la richiesta tedesca di inviare quattro aerei tornado in Afghanistan con compiti di ricognizione. Così, La Russa ha disteso tutte le pedine del suo risiko. Poi, si è ricordato che non è un gioco e si è ricordato che l’Italia è una democrazia. «Certo, è una decisione impegnativa dal punto di vista economico - ha aggiunto -, e deve essere presa dal Governo».

Pubblicato il: 01.07.08
Modificato il: 01.07.08 alle ore 17.30   
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« Risposta #118 inserito:: Luglio 02, 2008, 04:39:46 pm »

2/7/2008
 
La carta e la prassi
 

 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
C’ è nuova tempesta attorno alla pretesa del Consiglio Superiore della magistratura di esprimere un parere sulla norma che sospende automaticamente per un anno un gran numero di processi penali, già approvata dal Senato ed in corso di approvazione dalla Camera.

La questione avrebbe costituito oggetto di un colloquio riservato fra i presidenti dei due rami del Parlamento ed il Capo dello Stato.
Si è temuto, scrivevano ieri i giornali, un conflitto fra poteri dello Stato, poiché i due presidenti avrebbero avuto intenzione di rispedire al mittente il documento dei magistrati, giudicandolo manifestazione impropria in quanto esorbitante dall’ambito delle specifiche competenze del Csm.

La controversia sulle competenze di quest’ultimo organo è risalente nel tempo. Se ne è discusso moltissime volte. Il problema è già stato al centro, in passato, di polemiche roventi e di iniziative eclatanti. Sul punto vi sono stati addirittura, talvolta, momenti aspri di tensione fra il Consiglio ed il suo Presidente.

Da un lato vi è chi sostiene che il Csm è legittimato a svolgere soltanto le attività espressamente riconosciute dalla Costituzione, a decidere cioè «le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati». Dall’altro vi è chi afferma che al Consiglio, in quanto organo di autogoverno della magistratura, competono funzioni più ampie, di tipo sostanzialmente politico. Esprimere pareri al governo sulle iniziative legislative concernenti la giustizia, ergersi a difesa di singoli magistrati o della magistratura nel suo insieme quando sono sotto attacco, ragionare sul funzionamento della giustizia e fare proposte organizzative o legislative per il suo miglior funzionamento.

La lettera della Costituzione sembrerebbe orientare nella prima direzione. La ragion d’essere dell’istituzione del Csm come espressione, non solo simbolica, dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura ha portato a riconoscere invece, progressivamente, all’organo di autogoverno dei magistrati poteri più ampi di quelli amministrativi e disciplinari. Una prassi pluriennale di azioni e comportamenti ha radicato, nei fatti, questa interpretazione estensiva. Oggi, si può dire, essa costituisce espressione di diritto vivente difficilmente contestabile.

In questa prospettiva la lettera inviata ieri al Csm dal presidente Napolitano costituisce autorevolissimo avallo di quanto appare giuridicamente indiscutibile. «Non può costituire sorpresa o scandalo - scrive infatti in modo ineccepibile il Capo dello Stato - la circostanza che il Csm formuli un parere diretto al ministro della Giustizia su di un progetto di legge di notevole incidenza su materie di interesse del Csm stesso»; si tratta, infatti, di «una facoltà attribuitagli espressamente dalla legge», il cui esercizio «è consolidato da una costante prassi interpretativa» e sicuramente «non interferisce con le funzioni proprie ed esclusive del Parlamento». Tanto più, si può soggiungere, che il parere espresso non ha natura vincolante per nessuno, meno che mai per il Parlamento.

Davvero, peraltro, il Csm non è legittimato a dare pareri che non gli siano stati esplicitamente richiesti dal guardasigilli e non è autorizzato ad esprimersi sulla legittimità costituzionale di una legge, poiché, così facendo, usurperebbe funzioni che sono proprie di altro organo di garanzia? Il Capo dello Stato, nella sua lettera, ha affermato, con l’autorevolezza dell’alta carica rivestita, che il Csm non potrebbe farlo perché il sindacato di legittimità competerebbe appunto, in via esclusiva, alla Corte Costituzionale.

L’illegittimità costituzionale della norma che sospende automaticamente i processi penali è stata denunciata, nei giorni scorsi, da alcuni fra i più importanti giuristi italiani. Ricordo, per tutti, l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida. Perché, allora, ciò che costituisce principio enunciato da singoli giuristi non può essere rilevato, allo stesso modo, da un consesso di esperti riuniti nell’istituzione deputata ad esprimere ufficialmente pareri non vincolanti sui disegni di legge concernenti i temi della giustizia? Perché, ha ragionato il Capo dello Stato, un’istituzione pubblica non ha titolo per sovrapporre la sua valutazione a quella che una diversa articolazione dello Stato è specificamente delegata a compiere.

L’opinione così autorevolmente espressa merita ovviamente la massima attenzione. Probabilmente essa non mancherà, tuttavia, di suscitare fra i giuristi qualche discussione.

C’è peraltro un ulteriore profilo che induce a riflettere. Poiché, come ho detto, i pareri del Csm, meramente consultivi, non vincolano nessuno, quando ero vicepresidente di tale organo mi sono più volte domandato se il lavoro speso nella loro stesura avesse una qualche utilità, perché, pensavo, difficilmente essi sarebbero stati condivisi e seguiti dagli organi chiamati a decidere. Perché allora, nei giorni scorsi, tanta acrimonia, tanta polemica, da parte dell’attuale maggioranza politica nel denunciare l’asserito straripamento di poteri? Il dubbio è che, enfatizzando un problema inesistente, si sia inteso, in realtà, porre le premesse per un ridimensionamento della stessa istituzione. In questa prospettiva l’intervento del Capo dello Stato, al di là della sua portata giuridica, avrebbe, principalmente, un forte significato politico. Sarebbe il tentativo di salvare, comunque, il salvabile.

da lastampa.it
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« Risposta #119 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:46:35 am »

Lettera da due fratelli di sangue

Nando Dalla Chiesa - Pina Maisano Grassi


Gentile Magistrato,

ci rivolgiamo a Lei senza conoscere, e in fondo senza volere conoscere, il Suo nome. Non sappiamo d’altronde neanche a chi queste righe debbano essere più propriamente indirizzate: se ai Magistrati della Corte di Cassazione che hanno prodotto giurisprudenza in materia o al Magistrato del Tribunale di Sorveglianza che tale giurisprudenza ha scrupolosamente applicato.

Una cosa sappiamo con certezza: che un noto esponente del clan mafioso dei Madonia - uno dei più feroci - è stato sottratto al regime del carcere duro per la ragione che non risulterebbero più «attuali» i suoi rapporti con Cosa Nostra. E si capisce. Che motivo vi sarebbe di imporre un regime detentivo più severo a chi, provatamente, non intrattiene più rapporti significativi con l’organizzazione criminale da cui proviene? Vede, gentile Magistrato, l’idea di sottoporre i mafiosi a un regime carcerario particolare, come già era stato fatto - e con successo - con i terroristi, divenne specifica norma di legge sulla spinta di due Suoi colleghi di una certa competenza ed esperienza, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Più esattamente sulla spinta delle due distinte stragi con cui la mafia, forse non da sola, decise di fermarli. I Suoi colleghi, infatti, si erano convinti che i capi mafiosi usassero il carcere come luogo da cui continuare a pieno titolo, e talora con maggior prestigio, l’esercizio del comando, attività tanto più rispettata e consentita dal resto dell’organizzazione quanto più i capi stessi potessero esibire una certa benevolenza della magistratura e delle istituzioni verso di loro.

Intervenendo sul regime detentivo, pensavano sempre i Suoi colleghi, i mafiosi sarebbero stati neutralizzati, emarginati, messi nella condizione di non fungere più da punti di riferimento per le trame e gli affari criminali, perfino spogliati del loro carisma e prestigio. E gli affari stessi ne sarebbero risultati ostacolati, sia pure temporaneamente rallentati o spezzati, dando luogo a sbandamenti, incertezze e faticose ricostruzioni delle gerarchie mafiose. Insomma, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino caldeggiavano questo provvedimento per colpire alla radice lo storico, «felice», eversivo rapporto tra mafia e carcere.

Lei invece ha ragionato in modo diverso. Lei ha ritenuto che se il carcere duro funziona, ossia interrompe i rapporti del mafioso con la sua organizzazione, ebbene questo debba avere come conseguenza la soppressione dello stesso regime di carcere duro. Ovvero: siccome funziona, lo aboliamo. Sappiamo come lei argomenta: dobbiamo farlo, perché non risultano più «attuali» i rapporti del soggetto criminale con la mafia. E lo sostiene anche se i magistrati di Palermo insistono nel sottoporre alla Sua attenzione gli effetti devastanti di una simile valutazione.

In fondo la sua logica, apparentemente fantastica, parmenidea, disvela un nucleo di razionalità insuperabile. Sicché proviamo perfino una punta di ammirazione davanti a un tale costrutto aristotelico, a tanta perfezione cartesiana. C’è davvero nel Suo provvedimento una razionalità che ci affascina e conquista. Che evoca in noi la celebre immagine del domatore di pulci il quale, dopo avere tagliato le zampette alla pulce preferita e dopo averle inutilmente ordinato di saltare, annotò con qualche eccitazione «è scientificamente provato che con il taglio delle zampe le pulci perdono l’udito».

Forse Lei si chiederà come mai questa lettera aperta - e dal destinatario incerto - Le arrivi a doppia firma. E proprio con queste due firme. Semplicemente, ieri mattina ci siamo sentiti dopo avere appreso le prime contraddittorie notizie di stampa sulla Sua decisione. Per chiederci se il boss con tanta e rotonda razionalità sottratto al regime del carcere duro, fosse quel Madonia che ha ucciso il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa oppure quel Madonia che ha ucciso l’imprenditore Libero Grassi (sa, questi sono clan numerosi, e per di più uccidono a grappoli...). Finché abbiamo concluso, da «fratelli di sangue» quali siamo, che non ce ne importa niente di saperlo. Che quanto è accaduto, quel che Lei ha deciso, ci basta per farci rimpiangere, una volta di più, il prefetto e l’imprenditore. Per accarezzare, dentro di noi, l’idea che essi avevano delle istituzioni, delle leggi e dei loro doveri. Per ricordare quei due Suoi colleghi (di toga, anche se non di modi di pensare) che pagarono anche questa idea, per Lei assurda, del carcere duro per i mafiosi; convinti com’erano che dalla mafia si uscisse solo o con la morte o sposando la giustizia dello Stato. Abbiamo pure immaginato, nella nostra telefonata, che il potere politico, sempre così sfrontatamente invasivo verso l’amministrazione della giustizia, stavolta rispetterà scrupolosamente la divisione dei poteri, cardine e fondamento (come sappiamo) di ogni democrazia.

Grazie, gentile Magistrato, per averci restituito d’un colpo, con la Sua «lectio magistralis» di logica giuridica, il senso delle geometrie e delle distanze che separano gli uomini e i loro mondi etico-affettivi. Le assicuriamo che, ogni tanto, questi richiami alla realtà fanno bene anche a noi.

Pubblicato il: 04.07.08
Modificato il: 04.07.08 alle ore 13.17   
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