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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 151013 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Dicembre 15, 2008, 11:53:15 pm »

Il tema giustizia

Berlusconi : «Nessuno mi può chiedere di trattare con Veltroni»

La telefonata del premier a Bossi dopo l'apertura del ministro leghista al Pd


ROMA — L'ha chiamato all'ora di pranzo, un attimo dopo aver appreso della sua ultima esternazione. «Vedi Umberto, tutto mi puoi e mi si può chiedere: di lasciare che Alfano da una parte e tu e Calderoli dall'altra cerchiate un'intesa con l'opposizione su giustizia e federalismo fiscale fino all'ultimo, che non si montino barricate su ogni articolo, che si facciano commissioni di cui peraltro non vedo necessità. Ma nessuno mi può chiedere, come hai appena fatto tu, di "trattare" con Veltroni, di fare l'uomo del dialogo. Perché io, al tavolo con quel signore che non mi considera nemmeno degno di fare il premier, che insulta tutti i giorni non solo me ma la carica che rivesto e che non si libera da Di Pietro, io non ci parlo, non ci tratto, non mi siedo al tavolo. Né oggi né mai».

Parola più, parola meno — con tono pacato, perché «sai quanto ti capisco, Umberto» — è questo il discorso netto che Silvio Berlusconi ha fatto al leader della Lega. Il «dialogo con la D maiuscola», come spiega il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto, «proprio non si può fare, perché Veltroni e i suoi non smettono di insultare il premier. Diverso è ricercare un'intesa su singoli temi, federalismo fiscale come anche giustizia, se possibile », ma niente fraintendimenti: «Con questo Veltroni, di che vuoi trattare?», chiude la porta Paolo Bonaiuti. In effetti, le uscite di Bossi non sono andate troppo giù al Cavaliere, che vedrà l'alleato mercoledì o giovedì e che comunque — spie gano i suoi — capisce «quanto il federalismo sia importante per Umberto» e dunque perdona. Ma ragiona anche così il premier: «Bossi dovrebbe capire che se fossi io a guidare la trattativa, le cose si complicherebbero, perché i leader della sinistra cercano solo pretesti per attaccarmi».

Di più: per il reggente di An Ignazio La Russa, anche «l'ansia, la frenesia, il desiderio di appropriazione da parte della Lega del federalismo, può finire per creare incidenti, per far arrabbiare più d'uno, e per complicare il cammino della riforma...». E però, se c'è una cosa che Bossi ha ottenuto, è che il dialogo in Parlamento venga perseguito in tutti i modi: «Veramente — sottolinea Italo Bocchino — prima di Bossi siamo stati noi di An a dire che serve il dialogo, Fini per primo. E se è logico che Berlusconi se ne tenga fuori, è doveroso cercare il consenso dell'opposizione: la riforma della giustizia è costituzionale e, se non è condivisa, tra passaggi in Parlamento e un referendum insidioso perderemmo tre anni di legislatura senza nemmeno essere sicuri di portare a casa il risultato. Quindi ben vengano il dialogo, e una riforma che magari non sarà identica a quella che avremmo voluto...».


15 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #181 inserito:: Dicembre 18, 2008, 05:21:38 pm »

FINESTRE APERTE 

di Stefano Trincia 

 Il paese dove le intercettazioni non sono un incubo
pubblicato il 18-12-2008 alle 09:30
 

Finestre aperte si chiama il mio blog. Per aprirle e capire, riflettere, misurare il nosto modo di vivere, di pensare, di decidere su quello altrui. Spalancare gli scuri per fare entrare ventate di aria fresca, sfatare miti, prendere coscienza della nostra frequente «anormalità» in un mondo che procede secondo parametri considerati assolutamente normali. Affacciarsi su altri paesi, diverse realtà. Per non essere più autoreferenziali, accettare il confronto con gli altri  e poter dire: però, effettivamente si può fare in altro modo, c'è una via diversa, forse migliore della nostra, di regolare la convivenza civile e sentirsi cittadini a pieno titolo.

Intercettazioni quindi. Storia esemplare. Più che la plausibilità o la validità dello strumento investigativo mi interessa raccontare le reazioni dell'opinione pubblica, dei mass media, dei diretti interessati di fronte alla «decapitazione» politica di quattro big americani. Il giovane, brillante sindaco di Detroit Kwame Kirkpatrick, politico nero di 31 anni, ha una popolarità record, una bella famiglia, è di fatto il padrone della città. Perde la testa, raccontano i media locali dopo il suo arresto, crede di essere onnipotente, manovra le leve del potere con crescente spregiudicatezza.
C'è aria di tresche illegali e non solo.
 
La magistratura decide di agire, partono le intercettazioni: conversazioni al cellulare e fitto scambio di sms. Interlocutrice  privilegiata Christine Beatty, sua avvenente chief of staff - capo di gabinetto - con cui ha da tempo una focosa relazione. Esce fuori che se ne andavano a passare weekend in luoghi esotici a spese dello stato. Interrogato, lui nega sotto giuramento. Errore fatale, in Usa non si fa, se menti e ti beccano sei fregato. E così avviene: tre anni di carcere, poi patteggiamento della pena a quattro mesi. Il principale quotidiano di Detroit pubblica tutto, ogni dettaglio parola per parola. Poi racconta, è roba di ieri, la vita dell'ex padreterno in prigione: brache da detenuto, noccioline e qualche libro.

Stessa sorte, via intercettazioni, subisce qualche giorno fa il potentissimo governatore dell'Illinois Blagojevich, sorpreso a negoziare con vari interlocutori telefonici il prezzo da pagare per ottenere il posto di senatore lasciato vacante da Obama. E' finito in manette, tutti i dettagli in cronaca.  E prima ancora il senatore democratico ed ex candidato alla presidenza Usa John Edwards: giurava amore eterno alla moglie malata di cancro, lo hanno beccato grazie alle intercettazioni, con una bella e bionda segretaria. Carriera finita, via dai piedi. E infine il Ministro di Giustizia dello Stato di New York, Eliot Spitzer, fustigatore dei facili costumi, grande moralizzatore con ambizioni presidenziali: inchiodato dalle intercettazioni a procurarsi prostitute d'alto bordo a spese del contribuente. Dimissioni immediate.

Opinione pubblica tranquilla, nessuno scandalo, giornali e tv strapiene di dettagli, anche i più scabrosi, secondo la legge che chi, eletto dal popolo, tradisce la sua fiducia non ha diritto ad alcuna privacy. Indagati, arrestati e dimissionati a testa bassa, scuse pubbliche e poi sparire. Nessuna critica nemmeno velata alla magistratura, niene di nulla, nessuna denuncia di complotti o di scontri tra poteri. Hai sbagliato, hai imbrogliato, hai mentito, paghi. Punto. Come si addice ad un paese normale in cui le regole valgono per tutti e valgono qualcosa. Proprio come da noi, in Italia.

Finestre aperte, signori. Finestre aperte.


da ilmessaggero.it
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« Risposta #182 inserito:: Dicembre 22, 2008, 03:05:55 pm »

22/12/2008
 
Partiti feudali
 
MASSIMO VILLONE
 

Una nuova Tangentopoli? Una nuova questione morale? Domande che hanno investito in specie il Pd e i governi locali del centrosinistra, soprattutto in importanti realtà del Mezzogiorno. Ma non esiste un caso Pd, o un caso Napoli. Esiste un caso Italia. Per anni è stato fatto un investimento su parole d’ordine cui molti hanno creduto.

Liberarsi della partitocrazia, avvicinare la politica e l’amministrazione ai cittadini, i governanti ai governati, in specie con l’elezione diretta. Allentare lacci e lacciuoli, per l’efficienza degli apparati pubblici. E dunque meno controlli e responsabilità formali e giuridiche, maggiore controllo sociale. Più discrezionalità nell’azione politico-amministrativa, e nell’organizzazione degli apparati. Nel voto, pieno mandato a governare, per poi rispondere dei risultati nel successivo turno elettorale. Dunque, democrazia di mandato, elezione del leader con la sua maggioranza, per un sistema moderno e competitivo.

Non è andata così. La partitocrazia corrotta e collusa che aveva portato al disastro dei primi Anni 90 è - giustamente - scomparsa. Ma si sono anche dissolti i partiti come forma organizzata della politica. E non sono stati validamente sostituiti dalla partecipazione di un giorno offerta da primarie, o da assemblee di popolo volte all’acclamazione del capo. E nemmeno dai partiti liquidi, personali, del leader, e affini. Alla fine, una politica senza partiti è fatalmente una politica di signorotti feudali, clan, bande e truppe cammellate. Una politica senza regola alcuna, salvo quella di gestire il consenso in funzione del potere.

È così che la flessibilità nell’organizzazione amministrativa è diventata uno spoils system all’ultimo dirigente a contratto. L’esternalizzazione di funzioni si è tradotta nella spartizione di poltrone nei consigli di amministrazione di società miste, o persino di posti di lavoro da mille euro al mese. L’allentamento nei controlli è finito nella gloria di sedi di rappresentanza all’estero, o in contratti per parenti e amici, o ancora in gare d’appalto su misura del concorrente più eguale di altri. La responsabilità politica si è dissolta in assemblee asservite al capo eletto, di cui potrebbero liberarsi solo a pena di autoscioglimento. E il controllo sociale e la responsabilità diffusa si sono persi nella nebbia delle consulenze e delle prebende agli opinion makers della cultura, dell’economia, delle professioni.

Oggi la politica regionale e locale è guerra di tutti contro tutti. Nei Consigli comunali come in quelli regionali, la preferenza unica produce campagne elettorali estremamente costose, e combattute fino all’ultimo voto. La lotta è anzitutto tra i candidati della medesima lista. Ecco in chiaro le radici delle ambigue contiguità tra politica e affari. Poi, le maglie larghe delle regole, dei controlli e delle responsabilità consentono di orientare la gestione della cosa pubblica in vista dei debiti contratti, e delle alleanze future. Mancando partiti veri che gestiscano razionalmente e democraticamente il cursus honorum, il consenso personale è l’unico patrimonio che conta in politica.

Oggi il potere nel governo regionale e locale è per tutti i partiti elemento strutturale e dominante. Un governatore di Regione, o un sindaco di grande città, conta quanto vari ministri di media stazza. I partiti sono costruiti intorno a loro. Ovunque, l’uomo forte tende a essere il sindaco, il governatore, l’assessore. Si spiegano così gli applausi di Pescara per il sindaco inquisito, e il preannuncio di possibili liste civiche. Nel feudalesimo di partito, chi ha cariche di governo locale è tra i signori feudali più forti. La vera vittima dei più recenti sviluppi nella politica italiana è il partito nazionale. E dunque si capisce che Veltroni non dica praticamente nulla nella direzione Pd sulla tempesta in atto. E che solo nell’assemblea dei giovani attacchi, qualche ora dopo, i capi-bastone. Intanto, tutti rimangono sereni al loro posto. Non è certo questione di poteri formali. Un segretario di partito, anche il più scassato, ce l’ha. Il problema è la forza di esercitarli.

Per questo il nodo centrale è riscrivere le regole. Anzitutto per i partiti, con una legge generale che ne consolidi la insostenibile leggerezza. Non a caso, io e Salvi avevamo presentato sul punto una proposta già il 28 aprile 2006. È rimasta ferma al palo. E nuove regole sui rapporti tra politica e amministrazione, rivedendo almeno alcune delle scelte fatte in passato, magari con le migliori ragioni. Del resto, che la via dell’inferno fosse lastricata di buone intenzioni già lo sapevamo.

Ex senatore della Sinistra Democratica
 
da lastampa.it
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« Risposta #183 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:07:14 am »


Retrospettiva immaginaria del 2009

Il nuovo mondo al tempo della crisi

Cade Ahmadinejad, Al Qaeda cerca di uccidere Obama mentre in Cina...
 
«Così l'America si ritrovò più povera ma sempre al comando da numero uno»


E' stato l'anno in cui si è smesso finalmente di far previsioni per l'anno a venire. È stato l'anno in cui si è dovuto rivedere ogni pronostico — per lo più verso il basso — come minimo tre volte. È stato l'anno in cui solo chi teneva gli occhi ben chiusi ha potuto ignorare il paradosso della globalizzazione. Da un lato, la crescente integrazione dei mercati delle materie prime, dell'industria, della manodopera e del capitale ha prodotto notevoli profitti. Come Adam Smith aveva previsto ne «La ricchezza delle nazioni», la liberalizzazione economica ha consentito di impostare a livello globale economie di scala e divisione del lavoro. Dagli anni 1980 fino al 2007, l'economia mondiale aveva goduto di un'espansione sempre più diffusa e capillare, con una minore incidenza di crisi, assai passeggere, tanto che il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, aveva festeggiato con un certo compiacimento la «grande moderazione» del 2004. Dall'altro, quanto più il mondo assomigliava a una rete complessa e multinodale capace di interagire con la massima efficienza — inventari al minimo e consegne just-in-time — tanto più diventava vulnerabile a un massiccio crac sistemico.

LA GRANDE REPRESSIONE - È questo il significato reale della Grande Repressione, iniziata nell'agosto del 2007, che ha toccato il punto più basso nel 2009. Chiaramente, non si è trattato di una Grande Depressione simile per portata a quella degli anni Trenta, quando la produzione industriale negli Stati Uniti declinò di un terzo e la disoccupazione toccò il 25‰. Né semplicemente di una Grande Recessione. Con il declino della produzione delle nazioni industrializzate per tutto il 2009 — nonostante i grandi sforzi delle banche centrali e dei ministeri delle Finanze — è apparsa sempre più azzeccata l'etichetta di «Grande Repressione»: pur trattandosi della peggior crisi economica in settant'anni, erano ancora in molti a non volerci credere. «Noi economisti sapevamo bene come combattere questo tipo di crisi», ha confessato un consigliere economico del dream team di Barack Obama, subito dopo il ritorno all'insegnamento universitario nel settembre 2009. «Eravamo sicuri che se la Fed avesse iniettato abbastanza liquidità nel sistema finanziario, avremmo potuto evitare la deflazione. Eravamo sicuri che se il governo avesse accumulato un deficit sostanzioso, avremmo messo fine alla recessione. Ma ci eravamo sbagliati. E noi che ci eravamo fidati di Keynes e Friedman!».

LA BOLLA IMMOBILIARE - Alla radice del problema restava la bolla immobiliare americana, che ha continuato a sgonfiarsi nel corso dell'anno. Molti avevano immaginato che entro la fine del 2008 il peggio sarebbe passato. Ma non è stato così. L'indice dei prezzi immobiliari dell'economista Robert Shiller nel 2006 sfiorava quota 206, quasi il doppio del livello toccato appena sei anni prima. Per tornare a livelli anteriori alla bolla immobiliare, l'indice sarebbe dovuto scendere del 50%. Ma era calato meno della metà verso la fine del 2008. Di conseguenza, i prezzi delle case hanno continuato a scendere negli Stati Uniti e sempre più famiglie si sono ritrovate ad affrontare posizioni negative, con debiti superiori al valore della proprietà. Un aumento dei pignoramenti, d'altro canto, si è tradotto in perdite più consistenti per i titoli garantiti da prestiti ipotecari e i bilanci delle banche sono finiti sempre più spesso in rosso. Con un debito complessivo superiore al 350% del Pil americano, è stato arduo depurare gli eccessi dell'era della leva finanziaria. Le famiglie hanno stretto la cinghia e ridotto i consumi. Le banche hanno tentato di mettere un freno ai nuovi prestiti. La recessione ha fatto la sua comparsa. La disoccupazione è salita al 10%, poi oltre. La spirale economica negativa sembrava inarrestabile. Per quanto risparmiassero, gli americani erano ormai incapaci di stabilizzare il rapporto tra debiti e reddito disponibile. Paradossalmente, un incremento nei risparmi ha portato alla caduta dei consumi, che a sua volta ha innescato l'aggravarsi della disoccupazione, il calo dei redditi e via di seguito, in un vortice discendente.

«INVESTIRE IN INNOVAZIONE» - «La necessità saprà stimolare l'inventiva», dichiarava Obama nel discorso inaugurale il 20 gennaio. «Se sapremo investire nell'innovazione, ritroveremo la fiducia nella creatività americana. Occorre costruire nuove scuole, non nuovi centri commerciali, e produrre energia pulita, non derivati tossici». Gli analisti concordavano che il discorso richiamava alla memoria le parole di Franklin Roosevelt, pronunciate al suo insediamento alla Casa Bianca nel 1933. Ma Roosevelt parlava quando il peggio della Depressione era passato, mentre Obama si dibatteva nel cuore della tempesta. Se la retorica spiegava le ali, i mercati sprofondavano sempre di più. Il contagio si era esteso inesorabilmente dai subprime ai mutui non a rischio, fino al settore immobiliare commerciale e alle obbligazioni delle società private, per tornare poi al settore finanziario. Entro la fine di giugno, l'indice Standard & Poor's 500 era sceso a 624, il livello mensile più basso dal gennaio del 1996, e di circa il 60% inferiore al massimo toccato nell'ottobre 2007.

L'INSOLVENZA DELLE BANCHE - Il nocciolo del problema era la fondamentale insolvenza delle banche principali, un'altra realtà che il mondo politico aveva tentato di ignorare. Nel 2008 la Banca d'Inghilterra aveva stimato a 2.800 miliardi di dollari le perdite complessive su attivi tossici, ma le perdite bancarie totali entro la fine del 2008 erano poco più di 583 miliardi di dollari, mentre il capitale rastrellato contava 435 miliardi di dollari. Le perdite, in altre parole, venivano o massicciamente sottovalutate, oppure erano state accumulate al di fuori del sistema bancario. Ad ogni modo, il sistema della creazione del credito era ormai fuori uso. Le banche non potevano ricorrere alla contrazione del bilancio, per via di un'infinità di linee di credito predisposte, alle quali i loro clienti si aggrappavano per disperazione, mentre l'unica fonte di nuovo capitale era il Tesoro americano, che doveva vedersela con un Congresso sempre più scettico. Le altre istituzioni del credito — specie i mercati per i titoli obbligazionari cartolarizzati — erano rimaste quasi per intero paralizzate. Era scoppiato il finimondo quando Timothy Geithner, segretario al Tesoro americano, aveva richiesto altri 300 miliardi di dollari per ricapitalizzare Citigroup, Bank of America e altre sette grandi banche, solo una settimana dopo aver varato una controversa «megafusione» nell'industria automobilistica. A Detroit, i tre grandi produttori si erano contratti in un'unica azienda, la CGF (Chrysler-General Motors-Ford). Le banche, dal canto loro, reclamavano senza sosta nuovo denaro pubblico. Eppure, per nessuna cifra al mondo erano disposte a offrire prestiti a tassi di interesse più bassi. Nelle parole di un politico del Michigan, piuttosto indignato, «nessuno vuole accettare il fatto che le banche sono fallite. Non solo hanno perso tutto il loro capitale, ma se dovessimo mettere sul mercato i loro attivi, si verrebbe a scoprire che l'hanno perso due volte. Le tre grandi industrie automobilistiche non sono mai state tanto mal gestite come queste banche».

I TASSI A ZERO - Nel primo trimestre, la Fed ha continuato a fare tutto il possibile per evitare di scivolare nella deflazione. Il tasso effettivo dei fondi federali aveva già toccato zero per la fine del 2008. In pratica, l'allentamento quantitativo era già iniziato nel novembre 2008, con acquisti massicci del debito e dei titoli garantiti da prestiti ipotecari presso istituti appoggiati dal governo (i giganti nazionalizzati Fannie Mae e Freddie Mac) e la promessa di futuri acquisti di titoli di stato. Tuttavia, l'espansione della base monetaria era stata annullata dalla contrazione di misure monetarie più ampie, come M2 (la valutazione della moneta e dei suoi «sostituti più immediati», quali i depositi di risparmio, che rappresenta un indicatore chiave dell'inflazione). Le banche malconce ingoiavano tutta la liquidità prodotta dalla Fed, che sempre di più assomigliava a uno hedge fund del governo, con una leva finanziaria superiore a 75 a 1, e un bilancio ricco di attivi di cui tutti volevano sbarazzarsi. ….

IL DEFICIT FEDERALE - Il governo federale americano non se la passava molto meglio: entro la fine del 2008, il valore complessivo di prestiti, investimenti e garanzie offerti dalla Fed e dal Tesoro dall'inizio della crisi finanziaria aveva già toccato i 7.800 miliardi di dollari. Nei dodici mesi precedenti il 30 novembre 2008, il debito totale federale era aumentato di oltre 1.500 miliardi di dollari. Morgan Stanely stimava che il deficit federale complessivo per l'anno fiscale 2009 poteva raggiungere il 12,5% del Pil. La cifra sarebbe stata ancora più alta se il presidente Obama non avesse persuaso il suo principale consigliere economico, Lawrence Summers, a congelare la prevista riforma della sanità e i fondi aggiuntivi destinati a istruzione, ricerca e aiuti umanitari. Obama si era impegnato a formare un governo in cui fossero rappresentati equamente alleati e rivali. Ma i rivali avevano un bel po' di esperienza in più rispetto agli alleati. Risultato: un governo che parlava come Barack Obama ma pensava come Bill Clinton. I veterani dell'era clintoniana, con a capo il segretario di stato Hillary Clinton, ricordavano ancora la volatilità del mercato obbligazionario che li aveva tormentati nel 1993 (tanto che il manager della campagna elettorale, James Carville, aveva affermato che se esisteva la reincarnazione avrebbe voluto rinascere come mercato obbligazionario). Terrorizzati davanti alla mole crescente del deficit, avevano sollecitato Obama a posticipare qualsiasi spesa che non fosse destinata specificatamente a contenere la crisi finanziaria.

IL DOLLARO - Ma il mondo era cambiato dai primi anni 1990. Malgrado i timori dell'ex segretario al Tesoro, Robert Rubin, personalità ancora assai influente, gli investitori in tutto il mondo si dimostravano più che contenti di acquistare i nuovi titoli del Tesoro americano, senza badare a spese. Contrariamente alla saggezza popolare, benché quadruplicato il deficit non aveva provocato il crollo dei prezzi dei titoli e un rialzo dei rendimenti. Anzi, la corsa alla qualità e le pressioni deflazionistiche scatenate dalla crisi in tutto il mondo avevano affossato i rendimenti a lungo termine, che sarebbero restati vicino al 3% per tutto l'anno. Né si è assistito alla disfatta del dollaro, come molti avevano temuto. L'appetito estero per la moneta americana ha resistito alle bizzarrie della Fed, nella sua frenesia di stampare denaro, e i tassi di cambio effettivi si sono addirittura rivalutati nel 2009. Era questa l'ironia nel cuore della crisi: per moltissimi versi, la Grande Repressione portava l'etichetta «Made in America», ma le sue conseguenze si sarebbero rivelate più pesanti nel resto del mondo. Gli Stati Uniti sono così riusciti a salvaguardare la fama di «bene rifugio» per la loro moneta. Con il peggiorare della crisi in Europa, in Giappone e nei mercati emergenti, sempre più investitori hanno acquistato titoli del Tesoro in dollari.

GIAPPONE ED EUROPA - Per il resto del mondo, il 2009 si sarebbe rivelato un anno orribile. Il Giappone si è visto ripiombare nell'incubo deflazionistico degli anni 1990 con la rivalutazione dello yen e il crollo della fiducia dei consumatori. In Europa, le cose sono andate un tantino meglio. Nel 2008, i leader europei avevano puntato un dito accusatorio contro gli americani. Il presidente francese Nicolas Sarkozy era intervenuto al summit del G20 a Washington come se da solo avesse potuto salvare l'economia mondiale. Il premier britannico, Gordon Brown, aveva tentato di dare la stessa impressione, reclamando la paternità della strategia della ricapitalizzazione bancaria. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nel frattempo, condannava senza mezzi termini l'immenso deficit americano. Entro il primo trimestre del 2009, tuttavia, lo stato d'animo in Europa si era fatto più cupo. Era chiaro che i problemi delle banche europee erano altrettanto seri di quelli che affliggevano la controparte americana. Anzi, le passività a breve termine delle banche di Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Italia erano ben maggiori, in rapporto alle economie di quei Paesi, mentre le banche di Germania, Francia e Danimarca si erano rivelate più esposte alla leva finanziaria. Per di più, in assenza di un ministero delle Finanze dell'Unione Europea, tutti i bei propositi riguardo un pacchetto europeo di stimolo all'economia sono rimasti quello che erano, cioè parole vuote. In pratica, la politica fiscale è diventata una questione di «si salvi chi può», e ogni Paese europeo ha improvvisato di propria iniziativa salvataggi e incentivi all'economia. Il risultato è stato caotico. Le valute esterne all'eurozona sono state colpite da grave volatilità. All'interno dell'eurozona, la volatilità è rimasta confinata al mercato obbligazionario, con i differenziali degli interessi sui titoli greci e italiani incapaci di tenere il passo con quelli tedeschi. Il quadro si è fatto ancor più preoccupante nella maggior parte dei mercati emergenti. In Europa orientale, i paesi più colpiti sono stati Bulgaria, Romania, Ucraina e Ungheria. Dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), il Brasile ha avuto l'anno migliore, la Russia il peggiore.

CINE E INDIA - È stato un anno pessimo per i paesi esportatori di gas e petrolio, dove il crollo dei prezzi che ha trascinato con sé anche valute come il rublo. Il mercato azionario indiano, nel frattempo, è stato scosso dalle crescenti tensioni tra New Delhi e Islamabad in seguito agli attacchi terroristici di Mumbai. L'instabilità politica ha colpito anche la Cina, dove disordini innescati dai licenziamenti a Shenzhen e altri centri di esportazione hanno provocato la pesante repressione del governo, ma anche il rinnovato sforzo da parte della Banca popolare della Cina di impedire la rivalutazione dello yuan, acquistando altre centinaia di miliardi di dollari del Tesoro americano. La «Chimerica» il rapporto simbiotico tra Cina e America - non solo è sopravvissuta alla crisi, ma ne ha tratto beneficio. Anche se la decisione di Obama di partecipare al primo vertice G2 a Pechino in aprile ha sconcertato alcuni liberali, gran parte degli osservatori ha riconosciuto che il commercio ha fatto passare in secondo piano la questione del Tibet, in un momento di grave crisi economica.

LA CREDIBILITÀ AMERICANA - Il carattere asimmetrico della crisi globale il fatto che gli scossoni si sono rivelati più distruttivi in aree periferiche piuttosto che all'epicentro - ha inflitto notevoli svantaggi agli Stati Uniti. Le speranze che l'America potesse sottrarsi, grazie alla svalutazione, al fardello del debito estero sono svanite quando sia il dollaro che i rendimenti a dieci anni hanno resistito al colpo. Ma i produttori americani non hanno ricevuto una boccata d'ossigeno dalla ripresa delle esportazioni, come sarebbe accaduto con la svalutazione. La Fed è riuscita, a malapena, a mantenere l'inflazione in territorio positivo. Coloro che temevano un'inflazione galoppante e la fine del dollaro come valuta di riserva sono rimasti a bocca aperta. I problemi del resto del mondo, tuttavia, indicavano che in termini relativi gli Stati Uniti si sono avvantaggiati politicamente ed economicamente. Molti analisti avevano avvertito nel 2008 che la crisi finanziaria avrebbe conficcato l'ultimo chiodo nella bara della credibilità americana in tutto il mondo. I neoconservatori erano già stati screditati in Iraq, e ora veniva affossata la politica di Washington del libero mercato.

LA CADUTA DI AHMADINEJAD - Ma non erano stati presi in considerazione due fattori: il primo, che quasi tutti gli altri sistemi economici avrebbero superato la crisi assai più malconci degli Stati Uniti. I Paesi che più vigorosamente avevano criticato l'America - Russia e Venezuela - ne erano usciti con le ossa rotte. Il secondo, che la presidenza di Barack Obama avrebbe risollevato enormemente la reputazione internazionale americana. ….. Se occorrevano prove per dimostrare che la costituzione americana era più che mai attuale, che l'America aveva scontato il suo peccato originale della discriminazione razziale, che gli americani erano pragmatici, non seguaci di ideologie, la dimostrazione era sotto gli occhi di tutti. Non tanto che il nuovo «New Deal» di Obama - annunciato dopo l'allontanamento dei clintoniani a inizio settembre - avesse prodotto un miracolo economico (nessuno se lo aspettava), quanto piuttosto che l'acquisizione federale delle grandi banche e la conversione di tutti i debiti ipotecari delle famiglie in nuovi titoli «Obama » a cinquant'anni segnalavano una stupefacente audacia da parte del nuovo presidente. Lo stesso poteva dirsi della decisione di Obama di volare a Teheran a giugno, una decisione che ha guastato i rapporti con Hillary Clinton, i cui sostenitori non si sono mai ripresi dalla vista dell'ex candidata presidenziale avvolta nel velo islamico. Non che la cosiddetta «apertura all'Iran» abbia prodotto grandi miglioramenti in Medio Oriente (nessuno se lo aspettava). Ma il solo gesto, come la visita di Richard Nixon in Cina nel 1972, simboleggiava la volontà di Obama di riconsiderare le basi stesse della strategia globale americana. E la caduta del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad - seguita subito dopo dalla rinuncia al programma di armamenti nucleari - è stata una ricompensa meritata. Con l'economia a pezzi, i pragmatici di Teheran si sono dichiarati pronti a fare la pace con il «Grande Satana», in cambio di investimenti indispensabili alla ripresa del paese.

AL QAEDA E OBAMA - Nel frattempo, il tentativo fallito di Al Qaeda di assassinare Obama - alla vigilia della Festa del Ringraziamento - è servito a screditare l'estremismo islamico e a rafforzare l'immagine pubblica del presidente statunitense. Tra le tante ironie del 2009, il risveglio religioso sollecitato dalla crisi economica è andato a tutto vantaggio dei democratici, anziché dei repubblicani, segnati da profonde divisioni. Entro la fine dell'anno, per la prima volta si è avuta la sensazione - e non solo la speranza che la fine della Grande Repressione fosse imminente. La spirale discendente del mercato immobiliare e del sistema bancario in America era stata finalmente interrotta dalle drastiche misure che il governo inizialmente aveva esitato a varare. Allo stesso tempo, i ben più gravi problemi economici del resto del mondo hanno dato a Obama l'occasione unica di riaffermare la leadership americana, specie in Asia e in Medio Oriente. Quel «momento unipolare» è finito, indubbiamente. Ma il potere è un concetto relativo, come il presidente ha fatto notare nell'ultima conferenza stampa dell'anno: «Avevano detto che l'America era destinata al declino, e certamente quest'anno ci siamo ritrovati tutti più poveri. Ma gli altri sono scesi ancora più in basso, e l'America ha conservato il primo posto. Nel paese dei ciechi, dopo tutto, chi ha un occhio solo è re». E con un sorrisetto ammiccante, il presidente Barack Obama ha augurato al mondo intero un felice anno nuovo.

Niall Ferguson
© The Financial Times Limited 2008
02 gennaio 2009

da corriere.it
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« Risposta #184 inserito:: Gennaio 26, 2009, 09:50:05 pm »

«Si rispetti la sentenza piaccia o non piaccia Sacconi ha sbagliato»

di Federica Fantozzi


«C’è una sentenza definitiva: piaccia o no, gli organi pubblici devono applicarla». Federico Sorrentino, già presidente dell’Associazione Italiana Costituzionalisti, insegna diritto costituzionale alla Sapienza.

Professore, dove collocare il bandolo del caso Eluana Englaro?
«È una vicenda in cui sono intrecciati aspetti giuridici, morali, religiosi. È difficile dare risposte definitive».

Occorre però un punto fermo tra il sospendere l’alimentazione, come vuole la famiglia, o proseguirla, come ordina il ministro Sacconi.
«Esiste un decreto della Corte d’Appello confermato in Cassazione, quindi definitivo, che autorizza una certa soluzione. Gli organi pubblici, piaccia o non piaccia, sono tenuti a rispettarla. Salva l’obiezione di coscienza dei medici».

Se il ministro deve rispettare la sentenza, il suo atto di indirizzo che fondamento ha?
«È un atto fuori dalle sue competenze e sbagliato. Le Regioni sono libere di disapplicarlo senza averne conseguenze sul finanziamento».

Significa che non sono possibili sanzioni per i “disobbedienti”?
«Giuridicamente no. Non si può dire: tu hai attuato la sentenza Englaro e ti escludo dal servizio sanitario nazionale».

Una donna ha rifiutato un’amputazione ed è morta. Una persona incosciente non può farlo. Non è una discriminazione?
«Non è del tutto chiarito cosa sia l’accanimento terapeutico. Per me, chi vive solo perché una macchina le dà acqua e cibo riceve una terapia. E certo, se Eluana fosse in grado di decidere per se stessa non si potrebbe imporgliela».

Le sentenze dicono che alimentazione e idratazione artificiale terapie.
«Appunto, visto che non portano miglioramenti ma solo il prolungamento indefinito della vita, applicherei l’articolo32 della Costituzione per cui le cure sono rifiutabili. Ma chiarirei un punto».

Quale, professore?
«Il passaggio più difficile della Cassazione è la ricostruzione della volontà di Eluana. Qui si tratta del diritto personalissimo alla cura o non cura, alla vita. Il suo esercizio da parte del rappresentante legale mi pare inappropriato».

Come accertare a posteriori la volontà di Eluana, allora?
«Direi che in assenza di una volontà attuale dovrebbe prevalere la speranza del domani e dunque il proseguimento delle terapie».

In sostanza, lei non condivide la sentenza ma è vincolato a rispettarla?
«Da giurista vedo una grande difficoltà a riferire ad altri la volontà della ragazza. Ma l’obiezione è superata dalla sentenza: viviamo in un ordinamento in cui i dubbi sono sciolti dai giudici».

La soluzione, in generale, è il testamento biologico?
«Sì perché in esso esprime una volontà deliberata e so che se perdo coscienza non potrò ritrattarla. Faccio una scelta proiettata nel futuro».

Se una legge imponesse la nutrizione artificiale, sarebbe costituzionalmente accettabile?
«Secondo me, no. Inciderebbe sulla libertà di scelta e sulla libertà personale. Violerebbe l’art. 13 della Carta».

L’art. 32 prevede che la legge possa imporre trattamenti sanitari. Sarebbe il caso delle terapie di fine vita?
«Esiste una giurisprudenza costituzionale che limita questi casi alle vaccinazioni. Si può imporre un trattamento sanitario solo se c’è un interesse della collettività».
ffantozzi@unita.it


26 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #185 inserito:: Febbraio 18, 2009, 11:07:52 am »

Coming out in famiglia

di Delia Vaccarello


È meglio dire «Luca era gay» o, più onestamente, che ha amato un uomo? Se diciamo che «era» gay intendiamo dire che non lo è più. L'orientamento sessuale non si può collocare sbrigativamente nel passato. Chi lo fa vuole deformare la realtà per suggerire che l'omosessualità è una deviazione dalla retta via da accantonare il prima possibile. L'omosessualità è un modo di amare legato all'identità di un individuo che si sente completato da una persona dello stesso sesso e che con lei vuole costruire la propria vita. Al pari dell'eterosessualità non si smette come un vestito logoro, né si cura come una malattia.

Poiché dai microfoni sanremesi verrà diffusa con la canzone di Povia dal titolo «Luca era gay» una versione deformata della realtà, e migliaia di famiglie l'ascolteranno, occorre descrivere cosa succede davvero quando Luca dice: «Sono gay».
Ebbene, niente è più come prima. Quando in una famiglia diventa palese che un figlio o una figlia sono omosessuali le relazioni cambiano. I genitori sono chiamati a «ridefinirsi», a riflettere su ciò che hanno dato per scontato, i figli a cercare la forza per pensarsi fuori dalla cornice delle aspettative che fino a quel momento padri e madri hanno nutrito.

È un momento di verità, ora traumatico ora capace di innescare svelamenti a catena. Come se l'autenticità, fino a quel momento trattenuta dalla diga del non-detto, fluisse con meno intoppi e liberasse i rapporti da una buona dose di finzione. Per una persona omosessuale dire «sono lesbica, sono gay», cioè fare coming out, è fondamentale per acquisire forza e fronteggiare la violenza omofobica. A farlo è il 65 per cento dei giovani che vive in famiglia.

Lo rivela la ricerca «Family Matters», la più ampia svolta in Europa, condotta dall'Università del Piemonte Orientale, in collaborazione con diverse associazioni tra cui l'Agedo, attraverso interviste e domande rivolte a 200 familiari di giovani lesbiche e gay (tra i 14 e i 22 anni). Del restante 35 per cento si sa per una lettera o un diario «lasciati incustoditi» o perché sono altre persone a dirlo. Nel 68 per cento dei casi fratelli e sorelle sono i primi a sapere ed è con loro che i genitori iniziano ad aprirsi. Non mancano i segni premonitori, non tanto amori in corso, quanto forme di isolamento dal gruppo dei coetanei

Quando tutti lo sanno va in scena il momento clou: il passaggio dal non-detto al colloquio aperto. Le reazioni sono forti ma solo in rari casi travolgono il riconoscimento del legame: «È comunque mio figlio, resta mia figlia». La metà dei padri e delle madri si sente fallito come genitore, il 54 per cento tenta di smentire il coming out affermando: «Sei troppo giovane per dirlo». Qualcuno sbotta (il 17 per cento): «Ti hanno traviato», suggestionabilità attribuita soprattutto alle ragazze. E c'è chi (meno di un quinto) si sente sollevato: «Ah! Era questo! dunque né droga né alcol». Ma altri (un quinto circa) rifiutano, provano rabbia e vergogna.
Un altro 17 per cento cerca di patteggiare: «Almeno che non si sappia in giro». E la malattia? Il fantasma che si tratti di un comportamento da curare affiora nel 40 per cento dei genitori cattolici praticanti, frutto del capillare lavaggio del cervello in atto da qualche anno.

Il confronto è aspro, le parole possono ferire. Eppure, come una ineludibile musica di sottofondo, la rivelazione dei figli porta del bene: i genitori si sentono destinatari e custodi di ciò che i giovani hanno capito di loro stessi. Il colloquio aperto ha un sapore dolce-amaro, perché è vero che la realtà è imprevista e si annuncia dura, soprattutto per il contesto italiano in cui i ragazzi dovranno farsi strada, ma «loro ce ne hanno parlato». Si profila la sagoma di un obiettivo: «Dobbiamo ritrovarci, siamo pur sempre una famiglia, anzi una famiglia vera», dice una madre. Anche il lessico dei ricercatori - Chiara Bertone, la responsabile, e Marina Franchi - tradisce venature di ottimismo: «In queste famiglie, che si sono trovate a fronteggiare un evento di rottura di relazioni quotidiane, altrimenti largamente date per scontate e naturalizzate, sembra emergere in modo particolarmente evidente una concezione di relazioni familiari centrata sull’ideale dell’intimità che molti studiosi individuano come elemento cruciale delle recenti trasformazioni delle esperienze familiari». Dinanzi al vero che i ragazzi trovano il coraggio di mostrare, l'estraneità si sfarina. Si riducono lo sfuggirsi, gli occhi bassi, «il fastidio» per il genitore.

Resta il timore della precarietà affettiva soprattutto relativo ai figli maschi, dovuto all'ignoranza dei comportamenti dell'«omosessuale moderno» che invece cerca la stabilità; c'è il punto interrogativo sui nipoti, ma spesso è l'intelligenza dei sentimenti a vincere le barriere.

I genitori, guardando al futuro, sperano che i figli avranno una relazione di coppia (il 96 per cento), meno della metà crede che potranno sposarsi, il 19 per cento scommette che i nipoti nasceranno, e il 38 per cento dà per certo che i giovani andranno all'estero, preparandosi a una separazione dolorosa che trova motivo solo nell'arretratezza del nostro paese. «Molti di noi sono preoccupati perché in Italia c'è ancora una forte omofobia che impedisce ai propri figli di essere sereni sul lavoro e in campo affettivo», dichiara Rita De Santis, presidente Agedo che riunisce i genitori degli omosessuali (www.agedo.org). Tra i tanti dubbi, i papà e le mamme cercano risposte nel web, leggono e «purtroppo» il 39 per cento accende la tv.

Da stasera, guardando il festival, si sentiranno dire che «Luca era gay», e verrano catapultati nell'era del prima – prima della crisi, del coming out, del momento clou -, invitati a mettere lo scheletro dell'omosessualità nell'armadio e a preparare il posto a tavola per un Luca prevedibile, lontano, finto. Cari genitori, meglio aprire gli occhi, confrontarsi, riflettere. E ritrovarsi.
delia.vaccarello@tiscali.it

17 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #186 inserito:: Marzo 17, 2009, 03:41:00 pm »

Misteri d'Italia

Il filo nero delle stragi


Intervista a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di "Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini.

Un'unica pista all'origine delle stragi di stato" (Chiarelettere).

di Roberto Vignoli


Molto è stato scritto sui casi Mattei, De Mauro e Pasolini. Ma la vostra inchiesta ha il merito di gettare una nuova luce indicando un'unica pista che legherebbe questi tre misteri d'Italia e le stragi di stato. Qual'è questa pista e come siete giunti a questa conclusione?
Sandra Rizza: Profondo nero ha l'ambizione di illuminare il buio che circonda tre casi giudiziari italiani rimasti senza risposta. Siamo partiti dall'inchiesta del pm Vincenzo Calia che ha riletto le numerose anomalie seguite alla morte di Mattei in chiave di "depistaggi", anche istituzionali.
Abbiamo trovato diversi punti di collegamento tra questi e l'insabbiamento dell'inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, e ci siamo convinti che i due casi fossero profondamente intrecciati.
Rileggendo, infine, "Petrolio" di Pasolini, l'opera incompleta che si proponeva di ripercorrere proprio le guerre interne all'Eni per denunciare la natura criminogena del potere in Italia, ci è sembrato molto probabile che il romanzo postumo fosse un possibile movente della sua uccisione. La pista unica è la chiave di lettura univoca che contestualizza le tre vicende rimaste ancora senza una risposta giudiziaria soddisfacente. Si parte dalla morte di Mattei che persino Fanfani, molti anni dopo, definì come il "primo atto terroristico del nostro paese". Si finisce con l'uccisione di Pasolini all'Idroscalo, che Pelosi oggi sembra ricondurre per la prima volta a una matrice politica.
L'idea è che dietro la morte di Mattei vi sia un complotto tutto italiano (come l'ha definito Calia), orchestrato con la complicità di pezzi deviati degli apparati istituzionali e pronto a ricompattarsi ogni volta che, anche a distanza di molti anni, qualcuno minaccia di svelare il segreto di quella morte. Per questo sarebbe scomparso il giornalista De Mauro e per questo sarebbe morto lo scrittore Pasolini. De Mauro indagava sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia per conto del regista Rosi. Pasolini era ossessionato da Mattei e dal suo successore Cefis durante la stesura di "Petrolio".

Quali novità principali emergono dalla vostra ricostruzione?
Sandra Rizza: Pelosi racconta oggi per la prima volta che Pasolini fu ucciso da una squadra di cinque persone, che definisce "picchiatori" fascisti, arrivati con una macchina e una motocicletta. Secondo la sua ricostruzione, due o tre spuntarono dal buio dell'Idroscalo e si dedicarono subito al pestaggio. Gli altri due restarono a guardare il pestaggio, forse a controllare che tutto andasse come nei piani, dopo aver immobilizzato lo stesso Pelosi, che quella sera probabilmente era stato usato come esca. L'eliminazione di Pasolini, in questa nuova ricostruzione, non appare più come l'esito di una sconclusionata lite tra omosessuali, ma come un agguato studiato a tavolino e di chiaro stampo "politico", che molto probabilmente ha una matrice "eccellente". Noi abbiamo ipotizzato che questa eliminazione fosse collegata alla scrittura di "Petrolio". "Petrolio" è un romanzo importantissimo, il primo romanzo italiano che spiega la strategia della tensione, il romanzo che contiene in nuce tutte le denunce di tipo politico che poi finiranno negli articoli del Corriere della Sera e passeranno alla storia come gli "Scritti Corsari". Sono prese di posizione "estreme" e dirompenti, che nell' Italia di quegli anni dovevano suonare particolarmente scomode e intollerabili.

Nell'intervista pubblicata nel libro Pino Pelosi aggiunge elementi fino ad ora taciuti sull'assassinio di Pasolini che sembrano rafforzare la matrice politica del delitto.
Sandra Rizza: Le nuove verità di Pelosi, che oggi fa i nomi di due dei picchiatori, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, entrambi morti di Aids, non fanno che confermare quella che da trentaquattro anni è la convinzione di gran parte dell'opinione pubblica italiana: e cioè che l'uccisione di Pasolini fu un delitto politico. Nel pestaggio di Ostia, Pelosi non poteva essere solo. Lo disse subito il perito Faustino Durante, illustrando in aula che lo stato del corpo di Pasolini, letteralmente massacrato di botte, non poteva assolutamente conciliarsi con l'aggressione di un'unica persona. Nella sentenza di primo grado, poi, il presidente del tribunale per i minorenni Carlo Alfredo Moro formulò l'imputazione parlando di un omicidio commesso da Pelosi con il concorso di ignoti. Questi ignoti non sono mai stati scoperti. E non sono mai stati scoperti perchè non sono mai stati cercati. Cos'è successo? Gli avvocati Calvi e Marazzita dicono chiaramente che la fretta di chiudere le indagini, in presenza di un reo confesso, impedì l'accertamento di molti indizi che furono totalmente trascurati. Marazzita oggi ricorda che subito dopo la morte di Pasolini gli arrivò una segnalazione anonima che indicava la presenza di un automobile, una Fiat, sul luogo del delitto. Marazzita segnalò immediatamente agli inquirenti alcuni elementi della targa: la città di provenienza, CT, e i primi tre numeri. Nessuno fece nulla. Oggi Pelosi dice che all'Idroscalo arrivarono un'automobile, una Fiat 1300 o 1500 e una moto, con cinque persone a bordo. E' incredibile la coincidenza...

Quanto è attendibile a vostro avviso la testimonianza di Pelosi?
Sandra Rizza: Quanto sia attendibile Pelosi, è compito della magistratura accertarlo, se ne avrà voglia. Di certo, la procura di Roma avrebbe a disposizione un eccezionale strumento di riscontro, per accertare l'attendibilità di Pelosi: la tecnologia moderna che oggi è a disposizione dell'investigazione. Si potrebbe disporre la riesumazione dei corpi dei Borsellino e fare un confronto con il materiale biologico ancora presente negli abiti di Pasolini, custoditi nel museo criminale di Roma. C'è poi un altro possibile accertamento: il maresciallo Sansone, che per primo fece il nome dei Borsellino, in un rapporto archiviato nei mesi successivi alla morte di Pasolini, parla di un quarto complice sul luogo del delitto, tale Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, pluriomicida, tuttora vivo e detenuto. Anche lui potrebbe essere sottoposto ad accertamenti di tipo biologico.

Quanto è stata importante la lunga e rigorosa indagine condotta dal Pm Vincenzo Calia (prima del vostro libro pressochè sconosciuta all'opinione pubblica) che, per quanto conclusasi giudiziariamente con un'archiviazione, mette nero su bianco molte verità inquietanti?
Sandra Rizza: Moltissimo. Quella di Calia è davvero un'indagine illuminante, che mette insieme migliaia di documenti, perizie, interrogatori, che riscrive un pezzo di storia italiana, che segue una logica stringente, ma purtroppo non arriva a individuare i responsabili della morte di Mattei per mancanza di prove sufficienti. È curioso, ma scrivendo questo libro e partendo proprio dall’indagine di Calia, che noi abbiamo arricchito con ulteriori testimonianze, ci è sembrato di osservare alla lettera l'insegnamento che fu il testamento laico di Pasolini: "Io so... ma non ho le prove". La possibilità, cioè, per un intellettuale, ma anche per un cittadino che eserciti la propria coscienza critica, di mettere insieme fatti e circostanze, di maturare la consapevolezza del lato oscuro della storia italiana, e soprattutto di farne partecipe l'opinione pubblica.

Secondo Calia l'uccisione di Enrico Mattei porterebbe una firma italiana.
Giuseppe Lo Bianco: Nella sua ricostruzione giudiziaria che ha avuto il grande merito di riscrivere, quasi da storico, una pagina oscura di storia italiana che altrimenti sarebbe stata dimenticata, Calia ha incontrato un numero incredibile di anomalie, di atti giudiziari spariti, di esiti di commissioni ministeriali stravolte nei verbali finali, di testimoni reticenti e poi generosamente ricompensati, persino di bobine Rai manomesse per farne sparire l’audio, ma anche fatti più gravi come un altro probabile attentato aereo, ai danni di un motorista di Mattei, precipitato con il figlio pochi istanti dopo il decollo dall’aeroporto di Ciampino. Tutti fatti avvenuti in Italia che lo hanno indotto, insieme all’analisi degli interessi politico-economici e delle relazioni che ruotavano attorno all’Eni, a ritenere che, a prescindere da un intervento internazionale, da lui ritenuto poco probabile, in Italia qualcuno ben introdotto negli ambienti dell’Eni e delle istituzioni si fosse mosso per fare fuori il presidente dell’Eni, depistando le indagini successive per accertare le responsabilità.

Quali prove a sostegno di questa ipotesi?
Giuseppe Lo Bianco: Le prove giudiziarie a sostegno di questa tesi, a distanza di oltre 40 anni, spesso sono coperte da prescrizione o, in qualche caso, non sono state trovate: questo non vuol dire che tutti i documenti recuperati, che compongono un quadro coerente e attendibile, perdono il loro valore storico. Ed alla luce, appunto, di questo obbiettivo (la ricostruzione storica), pur condividendo tutti i rilievi sui depistaggi e le coperture "italiane", frutto probabilmente di legami già allora inconfessabili tra apparati di Stati diversi, guardando al ruolo operativo di certi personaggi, peraltro citati nel libro, e agli interessi contingenti del mondo del petrolio internazionale, ritengo più probabile che un input francese a difesa dell’intervento di Mattei in Algeria abbia messo in moto il meccanismo omicida. Il senso del ruolo di altri apparati è racchiuso tra depistaggi e coperture, in un vero e proprio sistema a protezione di interessi economici e politici, nell’articolo 40, libro primo, titolo terzo, del codice penale: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo’’. Un articolo del codice penale che spesso spiega il ruolo omissivo di tanti apparati dello Stato nei numerosissimi misteri italiani.

Quanto all'omicidio De Mauro, appare chiarissimo dalle vostre pagine il depistaggio compiuto dai servizi per impedire che si arrivasse alla verità che sembrava a portata degli investigatori. Perchè?
Giuseppe Lo Bianco: Per impedire di individuare i responsabili della scomparsa di un giornalista che si era avvicinato moltissimo alla verità sull’incidente di Bascapè dove morì Mattei. Per soffocare una pista che avrebbe portato molto in alto, verso i vertici istituzionali citati dai testimoni ascoltati da Calia. Per evitare di riaprire un caso ormai archiviato come incidente aereo. Un caso, come ha scritto Pietro Zullino nel suo libro, con cui mezza Italia da decenni, ricatta l’altra mezza.

Chi era realmente Eugenio Cefis, che in una nota dei servizi riportata nel volume, è indicato come il vero fondatore della P2 e il "grande manovratore" del potere più oscuro?
Giuseppe Lo Bianco: Giorgio Bocca ha raccontato di avere incontrato una domenica mattina Cefis in redazione, al Giorno, a Milano, venuto a stampare personalmente alcune foto. Evidentemente non si fidava di nessuno. E del resto, foto sue in giro non se ne trovano. Cefis aveva l’ossessione della segretezza, del mistero, del silenzio. È il prototipo dell’altissimo burocrate pubblico, felpato, discreto, riservato con un nemico giurato, il comunismo, e un’unica religione: il potere, con P maiuscola. E, nel suo caso, con l’utilissimo patrimonio di rapporti atlantici cementati negli anni difficili della resistenza, sulle montagne della Val d’Ossola. Con lui alla guida di fatto dell’Eni, e poi della Montedison, si perde del tutto, a differenza di Mattei, la visione del bene comune, per lasciare il posto a una tutela di interessi di gruppo, più o meno occulti, che sarà una costante di tutta la storia italiana, fino ai giorni nostri. Su Cefis, il suo ruolo ed il suo sistema, c’è un ottimo libro di Scalfari e Turani, punto di partenza di ogni tentativo di conoscenza del personaggio.

Ancora oggi la sua figura è avvolta nel mistero e il suo ruolo nelle trame italiane poco conosciuto.
Giuseppe Lo Bianco: Probabilmente ancora oggi scontiamo l’enorme influenza di Cefis nel sistema dell’informazione italiana che ha soffocato ogni curiosità giornalistica nei suoi confronti, tranne rare e mirate eccezioni, spesso interessate: non è un caso che l’unico libro che approfondisce nel dettaglio la ramificazione delle sue società e dei suoi interessi mettendone in luce gli aspetti occulti ed illeciti sia firmato con uno pseudonimo. Nel palcoscenico della politica italiana di quegli anni, ma anche di oggi, le relazioni economiche e i loro intrecci con la politica, dovevano restare dietro le quinte, incomprensibili per i cittadini perchè scomode da raccontare nelle loro radici criminali.

Il "sistema Cefis" che descrivete nel libro - controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico - appare come una terribile e tragica costante della vita politica italiana, che passando dalla P2 arriva al regime berlusconiano dei nostri giorni, svuotando di fatto la democrazia del nostro paese. Esiste davvero questo filo nero?
Sandra Rizza: Esiste eccome. D'altra parte mi pare che il primato del potere economico su quello politico, e il controllo dell'informazione, nel nostro paese, siano una questione di scottante attualità. Cefis, secondo una nota dei servizi segreti, è stato il fondatore della P2. Gelli, secondo numerose testimonianze, sarebbe stato con Ortolani, il suo successore. Oggi non è un caso che Gelli, il capo della P2, l'autore del Piano di rinascita democratica, un piano eversivo per occupare pacificamente i posti di comando del paese, e assumerne il controllo politico senza spargimenti di sangue, si permetta pubblicamente di insignire Berlusconi, il capo del governo italiano, come il suo più degno erede. Il Piano di rinascita democratica oggi è in gran parte realizzato, in parte è sul punto di realizzarsi con il più volte annunciato varo della Terza Repubblica, la Repubblica Presidenziale. Berlusconi che - lo sanno tutti - è stato un membro della P2, ora apertamente annuncia di voler cambiare la Costituzione, definendola "sovietica". E' l'Italia che purtroppo oggi è cupa, non certo la nostra ricostruzione...

Indagare su Mattei, De Mauro e Pasolini è quindi in grado di illuminare il nostro presente? E' questa la motivazione che vi ha spinto a occuparvi di queste vicende dopo aver affrontato un altro terribile mistero d'Italia qual è quello della scomparsa dell'Agenda Rossa di Paolo Borsellino?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Proprio questo. L'idea che quella che raccontiamo sembra una storia del passato ma non lo è. E' l'antefatto del misfatto italiano, del degrado politico e antropologico dell'Italia, che oggi abbiamo sotto i nostri occhi. Perchè dietro la morte di Mattei, De Mauro e ancor più dietro la tragica fine di Pasolini, ci sono probabilmente gli stessi poteri forti, le stesse cordate, a volte persino gli stessi attori del lugubre teatrino contemporaneo. Ci sono le stesse dinamiche di potere, le stesse manovre, ma soprattutto la stessa idea manipolatoria delle istituzioni, dell'opinione pubblica, dell'informazione, della democrazia, la stessa ideologia eversiva animata dalla solita comarca di logge, lobbies finanziarie, affezionati fan degli autoritarismi, picchiatori e fascisti, che con la complicità di pezzi deviati delle istituzioni, dal dopoguerra a oggi, hanno continuato e continuano a mestare nell'ombra e a condizionare in modo più o meno sotterraneo la politica italiana. Il loro obiettivo, oggi come ieri, è di piegare la democrazia al soddisfacimento degli enormi interessi economici del sistema criminale, e di garantirsi l’impunità assoluta per il passato e per il futuro.

Nell'Italia di questi giorni l'attacco alla magistratura e il tentativo di imbavagliare la libera stampa è sempre più forte. Cos'è che, come cronisti, vi scandalizza maggiormente?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Di quello che succede oggi in Italia, in verità, ci scandalizza quasi tutto. La xenofobia, le ronde, gli attacchi alla Costituzione... tra le molte strette autoritarie che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi, c'è anche il tentativo di mettere il bavaglio all'informazione. Il fatto che il critico D'Orrico sul "Magazine" del Corriere della Sera abbia definito il nostro libro ‘diffamatorio‘ solo perchè abbiamo osato raccontare un pezzo di storia italiana, andando aldilà della sentenza di archiviazione, fa parte di questo sentire. In Italia oggi c'è una gran voglia di mettere a tacere i giornalisti, quei pochi che ancora possono e vogliono inseguire una verità, sia pure scomoda. Se i critici, gli opinion leader si allineano a questo ennesimo tentativo liberticida, allora dobbiamo veramente stare all'erta. Il giornalista ha un solo limite, questo sì sacro: quello che impone di offrire al lettore una ricostruzione onesta, leale, corretta. E di non travisare mai i fatti. Ma dobbiamo fare attenzione: l’idea che un giornalista non possa più riflettere e scavare su un evento oscuro che la magistratura ha archiviato, è un’idea pericolosa e assurda, che mette il silenziatore per sempre al giornalismo investigativo. Se quest’idea fosse legittima, tutta la produzione saggistica degli ultimi venti o trent’anni, sul terrorismo, sulla P2, su piazza Fontana, sulle stragi di Brescia e di Bologna, sulle bombe dei treni, sul caso Moro, su quanto è accaduto in Sicilia dal ‘91 al ‘93, in una parola sulla storia sottotraccia di questo Paese, dovrebbe essere distrutta. Tante, sono, infatti le archiviazioni che lasciano l’amaro in bocca. Tante le assoluzioni. Proprio per mancanza di prove. E poche volte, le ricostruzioni giornalistiche o quelle degli storici coincidono con le sentenze giudiziarie, che sono spesso incomplete, parziali, insoddisfacenti, specie se riguardano i potenti. Persino sulla prima strage della Repubblica italiana, quella di Portella della Ginestra, che porta la data del 1° maggio 1947, ancora oggi gli storici si dividono in almeno tre scuole di pensiero fra loro incompatibili, andando ben aldilà della verità raggiunta dalla sentenza di Viterbo, che condannò solo la manovalanza dei pastori della banda Giuliano".

Quindi anche l'informazione ha le sue responsabilità...
Sandra Rizza: È proprio per l'acquiescenza dell'informazione che l'Italia è arrivata a questo punto... è diventata un paese fascista e intollerante. I giornalisti dovrebbero smetterla di autocensurarsi e cominciare a scrivere quello che pensano veramente, senza appiattirsi sempre sulle verità ufficiali perchè queste, troppo spesso, sono il frutto di mediazioni inaccettabili, se non effetto di vera e propria propaganda politica. Un esempio a caso? L'errore giudiziario sugli stupratori della Caffarella, subito individuati con grande clamore di stampa in alcuni rumeni, poi risultati innocenti. Ecco un esempio di come la verità giudiziaria può servire la propaganda. La giustizia italiana purtroppo è stata spesso troppo timida con il potere, e la sete di giustizia che c'è nel nostro paese dipende proprio da questo. Dal fatto, cioè, che la storia sotterranea del potere italiano non è mai stata giudicata con chiarezza. Quando ho letto per la prima volta la sentenza di archiviazione del gip Lambertucci sono rimasta sorpresa: il gip demolisce l'inchiesta di Calia ma poi, come in preda a un oscuro senso di colpa, non può evitare di riconoscere i meriti del lavoro del pm che per primo ha riletto le numerose "anomalie" delle indagini su Mattei in chiave di evidenti "depistaggi". Il gip si sente quindi in dovere di citare l’autorevole voce di Carlo Ginzburg che distingue nettamente tra il lavoro del giudice e quello dello storico: il primo, vincolato dalla prova, il secondo legittimato a scavare ancora laddove le risposte fornite dalla giustizia non sono soddisfacenti. Perchè lo fa Lambertucci, se non perchè avverte che nella vicenda da lui archiviata vi sono lacune, interrogativi, sospetti lasciati senza risposta? "Uno storico ha il diritto di scorgere un problema", scrive Ginzburg, "laddove il giudice deciderebbe il non luogo a procedere". Il che significa che il mestiere dello storico (e quello del giornalista), non può essere mai assimilato a quello del giudice. Mi è sembrato che il gip quasi ci spronasse, con quella citazione, a fare di pià, che invitasse noi che non siamo vincolati dalla prova, noi che siamo giornalisti, noi che siamo i manovali della storia, a scavare ancora laddove i dubbi sono più scottanti, dove gli interrogativi sono più dolorosi. Noi abbiamo un grande rispetto per l’intelligenza del lettore. Noi crediamo di avergli dato, in "Profondo nero", tutti gli elementi utili, e di avergli consegnato pure i nostri dubbi: si faccia il lettore, con tutti gli elementi a disposizione, la sua idea sulla storia italiana, sulla giustizia italiana. Sul "sistema Cefis". E sul delitto Pasolini. È diffamatorio, questo? Ma qual è allora il mestiere del giornalista? Il cronista deve annullarsi davanti alla presunta universalità dell'atto giudiziario? Io spero che in Italia si apra un dibattito onesto sul ruolo dell'informazione. Prima che sia troppo tardi.

(16 marzo 2009)
da temi.repubblica.it
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« Risposta #187 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:48:44 am »

«Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché so fare la televisione»

di Andrea Carugati


Angelo Guglielmi, 79 anni fino al prossimo 2 aprile, risponde al telefono dal suo ufficio di palazzo d’Accursio, la sede del Comune di Bologna. La voce è pimpante, si capisce che, dopo cinque anni a Bologna, da assessore alla Cultura di Cofferati, aveva voglia di tornare a Roma in prima linea. Ci tornerà a giugno, nella Capitale, alla scadenza del mandato. Ma avrebbe voluto e potuto rientrare in anticipo, per approdare alla guida della sua amata Rai.

Fu lui l’inventore e il direttore della Rai Tre degli anni d’oro, tra il 1987 e il 1994, che partorì programmi come Quelli che il calcio, Avanzi, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto? e Un giorno in pretura. Ma il premier ha messo il veto sul suo nome. «Quando ho ricevuto la telefonata di Franceschini, lo scorso fine settimana, gliel’ho detto subito: “Io presidente della Rai? Sono lusingato, ma vedrai che non si farà...”. Poi ho cominciato a ragionarci sopra, e non sono riuscito a trovare nessun motivo ragionevole per cui il Berlusca avrebbe dovuto dire di no. Proprio nessuna. E allora ho iniziato cautamente a pensarci. Ma dentro di me restava una certezza: diranno di no».
Berlusconi avrebbe detto che lei è troppo avanti con gli anni...
«Franceschini gli ha risposto con prontezza: ha pochi anni in meno di Guglielmi, dunque non ha alcuna legittimità per tirare in ballo questo argomento. Io ne ho ancora 79, lui va per i 74. E poi non capisco: mi ha fatto la corte per anni perché passassi a dirigere una rete Mediaset...».

Racconti tutta la storia.
«Era il ‘92-’93. Mi ricordo una sera a casa di Costanzo, c’erano Confalonieri, Galliani, Dell’Utri. Scoprii che in realtà avrei avuto meno soldi a disposizione rispetto al budget della Rai, circa 50 miliardi contro 100. E allora dissi di no. Ma loro erano stati molto disponibili: avevo chiesto che con me si trasferisse praticamente l’intera Rete 3, e loro non fecero obiezioni. Loro volevano che guidassi Rete 4, che era in difficoltà, e noi rilanciammo con Italia 1. Anche lì non ci furono problemi. Mi ricordo che tra i più accesi sostenitori del mio passaggio a Mediaset c’erano Giorgio Gori e Mentana, che è stato appena cacciato...».

E allora perché non l’hanno voluta alla guida della Rai?
«Sto ancora cercando di capirlo, chissà, forse il no arriva da Tremonti. Ma un’idea ce l’ho: sarei stato l’unico, tra i nuovi vertici, ad avere una certa esperienza di televisione. Compreso il nuovo direttore generale in pectore, Mauro Masi, che finora si è occupato di tv solo come spettatore. Il centrodestra ha comunque una maggioranza bulgara: 5 consiglieri contro 3, di cui uno dell’Udc, che si muove secondo logiche proprie. Ecco, credo che abbiano avuto paura di un mio giudizio di merito, competente, sulle proposte al vaglio del Cda. Con quella maggioranza sono in grado di far passare anche la monnezza, ma io ho un naso in grado di fiutare certi odori...».

Forse l’hanno considerata bravo abbastanza per Mediaset, troppo per la Rai, che in fondo è il principale concorrente...
«Io avrei svolto un ruolo di minoranza, ma avrei potuto tirare fuori qualche argomento difficilmente contestabile. Altre motivazioni non ne trovo: se qualcuno me ne volesse suggerire, ne sarei felice».

Berlusconi ripete sempre di sentirsi 35 anni. Ecco che allora i suoi 79 appaiono tantissimi di più...
«È solo una battuta. Ma se la mettiamo su questo piano, allora io ne ho 40, sempre cinque di più. E poi scusi: si è parlato di spostare Zavoli dalla Vigilanza alla Rai, dunque l’età è una motivazione del tutto pretestuosa...».

Ha visto che il Pd non intende fare nuovi nomi dopo il suo?
«Ho visto. E allora delle due l’una: o il centrodestra si inventa un nuovo Villari, e temo che non sarebbe difficile trovarlo, oppure basta che Tremonti indichi il suo consigliere Petroni. A quel punto il Cda è in grado di funzionare, con la guida del consigliere più anziano. Che è uno di An».

Guglielmo Rositani.
«Esatto. L’altra volta, nel 2005, andò proprio così. Non si trovò l’accordo su nessun nome, e allora il Cda fu guidato per tre mesi da Sandro Curzi, il più anziano. Sandro mi disse che in quei mesi ogni tanto Berlusconi gli telefonava: “Perché sollecitate la nomina? Sei tu il presidente, approfittane...”».

Pensa che abbia pesato il suo essere stato sempre schierato a sinistra?
«Mi pare che la legge preveda che il presidente della Rai sia indicato dall’opposizione. Ma rispondo volentieri a Gasparri che mi ha accusato di essere un lottizzato. Ci fu una riunione tra Craxi, De Mita e Veltroni in cui decisero di includere il Pci nella gestione della Rai. Veltroni scelse me, che pure non ero mai stato iscritto al partito, né mai lo sono stato. Ho sempre votato per il Pci, ma con distanza. Ai tempi del “Gruppo 63” eravamo molto polemici, lontani dai realismi dei Guttuso e dei Pratolini. Pensavamo che il partito non fosse attrezzato per discutere di letteratura e creatività, escludevamo che la politica avesse l’ultima parola».

Veltroni l’ha sentito in questi giorni?
«No, assolutamente. Lui ha davvero passato la mano, ma Franceschini mi ha assicurato che la proposta aveva il consenso di tutto il partito».

Torniamo a quando Veltroni la scelse per la guida di Raitre.
«Lui era il responsabile Stampa e propaganda, quindi della tv. Aveva voglia di nominare un esterno, non pensava che gestire una rete volesse dire assumere segretarie e attrici e fare posto ai produttori amici, come andava di moda allora, soprattutto a Rai2. Non mi ha mai chiesto cose del genere. Ha capito che doveva puntare sulla qualità dell’offerta, perché ne avrebbe ricavato maggiori vantaggi. E infatti il riconoscimento fu unanime. E disturbò molto le altre reti, soprattutto Rai2: ricordo che Craxi pretese che Giuliano Ferrara passasse da Rai3 a Rai2».

Che giudizio dà della Rai di oggi?
«Non spetta a me dirlo, è sotto gli occhi di tutti: totalmente schiacciata su Mediaset, commerciale».

Ma lei cosa avrebbe fatto?
«Avrei cominciato a pensarci solo dopo la nomina. Non mi piace sognare anzitempo. Avrei avuto le carte per dare alla minoranza un ruolo critico, di controllo e di qualità. Le minoranze fanno questo: contenimento, denuncia, e talvolta, qualche correzione».

Come finirà la partita Rai?
«Come nel 2005, con il consigliere anziano».

E un’intesa Pd-Berlusconi su un nuovo nome?
«Mi sembra complicato, a questo punto».

Nel 2005 Petruccioli incontrò Berlusconi prima della nomina. Lei gli avrebbe fatto visita?
«Non avrei avuto problemi. Come capo della maggioranza, sarebbe stato suo diritto e suo dovere parlare con il presidente della Rai e fare le sue raccomandazioni».

Dai primi anni Novanta vi siete più incontrati?
«No, non più».

Lei cosa farà dopo l’esperienza a Bologna?
«Tornerò a Roma, per occuparmi più intensamente del mio secondo mestiere, la letteratura e la critica. E se mai dovesse arrivare una proposta all’improvviso...».
acarugati@unita.it


19 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #188 inserito:: Marzo 24, 2009, 10:44:48 am »

Le critiche dell'ex presidente del parlamento ue, sopravvissuta ad auschwitz

«Benigni non meritava l'Oscar»

Simone Veil riapre la polemica su «La vita è bella».

E attacca anche Spielberg
 

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

BERLINO — E' una scia lunga, chissà quando finirà, quella che Roberto Benigni ha alzato più di dieci anni fa con La vita è bella. Mettere al cinema l'Olocausto è difficile. Solleva onde, passioni, memorie. E si porta dietro le stroncature. L'ultima, forse la più netta e forse anche la più dolorosa per il film che vinse l'Oscar nel 1999, arriva più di dieci anni dopo. In un'intervista a un quotidiano tedesco, Simone Veil, figura politica e morale europea di primo piano, ha detto che l'opera è «assolutamente scadente», non meritava il Premio.

La signora Veil è un'intellettuale-politica francese di 81 anni che ha attraversato la storia della seconda guerra mondiale e del dopoguerra sempre esposta, nel cuore degli avvenimenti che lo volesse o meno. Una delle prime donne europee a diventare ministro, con Valéry Giscard d'Estaign all'Eliseo, grande sostenitrice dell'introduzione di una legge che consentisse l'aborto in Francia, poi presidente del primo parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979, accademica di Francia. Soprattutto, internata da ragazzina nel campo nazista di Auschwitz con una parte della famiglia: maniche lunghe, ai polsi, per anni, per tentare almeno di non ricordare in ogni momento il numero 78651.

Alla signora Veil è stato ieri assegnato il premio giornalistico franco-tedesco per il suo contributo alla riconciliazione tra Francia e Germania. Nell'occasione, ha dato un'intervista al quotidiano berlinese Der Tagesspiegel. A un certo punto dice che qualcuno le ha da poco parlato di La vita è bella, di Benigni. Il giornalista ricorda che si trattava di un film con un padre e un figlio in un campo di concentramento e che il padre cercava di rendere tutto un gioco. Vinse un Oscar, aggiunge. «Sbagliato — reagisce la signora Veil — E' un film assolutamente scadente. La storia non ha alcun senso. Non mi è piaciuto nemmeno Schindler's List. Queste sono favole cinematografiche. La gente farebbe meglio a guardare Holocaust, la storia della famiglia di un medico ebreo. Il film è piuttosto americano, ma almeno la storia non è velata».

Non è che Simone Veil sia rigida su tutto ciò che riguarda il ricordo dell'Olocausto. Per esempio, nella stessa intervista sostiene che il Memoriale alla Shoah di Berlino è meraviglioso e il fatto che i ragazzi e le famiglie ci facciano talvolta il pic-nic è «una forma di normalità». Normalità che, evidentemente, non ha invece trovato giustificata nell'interpretazione che Benigni dette della vita nei campi di concentramento.

Il film aveva fatto molto discutere già alla fine degli Anni Novanta, quando uscì nelle sale e poi vinse l'Oscar. Le polemiche tra gli entusiasti — «è un nuovo Chaplin» — e i critici — «è un film mafioso perché nessuno potrà criticarlo» — andarono avanti per molto tempo. Giuliano Ferrara, sul Foglio, fece una campagna contro la beatificazione artistica e ideologica di Benigni e propose forme di boicottaggio. L'artista-scrittore Moni Ovadia elesse Benigni «yiddish onorario». Il regista Steven Spielberg in pubblico ne parlò bene ma, pare, che vedendo il film volesse uscire prima della fine. Tullia Zevi disse che era un'opera piena di buona fede e buone intenzioni ma sperava che non avesse imitatori che edulcorassero la massima tragedia del Novecento.

Parlare di Olocausto al cinema è, in effetti, un rischio oppure, secondo altri, un'operazione commerciale che, dieci anni dopo l'Oscar di Benigni, solleva altre onde. Il recente The Reader, con Kate Winslet, è per esempio stato giudicato da Ron Rosenbaum, un esperto di nazismo e di Hitler, «il peggior film sull'Olocausto mai realizzato». E una serie di organizzazioni ebraiche in Germania vede nel numero crescente di film sulla Shoah un fenomeno penosamente commerciale. Che non è la critica della signora Veil a Benigni ma è una tendenza che solleva un dubbio: visto che sul tema si vincono premi Oscar, perché non provarci?


Danilo Taino

24 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #189 inserito:: Marzo 24, 2009, 11:04:15 pm »

La televisione e la guerra dei trent'anni

di Vincenzo Vita


La guerra dei trent’anni. Tanto è durata (e non è ancora finita) la vicenda della concentrazione tv in Italia. Ne ha parlato domenica una bella puntata di Report. Severo il giudizio: tanti, troppi colpevoli, a cominciare dal tentacolare partito di Mediaset. Il centrosinistra incerto ed oscillante. Si parte dalla metà degli anni 70, quando il far west dell’etere non aveva una regolamentazione decente, per passare agli anni 80 quando si giocò un pezzo rilevante della storia politica italiana. Intorno, il Re Media Berlusconi.

La sua resistibile ascesa ebbe il primo suggello nei “decreti Berlusconi” dettati da Craxi in aereo da Londra che “sanarono” la plateale illegalità dell’interconnessione nazionale delle tv del Biscione, visto che nel ’76 la Corte Costituzionale dichiarò legittime le emissioni private ma solo nell’ambito locale. Quel “federalismo radiotelevisivo” fu sbugiardato dalla Fininvest, che iniziò la sua trionfale marcia su Roma. Contro il primo decreto Berlusconi passò nella Camera dei deputati la pregiudiziale di incostituzionalità presentata dal Pci e dalla Sinistra indipendente. Ma il testo fu reiterato ugualmente. E poi la legge Mammì, il piano delle frequenze finito alla magistratura, i provvedimenti finalizzati a reggere bordone a un edificio duopolistico (Rai e Mediaset). La tv in Italia si fece persino partito, con Forza Italia, segnando il quadro istituzionale con un conflitto di interessi tale da piegare la politica all’estremismo proprietario di un imprenditore: Berlusconi e il suo doppio Confalonieri.

E il centrosinistra? Nel 1997, con la legge 249, riuscì a portare a conclusione la prima riforma degna di questo nome. Si liberalizzarono le telecomunicazioni, si recepirono le direttive europee, si costruì l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, si misero le griglie antitrust. A rigore nessun privato poteva avere più di due reti nazionali. Ma la storia non è a lieto fine. La legge si sbloccò in parlamento con un compromesso linguistico. La rete “eccedente” sarebbe stata trasferita sul satellite quando lo sviluppo delle parabole fosse stato “congruo”, parola velenosa che divenne sinonimo di eterno. Berlusconi rivince nel 2001. Arriva la legge Gasparri, che straccia la sentenza del 2003, finendo sotto il mirino della Corte di giustizia che condanna l’Italia per uso improprio delle frequenze nel passaggio al digitale. Quest’ultimo diventa l’ennesimo regalo al trust. Rimane a bagnomaria Europa 7, cui furono date le concessioni, ma non le frequenze.

Qual è la morale? Che nei momenti importanti non ci fu un movimento reale e chi si battè rimase solo. Furono commessi peccati, certo, ma il più grosso riguarda non aver capito che la tv commerciale stava cambiando rapporti di potere e modelli culturali. Stava cambiando l’Italia.

24 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #190 inserito:: Aprile 02, 2009, 07:36:04 pm »

Tutto quello che avreste voluto sapere sul G20 e non avete mai osato chiedere

di Natàlia Rodrígues

1. Perché G20?
In realtà sono più di 20 Paesi. I veri membri del G20 sono: Argentina, Australia, Brasile, Canda, Cina, Franca, Regno Unito, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Corea del Sud, Turchia, gli Stati Uniti è chiunque sia il presidente dell'Ue. A questi dobbiamo aggiungere la Spagna, l'Olanda, l'Ansean, l'Unione Africana e il presidente della Commissione Europea. Da non dimenticare il presidente della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, e il Segretario dell'Onu. In realtà, stiamo parlando del G29, ma G20 o G29 forse sono troppi a parlarci...

2. Perché la Spagna e non la Grecia?
Perché la Grecia non era a Washington l'anno scorso e la Spagna sì. Le cose nel mondo della politica internazionale sono così: una volta che qualcuno ti invita a una riunione, sei invitato per sempre.

3. Quante “grandi G” ci sono nel mondo?
Tanti.. Il più importante è il G8 (in realtà il G7, cioè i paesi più ricchi al mondo, più la Russia). Poi c'è il G77, che sono i paesi più poveri. Tutti i “grandi G” si organizzano per difendere i propri interessi (normalmente commerciali). Gli analisti comunque considerano che ne esista uno solo: il "G2", gli Stati Uniti e la Cina... questo G2 è quello che veramente fa girare il mondo.

4. Chi sono le star di questo G20?
Barack Obama, Nicolas Sarkozy, Angela Merkel, Gordon Brown, Hu Jintao, i russi (in realtà solo Vladimir Putin è importante). E i giapponesi perché la loro crisi economica dura da molto più tempo e l'esperienza conta tanto.

5. Ma chi conta veramente?
Il Brasile, perché è il futuro, l'India perché anche con gli enormi problemi sociali che ha è la superpotenza del XXIesimo secolo ed è un paese democratico con stampa libera. La Cina perché è ormai il banchiere del mondo (l'economia americana è praticamente finanziata da loro, perché la maggior parte delle obbligazioni sono in mani del governo cinese), e l'Arabia Saudita perché le automobili hanno bisogno di petrolio e gas.

6. Chi sta solo per l'aperitivo?
Argentina, Spagna, Olanda, la Commissione Europea, l'Italia, e cosi via...

7. Perché sono importanti gli ochhiali da sole per i servizi segreti Usa?
Perché il sole fa male agli occhi... questa è la spiegazione ufficiale. In realtà, perché così non sappiamo chi stanno guardando. Non è vero che i servizi speciali vogliono nascondersi da tutti, ma il contrario. Questi uomini vestiti uguali, tutti di nero, con gli stessi occhiali e lo stesso taglio di capelli sono l'accessorio più riconoscibile di un presidente degli Stati Uniti.

8. Quanti viaggiano con Obama?
Tutto l'“Air Force One” è pieno di gente. La sua palestra è piena di gente. Con Obama viaggiano almeno 500 persone con tutti i loro gadget. Cioè: appena arrivato all'aeroporto di Stansted, Obama prende l'elicottero presidenziale, il “Marine One” per poi prendere l'auto presidenziale, la “Cadillac One”, tutti con un sistema antimissile e bombe. Reggie Love, il suo assistente personale è il responsabile con cui Obama potrà giocare a pallacanestro ogni mattina.

9. Lo chiamavano il “Rinnegato”
Questo è il nome in codice di Obama: Renegade. Anche noi ci chiediamo se l'influenza di Hollywood non sia troppa in quest'amministrazione. Ma la spiegazione per questo soprannome è un'altra. I “Renegados” sono quei Cristiani convertiti all'Islam nella Spagna medievale... no comment! Anche il resto della famiglia ha un nome in codice: Michelle ha “Renaissance”, Malia per “Radiance” e Sasha per “Rosebud”.

10. Cosa cucinerà lo “Chef nudo” per gli ospiti?
James Olivier è un cuoco famoso per il suo show televisivo (“the naked Chef”: “il cuoco nudo”). Non si sa bene cosa cucinerà domani sera, ma nel suo sito web promette una “cucina responsabile e non cara”, cioè Fish and Chips...

11. Dove possiamo protestare?
Erano previste e ci sono state manifestazioni per tutta la città di Londra. Qui come per il detto di Maometto e la montagna, non hai bisogno di cercare dove andare, la protesta verrà direttamente da te.

12. Chi decide il luogo della cena ufficiale?
Se chiedete a Downing Street, risponderanno al Foreign Office, il ministro degli Esteri. Se chiedete al Foreign Office diranno a Downing Street, sede del primo ministro Gordon Brown. Non si sa bene perché i segreti del protocollo sono come quelli del Vaticano. Sicuramente l'ordine alfabetico è un'ipotesi di scelta. Ma l'unica cosa importante è dove siederà Silvio Berlusconi. Lui da solo può essere una arma di distruzione di massa per il protocollo diplomatico...

13. E i regali?
I “goodie bag”: è questa la borsa dei souvenir per tutti i capi di Stato e di governo. Ecco il suo contenuto, uguale per tutti: una cravatta, una candela e cioccolato. Per chi che non usa la cravatta (è il caso di Angela Merkel o Cristina Fernandez Kirschner) non c'è alternativa...

14. Le mogli
L' unica vera novità è che Carla Bruni non c'è. L'incontro tra Michelle e Carla non può accedere in suolo britannico. Allora francamente l'interesse per questo vertice cala veramente giù del 90%. Non si sa se Veronica Lario accompagnerà Silvio. E non possiamo sperare niente strepitoso dalla moglie di Hu Jintao, Liu Yongqing, che non ha mai parlato in pubblico. Svetlana Medvedev è molto timida e la moglie del re dell'Arabia Saudita rischia la lapidazione se dice una sola parola al microfono.

15. Carla Bruni in pericolo
Non è vero, ma fare speculazioni è parte del nostro lavoro. Senza la Bruni chi ci farà la cronaca rosa? Guardate bene Sonsoles Espinosa, la moglie di José Luis Rodriguez Zapatero. È alta, occhi azzurri e cappelli corti. La sua consigliere per il look è Elena Benarrcoh che è anche consigliere di Pedro Almodovar e Miguel Bosé. I suoi gioielli sono disegnati da Felipe Gonzalez (grosse pietre d'ambra millenaria). Sonsoles anche è cantante, nel coro della televisione spagnola. Certo, la moglie di Zapatero non ha mai sfilato nuda a Parigi, ma può fare di meglio per essere “la Bruni del G20”.

16. Quanto ci costa?
I sudditi britannici dovranno pagare una somma di 20 milioni di sterline per questo vertice. Sono molti soldi, ma pensate che cosa hanno dovuto fare quelli del vertice G8 in Giappone per spendere 285 milioni di dollari l'anno scorso...


02 aprile 2009
da unita.it
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« Risposta #191 inserito:: Aprile 30, 2009, 10:16:07 am »

I RAGAZZI E I SILENZI DEGLI ADULTI

I nostri figli senza maestri


di Isabella Bossi Fedrigotti


Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza. Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere. E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società. Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge. E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.

Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti. Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene. Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai. Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.

Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione. E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente. Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno. Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani. Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti. È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.

Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise. Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani. Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto. Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme. Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato. Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere. I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.

30 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #192 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:38:20 pm »

I ricordi e l’analisi (amara) dell’ex banchiere ed ex vicesegretario dc

Mazzotta: "Non è più una Repubblica Domina la tv, ma il Cavaliere è il migliore "

«Milano ha perso l’establishment e rischia di non avere futuro»



Roberto Mazzotta, vicesegretario della Dc, presidente della Cariplo, fino alla settimana scorsa della Popolare di Milano, è a Roma di passaggio.
Ha staccato i telefonini. Lo attendo­no le terme. L’occasione per riflettere su una vicenda, la sua, al centro della politica e del­l’economia degli ultimi quarant’anni.

Presidente Mazzotta, nei Diari di Monta­nelli lei è citato spesso come interlocutore privilegiato dentro la Dc. Parlavate di oppo­sizione a Moro e al compromesso storico, di un nuovo partito...

«Era il 1976. Da due anni ero al governo co­me sottosegretario di Albertino Marcora: il mi­nistro che stava modernizzando l’Agricoltura; e il leader della sinistra Dc».

Com’era Marcora?

«Grande schiettezza. Mente da imprendito­re. Leader di organizzazione più che leader po­litico. Mi costò dirgli che non ero d’accordo con lui sulla solidarietà nazionale, e quindi mi dimettevo. Il dialogo con il Pci era giusto; ma la consociazione bloccava sia noi sia loro. Un errore per la democrazia».

E Marcora?

«Mi chiese se ero ammattito. Era molto ar­rabbiato. Ma al momento di salutarlo gli dissi: 'Di’ la verità, tu la pensi come me'. 'Tu sei gio­vane, e lo puoi fare' fu la risposta. Poi mi can­didai contro di lui al congresso milanese della Dc. Finimmo a casa di sua madre, che ci prepa­rò lo stracotto, a contare le sezioni in cui ave­va vinto lui e quelle in cui avevo vinto io».

Vinse lei. Da qui le attenzioni di Montanel­li. Come lo ricorda?

«Molto diverso da come appariva. Dietro le battute scettiche e l’apparente relativismo, na­scondeva una grande passione e anche una profonda fede in quell’Italia che in pubblico biasimava. Gli chiedevo spesso perché non en­trasse in politica».

E Montanelli?

«Rispondeva che per fare politica occorro­no persone con tanti difetti. E che lui da una parte ne aveva molti di più, ma dall’altra par­te, quella che contava, molti di meno».

Il suo gruppo si infranse contro la resi­stenza di Moro.

«Ricevette Mario Segni, Gerardo Bianco e me nel suo ufficetto romano. Ci lasciò parlare a lungo. Poi disse: 'Vi capisco, fossi in voi fa­rei le stesse cose. Ma dovete darmi retta. Non avete idea dei pericoli che ci sovrastano'».

Anche l’incontro con Berlusconi è del ’76?

«No, Berlusconi lo conosco dal ’70. Stava fa­cendo Milano2, che resta il miglior esempio di urbanistica del dopoguerra. Era un impren­ditore pieno di idee, con cui nacque un’amici­zia. Non mi ha mai chiesto nulla. Io invece gli chiesi un aiuto per le elezioni del ’76: 'A Mila­no2 sono tutti democristiani, mi organizzi una serata?'. 'Ti offro di meglio: vieni tutte le mattine che vuoi, alla nostra tv via cavo. C’è un presentatore che propone diete alle signo­re. Sarà felice di intervistarti'. La tv si chiama­va Canale 5».

Vi parlaste anche al momento della disce­sa in campo?

«Sì. Fu lui a cercarmi. Con la morte nel cuo­re, gli dissi che avrebbe dovuto allearsi con la Lega, cui il fallimento della Dc aveva spalanca­to le ricche valli lombarde».

Come giudica il Berlusconi premier?

«Non sono un sostenitore della Seconda Re­pubblica, che preferisco chiamare Non-Re­pubblica, in cui il rapporto con i cittadini non è intermediato dai partiti, dalle istituzioni, dal­le forze sociali, ma dalla tv. Se Non-Repubbli­ca dev’essere, meglio Berlusconi di altri»

Meglio Berlusconi di Prodi?

«Anche con Prodi il rapporto dura da una vita, ed è un buon rapporto. Quando eravamo giovani lui era il consulente della Dc, ma ama­va sottolineare di non appartenere alla Dc stes­sa. Un vezzo che non mi piaceva».

E il Prodi politico?

«Nella condizione innaturale, non italiana, del bipartitismo, la strategia di Prodi — aggre­gare un’area vasta progressista — è più razio­nale di quella di Veltroni»

Della Dc lei fu vicesegretario unico, con De Mita.

«Mi candidai contro di lui, ma non avevo le firme. Mi chiama Donat-Cattin: 'Sei un folle, la tua è una pura provocazione, ma se vuoi le firme per candidarti contro De Mita te le do io'. Dovetti rinunciare comunque. Ma De Mi­ta comprese che, se non avevo consenso nel­l’apparato, ne avevo nell’elettorato. Volevo una Dc più attenta al Nord, all’economia, al mercato, alle imprese. Capace di rappresenta­re i ceti popolari, e di essere l’interlocutore dell’establishment, che considerava la Dc un accidente di cui sarebbe stato meglio fare a meno».

De Mita era l’uomo giusto?

«De Mita era convinto di queste cose ma non poteva esplicitarle. Da vice, io ero più libe­ro. Lui mi definiva il suo consulente economi­co perché, diceva, non capiva nulla di econo­mia. Ovviamente, lo diceva per scherzo: De Mita non ha mai accettato di non capire qual­cosa di questo mondo».

Poi arrivò la sconfitta dell’83. La Dc perse sei punti. E lei cambiò mestiere. Le banche. La presidenza della Cariplo.

«Peggiore della sconfitta fu la reazione del­la Dc. Fort Alamo. Si rinunciò all’offensiva, ci si rassegnò alla difesa e alla lenta perdita delle posizioni di potere. Io divenni capo dell’uffi­cio economico. Con Nino Andreatta, uomo straordinario, concepimmo quella che sareb­be diventata la legge Amato: privatizzare il si­stema bancario; l’ente conferente, che poi sa­rebbe stato chiamato fondazione, apporta le sue azioni a una spa, e gradualmente cede il controllo della banca, che resta però una ban­ca del territorio. Pensavamo anche a una hol­ding nazionale, dove le fondazioni potessero concentrare le loro partecipazioni nelle spa lo­cali. Una sorta di Crédit Agricole italiano».

La«sua»Cariplo.

«Cominciammo a comprare casse di rispar­mio, a litigare con chi non ne voleva sapere, a tranquillizzare Verona e Torino terrorizzate dai milanesi alle porte, a convincere gli scetti­ci che si trattava di un progetto civile. Erava­mo in una fase avanzata: avevamo 15 casse di risparmio, il governo Amato aveva preso una decisione che poi non ebbe seguito, conferire a noi e all’Iccri (l’Istituto centrale delle casse di risparmio) il 50% dell’Imi, allora sotto il controllo pubblico. Eravamo a un passo dal creare un grande gruppo, tutto italiano, forte su ogni versante: la banca di territorio; il credi­to industriale; il credito a medio termine. Poi...».

Poi Di Pietro chiede il suo arresto.

«Ero a Londra, per una riunione con le cas­se di risparmio inglesi. Mi telefona alle 6 del mattino mio figlio, allora diciottenne, terroriz­zato: 'È appena uscita di casa la guardia di fi­nanza'. Rimasi traumatizzato tre o quattro giorni. Poi rientrai. E mi dimisi a razzo da tut­te le cariche».

Come fu con lei Di Pietro?

«Non mi faccia parlare di Di Pietro. A me fu riservato tutto il peggio. Le dirò solo questo: fu un’operazione di cui sono chiari i motivi, la tempistica, gli effetti. Il regime mi condannò al confino per sei anni. Tanti ne passarono pri­ma che arrivasse l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Sei anni di vita professiona­le bruciati, in un momento non casuale».

Lei ricominciò dalla Popolare di Milano. Una storia che oggi finisce.

«Si era dimesso per ragioni personali il vice­presidente Boroli, fui chiamato a sostituirlo. Oggi provo gratitudine per la Banca popolare di Milano e per i sindacati che mi offrirono quella possibilità. Avrei voluto che la Popola­re potesse crescere al fianco di un sindacato consapevole del proprio prezioso ruolo: asse­condare la crescita della Banca, non condizio­narne la gestione. Invece è prevalsa una volon­tà conservatrice, che ha portato alla rottura della collaborazione. Non però a una rottura dei rapporti personali».

Neppure con Ponzellini? Come si è com­portato

«Ponzellini si è comportato benissimo. Pe­rò, se fossi stato in lui, non mi sarei mai pre­stato a porsi in alternativa a me, mentre ero impegnato a riportare il sindacato alla sua giu­sta funzione: rappresentare i lavoratori, non gestirli».

Il governo è intervenuto?

«Quasi tutti quelli che non sarebbero dovu­ti intervenire sono intervenuti».

E nella crisi il governo come si muove?

«Bene, in linea con gli altri governi europei. Il problema è che si danno risposte nazionali a una crisi globale. Di conseguenza, la reces­sione durerà ancora a lungo».

Come trova la Milano di oggi?

«Ha perso un establishment e non è ancora riuscita a sostituirlo con uno nuovo. Ha il pro­blema dell’adeguamento istituzionale: senza un governo metropolitano, Milano non ha fu­turo. Perde colpi nelle infrastrutture: è impen­sabile che un imprenditore milanese per vola­re all’estero debba passare da Roma o Zurigo. Deve internazionalizzarsi, puntando sulle ec­cellenze: l’università, la ricerca. Soprattutto, manca una regia. Nella politica, nella cultura, nelle imprese. Appunto, un establishment. Pu­re il Corriere dovrebbe muoversi, perché dal futuro di Milano dipende anche il suo».

Non vede segni di speranza, per Milano e per il Paese?

«Ne vedo moltissimi. Vedo molti giovani imprenditori interessanti. Il sistema delle fa­miglie tiene. E il cambio forte, anche se tutti dicono il contrario, ha giovato alle imprese, costringendole a concentrarsi sul lavoro e sul prodotto. Non tutti saranno presenti, quando la crisi sarà passata. Ma il sistema manifattu­riero, che è il cuore dell’economia italiana, sa­rà più forte, e ci consentirà di ripartire».


01 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #193 inserito:: Maggio 01, 2009, 03:44:33 pm »

01 Ottobre 2008

Massimo Ponzellini

Il presidente di Impregilo, ex amministratore del patrimonio dello Stato, promuove la rivoluzione italiana di Berlusconi e Bossi.

E difende “l’etica” del libero mercato

di Luigi Amicone


 Massimo Ponzellini, bolognese, 58 anni, veste come un blues brother e porta gli stessi occhiali (originali di François Pinton) di Onassis, il mitico magnate greco che fu compagno della Callas e marito di Jacqueline Kennedy. Viene dal giro Iri di Romano Prodi ed è stato uno dei primi italiani ad avere ruoli non secondari nelle grandi istituzioni economiche europee (vicepresidente della Banca europea per gli investimenti e membro del Cda British Airways).

Qualcosa accadde tra Romano e Massimo se poi, a partire dai primi anni 2000, la “vicinanza” tra lui e Prodi si trasformò in “vicinato” neanche troppo simpatetico (come precisò lo stesso portavoce dell’Unione Silvio Sircana parlando di ciò che «riguarda le rispettive abitazioni bolognesi»).

Si dice che già nel secondo governo Berlusconi l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti lo volesse direttore del dicastero. Ma poi l’operazione fallì per l’opposizione di Gianfranco Fini (che non aveva gradito il supporto dato da Ponzellini alla campagna elettorale di Francesco Rutelli, oltre che all’Unità, in qualità di azionista). Ma insomma, Ponzellini finì “solo” amministratore della Patrimonio dello Stato Spa e, di lì a qualche anno, nel 2007, prese il posto di Cesare Romiti alla presidenza della multinazionale Impregilo. Primo general contractor nel settore delle grandi opere e primo gruppo italiano, per dimensioni e fatturato, nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria.

Wall Street affonda, le borse europee non stanno gran che e Piazza Affari la stanno facendo nera. Cosa ci aspetta?
Vedo che il governatore di Bankitalia e i nostri banchieri hanno assunto un atteggiamento prudente. Dicono che le nostre banche sono meno coinvolte del resto del sistema internazionale nei prodotti a rischio…

E lei che pensa?
Penso che sia una descrizione ottimistica, dettata non dalla prudenza, ma dalla paura e dall’ignoranza che ci hanno portato ad autoescluderci da questo mercato.

Però adesso non abbiamo il problema del Tesoro americano. E Tremonti non è chiamato a nazionalizzare banche in default.
Mah. Il conto vero andrebbe fatto non sulle perdite attuali, ma sui mancati profitti pregressi. O vogliamo dimenticarci che grazie agli strumenti di finanza innovativa la Spagna ha messo in piedi il più grosso comparto delle costruzione che ci sia in Europa? D’accordo, adesso sono in sofferenza. Ma per quindici anni sono cresciuti a ritmi vertiginosi. Io non so se ha ragione Zapatero a dire che la Spagna è davanti all’Italia. Ma so che Abertis era un’azienda di camioncini e adesso mette sul tavolo i soldi per fare le autostrade. E chi glieli ha dati questi soldi? Le banche e la raccolta finanziaria con quei sistemi cervellotici da rapina sui mercati. Bisogna sempre vedere le cose alla luce di quello che succede nel tempo. Quelli che hanno fatto il disastro adesso, per dieci anni ci hanno trattato a pesci in faccia, perché in Italia non avevamo neanche un banchiere in grado di andare a spiegargli che sbagliavano.

Insomma, lei rovescia il paradigma di Bossi («non ci smeneremo tanto da questa crisi finanziaria perché fortunatamente i nostri banchieri non sapevano l’inglese») e ripete la predica del Financial Times: «Il libero mercato non è una religione fondamentalista, è un meccanismo che ha dimostrato il suo valore più e più volte in 200 anni».
Sì, non perdiamo adesso ma abbiamo perso dieci anni in cui gli altri paesi si sono fatti chi le industrie, chi le telecomunicazioni, chi i servizi, chi le grandi infrastrutture.

Sì, però molti osservatori, da un economista con l’attenzione al sociale come Giorgio Vittadini al Nobel dell’economia tout court Michael Spence, vedono nella crisi una lezione che dovrebbe spingere le banche a ritornare al “core” della loro attività, cioè il sostegno all’economia reale.
L’economia non è né reale né irreale. È quello che succede sul mercato. Il fatto che ci fossero dei forsennati che acquistavano titoli o pezzi di carta straccia pagando dieci volte il prezzo che c’era scritto sopra perché pensavano che creassero altro valore, non è economi irreale, è economia, punto. Il problema vero è che nessuno nomina la parola chiave di tutto: la parola “etica”. Che è un altro concetto. Perché il problema non è se questo libro è un catalogo o un depliant, ma se quello che c’è scritto dentro corrisponde alla cosa. Lo dubito fortemente. Allora è questo il problema. Se il mercato è drogato e l’etica non è rispettata, prima o poi “shit happens” dicono gli americani, le schifezze vengono a galla. Io, perciò, parlerei di economia etica e di economia non etica. L’economia etica ha una trasparenza e una leggibilità, per cui la gente tende a chiamarla “reale”. L’altra invece ha una lettura più complicata, per cui la chiamiamo economia di carta o speculativa. Ma sono definizioni erronee.

E secondo lei quale sarebbe il meccanismo attraverso cui si costruirebbero cosidetti “valori etici” in economia?
Bè, per fare un esempio, invece di discettare di economia reale o irreale si potrebbe cominciare a chiedersi perché un banchiere debba prendere dieci o venti milioni di euro in stock option. Perché nessuno si pone questo semplicissimo quesito? Perché nessuno si domanda perché un banchiere che prima stava in casa sua lo trovi nel club altolocato in compagnia dell’attricetta di turno e del suo altro amico banchiere, naturalmente anch’egli in buona compagnia, al quale ha prestato cento miliardi mentre all’artigiano che doveva cambiare il tornio ha negato 500 mila euro di prestiti? Queste sono le cose che bisogna guardare.

Cosa pensa del recente riassetto di Mediobanca?
Mediobanca svolge due funzioni diverse fondamentali dell’economia italiana, e le svolge ambedue con capacità e prestigio. È la più importante e sana holding di partecipazioni che abbia radici in Italia e, secondo, è la più importante banca d’affari italiana, non così potente e presente come i suoi competitori stranieri, ma nel processo di farsi una rete anche internazionale per seguire l’imprenditoria italiana. È chiaro che il fatto di essere una holding e il fatto di essere una merchant bank prevedono meccanismi di governance completamente differenti. La holding prevede una fortissima attenzione alle nomine, al valore dei titoli e ai meccanismi di controllo dei risultati che il management porta a casa. La merchant bank invece contiene la capacità di vedere sul mercato le opportunità e di realizzarle in maniera da intascare plusvalori sugli investimenti azionari o le fees sulle operazioni arrangiate. Naturalmente l’unicità di Cuccia era che riusciva a combinare l’attività di merchant banking con quelle di holding. Faceva fare gli affari che dovevano essere fatti alle partecipate. Come nei grandi allevamenti, però, alla fine a furia di incrociarli gli animali cominciavano a diventare brutti, perché il sangue era sempre lo stesso. Nel frattempo Cuccia s’era invecchiato e Maranghi, che ne seguiva la strada, ha cominciato ad aprire la compagine a nuovi imprenditori. L’idea di Maranghi era: non possiamo continuare sempre con gli stessi nomi, perché poi diventano incroci incestuosi; ma dobbiamo continuare nella formula di Cuccia, cioè avere imprenditori che sanno fare. Perciò ha caricato a bordo i Benetton, i Gavio, i Ligresti, i Barilla e via discorrendo. I “ragazzi”, come li chiamo io, quelli che sono venuti dopo la scomparsa di Maranghi hanno detto: “Bè, forse è il momento di andare anche sul mercato, di prendere il cervo e mandarlo nel bosco, sperando che trovi una bella cerva e che faccia dei cerbiatti più forti che vivano liberi, che non siano chiusi sempre nelle gabbie”. Perché Mediobanca era un po’ come le gabbie dello zoo. È andata così, e adesso la strada è quella giusta. Ma nel bosco è meglio andarci con un meccanismo duale o con un meccanismo unico? A mio parere il meccanismo unico è più semplice.

Sulla critica all’allegra finanza anglosassone e sulla richiesta di nuove regole anche per far fronte alla penetrazione dei cosiddetti fondi sovrani in asset strategici per l’economia nazionale ed europea pare che Angela Merkel ci abbia azzeccato già in tempi non sospetti di grande crisi finanziaria. Cosa pensa in proposito?
 La posizione della Merkel rispetto ai fondi sovrani e alla finanza anglosassone è diversa da quella del resto dell’Europa, perché la Germania ha una forma di mercato particolare. La Germania ha coniugato il federalismo con l’intervento dello Stato, delle banche e delle imprese in una formula che ha funzionato e che secondo me funzionerà per molti anni ancora. Detto questo, anche la Merkel dovrà trovare un sistema per rafforzare la struttura del capitale delle banche.
 
Passiamo all’Italia. Un suo giudizio sulla nuova situazione politica: “autoritaria”?
Non diciamo sciocchezze. L’importanza del dato politico attuale è che questa maggioranza è stata fortemente voluta dalla gente, ed è stata voluta dalla gente fuori dagli schemi. La cosa importante non è chi vince o chi perde, ma chi cambia in un’elezione. E questi ultimi anni hanno cambiato molto.

Cioè?
Cioè, una volta, se a Frosinone la Dc passava dal 28 al 34 per cento, era una festa incredibile. Ma non cambiava niente. Perché al 28 comandavano quelli, e al 34 comandavano gli stessi. È Sesto San Giovanni, dove oggi l’operaio Cgil passa alla Lega, che cambia. In meglio o in peggio? Non lo so. Spero in bene, ma comunque sia sicuramente cambia. Anche i cambiamenti all’interno della maggioranza (i posti in cui ha vinto Bossi, come ha vinto in Sicilia il Pdl) sono cose nuove. Dopo trent’anni di caduta libera sembra che l’interesse della gente per la politica aumenti. O per lo meno il cambiamento dimostra che le cose stanno così. La gente torna alla politica e la classe politica migliora. Tant’è che si è ringiovanito il Parlamento, ci sono più donne e più esponenti di categorie.

E dal suo punto di vista di imprenditore come giudica il governo Berlusconi?
La risposta semplice è che Impregilo è contenta perché il governo ha detto che farà il Ponte sullo Stretto, la Variante di valico, l’Anello in Reggio Calabria. Che vuole che le dica? Andiamo benissimo, abbiamo fatto una semestrale con 150 milioni di euro di profitto, ci hanno restituito e sbloccato i soldi di Napoli, abbiamo 17 miliardi di back log di lavori in contratti firmati da realizzare, non abbiamo problemi finanziari, siamo felici, grazie, speriamo duri altri cent’ anni. Dopo di che ci sono i problemi del paese, enormi, a cui ci dobbiamo piegare e lavorare tutti per provare finalmente a risolverli.

Secondo quali priorità?
Anzitutto indubbiamente esiste un Nord ricco, un Sud povero e un Centro benestante ma mantenuto dalla disgrazie del Sud e dalle fortune del Nord. Il Centro Italia fa il becchino, il medico terminale, l’assistente sociale e spirituale di un Sud che decade sempre di più e di un Nord che soffre per la burocrazia. Tutto questo troverà nel federalismo un miglioramento. Il federalismo darà alcune risposte molto interessanti. Il Nord sarà a favore, perché naturalmente è un modo per essere più vicino a quelle risorse che oggi fornisce al resto del paese. Il Sud sarà contento perché avrà più trasparenza e responsabilità. Chi ci rimette è Roma e le regioni centrali che vivono di burocrazia. Perderanno potere. Non avranno più questo meraviglioso meccanismo, il travaso del miele. Quando travasi il miele ti rimane sempre attaccato qualcosa alle mani: il non poter più travasare il miele, questo è il federalismo. Seconda priorità: la gestione del demanio. Prenda ad esempio il carcere di San Vittore: nelle mani dello Stato San Vittore vale 100, nelle mani della Regione vale 130, nelle mani di Regione e Comune vale 200, nelle mani della Regione, del Comune e del privato vale 500. Allora, nella misura in cui applico il federalismo anche ai beni demaniali, le assicuro che la musica cambia. Per quattro anni ho fatto anche l’amministratore del patrimonio dello Stato e conosco bene gli imprenditori che sui giornali scrivevano e cercavano di impedire allo Stato di vendere. Perché se lo Stato mette in vendita le caserme che ha in centro a Milano, altro che certe operazioni di lottizzazione come si sono viste in questi anni. Ma lasciamo perdere… Più in generale c’è da ricostruire un’etica con la “E” maiuscola in questo paese…

E la scuola probabilmente…
Certo, non si risolve il problema della malavita al Sud mandando l’esercito, ma mandando i professori. Nel breve devi anche mandare l’esercito, però la soluzione sono i professori, non l’esercito. Ma mi permetta di tornare ai beni dello Stato. Perché per esempio le concessioni televisive devono essere dello Stato e non delle comunità territoriali? Perché non si crea una vera competizione tra i soggetti che le realizzano, anche interregionali? Dico delle banalità, per far capire: l’Emilia-Romagna dà una concessione a Teletortellino, e secondo me Teletortellino fa una buona rubrica di gastronomia che tutte le regioni prendono; la Lombardia dà una concessione a Telemediobanca per le informazioni economiche… Insomma, dalle strade alle balere, dallo sport al turismo, perché dev’essere lo Stato il centro delle concessioni? Ecco in che senso il federalismo deve dare la spinta e rinnovare il paese.

Chiaro, questo significa che la Rai chiude.
Vabbè, ma se chiude la Rai cosa dice: l’Italia ci perde o ci guadagna? Io dico che ci guadagna. Insomma, il senso del federalismo è riavvicinare la gente alle istituzioni e renderla responsabili del proprio destino.

da tempi.it (da google)
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« Risposta #194 inserito:: Maggio 03, 2009, 05:29:53 pm »

Il nostro viaggio libero


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L’abbiamo fatto fino in fondo. Questo che in realtà è sempre stato un piccolo giornale-nel-giornale. Con passione, con fatica. Con divertimento ogni volta che è stato possibile. Con divergenze e scontri ogni volta che è stato necessario. Con i suoi piccoli e miracolosi equilibri. Con i suoi riti. Con le sue riunioni interne convocate e puntualmente saltate - quasi un sortilegio scaramantico - perchè c’era da farlo il giornale, altro che riunioni.

In questi anni. Dal 2003, quando si era rinati. Da domani le pagine della cronaca di Roma non saranno più in edicola, così ha stabilito il nuovo piano aziendale. Noi, la redazione, vogliamo ringraziare i lettori per la vitalità con cui ci hanno sempre seguito, per la schiettezza con cui ci hanno parlato, sostenuto, criticato. Abbiamo provato - sempre - a stare con gli occhi aperti sulla città. Su come è, su come cambia. Raccontando i fatti. Su chi cambia e su chi la cambia. Raccontando le persone.

Ora qualcosa mancherà. Mancherà una voce, mancheranno i nostri punti di vista. Mancheranno i punti di vista di coloro che in noi si specchiavano. Mancherà un po’ di sinistra. Lo abbiamo fatto in tanti questo racconto. Tutti i colleghi che hanno inventato e animato giorno per giorno queste pagine, che hanno condiviso un tratto di strada - chi lungo, chi più breve - con la cronaca di Roma de l’Unità. Tutti i collaboratori. Tutti i precari: sì, perchè hanno saputo essere parte importante e piena di questa redazione fino all’ultimo. Per tutti noi è stato un gran bel viaggio.

03 maggio 2009
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