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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 131896 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Maggio 15, 2009, 05:03:40 pm »

Sporchi, brutti e cattivi.


14 maggio 2009, 16:37


Ieri e oggi     

(...) I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. (...). Stralci di una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912


(...) "Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.

Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. (...)

I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. (...)

(...) Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

*Il testo è tratto da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912

da aprileonline.info
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« Risposta #196 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:07:32 am »

GLI ITALIANI BRAVA GENTE DI ANGELO DEL BOCA 7/12/05

Angelo Del Boca
Italiani, brava gente?

€ 16,00

pp 318

Editore Neri Pozza 2005
Collana I colibrì
 

Emanuele Giordana

Mercoledi' 7 Dicembre 2005

Francesco Crispi, 7 maggio 1885: Qual’è il nostro scopo? Affermare il nome dell’Italia e dimostrare anche ai barbari che siamo forti e potenti! I barbari non sentono se non la forza del cannone, ebbene questo cannone tornerà al momento opportuno. Un cannone che tuona a Sciara Sciat, sul fronte tenuto da Cadorna, sull’altopiano etiopico, nella bonifica etnica in Slovenia, nella Pechino dei boxer. Ma il cannone non è caricato solo a proiettili. Tira salve propagandistiche che hanno il compito di erigere un mito, quello degli “italiani brava gente”, che è anche un muro dietro cui nascondere le nefandezze che non ci fanno certo migliori di altri. Anzi. Angelo Del Boca getta luce sulla coscienza sporca di un paese che non vuole fare i conti con la propria memoria. Oltre trecento pagine e una decina di casi che sono il manifesto non soltanto di un’efferatezza che lascia sconvolti, ma anche della capacità di nasconderla sotto un’aura aulica e romantica.

L’ultimo saggio che Angelo Del Boca, piemontese di nascita, piacentino d’adozione, dedica a un’Italia che, dalle Alpi allo sperone, descrive come l'italica stirpe si sia dedicata anima e corpo a costruire il mito di una diversità che dovrebbe renderci migliori degli altri. Meglio dei britannici nelle colonie, o meglio degli americani in Iraq, o meglio dei nostri tanti compagni d’arme durante la rivolta dei boxer in Cina.

“Italiani brava gente?”, in libreria da qualche settimana, decreta senza tante giustificazioni la fine di quel mito e, strappando il sipario, mostra, dietro la cortina fumogena lucente del buon italiano costruttore di strade ed ospedali, l’anima dell’Italia coloniale. Per nulla diversa, se non peggiore, dai suoi cugini d’oltre Manica o d’Oltralpe.

Le pagine più forti sono forse quelle dedicate alla strage che seguì il tentativo di uccidere Graziani in Etiopia nel febbraio del ’37, o quelle in cui si descrive l’operato di Cadorna, il generale che, sordo a ogni protesta, mandava al macello i suoi soldati. Ma anche i civili non se la cavano troppo bene se si leggono le storie dei colonizzatori che la vanga la usavano, più che per scavar strade, per picchiare i contadini somali ridotti in stato di schiavitù.

Non fummo migliori ma mascherammo bene, almeno ai nostri stessi occhi, le nefandezze che son proprie di ogni guerra e di ogni campagna di conquista. Nel suo libro, Del Boca salva soltanto le recenti operazioni di peacekeeping condotte dal nostro esercito sotto mandato internazionale e la truppa senza caserma del volontariato. Lascia così, alla fine del saggio, un filo di speranza a un paese che, barricandosi dietro il mito di una diversità inventata, ha nascosto, e continua a nascondere, le pagine più buie di una storia iniziata con l’unità d’Italia.

da lettera22.it
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« Risposta #197 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:08:25 am »

Mercoledì, 4 Aprile 2007

Le prime bombe sui civili? Italiane

Tre settimane prima di Guernica, fu l’Aviazione Legionaria italiana a inaugurare in Europa l’era dei bombardamenti terroristici contro la popolazione civile, per indebolire il fronte nemico. Gli attacchi durarono 4 giorni e uccisero 366 abitanti su novemila

Durango, villaggio industriale nel cuore dei Paesi baschi, non è famoso come la vicina Guernika, ma ha un primato: ha inaugurato (in Europa) l’era dei bombardamenti aerei come arma di distruzione di massa. La differenza con Guernika l’ha fatta il miglior pittore del XX secolo, che ha elevato la mattanza compiuta dalla Legione Condor a simbolo universale della barbarie, mentre Durango è passata dalla tragedia al dimenticatoio, anche perché così conveniva a Franco. Eppure è proprio qui che per la prima volta in Europa andò in scena un bombardamento «pianificato e realizzato sistematicamente», come spiega Jon Irazabal, autore del libro Durango, 31 marzo 1937. Settanta anni fa, alle 7.20 di un mercoledì di Pasqua, quattro bombardieri e nove caccia iniziano quattro giorni d’inferno. Bombe da 500 libbre iniziano a piovere dal cielo; in pochi giorni tonnellate di esplosivo vengono riversate su questa cittadina di poco meno di 9.000 abitanti: 366 moriranno, centinaia saranno i feriti. Gli aerei sono quelli dell’Aviazione Legionaria italiana inviata dal Duce, sotto le forti pressioni del genero Galeazzo Ciano, a sostegno di Franco.

«Ho deciso di concludere rapidamente la guerra nel Nord» - si legge in un volantino indirizzato alla popolazione civile nel marzo 1937 dal generale Emilio Mola, direttore del levantamiento fascista. «Se la resa non sarà immediata distruggerò Vizcaya (la provincia di Bilbao, ndr) fin dalle fondamenta, iniziando dalle industrie di guerra. Dispongo dei mezzi per farlo. Generale Mola». Mola concentra 40.000 combattenti per la campagna nei Paesi baschi, ma gli aerei li mettono gli italiani e la famigerata Legione Condor, agli ordini di Hugo Sperrle e di Wolfram Von Richthofen, cugino del mitico Barone Rosso. «Non è irragionevole alcuna misura in grado di distruggere il morale del nemico. Ed è preferibile farlo rapidamente», diceva Von Richthofen a Mola. La prima a pagare questa dottrina è Durango.

«Durango è una città molto religiosa ed ordinata» - scrive il giornalista di guerra George Lowter Steer (l’unico a dare eco della mattanza di Guernika dalle pagine di Time) nel libro L’albero di Guernika. Uno studio sul campo della guerra moderna. Alle 7.20 c’erano moltissime persone ad ascoltare la messa, delle quali quasi la metà era segretamente e sentimentalmente dal lato dei bombardieri». Quella mattina del 31 marzo 1937 José Manuel Azurmendi aveva nove anni e stava andando a messa nella chiesa dei Gesuiti. Ma era in ritardo e non volendo disturbare il prete decise di sedersi nell’ultimo banco, giusto sotto il coro. L’unica parte della chiesa che resistette alle bombe. «Mi ha salvato la cappella del coro - ricorda - ho visto un enorme bagliore e poi una palla di fuoco rosso sul tetto e un enorme boato». Sotto le macerie rimasero in 40, della cinquantina di fedeli che stava seguendo la messa. Steer racconta che la bomba esplose proprio mentre padre Rafael Billalabeitia stava offrendo ai fedeli il corpo di Cristo: «In quel solenne istante il tetto cadde sul prete, i fedeli e il Santissimo Sacramento, seppellendo tutti».

Marisun Bengoetxea giocava con un’amica sotto il portico della chiesa di Santa Maria. Scattano gli allarmi, Marisun corre verso il rifugio che si trova sotto il negozio di famiglia, dall’altro lato della strada; il tempo di arrivare sulla porta, di girarsi e la sua amica era già morta. Quando si ritira l’aviazione, Steer racconta di «127 corpi estratti dalle macerie, senza includere le membra sparpagliate. Molti erano in stato irriconoscibile ed tra loro c’era una grande quantità di donne e bambini».
Gli aerei italiani arrivarono la mattina del 31 marzo con il sole alle spalle, calarono sul paese seguendo l’asse est-ovest segnato sul terreno dalla linea che unisce le due chiese e lì riversarono il loro carico di bombe. L’operazione fu ripetuta per quattro giorni, fino al 4 aprile 1937, giorno di Pasqua. E dopo che i bombardieri avevano finito il loro lavoro passavano i caccia. Alberto Barreña aveva 13 anni, scappò con la famiglia nei campi che attorniavano la città e da un boschetto osservò come «mitragliavano la gente che scappava: volavano così bassi che potevi vederli in faccia».

Gli aerei calati su Durango difendevano Dios y la Patria e scelsero come obiettivi chiese e fedeli in piena Settimana Santa. E, come successe tre settimane dopo a Guernika, usarono le vittime anche da morte. Da Radio Sevilla la voce del Generale Queipo de Llanos scandiva la versione ufficiale: «I nostri aerei bombardarono obiettivi militari a Durango e dopo i comunisti ed i socialisti rinchiusero i preti e le suore nelle chiese, assassinandoli senza pietà e bruciando le chiese». C’è voluta la caduta di Franco per disseppellire la versione reale, coperta da quella dei vincitori.

Dopo sette decadi, la mattanza è stata ricordata quest’anno con una serie di atti e con la presentazione di due documentari - Durango: il bombardamento dimenticato, che ricostruisce i fatti, e Il 31 marzo nel ricordo, che racconta invece come i giovani vedono quei giorni. «Prima di Durango ci furono altri attacchi aerei - spiega Arazabal - ma non con questo grado di pianificazione. L’obiettivo di quella tattica era causare l’affossamento del fronte provocando il panico nella retroguardia». Pur con tutto ciò, conclude Arazabal, «Durango non ha avuto l’impatto internazionale di Guernika». E non è il rammarico di chi si sente meno fortunato, è la paura di rimanere dimenticati dalla storia. Soprattutto in queste epoche di revisionismi vari.

da notimaz.blog.kataweb.it
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« Risposta #198 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:18:33 am »

9/6/2009
 
Dieci domande qualunque
 
 Massimo Gramellini
 
 
 
1. Ma vi sembra normale che solo agli italiani non faccia effetto essere governati da chi condiziona il loro immaginario attraverso le televisioni?

2. Ma vi sembra normale che in tutte le interviste pre-elettorali la domanda più dura che gli hanno rivolto sia stata «ci dica»?

3. Ma vi sembra normale che i dirigenti del Pd siano tutti ex del Pci e della Democrazia cristiana?

4. Ma vi sembra normale che Clinton, Jospin, Schroeder, Blair e persino Gorbaciov facciano un altro lavoro da anni e loro invece insistano?

5. Ma vi sembra normale che Pdl e Pd abbiano perso milioni di voti e parlino solo di quelli persi dagli avversari?

6. Ma vi sembra normale che i verdi trionfino ovunque, mentre qui, appena ne vedi uno in faccia, viene voglia di tifare per l’effetto-serra?

7. Ma vi sembra normale che chi detesta Berlusconi voti Di Pietro, che è come dire: detesto il Bagaglino quindi vado a vedere Bombolo?

8. Ma vi sembra normale che l’Italia cristiana sia rappresentata in Europa da Magdi Cristiano Allam e Borghezio?

9. Ma vi sembra normale che tutti sputino addosso alla Casta e poi Mastella prenda ancora 112 mila voti di preferenza?

10. Ma vi sembro normale?

Ad almeno nove domande su dieci (compresa la numero 10) la mia risposta è no.

 
da lastampa.it
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« Risposta #199 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:21:26 pm »

14/6/2009
 
Il gas libico val bene un ritardo
 

CARLO FRUTTERO
 
Nauseante la visita a Roma del Colonnello Gheddafi? Ma perché? Quando mai? Un’accoglienza strepitosa, sfolgorante per un semplice colonnello. Ma il personaggio è di grado altissimo e si consideri che avrebbe potuto fregiarsi del titolo di generale, di maresciallo da campo, di ammiraglio, eppure non l’ha fatto, ha voluto restare più vicino al suo popolo. Del resto anche Napoleone talvolta portava con orgoglio il grado di caporale. Ma tutti quei presidenti di tutte le massime istituzioni italiane (tranne il Papa, ma pare che la prossima volta...) pronti alla stretta di mano, all’abbraccio, alla coda davanti alla tenda? E la tenda stessa, al centro del parco di Villa Pamphili, non era un po’ provocatoria, con tutte le comodità degli alberghi romani? Ma le comodità le aveva anche lì (pare che lo stesso Bertolaso...).

Di lì del resto viene il cosiddetto scandalo dei ritardi. Non si capisce in Occidente che il tempo, nel deserto, sotto la tenda, scorre in modo completamente diverso e d’altra parte tutti i nostri lamentosi attendisti quante anticamere hanno fatto nelle loro carriere? Mesi, anni, decenni ad aspettare una leggina, un decretino, anche solo un salutino en passant.

E per i nostri capi e sottocapi si è poi trattato insomma di una leggera indigestione batracica (dal greco batraxo§: rospo). Per un malinteso senso di urgenza e orgoglio ferito si è rischiato l’incidente diplomatico e per fortuna che Fouché e Talleyrand, travestiti da Pisanu e D’Alema si sono precipitati a evitare una tragica rottura.

Tragica perché il Colonnello ha il gas e non possiamo certo rischiare i geloni alle mani dei nostri bambini e la polmonite della vecchietta all’ultimo piano, che voleva scaldarsi un po’ di camomilla. No, c’è poco da sghignazzare, la nostra classe digerente (sic? sic!) ha saputo organizzare una fiction di prim’ordine, è andata molto bene e pare proprio che il Colonnello se ne andrà a quel paese (il suo), pienamente soddisfatto.

da lastampa.it
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« Risposta #200 inserito:: Luglio 19, 2009, 12:19:01 pm »

12/7/2009


G8, la «lista di nozze» di Berlusconi fa flop.

Con i doni si pagano le spese


di Claudia Fusani - da L'Unità


La visita guidata nei luoghi del G8 comincia verso le dieci della mattina. C'è la fila per le mostre dedicate al made in Italy e all'Abruzzo. Fila per entrare al Roma hotel e al Milano hotel dove hanno dormito Berlusconi, Medvedev, Sarkozy con Carla Bruni, Obama senza Michelle. Chi può si fa una foto nella stanza 518, quella del presidente Usa, e assaggia la qualità del letto e delle poltrone. Vengono da fuori, apposta, e sono i più curiosi. Arrivano, i più scettici, dalle tendopoli. A gruppi passeggiano nel Media village dove per quattro giorni hanno lavorato quasi quattromila giornalisti, siedono nelle poltroncine di vimini degli open bar, scrutano i 45 pannelli alti tre metri che illustrano i monumenti distrutti dal terremoto e ora messi in mostra per l'adozione, quanti danni e quali costi.

Quanto è costato questo G8? Guido Bertolaso, regista del successo del summit, aveva accennato a una cifra pari a circa 50 milioni di euro, compreso l'aeroporto di Preturo (12 milioni) di cui però non è ancora chiaro quanto resterà effettivamente all'Aquila (molte delle strumentazioni, luci e radar, sono prestate dall'Enav). Il punto è che se il G8 doveva servire, anche, a raccogliere donazioni per la ricostruzione della città, alla fine di tutto, fatti due conti, è grassa se si arriverà a fare pari tra quello che è costato e quello che ha «incassato». Spenti i riflettori, par di capire che la «lista di nozze» inventata da Berlusconi non abbia avuto un grande successo. O almeno, non per ora.

E più che di adozioni occorre parlare di opere orfane di fondi e di futuro. Dal Castello alla Chiesa delle Anime Sante, dalla Basilica di Collemaggio al monastero della Beata Antonia, dalla chiesa di Sant'Agostino a quella di SantaMaria a Paganica, la lista è lunga e comprende alcuni dei gioielli del patrimonio artistico nazionale. Quarantacinque opere, costo totale del recupero almeno 300 milioni.

Sull'albo delle donazioni c'è rimasto poco o nulla. Almeno per ora. Ci sono gli impegni certi. La Spagna, ad esempio, metterà a disposizione tra i 20 e i 30 milioni per la Fortezza spagnola che gli aquilani costruirono nel 1539 per farsi perdonare la rivolta di 12 anni prima. Ne servrebbero 50 per il restauro completo. Il resto si vedrà.

Carla Bruni ha promesso, a nome della Francia, l'impegno di 3,2 milioni di euro, la metà esatta del costo del recupero delle Anime Sante, quella sulla sinistra, senza tetto e senza cupola, che si è vista tanto in tivù in questi giorni. Michelle Obama e gli Stati Uniti si sono impegnati per almeno la metà del restauro della chiesa Santa Maria Paganica (4,5 milioni) ma è rimasta in forse. «Vi aiuteremo» è stata la promessa. Più probabile che Washington decida di investire su 200 borse di studio, gli studenti, l'università, il futuro. Gordon Brown dovrebbe dedicare 1,6 milioni di euro per San Clemente a Casauria. Ci sono gli impegni probabili. Quello della Russia per il barocco palazzo Ardinghelli, quello della Cina per palazzo Margherita (sede del comune) e palazzo dei Nobili e quello dell'Australia per l'oratorio di San Filippo Neri.

E poi ci sono quelli che, come in tutti i matrimoni, decidono di andare fuori lista. E di fare di testa propria. È il caso del Giappone che farà costruire un palazzetto dello sport dual-use, utile anche per le evacuazioni in caso di terremoto (da loro, esperti di terremoti, funziona così) e una Casa della musica di cartone rafforzato, rigorosamente antisismica, progetto esclusivo di un loro architetto. Ma daranno solo 500 mila euro, la metà, al resto deve pensare il governo italiano. Tokyo, comunque, invierà esperti e contribuirà alla ricostruzione dal punto di vista delle tecnologie.

Sono andati fuori lista anche il Canada (5 milioni per l'università) e la Germania (tre milioni per Onna). Le donazioni straniere finiscono qui.Almeno per ora. Ci sono gli sforzi di enti privati, soprattutto banche, per l'abbazia di Collemaggio (Fondazione Cassa di Risparmio, 200 mila euro), San Bernardino (Monte dei Paschi) e chiesa di San Marco (Regione Veneto). Ci sono ancora una trentina di monumenti orfani di adozioni. Tra loro il Duomo, 35 milioni di danni e almeno undici anni di lavoro. E dire che è stato il monumento più visto in questi giorni.

da democraticidavvero.it
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« Risposta #201 inserito:: Luglio 24, 2009, 11:16:37 pm »

POLITICHE PER LA FAMIGLIA E RISPARMI

Nuovo welfare i passi necessari


Con il decreto anti­crisi il governo si appresta a com­piere due nuovi passi sul tortuoso sentiero della «ricalibratura» del welfare. Entrambi i passi riguardano il sistema pen­sionistico, un settore per il quale l'Italia spende più degli altri Paesi europei e che è caratterizzato da nu­merose sperequazioni ca­tegoriali. L'età di pensiona­mento delle dipendenti pubbliche verrà progressi­vamente elevata da 60 a 65 anni (come quella degli uomini), così come stabili­to dalla Corte di giustizia europea. A partire dal 2015 i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione ver­ranno periodicamente ade­guati all'incremento della speranza di vita: se gli ita­liani (uomini e donne) vi­vranno più a lungo, an­dranno in pensione un po' più tardi.

Le due misure non avranno un grande impat­to finanziario ma introdu­cono due promettenti in­novazioni istituzionali. Le risorse risparmiate dovran­no essere usate «per inter­venti dedicati a politiche sociali e familiari, con par­ticolare attenzione alla non autosufficienza». E' forse la prima volta che si istituisce un collegamento diretto e formale tra una «sottrazione» in campo pensionistico e una «addi­zione » nel campo dell'assi­stenza e dei servizi alle per­sone. L'impegno sarà ri­spettato? Le risorse saran­no sufficienti per promuo­vere efficaci politiche di conciliazione a favore del­le donne? Per quanto leci­te e giustificate, queste do­mande nulla tolgono al ca­rattere innovativo del prov­vedimento e al suo tentati­vo di operare una ricalibra­tura virtuosa fra comparti di spesa e rischi del ciclo di vita.

L'adeguamento genera­lizzato dell'età pensionabi­le, dal canto suo, avverrà in base a un meccanismo quasi automatico, basato sui dati Istat relativi alla speranza di vita. Anche qui si tratta di un'innova­zione promettente. Nella riforma Dini le procedure di revisione della formula pensionistica in base agli andamenti demografici erano state definite in ma­niera molto lasca, lascian­do troppo spazio alle con­trattazioni e ai veti politi­co- sindacali. Il governo Prodi aveva già introdotto regole più stringenti. Ora la soglia d'età sarà sogget­ta a revisioni periodiche, graduali ma semi-automa­tiche, come già accade in numerosi Paesi Ocse.

E' giusto stabilire requi­siti anagrafici uguali per tutti i lavoratori, senza te­ner conto dei lavori usu­ranti, della crescente diffu­sione di carriere spezzetta­te a seguito di contratti «precari»? Non sarebbe meglio tornare alla logica del pensionamento flessi­bile prevista dalla riforma Dini? Anche queste sono domande lecite e giustifi­cate. Nessun sistema previ­denziale può però esimer­si dall'avere un'età pensio­nabile «di riferimento», in base alla quale valutare poi l'introduzione di even­tuali deroghe. Dato il co­stante innalzamento della speranza di vita, è opportu­no che questa soglia ana­grafica venga periodica­mente modificata.

In questi giorni il decre­to anticrisi dovrà essere ap­provato dal Parlamento. Se è irrealistico immagina­re un qualche accordo bi­partisan , vi sono però le condizioni perché i conte­nuti e i toni del confronto politico sulla previdenza si mantengano su un pia­no di ragionevolezza co­struttiva. L'adozione di re­gole generali e trasparen­ti, il più possibile riparate da pressioni politiche di questa o quella parte, è il miglior modo per garanti­re l'equità, sia fra catego­rie sia fra generazioni.


Maurizio Ferrera
23 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #202 inserito:: Luglio 28, 2009, 06:38:17 pm »

28/7/2009
 
Gli abusi della storia
 

 
CHRIS PATTEN
 
Nel suo libro Usi e abusi della storia la storica Margaret Macmillan racconta l’aneddoto di due americani che discutono dell’11 settembre. Uno fa un paragone con Pearl Harbor, l’attacco giapponese agli Stati Uniti nel 1941. Il suo amico non ha idea di che cosa si tratti. E l’altro gli dà questa spiegazione.

Gli dice: «Sai, quando i vietnamiti bombardarono la flotta americana e scatenarono la guerra del Vietnam». La memoria storica non è sempre così lacunosa. Ma la politica internazionale e la diplomazia sono costellate di esempi di precedenti citati inopportunamente per giustificare decisioni in politica estera, che ogni volta hanno portato alla catastrofe.

Monaco 1938 - il vertice tra Adolf Hitler, Edouard Daladier, Neville Chamberlain e Benito Mussolini - è un testimone invitato spesso a corte dai politici che cercano argomentazioni per avventure all’estero. La disastrosa invasione dell’Egitto da parte della Gran Bretagna nel 1956 venne giustificata accostando Gamal Nasser ai dittatori degli Anni Trenta. Se si fosse applicato l’appeasement a lui come a loro, il risultato sarebbe stato catastrofico per il Medio Oriente. Monaco fu usato come giustificazione anche dal presidente Bush per la guerra in Iraq, come lo era per il Vietnam.

Ma le analogie non sono sempre sbagliate, e quelle che lo erano in passato si possono rivelare corrette ora. Uno degli argomenti per la guerra in Vietnam era l’effetto domino. Se il Vietnam del Sud fosse caduto nelle mani dei comunisti, altri Paesi del Sud-Est asiatico avrebbero fatto la stessa fine, uno dopo l’altro. Le cose sono andate diversamente. Il Vietnam si è dimostrato essere l’ultimo, non il primo della serie. L’infame regime di Pol Pot trucidò milioni di persone finché non intervenne lo stesso Vietnam. Nel resto della regione il capitalismo, promuovendo l’apertura dei mercati, innescò lo sviluppo e promosse la stabilità. La globalizzazione produsse il suo effetto domino. Il Pil crebbe, milioni vennero strappati alla povertà, i tassi di analfabetismo e di mortalità infantile crollarono. Oggi gli effetti domino sono persino più importanti di allora. In America e in Europa in questo momento molte persone chiedono il ritiro dall’Afghanistan. Dicono che la Nato e l’Occidente non possono costruire una nazione laggiù e che gli obbiettivi stabiliti, democrazia e prosperità, sono irraggiungibili. I soldati della Nato muoiono invano. Prima o poi i taleban si prenderanno di nuovo il potere, con la licenza, come è già accaduto, di gettare acido in faccia alle donne. Ed è inutile pensare di poterlo impedire. Meglio fare armi e bagagli che stare lì e morire. E perché mai il risultato dovrebbe essere quello di imbaldanzire i taleban? Non hanno necessariamente gli stessi obbiettivi di Al Qaeda.

In Afghanistan sono stati certamente fatti molti errori. Dopo il rovesciamento del regime dei taleban, l’Occidente non ha impegnato abbastanza soldati per estendere l’autorità del governo di Kabul sull’intero Paese. L’amministrazione Bush ha distolto l’attenzione, per preparare la guerra in Iraq. Lo sviluppo è stato lento. La ricostruzione dell’esercito e della polizia si è trascinata senza costrutto. I raccolti di oppio si sono moltiplicati. A volte la risposta militare agli insorti è stata troppo dura, a volte troppo morbida. L’Occidente ha corteggiato personaggi ambigui nel tentativo di isolare i pashtun.

Perciò l’Occidente può far di meglio. Non c’è dubbio. Ma l’idea di abbandonare l’Afghanistan è cattiva, sia per l’Afghanistan che per il Pakistan. Lasciare l’Afghanistan nelle mani dei taleban, sperando contro ogni ragionevole speranza che diventino cittadini per bene del mondo globalizzato? E che effetti dobbiamo aspettarci sul Pakistan? E qui arriva il domino, sbagliato in Vietnam ma non necessariamente nell’Asia meridionale.

L’Afghanistan è la grande prova per la Nato. L’Alleanza ha promesso di portare a termine il lavoro. Se lo abbandona adesso, lasciando al Paese povertà, ignoranza, pregiudizi, e papaveri da oppio, che cosa accadrà? Perché qualcuno dovrebbe credere in Pakistan che l’Occidente è serio quando parla di sostenere il Paese come Stato musulmano e democratico? Una decisione del genere servirebbe a far girare la marea contro i taleban? Incoraggerebbe la classe media pachistana, i lavoratori delle città, disgustati dagli eccessi degli estremisti, a trincerarsi e resistere al fondamentalismo? Rafforzerebbe gli elementi moderati nella classe politica e tra i militari? Potete contare su di noi, sarebbe il messaggio dell’Occidente, ma non guardate oltre la soglia dell’Afghanistan, dove vedrete che non potete contare su di noi. Se il Pakistan, testate atomiche comprese, dovesse cadere in mano agli estremisti, le conseguenze in termini di esportazione del terrorismo sarebbero terrificanti. Basti pensare al Kashmir. All’India. Come vedrebbe l’India il futuro, se il Pakistan dovesse cadere in mano agli estremisti?

Insomma, l’Occidente deve portare in fondo il suo lavoro in Afghanistan. Farlo meglio, ma farlo. O i pezzi del domino cominceranno a rovesciarsi, uno alla volta. È una prospettiva che non farebbe contento nessuno, nell’Asia del Sud.


(*) Politico britannico, ultimo governatore inglese di Hong Kong Copyright Project Syndicate, 2009 www.project-syndicate.org
 
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« Risposta #203 inserito:: Agosto 29, 2009, 11:17:20 am »

«Berlusconi danneggia l’onore degli uomini»

di Elisabetta Ambrosi

«Impossibile stuprare una donna che resiste».

«Il no delle donne è un sì, perché le donne in realtà lo vogliono».

«Gli uomini sono facilmente accusati di stupro».


Luoghi comuni ormai dimenticati?
Purtroppo no, secondo quanto sostiene Joanna Bourke, storica londinese e autrice di una vastissima ricerca sul tema della violenza sessuale dalla metà dell’Ottocento ad oggi (Stupro, Laterza, 2009), intervenendo nel dibattito de l’Unità sul silenzio e sulla voce delle donne.

Senza strizzare l’occhio né a chi relativizza la questione, né a un certo femminismo secondo cui la violenza è innata alla onnipotente natura maschile, la studiosa attacca frontalmente i «rape myths», ricordando una storica sentenza italiana del 1999, poi ribaltata, che stabilì che era impossibile stuprare una donna in jeans.

«Pensi che ci sono persino alcune donne che trovano affascinante la tesi per cui se si resiste non si può essere violentate, perché questo le fa sentire inattaccabili. Ma l’unico modo per fermare la violenza è smascherare i luoghi comuni che la alimentano, questo compreso».

Professoressa Bourke, sono solo gli uomini a stuprare?
«Solo uno su cento è donna. Tuttavia, se ci riferiamo solo alle violenze sui bambini, è possibile incontrare delle donne, in genere madri o babysitter. Ciò non vuol dire affatto che l’aggressione sessuale fa parte dell’identità maschile. Non c’è niente di “naturale” nella violenza degli uomini; anzi, gli uomini aggressivi sono il risultato di un fallimento delle nostre comunità. La violenza non è inevitabile».

Stupratori non si nasce, si diventa.
«Le domande sull’identikit fisico, psicologico e ambientale dello stupratore hanno sempre ossessionato l’opinione pubblica. In un primo momento si credeva che gli stupratori fossero uomini non evoluti, primitivi, con una certa forma delle mascelle e un pene piccolo. Queste teorie razziste sono state poi sostituite da visioni che accentuavano il ruolo della povertà e dei disordini familiari e infine, da teorie psicoanalitiche, secondo cui gli aggressori sono uomini malati che soffrono di complessi inconsci su cui non hanno alcun controllo».

Lei quale spiegazione preferisce?
«Oggi si è arrivati a riconoscere che la nozione di malattia non basta. Spesso la violenza si situa nella normale interazione tra uomo e donna. Inoltre, tutte queste teorie implicavano delle punizioni - castrazione, lobotomia, prigione - oppure delle terapie, comportamentali o psicologiche, che hanno mostrato i loro limiti».

Un partito italiano di governo inneggia alla castrazione chimica.
«Secondo lei, come può funzionare questa terapia senza la collaborazione del paziente? Inoltre, non abolendo l’odio e la paura connesse al comportamento criminale, la castrazione ormonale aumenta la pericolosità di questi individui, che spesso hanno preso misure estreme per attestare la loro mascolinità».

Perché secondo lei così poche donne denunciano le violenze (una su cinque, come lei scrive?)
«Di fronte alla struttura sociale e istituzionale, la donna può sentirsi fragile. Durante la testimonianza di stupro in un processo, ad esempio, si analizza il modo in cui si veste, l’accento, la sua attrattività, inchiodandola così al suo corpo. Poche sono in grado di sostenere questa prova».

Qual è allora la strada per combattere questo male?
«Prendere atto che lo stupro è una questione che riguarda anche gli uomini, e di conseguenza ripensare la mascolinità focalizzandosi sull’agire maschile e sul suo immaginario. Va ricordato che quando un uomo abusa di una donna, tutti gli altri ne sono offesi e che il corpo dell’uomo è un posto di piacere, non uno strumento di oppressione e di dolore».

La sua accusa è anche per i media?
«Sicuramente, perché sono gravemente responsabili del modo stereotipato in cui riportano la violenza sessuale e più in generale i rapporti di forza tra uomo e donna. E non dimentichiamo la politica, con le sue leggi e i suoi comportamenti. Posso dire che Berlusconi ha danneggiato soprattutto l’onore degli uomini italiani?».

28 agosto 2009
da unita.it
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« Risposta #204 inserito:: Ottobre 16, 2009, 12:28:52 pm »

16/10/2009

L'omofobia è contro l'economia
   
IRENE TINAGLI


La questione omofobia non riguarda solo ambiti ideologici e religiosi. Riguarda aspetti economici e sociali di vitale importanza, perché se si vuole costruire un’economia moderna e dinamica occorre costruire una società altrettanto moderna e dinamica. Riconoscere, rispettare ed integrare le diversità è un elemento fondamentale dello sviluppo, oggi più che mai. Viviamo in un mondo in cui il sistema economico si regge sulle forme di creatività individuale.

E inoltre, sull’innovazione, sulla capacità degli individui di esprimere il meglio di se stessi e dare un contributo originale alla società che li circonda. Ma questo può avvenire solo in contesti capaci di stimolare e accettare le varie forme di espressione e di libertà individuali. Contesti capaci di valutare e valorizzare le persone per il loro contributo di idee, energia e competenze, e non per il Dio che pregano prima di andare a dormire o la persona che scelgono di avere accanto nella vita. Una società in grado di accettare le diversità è una società che sa motivare e gratificare i propri cittadini, che sa guadagnarsi il loro rispetto e la loro partecipazione sociale, civile, economica. È una società che cresce, che innova, che prospera. Da decenni gli studiosi ci mostrano questa relazione. Dalle ricerche condotte negli Anni 80-90 dal sociologo Ronald Inghleart, dell’Università del Michigan, fino ai lavori più recenti dell’economista Richard Florida, secondo cui la competizione globale per l’attrazione di talenti non può che essere vinta da società aperte e tolleranti, perché le persone più istruite, brillanti e creative sceglieranno di vivere in società dove sono libere di essere se stesse. I dati supportano queste tesi, sia all’interno degli Stati Uniti, in cui le città più aperte e tolleranti come San Francisco, Seattle o Austin hanno i tassi più elevati di innovazione e di concentrazione di talenti e creativi, che nei Paesi europei, dove Svezia, Danimarca, Olanda registrano, guardacaso, sia altissimi livelli di tolleranza verso le diversità e l’omosessualità, che alti livelli di innovazione, di sviluppo e di competitività economica.

Purtroppo l’Italia su questo fronte è molto indietro. Gli ultimi dati prodotti dalla Gallup sono assai eloquenti. Alla domanda se il proprio Paese fosse un buon posto per vivere per gay e lesbiche, solo il 49% degli italiani ha risposto di sì, contro l’83% degli olandesi, il 75% degli spagnoli e addirittura il 70% di un Paese tradizionalista come l’Irlanda, che fino a pochi anni fa era tra i più arretrati. Questo ci dice che l’Italia si sta pericolosamente chiudendo, proiettando dentro e fuori di sé un’immagine cupa e intollerante su cui sarebbe urgente intervenire. Certo, non è semplice cambiare le attitudini culturali e i pregiudizi. Ma non è impossibile, ed è proprio su queste sfide che si misura la buona politica. Mostrando ai cittadini che le diversità sono un diritto individuale e una risorsa collettiva, che le discriminazioni limitano le possibilità di sviluppo, e avendo il coraggio di prendere iniziative legislative innovative, la politica può spianare la strada ad una crescita sociale e culturale lungimirante. Perché è questo che deve fare: guardare più avanti di quanto tanti normali cittadini sono in grado di fare e assumersi la responsabilità di scelte giuste per il futuro. Vale forse la pena ricordare che negli Stati Uniti poco più di cinquant’anni fa (1967) coraggiosi membri della Corte Suprema dichiararono incostituzionali le leggi che in alcuni Stati del Sud ancora proibivano i matrimoni tra persone di razze diverse. La loro decisione fu presa nonostante il 73% dell’opinione pubblica americana, fosse, all’epoca, contraria ai matrimoni interrazziali. Così come cinquant’anni prima venne concesso il voto alle donne nonostante molti ancora sostenessero «che il voto alle donne avrebbe portato alla disgregazione della famiglia e dell’ordine morale della società». Quelle decisioni non furono mere questioni ideologiche o valoriali, ma hanno avuto conseguenze enormi sullo sviluppo economico e sociale degli Stati Uniti. Basta pensare a chi oggi ricopre le più alte cariche del Congresso e del governo americani per rendersi conto di quanto quelle scelte abbiano aiutato il Paese a divenire non solo una grande democrazia, ma una grande potenza economica, capace di far leva sulla motivazione, l’impegno e l’entusiasmo di tutti i suoi cittadini a prescindere dalla razza, dal genere, dalle preferenze religiose o sessuali. Perché niente motiva e stimola un essere umano più della consapevolezza di potersi realizzare in pienezza e in libertà.

da lastampa.it
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« Risposta #205 inserito:: Novembre 08, 2009, 10:14:54 am »

Se la sinistra imita Guareschi

di Orazio Licandro


Ieri, sfogliando "l’Unità", mi imbattevo in una strana epistola, avente come bersaglio alcuni leader della sinistra, ma come principale Oliviero Diliberto.

Destinatario della stessa era il neo segretario del Pd Pier Luigi Bersani scongiurato di evitare ogni contatto, quasi rischiasse un pericoloso contagio in tempi di virus influenzali, con il segretario del Pdci. Insomma un libello di quelli che solitamente si ascrivono al "genus" della polemica più dura. Almeno così pensavo dalle prime righe, senza peraltro soffermarmi sull’autore. Poi continuando a scorrerlo mi accorgevo che in realtà andava ben oltre quegli argini e riversarsi nel campo vasto e privo di confini dell’insulto da bettola o, se si preferisce, da trivio. Il motivo dell’aspra invettiva sarebbe la disponibilità di Bersani al dialogo con le forze di sinistra. Una valutazione politica, si direbbe, circa il tema delle alleanze; un legittimo, seppure poco condivisibile, punto di vista.

Ma in realtà, proseguendo nella lettura la politica lì si fatica a trovarla, anzi non se ne trova traccia. «Non ritirare fuori i fantasmi, le mummie sovietiche. ... La più grande carità che si può fare ai morti è di non resuscitarli... Diliberto... quello che odia Fellini e ama le barzellette di Pierino e i film carta igienica... che invece di Padre Pio, sul cruscotto della macchina ha incollato l’immaginetta di Stalin», e così via (e pure di peggio) dicendo. Che razza di argomenti per sostenere idee e visioni diverse!

Trovo davvero singolare e doloroso che un quotidiano di grande storia come "l’Unità" dia spazio a pensieri tanto insulsi quanto offensivi quantomeno verso il milione e 200mila votanti della lista comunista. Se guardiamo alle condizioni di un Paese in pieno degrado morale e civile per il sovvertimento della scala dei valori, stremato dalla crisi economica, con un tasso di disoccupazione impressionante, attraversato da pericolosi disegni di disgregazione dell’unità nazionale e di destrutturazione, a volte eversiva, della costituzione repubblicana, credo che i lettori de "l’Unità" non trovino affatto interessanti certe “opinioni”. E credo pure che non preferirebbero affatto né Mastella né Dini, fossero pure accompagnati dalla santa benevolenza di Padre Pio.

PS Ad un certo momento istintivamente ho ritenuto che l’estensore di quelle livide righe fosse Guareschi, il Guareschi nella versione anticomunista più acre, ma dedicando per mestiere sempre cura e attenzione ai testi mi sono presto accorto che si trattava nel migliore dei casi di un Guareschi non genuino, interpolato, guasto, anzi un falso: insomma uno pseudo-Guareschi. Perché quello autentico era certamente un anticomunista ma almeno era un solido scrittore che comprendeva la politica.

06 novembre 2009
da unita.it
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« Risposta #206 inserito:: Novembre 11, 2009, 04:44:45 pm »

L'Indice Globale della fame redatto dall'Ifpri e presentato da Link 2007

Dal 1990 si è ridotto di un quarto, ma in Asia meridionale e Africa Subsahariana si sta peggio

Fame, è record: 1 miliardo e 20 milioni "Per vincere la povertà puntare sulle donne"

Solo adeguati investimenti per l'istruzione e la salute possono salvaguardare i bambini garantendo il futuro dei Paesi in via di sviluppo.

L'esempio di Sri Lanka e Botswana

di ROSARIA AMATO


ROMA - Per sconfiggere la fame spesso si cita il proverbio cinese che suggerisce di insegnare a un uomo a pescare, piuttosto che dargli direttamente un pesce. Ma dall'"Indice Globale della fame 2009", redatto dall'IFPRI (International Food Policy Research Institute), che l'associazione Link 2007 presenterà domani alla Farnesina (in vista del vertice mondiale sulla sicurezza alimentare dell'Onu, da lunedì a Roma) emerge un'indicazione diversa: se si vuole veramente sconfiggere la fame nel mondo bisogna puntare sulle donne, sulla loro istruzione e anche sul loro benessere. I Paesi che nel mondo presentano i livelli più alti di denutrizione (per esempio il Pakistan, o il Ciad), sono anche quelli che presentano la maggiore disuguaglianza di genere. E i Paesi che sono riusciti a sollevarsi, acquistando faticosamente un livello minimo di benessere, a cominciare dallo Sri Lanka, o dal Botswana, al contrario hanno approvato importanti riforme, garantendo l'istruzione alle donne, e promuovendo in modo ampio la parità di genere.

"L'eguaglianza di genere non è solo socialmente auspicabile: è un pilastro centrale nella lotta contro la fame", sostiene la Task Force istituita dall'Onu nel 2005 per il Progetto di lotta contro la fame. Il rapporto odierno pertanto non fa che ribadirlo: "Alti tassi di denutrizione sono connessi anche alle disparità tra uomini e donne relativamente alla salute e alla sopravvivenza". Gli autori esaminano una serie di casi virtuosi, nei quali è stato lo Stato a promuovere e finanziare politiche per l'istruzione delle donne: per esempio il Messico con il programma Oportunidades, grazie al quale le famiglie povere ricevono degli aiuti economici condizionati alla frequenza scolastica dei figli e alle visite mediche.

Un miliardo e 20 milioni, record di malnutriti. La scolarizzazione e la promozione del ruolo delle donne all'interno della società è considerato dunque uno strumento fondamentale per la lotta alla fame e alla povertà, che rimane ancora "il primo e il più pressante degli Obiettivi del Millennio", scrive nella prefazione del rapporto Elisabetta Belloni, direttore generale per la Cooperazione allo Sviluppo. "Un imperativo reso oggi ancora più drammatico e urgente dalle conseguenze della crisi economica e finanziariai mondiale sui Paesi in via di sviluppo, che ha aggravato gli effetti già disastrosi della crisi alimentare", ricorda Belloni. Tanto che il numero delle persone malnutrite nei Paesi in via di sviluppo ha raggiunto la cifra record di un miliardo e 20 milioni di persone. "Negli anni Ottanta e all'inizio degli anni Novanta - si legge nel rapporto - c'è stato un progresso nella riduzione della fame cronica. Nella decade scorsa la fame è stata in aumento".

GHI alto in Asia meridionale e Africa Subsahariana. Certo, guardando al 1990, anno che viene preso come riferimento dal rapporto, in effetti c'è stata una riduzione di un quarto dell'Indice Globale della Fame (GHI). Ma tale riduzione non è stata affatto omogenea: miglioramenti consistenti si sono registrati nel Sudest asiatico, Vicino, Oriente, Nord Africa, America Latina e Caraibi, ma il GHI "rimane alto in modo desolante in Asia meridionale, dove pure si sono registrati dei progressi rispetto al 1990, e in Africa Subsahariana, dove i progressi sono stati marginali". Infatti tutti i Paesi con il più alto valore di GHI si trovano in Africa Subsahariana: si tratta di Burundi, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Etiopia e Sierra Leone, paesi falcidiati ,oltre che dalla fame, dalla guerra e dai conflitti armati. I Paesi con un valore allarmante dell'Indice sono 29.

I Paesi con i miglioramenti più significativi. I miglioramenti più ampi in percentuale tra il 1990 e il 2009 si sono invece registrati in Kuwait, Tunisia, Figi, Malaysia, Turchia, Angola, Etiopia, Ghana, Nicaragua e Vietnam. Nel complesso, il GHI è sceso in 30 anni di solo il 13 per cento nell'Africa Subsahariana, del 25 per cento in Asia meridionale, di oltre il 32 per cento nel Vicino Oriente e in Nord Africa. Particolarmente significativi i progressi nel Sud-Est asiatico e in America Latina (-40 per cento).

Le cause principali della fame. I valori del GHI in Asia meridionale e Africa Subsahariana sono molto simili (rispettivamente 23 e 22,1) ma le cause dell'insicurezza alimentare sono diverse. In Asia meridionale, sottolineano gli autori del rapporto, "lo scarso accesso alle donne a una nutrizione ed educazione adegiate e il loro basso status sociale contribuiscono a un'alta prevalenza dell'insufficienza di peso nei bambini sotto i cinque anni". Mentre in Africa Subsahariana "la scarsa efficacia dei governi, i conflitti, l'instabilità politica e gli alti tassi di HIV e AIDS portano a un'alta mortalità infantile e a un'alta percentuale di persone che non possono soddisfare il proprio fabbisogno calorico".

L'eccezione del Ghana. Unica eccezione nella Regione è il Ghana, che ha più che dimezzato il proprio valore di GHI dal 1990 a oggi. In una opposta situazione si trova il Congo, che è in testa ai 'perdenti', i Paesi la cui situazione è cioè estremamente peggiorata. Seguono Burundi, Comore, Zimbabwe, Liberia, Guinea Bissau, Corea del Nord, Gambia, Sierra Leone, Swaziland. La Sierra Leone ha in particolare il più alto tasso di mortalità sotto il cinque anni.

La minaccia della crisi finanziaria. Nei prossimi anni, se non si provvede con politiche adeguate, potrebbe ancora aggravarsi la situazione dei Paesi già in forte sofferenza. L'IFPRI stima che la recessione e la riduzione degli investimenti in agricoltura "potrebbero portare entro il 2020 a 16 milioni di bambini malnutriti in più, rispetto a una situazione in cui la crescita economica continuasse e gli investimenti risultassero costanti".

Cosa serve: agricoltura sostenibile, sicurezza, salute. Risolvere i problemi legati alla malnutrizione non richiede solo ingenti stanziamenti economici, ma anche strategie di lungo periodo. Secondo Link 2007, associazione che raggruppa 10 tra le più importanti Ong italiane (Avsi, Cesvi, Cisp, Coopi, Cosv, Gvc, Icu, Intersos, Lvia, Medici con l'Africa CUAMM) e che si è fatta carico della traduzione del rapporto, bisogna mettere a punto innanzitutto una strategia in grado di ridurre le disparità di genere, "garantendo alle donne accesso all'istruzione e alla salute, condizioni essenziali per la loro emancipazione economica e politica e quindi per combattere la fame". "Là dove le donne sono più istruite - sottolinea ancora il rapporto - ed hanno accesso a servizi sanitari migliori, ne beneficiano tutti i componenti della familgia, in particolare i bambini sotto i cinque anni". Ma, ancora, bisogna "tornare a reinvestire nello sviluppo dell'agricoltura, con tecniche sostenibili e che non impattino negativamente sull'ambiente. "La fuga delle campagne verso le città - conclude Link 2007 - non è la soluzione al problema della fame. Lo è invece una strategia di lungo periodo volta a portare sicurezza, lavoro, salute ed educazione là dove mancano".

© Riproduzione riservata (11 novembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #207 inserito:: Novembre 17, 2009, 06:53:34 pm »

 
Vertice Fao, i cinque punti


1) Sostenere la responsabilità dei governi nazionali e la necessità di investire nei programmi di sviluppo rurale come predisposti dai singoli governi.

2) Maggiore coordinamento tra strategie nazionali, regionali e globali per un migliore impiego delle risorse.

3) Un approccio binario che consiste in un’azione diretta per rispondere all’emergenza alimentare immediata, ma anche nell’adozione di programmi a medio e lungo termine per eliminare le cause di fondo della fame e povertà.

4) Vigilare perché il sistema multilaterale giochi un ruolo centrale grazie a miglioramenti continui dell’efficienza, della reattività, del coordinamento e dell’efficacia delle istituzioni multilaterali (in questo punto viene affrontata anche la questione della riforma della Fao e si sottolinea come la realizzazione dei vari impegni di aiuto assunti dai governi - da ultimo nella dichiarazione del G8 a L’Aquila - sia "cruciale").

5) Garantire un impegno sostenuto e sostenibile da parte di tutti i partner a investire nell’agricoltura e nella sicurezza alimentare in maniera tempestiva e affidabile, con lo stanziamento delle risorse necessarie dell’ambito di piani e programmi pluriennali.

da corriere.it


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« Risposta #208 inserito:: Agosto 09, 2021, 04:50:52 pm »

Il Monitore Democratico.
 
Il MONITORE.

Immaginare Conoscere Realizzare.
Un mio antico motto, portato qui in Facebook.

IMMAGINARE un Progetto almeno ventennale di Sviluppo Sociale, Culturale, Industriale, Morale, che ci porti al Cambiamento.

CONOSCERE i cittadini "Differenti in Meglio", per arrivare insieme a vivere con civismo la progettazione del futuro;
conoscere come esprimere considerazione e amore verso i nostri Giovani, impegnati con pragmatismo progettuale nel cogliere le opportunità future,
offrire le conoscenze trovate nell'esperienza ma anche dalle visioni sociali, culturali, tecnologiche studiate, nel e per il Domanismo.

REALIZZARE il Progetto e insieme il sogno dei nostri Vecchi: arrivare ad essere una società serena per tutti in una Nuova Democrazia Socialista, Costituzionale e Parlamentare.
Realizzare per un migliore futuro la pacificazione nazionale, condivisa da Italiani uniti pur considerando le ovvie diversità regionali, arrivare con merito al migliore posizionamento dell'Italia nel mondo.
Realizzare che Italia e Italiani siano finalmente considerati all'estero con dignità e stima maggiori e diversi da come ci hanno malgiudicati nel passato e in fondo, ancora oggi ci considerano.
Eccezione fatta per la stima riconosciuta per il Presidente Mattarella e le già dichiarate positive, aspettative, sul Governo e nella persona del Presidente Draghi.

Gianni Gavioli
Italia 8 agosto 2021

Io su - Fb
« Ultima modifica: Settembre 20, 2021, 05:37:49 pm da Arlecchino » Registrato

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« Risposta #209 inserito:: Agosto 15, 2021, 03:23:12 pm »

1968
PASOLINI SULLA BATTAGLIA DI VALLE GIULIA

di mal
II PCI AI GIOVANI!

di Pier Paolo Pasolini

È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
e lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l'essere odiati fa odiare).
Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all'altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.

-----------------------------

È certamente vero che quegli studenti erano borghesi (e figli di papà), ma poi nemmeno tutti: c'erano anche dei figli di poracci. Ma non era questo il loro errore: ché borghesi o figli della borghesia furono sempre, nel secolo di Marx ed Engels e nel secolo breve, nell'Ottobre o nella Resistenza, i quadri e i dirigenti delle lotte rivoluzionarie. L'errore loro era di scheletrire il marxismo ( e il leninismo, va da sé) e volere una rivoluzione come insurrezione e assalto al palazzo d'inverno, come assalto al potere delle multinazionali e così via..., senza un'analisi reale delle condizioni oggettive e soggettive, internazionali ed interne, dei rapporti di forza e delle egemonie − e quindi in una fase storica (non contingente) in cui "fare la rivoluzione" non poteva essere all'ordine del giorno. E, a causa di quell'errore, di avere come primo e principale nemico il PCI.
Ma quei poliziotti che, quella volta, venivano un po' menati e maltrattati a Valle Giulia, erano certamente dei poveracci, o se preferite poveri italiani; quei poliziotti a cui, come avevano insegnato e fatto Gramsci e Di Vittorio, bisognava parlare, spiegare che la causa della loro povertà non erano i comunisti, studenti o lavoratori, ma le classi economicamente e politicamente dominanti e i loro governi; quei poliziotti − Pasolini non avrebbe dovuto dimenticarlo − erano "la polizia" cresciuta da Scelba e dalla odiata (da lui, lui Pasolini) DC − e questo fu il capolavoro − nella convinzione che a rubar loro il pane fossero gli operai e i sindacati, e dunque come braccio violento e repressivo di ogni anelito alla giustizia sociale e alla libertà costituzionale, quella polizia era era la polizia che aveva per decenni bastonato gli operai e i braccianti che lottavano per il lavoro ed il salario, gli antifascisti che volevano si rispettasse la Costituzione Repubblicana e che i fascisti non tornassero al governo, i padri e fratelli di quegli stessi poveracci che avevano occupato le terre per conquistare la riforma agraria, i lavoratori del cinema e del teatro che avevano combattuto contro la censura; era la polizia che aveva scatenato jeep e cavalli a Genova e a Porta San Paolo, che aveva sparato a Modena e a Reggio Emilia e ad Avola e a Catania e in tutta Italia facendo decine e decine di morti; che aveva affiancato la mafia a Portella della Ginestra e che di lì a poco, decennio 69−79, avrebbe partecipato e organizzato la "strategia della tensione", le deviazioni e i depistaggi, la protezione degli stragisti e la eterodirezione dei brigatisti. E perciò, composta di poveracci sfruttati e vessati, era tuttavia − fino alla riforma sindacale e civile − e sarebbe poi ridiventata, fino all’ignominia di Genova − il braccio violento e repressivo delle classi dominanti.
di mal

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