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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108710 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Maggio 18, 2014, 05:23:58 pm »

Parole e strategie
Grillo ha varcato con freddezza un’altra soglia

Di PIERLUIGI BATTISTA

Ieri, nel suo comizio a Torino, Beppe Grillo ha fatto qualcosa di più che insultare, attività che peraltro non gli è nuova. Ha invece officiato il rito dell’insulto assoluto, dell’aggressività senza limiti e senza risparmio. Le campagne elettorali spesso sono il teatro della virulenza polemica, e forse non può essere diversamente. Ma la differenza è che Grillo non vuole vincere le elezioni incendiando i toni nei comizi, come si fa di solito, ma annichilire il nemico con un lessico deliberatamente oltraggioso, davanti a una folla plaudente e sempre più numerosa. Non conquistare più voti, ma mandare un messaggio ultimativo a chi si oppone alla sua marcia trionfale. Non un lessico rivoluzionario, ma una fraseologia insurrezionale, minacciosa. Fisicamente minacciosa, quando ha invitato la Polizia a non proteggere più i politici: «Alla Digos sono già con noi, alla Dia sono già con noi, ai Carabinieri sono già con noi: non date più la scorta a questa gente». Lasciateli soli e inermi di fronte alla folla inferocita. La strategia della paura, altro che toni troppo elevati.

A Torino Grillo ha oltrepassato una soglia. Ha premuto tutti i tasti del linguaggio cruento. Ha saggiato l’umore della sua gente, che ama queste performances così teatralmente prive di autocontrollo. Dopo aver provato nei giorni precedenti incursioni insensate sulla Shoah, ieri ha insistito sull’ingiuria dal sapore storico, per cui Martin Schulz, se non «ci fosse stato Stalin, oggi sarebbe con una croce uncinata al braccio». Per poi passare, tra gli sghignazzi dei seguaci, all’oscenità esplicita, appena appesantita da una goliardia senile, accusando Renzi di essere andato a «dare due linguate a quel c...one tedesco della Merkel». Per poi andare agli improperi minacciosi contro l’inno di Mameli, in cui i fratelli d’Italia sono solo «i piduisti, i massoni, la camorra» e perciò meritevole di essere fischiato negli stadi di Genny ‘a carogna. Per finire con la promessa solenne che in futuro verranno celebrati processi sommari («processo pubblico», popolare) contro i «giornalisti, i politici, gli imprenditori che hanno rovinato questo Paese». Per ora, per carità, solo un «verdetto virtuale»: «uno sputo». Virtuale, certo. Come se fosse diverso il messaggio, l’ingiunzione a «sputare» sui nemici in una gogna che, nei casi migliori, mima una condanna esemplare da offrire in pasto al popolo in collera, nei casi peggiori anticipa condanne più corpose e meno virtuali.

Nel linguaggio della campagna elettorale, le parole torinesi di Grillo segnano un salto, inaugurano qualcosa di decisamente più brutale e feroce di tutti gli insulti più consueti e che oramai hanno creato uno stato di quasi assuefazione. È una promessa di purificazione, da attuare attraverso un uso politico della rabbia in cui i bersagli vengono indicati al pubblico ludibrio, «processati» come responsabili e addirittura venduti allo straniero, criminalizzati in blocco e dunque additati come obiettivo da colpire. Senza scorta, perché chi tra le forze dell’ordine dovrebbe tutelarne l’integrità si sarebbe già schierato con i rivoltosi. Un linguaggio da insurrezione, non un linguaggio da campagna elettorale. Un linguaggio in cui non si vince una normale competizione, ma si combatte in un Armageddon finale che non può non risolversi con la disfatta, anche fisica, di chi soccombe e viene sottoposto alla giustizia spietata dei vincitori. Qualcosa che va al di là delle intemperanze verbali che abbiamo conosciuto (e di cui, per esempio, la Lega è stata in passato campione assoluto). Una dismisura ricercata e perseguita con freddezza. Una sintonia con un’opinione pubblica esasperata e che accoglie, come si vede nei comizi sempre più affollati di questi giorni, le sparate di Grillo con entusiasmo e parossismo. In una spirale che andrà sicuramente oltre il 25 maggio, in cui le elezioni sono solo una tappa di una guerra senza fine.

18 maggio 2014 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_18/grillo-ha-varcato-freddezza-un-altra-soglia-7147ff90-de57-11e3-a788-0214fd536450.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Giugno 10, 2014, 11:18:14 am »

Particelle elementari
Processi in tempi certi: ricetta anticorruzione
È vitale avvicinarsi agli standard degli altri Paesi europei

di Pierluigi Battista

Certo, può sembrare banale sostenere che l’unica risposta efficace alla corruzione è una giustizia che rispetti tempi civili e stabilisca rapidamente chi è colpevole e chi è innocente. Ma comunque non più banale della rituale rivendicazione di nuove «regole» per un Paese che annega nelle regole cervellotiche in cui le richieste di permessi, autorizzazioni, nulla osta, commesse, subappalti, concessioni, certificazioni moltiplicano le occasioni di ingrassare l’apparato della famelica intermediazione politica. E non più banale della liturgica riesumazione della «questione morale», secondo la quale invece di fare leggi efficaci per neutralizzare il malaffare, il compito della politica è quello di aspettare che gli esseri umani si facciano santi. Campa cavallo. Nel frattempo, resta la prosaica soluzione: rendere i tempi della giustizia decentemente umani, secondo gli standard degli altri Paesi civili.

Anche perché, occultando la questione dei tempi certi e brevi della giustizia o relegandola ipocritamente nella sfera delle cose impossibili, si finisce per generare mostri culturali. Come la proterva aggressività forcaiola verso il principio civile e costituzionale della presunzione di innocenza, che diventa la bandiera dei nuovi Bracardi dell’opinionismo nostrano («in galeeeraaa»), mentre tacciono i Zagrebelsky e le Spinelli, vestali a giorni alterni della Costituzione violata. O come la richiesta di abbassare bruscamente le garanzie dello Stato di diritto per indagati e imputati, a cominciare dal desiderio morboso e autoritario di abolire la prova d’appello. O come la risibile ricerca di forme anticipate di sanzione politica; anticipate rispetto a una sentenza che si sa non arrivare mai e che dunque dobbiamo eludere. E dunque la grottesca sequenza di proposte per fissare il momento esatto in cui mandare via «a calci nel sedere» persone ancora tutelate in linea teorica dalla presunzione di innocenza: dopo l’avviso di garanzia, dopo il rinvio a giudizio, dopo la condanna di primo grado, o addirittura, quando un nome dovesse uscire in una delle migliaia di intercettazioni telefoniche di cui, come ha confermato di recente un rapporto Vodafone, l’Italia detiene il triste primato?

No, meglio una vecchia ma solida banalità liberale: i tempi della giustizia devono essere certi e brevi. Solo così, dopo una sentenza giusta e ottenuta in tempi civili, si saprà con certezza intransigente quali politici estromettere dalle istituzioni, e quali imprese non potranno partecipare ad altri appalti. Solo così sarà salvaguardata la reputazione degli innocenti eventualmente coinvolti e si potrà appurare se chi indaga ha lavorato bene, cercando le prove, oppure si è accontentato di teoremi destinati a sbriciolarsi al vaglio giudiziario. Quindi, subito processi nei tempi giusti: una riforma da fare subito. Altrimenti, per fare più in fretta, copiare a scelta da uno qualunque dei Paesi civili: la giustizia italiana ne avrebbe da guadagnare.

9 giugno 2014 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_09/processi-tempi-certi-ricetta-anticorruzione-e16fe328-efa0-11e3-85b0-60cbb1cdb75e.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Giugno 10, 2014, 07:36:31 pm »

LESSICO

I conformisti della discontinuità
Da «discontinuità» a «metterci la faccia».
Il luogo comune incombe sulla politica

Di Pierluigi Battista

I luoghi comuni del gergo politico italiano sono misteriosi come le barzellette: si diffondono a una velocità impressionante, ma non si sa mai dove nascano e perché proprio in quel momento.

Fatto sta che a leggere le interviste dei politici oggi alla ribalta, da Alessandra Moretti del Pd a Barbara Spinelli della tempestosa Lista Tsipras, sembra che sia scoppiata l’epidemia della «discontinuità». Tutti all’improvviso hanno scoperto la «discontinuità», invocano la «discontinuità», diventano testimoni della «discontinuità», malgrado il loro eccellente cursus honorum all’insegna della continuità. Ora vogliono, desiderano tutti insieme la «discontinuità». Fino a ieri ci «mettevano la faccia» di qua e ci «mettevano la faccia» di là. Sempre tutti insieme, perché la peculiarità del luogo comune politico che va di moda è che ad usarlo siano tutti insieme. Che saranno pure «discontinui» e ci «metteranno la faccia» temerariamente, ma restano pur sempre dei conformisti.

La Prima Repubblica produceva formule politiche con lentezza ma inesorabilmente. Le «convergenze parallele» restano testimonianza imperitura di una stagione in cui la politica se ne stava in un iperuranio di incomprensibilità, ma in cui le parole erano parte integrante di una liturgia. La liturgia dell’«arco costituzionale», il rito pagano del «governo balneare», la tentazione del «rimpasto», i significati occulti della «fedeltà atlantica», la magia della «verifica», l’attesa spasmodica del «governo di decantazione», i preliminari voluttuosi del «preambolo». Nella Seconda Repubblica, fino alla «discontinuità» attuale che forse ci traghetterà nella Terza, oppure nel niente, invece le logore formule della gergalità politica vuota e magniloquente sono diventate di rapidissimo consumo. Si immettono a getto continuo nel mercato dei luoghi comuni per poi scomparire con la stessa velocità con cui sono comparsi.

Il «governo del cambiamento» era il puro vuoto: usarlo significava dirsi disposti per il Pd a fare il governo insieme ai grillini, che di lì a un anno (cioè adesso) sarebbero diventati «squadristi». Nel lessico legnoso del centrodestra a un certo punto prese a usarsi senza misura il termine «responsabile». Che nel linguaggio corrente significa semplicemente essere e comportarsi con senso di responsabilità, ma che in quel lessico significava essere come l’onorevole Scilipoti, «responsabilmente» disposto a tenere in piedi un governo senza maggioranza parlamentare.

Sparito il «tavolo delle regole» che ha ammorbato per un paio di anni un dibattito politico sempre alla ricerca di formule da usare ossessivamente, restano impavide le «regole». Appena scoppia un caso giudiziario, cioè sempre, ecco l’invocazione immancabile delle «regole».

Fino a un momento prima si reclamava la semplificazione delle leggi, un minuto dopo ecco la richiesta di nuove «regole», che poi, in uno Stato moderno, altro non sono che le leggi. Ma non importa: lo scopo di un gergo è di confermare l’appartenenza a un gruppo, non la necessità di dire qualcosa di sensato.

«Metterci la faccia», che ha dominato il territorio («i territori», altra orribile espressione gergale) dei luoghi comuni, vorrebbe dire più o meno «esporsi», «non tirarsi indietro». Ma nella neo lingua è più un modo per comunicare di essere del gruppo, un metterci la faccia per dimostrare di essere tra quelli che possono dire «metterci la faccia».

«Discontinuità» è invece figlia di un’epoca che vuole novità. La logica del gergo prevede che si tenga conto di questa impellente necessità anagrafica. E infatti colpisce che mentre nel Pd, all’indomani dei ballottaggi non esaltanti, si invochino «facce nuove», anche in Forza Italia, dopo la batosta, che cosa si richiede? Anche qui: «facce nuove». Facce da «discontinuità». Ma quanto reggerà la «discontinuità»?

C’è chi prevede almeno il passaggio dell’estate. Ma quando esplose la moda del «divisivo», la scomparsa repentina del nuovo termine dimostrò l’estrema fragilità delle parole del gergo. Resiste coraggiosamente il suo opposto, il «condiviso». E non c’è «tavolo delle regole» all’insegna della «discontinuità» dove, «mettendoci la faccia», si richieda la «condivisione» di qualcosa. Torna invece prepotentemente, anche per effetto delle inchieste giudiziarie, la ripulsa del «Sistema». Una volta il Sistema era il bersaglio delle proteste giovanili, oggi delle carte dei giudici che indagano sul Mose. Non è più «la cricca», e nemmeno «la cupola». Però si accompagna alle «disponibilità», che sarebbero i favori elargiti non in denaro. Disponibilità che fa rima con discontinuità, ma che con discontinuità non dovrebbe avere nulla a che fare. Ma c’è bisogno sempre di nuovi luoghi comuni. Con la fine delle elezioni europee, scendono le quotazioni del gergale «populista» e anche la «deriva plebiscitaria» non se la passa affatto bene.

Bisogna trovare nuove parole. Che segnino, almeno per un po’, la «discontinuità». Mettiamoci la faccia.

10 giugno 2014 | 16:16
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_10/conformisti-discontinuita-1ad6c074-f06d-11e3-9b46-42b86b424ff1.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Giugno 14, 2014, 10:38:21 pm »

Insofferenti e dissidenti

Di PIERLUIGI BATTISTA

Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio.

È molto verosimile che i senatori del Pd accantonati fossero mossi da una forma di conservatorismo culturale che in questi anni ha ostacolato qualsiasi riforma impantanandola in un vortice di veti e di inconcludenza. Ma se Renzi ha il merito di aver impresso una brusca accelerazione alle riforme istituzionali, facendole uscire dalla palude degli eterni rinvii, non si può neanche pensare che su un tema così delicato e costituzionalmente rilevante qualunque discussione sia equiparabile a un «sabotaggio», qualunque dissenso a un «tradimento», qualunque perplessità a un «veto». Bisogna far presto, e Renzi ha ragione a essere insofferente di freni e dilazioni che in passato hanno fatto inabissare ogni riforma. Ma non ci si può «impiccare a una data», l’espressione è dello stesso presidente del Consiglio, e dunque un mese in più per fare una riforma del Senato non raffazzonata e rabberciata non è la fine del mondo: la campagna elettorale si è conclusa in modo trionfale, non c’è più una data tagliola oltre la quale l’immagine riformista del governo e del Parlamento possa risultare intaccata.

Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

13 giugno 2014 | 07:39
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_13/insofferenti-dissidenti-01f8f56a-f2b9-11e3-9109-f9f25fcc02f9.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Giugno 21, 2014, 10:44:44 am »

I magistrati e l’età pensionabile
La mescolanza dei princìpi

Di PIERLUIGI BATTISTA

La riforma della Pubblica amministrazione annunciata dal governo rischia di incagliarsi. Ne stanno rallentando l’iter le proteste dei magistrati. I quali contestano con ardore l’abbassamento dell’età pensionabile che consentirebbe l’avvio del turnover nel pubblico impiego e l’immissione di forze giovani nei gangli dello Stato. Il governo ha già dichiarato che modulerà i tempi di attuazione del provvedimento per non lasciare traumaticamente sguarniti gli uffici giudiziari. Ma i magistrati insistono. E cercano di frenare, sinora con relativo successo. Bollano un normale avvicendamento come un attentato all’integrità della magistratura. Prefigurano conseguenze apocalittiche su un provvedimento di snellimento burocratico e generazionale. Resistono e ostacolano l’azione del governo. E nella trincea corporativa non esitano a scomodare princìpi sommi come «l’indipendenza» della magistratura: tutto questo solo per due anni di pensione anticipata.


Ovviamente, come del resto è già stato fatto, si può criticare un provvedimento che capovolge la ratio di una riforma delle pensioni che posticipava l’età pensionabile anche per arginare le spese dello Stato. Così come non c’è niente di male che l’organo sindacale dei magistrati, l’Anm, si disponga a difesa delle tasche e delle condizioni di lavoro di chi ha il diritto alle tutele che ogni lavoratore deve avere dalla sua in uno Stato democratico. Ma i magistrati non sono lavoratori come tutti gli altri. Lo sanno anche loro. E per non prestare il fianco alle critiche di chi li accusa di attestarsi in una difesa meschina dei propri interessi, mettono in campo in modo magniloquente allarmi sulla democrazia in pericolo e sulla magistratura calpestata. Le cronache raccontano che anche nel 2002 e nel 2006 i magistrati gridarono all’ «indipendenza» minacciata: ma in quei due casi il pericolo veniva dalla proposta di alzare l’età pensionabile, non già di abbassarla. L’ «indipendenza» non c’entrava niente, allora come adesso. Ma una potente corporazione ha fatto ricorso ai sacri valori della convivenza democratica per difendere lo status quo. Anche qualche mese fa, quando il governo Renzi per finanziare alcuni sgravi fiscali ha esteso ai magistrati il rispetto del tetto di 240 mila euro di retribuzione annua, l’Associazione nazionale magistrati ha invocato una sentenza della Corte costituzionale in cui veniva dichiarata perentoriamente una connessione molto apprezzata dal «partito dei giudici»: «L’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche con l’apprezzamento di misure di garanzia circa lo status dei componenti concernenti, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico». La mescolanza indebita di princìpi altisonanti con questioni più prosaiche di trattamento sindacale non alimenta certo le simpatie dell’opinione pubblica per una categoria che con la sua coriacea difesa di corpo rischia di iscriversi nel fronte della conservazione che paralizza l’Italia e le riforme di cui ha bisogno. E una riforma della Pubblica amministrazione non può inabissarsi per due anni di pensione anticipata. Che con l’indipendenza della magistratura non c’entra niente.

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19 giugno 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_19/mescolanza-principi-c79b415c-f76d-11e3-8b47-5fd177f63c37.shtml
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« Risposta #140 inserito:: Luglio 18, 2014, 09:03:10 am »

La fame feroce che ci mancherà
Antonio Conte non è stato un tecnico qualsiasi ma il simbolo della fuoriuscita da un inferno.
E ha incarnato una voglia incontenibile, una smania potentissima di rinascita

Di PIERLUIGI BATTISTA

Nel cuore bianconero Antonio Conte non è stato un tecnico qualsiasi che si cambia e si sostituisce come una camicia sgualcita, ma il simbolo della fuoriuscita da un inferno. Lo stile Juventus, che poi esiste più nel rimpianto della leggenda che nella storia vera, avrebbe richiesto modi più compassati. Nella sua natura sanguigna, nella sua rusticità esplicita e rivendicata, Conte ha incarnato una voglia incontenibile, una smania potentissima di rinascita dopo vicissitudini e traversie che hanno piagato l’anima di milioni di juventini. Il suo addio alla Juve è molto più di un normale avvicendamento di panchine. E non è nemmeno soltanto la fine di un ciclo glorioso, tre scudetti consecutivi, uno straordinario record di punti. È lo spegnersi di una stagione che è stata contrassegnata da una fame feroce di nuova vita. Ecco perché il congedo di Conte viene sentito dal popolo juventino con tanto dolore, con un dolore che non si deve esitare a definire «luttuoso», anche se l’accostamento può suonare come un affronto improprio. Ma si parla di emozioni, non di due calci al pallone.

Chi non è juventino e odia la Juve stenta a capire che tipo strano di identificazione si instauri tra la squadra bianconera e chi ha deciso di sposarne i colori. Forse solo gli interisti possono capire, e cioè solo chi sente di appartenere a una squadra che non è solo un semplice campanile trasferito su un campo di calcio. Forse è per questo che tra interisti e juventini ci si detesta così tanto: perché ambedue, Juve e Inter (e solo parzialmente il Milan), non sono ancorati a una territorialità, a una città, a una comunità comunale o regionale, a uno spirito campanilistico per cui si é della Roma perché di Roma, del Napoli perché napoletani, della Sampdoria o del Genoa perché genovesi. No, sono il frutto di un incontro. Non si può definire una scelta, perché non c’è nulla di irrazionale. Ma ci si trova gettati in una comunità, in un’epopea, in una mitologia, in un colore che non hanno nulla da spartire con l’appartenenza geografica e territoriale. Per cui gli anni dell’inferno sono stati vissuti dagli juventini come una prova iniziatica di sofferenza, un precipitare nell’abisso, una caduta rovinosa in una sfera da cui la storia della Juve, la storia delle sue competizioni, della sua voglia di vincere, del suo essere obbligati a stare sempre in cima, mai sazi, mai appagati, era sempre stata lontana. E ci si sentiva sopraffatti da un’ingiustizia, feriti, distrutti, ma mai umiliati. E si andava a Crotone mentre gli altri si spartivano gli scudetti. E ci si aggrappava alle bandiere di Buffon, di Del Piero, di Trezeguet, di Pavel Nedved e degli «eroi» che erano restati a soffrire con noi, attaccati a una storia, a un simbolo, a una bandiera, a una leggenda.

Ma questo inferno non finì con la scalata in serie A. Anzi quell’inferno diventò ancora più bollente, quando la squadra prese a balbettare una storia non sua. Una storia mediocre. Una storia da centro classifica. Brocchi comprati dall’estero a cifre mostruose. La paura di affrontare le squadre ancora meno blasonate ma che incutevano un assurdo timore reverenziale. Allenatori di stoffa scadente. Giocatori condannati alla panchina messi lì a recitare in bianconero una parte che non era la loro. È questa storia che Conte, con l’ausilio di una società finalmente rimessa in piedi dai suoi vertici in giù, con il «nostro» stadio ha spezzato e sepolto restituendo l’orgoglio, la voglia di combattere, il desiderio di primeggiare, la determinazione, il non arrendersi mai, la classe di Pirlo, Tevez che corre come un dannato fino al novantesimo, l’orrore della sconfitta. Il riscatto. La rinascita. Gli scudetti. Persino le frustrazioni in Europa. E ora? E ora si resta svuotati, costretti a immaginare un futuro incolore, in cui quella fame feroce di punti e di gloria può diventare un ricordo del passato. Un ripiombare nella mediocrità che ci spaventa. Una nostalgia crudele per Conte, e sono passate a stento ventiquattro ore. Sul campo.

17 luglio 2014 | 08:42
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Da - http://www.corriere.it/sport/14_luglio_17/fame-feroce-che-ci-manchera-491df5a2-0d7c-11e4-9f11-cba0b313a927.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:32:08 pm »

La Fine di un Capitolo
Di Pierluigi Battista

«Il fatto non sussiste». La parte della sentenza d’Appello che assolve Silvio Berlusconi sul «caso Ruby», ribaltando in pieno quella di primo grado, stabilisce per nostra fortuna un punto fermo: in Italia la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva non è un espediente retorico per idealisti fuori della realtà, ma un principio-cardine dello Stato di diritto. Dovrebbe esserne soddisfatto ovviamente il protagonista di questa vicenda giudiziaria, Berlusconi, sulla cui reputazione gravavano accuse infamanti dimostratesi, secondo sentenza, insussistenti. Ma non dovrebbero avere niente di cui essere scontenti tutti quelli che hanno virtuosamente negato di aver voluto mischiare vicende giudiziarie e vicende politiche e di aver fatto il tifo per una sentenza che liquidasse l’avversario. A meno che non siano ipocriti, nel qual caso dovranno fare qualche sforzo per far propria la raccomandazione comportamentale che hanno sempre invocato per Berlusconi: «Le sentenze vanno rispettate».

In realtà le sentenze, in uno Stato democratico dove la legge è sovrana ma contempli anche il diritto di critica, possono essere criticate. Eseguite, però eventualmente criticate. Ma il «rispetto» della sentenza significa anche che non si sospetti della magistratura libera e indipendente se il verdetto non ci soddisfa. Significa ammettere che nei tribunali si giudicano i reati, non i peccati: e questo è un bene. Significa che in Italia i giudici non emettono sentenze per partito preso.

Significa che evidentemente le prove fornite dall’accusa non hanno retto al vaglio di un giudice terzo. Significa che la magistratura si deve esprimere in piena autonomia, senza interferenze politiche e senza paura delle conseguenze politiche che una sentenza può produrre. Su questo dovrà riflettere il partito «giustizialista», che in Italia ha fatto delle vicende giudiziarie di Berlusconi lo scenario di una guerra santa senza esclusione di colpi. E dovrà riflettere lo stesso Berlusconi che ieri ha potuto legittimamente festeggiare un giorno di liberazione dall’incubo di un’accusa giudiziaria pesantissima, ma deve ripensare, forte di una sentenza che stabilisce clamorosamente che «il fatto non sussiste», il giudizio sull’«accanimento giudiziario» ai danni di un leader politico: è assolutamente evidente che i giudici di Milano non si sono accaniti contro di lui. Nell’attesa della sentenza della Cassazione (le sorprese in Italia non finiscono mai), resta finalmente un dibattito politico che si libera dal peso di un incubo giudiziario: il percorso delle riforme istituzionali può procedere speditamente.

Così come i servizi sociali a Cesano Boscone non avrebbero dovuto pesare sulle dinamiche politico-parlamentari (mettendo invece irresponsabilmente in crisi il governo Letta), anche questa sentenza può contribuire a sancire la definitiva separazione tra la storia politica e quella giudiziaria in un Paese che nella guerra totale tra politica e magistratura ha conosciuto la sua maledizione. Resta la sensazione, negli ultimi giorni avvalorata persino dagli spalti più ultrà dell’antiberlusconismo militante, di un impianto accusatorio fragile, e di una pena di sette anni nella sentenza di primo grado apparsa eccessiva anche a molti osservatori «indipendenti» del diritto. Ma le polemiche che inevitabilmente saranno rinfocolate da questa sentenza inattesa non possono oscurare il punto simbolico di svolta, la fine di un capitolo pieno di veleni della nostra storia.

La politica che deve tornare a fare bene il suo mestiere, senza remore e senza alibi.
Senza sovranità limitata.

19 luglio 2014 | 07:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_19/fine-un-capitolo-cb8b90f4-0f01-11e4-a021-a738f627e91c.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Luglio 21, 2014, 05:52:29 pm »

Particelle elementari
Far tacere i professori con le minacce
All’Università di Bologna le irruzioni di membri dei collettivi nell’indifferenza dei più

Di Pierluigi Battista

C’è una frase molto eloquente nella rivendicazione degli atti teppistici che stanno ripetutamente colpendo a Bologna il nostro Angelo Panebianco: «L’unica libertà che riconosciamo ai baroni alla Panebianco è di tacere. L’impunità per loro è finita». Cioè, trascritto dai codici mafiosi degli estensori: devono parlare solo loro. Gli altri devono tacere. E se non tacciono, peggio per loro, l’incolumità non è più garantita («l’impunità è finita»). È l’apologia del manganello su chi osa contraddirti. La teorizzazione spudorata dello squadrismo. Dalla loro hanno l’indifferenza dei più: vanno all’Università di Bologna a minacciare fisicamente Panebianco e le aggressioni passano inosservate, giusto qualche comunicato di «ferma condanna» della violenza da parte delle autorità accademiche e cittadine e per il resto il silenzio. Come se ci fossimo abituati ai manipoli di violenti che se ne vanno incappucciati per imbavagliare il «nemico del popolo» di turno.

Qualche mese fa, gli energumeni dei collettivi studenteschi avevano imbrattato la stanza dell’Università di Panebianco con slogan minacciosi vergati con la vernice rossa. Nei giorni scorsi hanno fatto qualcosa di più. Sempre incappucciati, certo: i vigliacchi aggrediscono cento contro uno a volto coperto, come un branco che deve colpire la vittima isolata. Ma nei giorni scorsi, oltre alla scritta hanno anche eretto un rudimentale muro sulla porta dello studio di Panebianco, proprio nel cuore dell’Ateneo bolognese. Dicono perché Panebianco aveva scritto chissà cosa che aveva urtato la loro acuta sensibilità. Ma quel che aveva scritto Panebianco è solo una scusa. La pulsione dell’intolleranza trova negli argomenti dei meri pretesti per sfogarsi. La voglia dispotica di un pensiero allineato, conforme ai desideri di chi discute solo con il bastone in mano per fracassare le teste dissenzienti, trascende il singolo articolo, il singolo saggio, il singolo libro. Hanno deciso di mettere nel mirino un professore, di intimidirlo, di spadroneggiare all’interno dell’Università, di lanciare un avvertimento, di esercitare nei loro modi molto grossolani la «vigilanza» su ciò che si scrive e si divulga.

Non basta purtroppo constatare che tutti gli episodi di professori, sindacalisti, politici, perfino registi teatrali come Simone Cristicchi, presi a bersaglio dell’intolleranza delle squadracce sono stati accolti come ragazzate di esuberanti che certo avrebbero potuto usare mezzi più ortodossi ma ci sarà pure «libertà di fischio». Solo che la libertà di fischio, quando intima al silenzio, è la fine della libertà di chi subisce le aggressioni. Le intimidazioni possono restare senza conseguenze, per fortuna. Ma resta l’istinto liberticida di chi propone come unica soluzione per chi dissente il semplice, lugubre, orribile «tacere». Ecco perché dovrebbero protestare tutti, non solo il sindaco di Bologna e i professori della sua Università. Basterebbe solo un po’ di coraggio.

21 luglio 2014 | 11:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_21/far-tacere-professori-le-minacce-25c9f360-10b7-11e4-beef-e3441e67d81c.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:13:34 am »

Intolleranze e antisemitismo
L’antico veleno del pregiudizio

di Pierluigi Battista

In un’Europa dove a Berlino, attorno a una moschea, hanno gridato «viva Hitler» e in Francia militanti pro Hamas danno l’assalto a una sinagoga con lo slogan « Mort aux juifs », in quest’Europa fragile e intossicata bisogna almeno prestare ascolto all’Anti-Defamation League quando denuncia un ambasciatore europeo in pectore , reo di aver bollato gli ebrei come «agenti di Satana» e beneficiari dell’«industria dell’Olocausto». Péter Szentmihályi Szabó, l’autore di queste dichiarazioni antisemite, sta infatti per occupare il ruolo di ambasciatore d’Ungheria in Italia.

L’Anti-Defamation League chiede alle autorità italiane, e in primo luogo al presidente della Repubblica, di bloccare la sua nomina. È un segnale di allarme, non un’interferenza. La velocità con cui si stanno propagando i veleni dell’antisemitismo richiede risposte rapide, nitide, gravi quanto grave è il contesto che le giustifica.

L’Italia non è immune da questo catastrofico degenerare della critica anti israeliana nella resa agli stereotipi antisemiti mascherati da antisionismo. Hanno imbrattato le mura della sinagoga di Vercelli con scritte in cui si accusano tout court «gli ebrei» di esser complici del massacro di Gaza. Ogni critica, anche la più feroce, alla politica dello Stato di Israele è legittima. Si può pensare tutto il male possibile di una protesta davanti alle ambasciate e ai consolati israeliani: ma è libera contestazione di un governo, di una condotta bellica. Invece sembra che si sia sbriciolata la frontiera che divide la critica allo Stato di Israele e l’accusa indiscriminata agli «ebrei» sparsi nel mondo e in Europa in particolare. C’è qualcosa di mostruoso in un’Europa in cui le scuole ebraiche sono sotto il mirino dei terroristi, in cui i cortei sfociano negli assalti ai quartieri a forte insediamento ebraico (anche questo è accaduto a Parigi), in cui vengono minacciati e fatti bersaglio di raccapriccianti ingiurie i rabbini, come è successo in Olanda, in cui i pregiudizi del vecchio e repellente antisemitismo nazistoide si saldano con i nuovi pregiudizi «antisionisti», in cui è pericoloso indossare la kippah, in cui i bambini ebrei vanno a scuola con la paura disegnata sul volto dei genitori.

I primi a denunciare questa spaventosa deriva antiebraica e giudeofobica dovrebbero proprio essere i sostenitori della causa palestinese, gli spiriti più critici nei confronti dello Stato di Israele e della sua invasione della Striscia di Gaza. Dovrebbero essere loro a tracciare una linea di demarcazione invalicabile, a cacciare dalle loro manifestazioni gli energumeni antisemiti, a non permettere che a Roma ancora oggi si possano immaginare assalti al Ghetto ebraico dove il 16 ottobre del ‘43 i nazisti deportarono uomini e donne sulla strada senza ritorno per Auschwitz. E invece tacciono. Fanno finta di non capire. Accettano commistioni intollerabili, si adeguano alla linea che non riconosce a Israele nemmeno il diritto di esistenza accanto a uno Stato palestinese, non spendono nemmeno una parola sui razzi sparati da Hamas per terrorizzare la popolazione civile delle città israeliane.

E allora, dentro un’Europa di nuovo così ostile nei confronti degli ebrei, è bene che le autorità italiane prendano sul serio l’appello accorato dell’Anti-Defamation League e si uniscano alla protesta contro un ambasciatore che avrebbe definito gli ebrei «agenti di Satana». Un piccolo segnale. Per una battaglia che vale la pena combattere.

25 luglio 2014 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_25/antico-veleno-pregiudizio-5b49778c-13b8-11e4-9950-e546b7448c47.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Agosto 02, 2014, 10:31:37 am »

L’Europa assente
Lo sguardo malato d’ipocrisia

di PIERLUIGI BATTISTA

L’Europa politica non è capace di dire una parola sensata sulla tragedia di Gaza. Ma il vuoto viene riempito dalle star del cinema, Pedro Almodóvar in testa, che spacciano via Twitter proclami manichei e dipingono Israele come un covo di assassini efferati dediti a un’insensata strage di bambini. L’Europa non esporta più valori, scelte, strategie, modelli, bandiere. In compenso, in questi ultimi giorni, fabbrica a getto continuo quelle che Rosellina Balbi chiamava “parole malate” e spurga i miasmi di un nuovo antisemitismo aggressivo sebbene ammantato di un finto umanitarismo. L’Europa vive anni di pace interna come mai nella storia. Ma in Germania hanno attaccato una sinagoga a colpi di bottiglie molotov e in Francia ne hanno assaltata una al grido di «Mort aux juifs».

L’Europa non sa dire una parola ai conflitti che insanguinano il mondo, a un passo da casa. Non si sa cosa pensi di tutte le tragedie che costellano l’agenda internazionale. Le immagini della morte a Gaza lasciano senza fiato, ci schiacciano, sono intollerabili, ogni bambino ucciso ci travolge, e ci fa tremare quando papa Francesco grida «basta, fermatevi». Il suono delle sirene di Israele che chiamano le famiglie nei rifugi dove ripararsi dai razzi di Hamas ci fa disperare: quando finirà tutto questo, se mai finirà. Ma l’Europa avrebbe il dovere di dire una parola, di cercare soluzioni, di costruirsi un profilo di interlocutore autorevole. E invece dove sta l’Europa? Se ne sta inerte, muta, impotente, marginale, irrilevante. Scrutiamo le mosse dell’America di Obama, ci domandiamo quale forza dissuasiva possa avere l’Egitto che dà il suo patrocinio a tregue regolarmente violate. E la Turchia di Erdogan, che sta con i terroristi e paragona oscenamente Israele a Hitler (e che ne è del Kurdistan turco, con i suoi oltre 30 mila morti ammazzati?). E il Qatar. E l’Iran. E il ribollire del mondo islamico, dilaniato dalla guerra tra sunniti e sciiti. Ma l’Europa, mai. Mai che ci si chieda quale compito possa svolgere l’Europa. I suoi vertici sono come noi: spettatori annichiliti di uno spettacolo atroce senza nessuna influenza sui fatti, solo qualche dichiarazione verbosa, l’annuncio di qualche inutile summit.


L’Europa è muta perché sono anni che non si pensa più come protagonista. Non è solo la sua debolezza politica, o la fragilità delle sue istituzioni, o la riduzione della sua identità alla moneta unica ed all’elemento economico-finanziario. È una marginalizzazione culturale, un deficit di pensiero sul mondo. Con l’esplosione delle primavere arabe avrebbe potuto far da sponda democratica, esserci, favorire le forze laiche, battersi per evitare la deriva fondamentalista e fanatica, ma non ha detto niente e nessuno, al Cairo come a Tunisi, ha guardato all’Europa come a un faro e un alleato. Quando è intervenuta, ha combinato un pasticcio, come in Libia, disarticolandosi e dividendosi. Ora la Libia è di nuovo nel baratro della guerra tra clan e tribù e l’Europa si ritrae silenziosa e imbarazzata dalla scena: che altro potrebbe dire, e a chi?
Un’Europa fiera di sé, dotata di un pensiero, di una strategia, di un’idea del mondo potrebbe pur dire qualcosa ai governi di Israele, sostenerli contro chi vuole annientare lo Stato degli ebrei, ma anche pronunciarsi sulla sventurata strategia dei nuovi insediamenti, costringerli al dialogo con Abu Mazen e con i palestinesi che oggi non seguono la deriva terrorista e criminale di Hamas. Ma chi lo può dire, in Europa? Che credibilità può avere l’Europa se nega a Israele il diritto di difendersi e se si mostra ambigua con Hamas?
L’Europa sembra vivere fuori dal mondo. In Siria è in atto da anni un massacro di dimensioni apocalittiche (almeno 160 mila i morti: civili, bambini, innocenti). Qualcuno ha notizia di quale sia la posizione europea, che non siano i soliti balbettii e le indignazioni a comando? E nel Califfato in cui i cristiani sono braccati e perseguitati, si bruciano le chiese, a Mosul, in Iraq, in cui o le case dei cristiani sono marchiate d’infamia con la N di «Nasara» (cristiano) per indicarli alle milizie jihadiste che vogliono fare sterminio degli infedeli, in quelle terre sfortunate si sente forse l’eco di una voce europea? Il nulla. Il nulla persino nel cuore dell’Europa, in Ucraina, dove un aereo di civili è stato abbattuto e secondo l’ultimo report delle Nazioni unite, lo riferisce Paola Peduzzi su Il Foglio, da aprile a oggi nel silenzio e senza le immagini raccapriccianti che ci vengono da Gaza, si contano 1.130 morti (di cui moltissimi civili), 3.500 feriti, 800 «desaparecidos», oltre 100 mila sfollati. Un disastro a pochi chilometri dalle grandi metropoli europee: specchio dell’impotenza e dell’incapacità di agire. Anche questo contribuisce a rompere l’argine e a far tracimare nuove barbarie, intolleranza, odio per gli ebrei, indicati come i responsabili di ogni male, bersagli facili da minacciare. Un silenzio impotente che rischiamo di pagare molto caro.

31 luglio 2014 | 19:27
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_31/editoriale-gaza-europa-pierluigi-battista-fb91f354-18d6-11e4-a9c7-0cafd9bb784c.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Agosto 21, 2014, 06:30:46 pm »

Quell’Insofferenza per i Professoroni (nell’era dei 140 Caratteri)
Eppure in tanti anni mai una parola contro l’appellomania di chi vedeva tirannie dietro ogni legge berlusconiana

di PIERLUIGI BATTISTA

Ma davvero gli intellettuali sono lo spauracchio di chi teme che possano mettersi di traverso sulla strada luminosa delle riforme (annunciate)? Un pericolo il ceto polveroso e sgualcito degli intellettuali nell’era dei 140 caratteri non uno di più, della comunicazione sprint, dell’hashtag lapidario, della scattante giovinezza, dell’accelerazione universale? Addirittura il presidente del Consiglio invoca una resa dei conti con questa palla al piede di un’Italia che vorrebbe ripartire di slancio se non fosse frenata dai «professoroni» maestri di conservazione e di immobilismo. Loro, gli intellettuali, non contano granché. Ma nell’ansia di scovare il «gufo» anche dietro la cattedra, anche il «professorone» viene bene per identificare la figura del nuovo sabotatore, dell’intellettuale da establishment, dell’«editorialista» che piace alle élites che tramano nell’ombra.

E sarebbe pure un po’ strano questo accanirsi sugli intellettuali recalcitranti da parte di chi in tanti anni non ha mai speso un sospiro per contrastare l’appellomania di un ceto che si inventava tirannie dietro ogni legge berlusconiana. Di chi trattava come un fissato anticomunista chiunque osasse manifestare qualche perplessità sull’«egemonia culturale» di una sinistra dogmatica, ossificata, conservatrice, orgogliosamente antiriformista. Di chi lasciava correre quando nel suo mondo d’appartenenza si deplorava addirittura la «destra culturale» dell’Adelphi (anche questo è stato detto, e non era satira) per difendere la purezza ideologica del catalogo Einaudi. Ora i nuovi corifei del decisionismo di governo si impancano a fustigatori degli intellettuali così riottosi da eccepire nientemeno che sull’efficacia della riforma del Senato. Ora si sono svegliati da un torpore pluridecennale e scoprono, infiammati dallo zelo dei neofiti, che la cultura di sinistra è prigioniera di un tic oltranzista, di un umore poco incline ad accettare il riformismo come orizzonte e metodo della politica. Ora, improvvisamente, si sono accorti che agli intellettuali italiani non va giù una democrazia in grado di «decidere», insofferente ai sacri riti del discussionismo perenne e inconcludente. Ora lanciano i loro strali contro gli intellettuali nuova «clasa discutidora», come un brillante reazionario come Juan Donoso Cortés definiva una borghesia cavillosa, imbelle e schiava del vizio parlamentarista.

Che poi non è nemmeno tanto vero. Gli intellettuali «discutidori» hanno contrastato Craxi e Berlusconi, archetipi del decisionismo in guerra con la cultura mainstream della sinistra consociativa. Ma con pari ardore hanno contrastato a grande maggioranza, e lungo tutto l’arco del post-fascismo repubblicano, la Democrazia cristiana, che certo non si può eleggere a modello di una politica muscolare e decisionista. E nel ‘48 optarono in massa per il decisionismo brutale di Stalin anziché per il mite e democratico De Gasperi. Del resto gli intellettuali italiani hanno sempre amato l’uomo forte, il Partito forte, il leader forte. Detestarono Giolitti per il suo gradualismo così poco elettrizzante e persino Gobetti, per contrastare la nefasta azione dei «partiti del ventre», il socialista e il popolare, volle tessere un «elogio della ghigliottina».
Si schierarono in massa con il Duce e se furono tentati dall’eresia era per rimproverare al fascismo di essere troppo poco fascista, radicale, rivoluzionario, risoluto.
Poi videro nel disciplinatissimo Pci il faro che avrebbe condotto l’Italia lungo la strada delle magnifiche sorti e progressive, il nuovo «Principe» da servire «perinde ac cadaver», come imponeva il motto di Ignazio di Loyola, e certo non solidarizzarono con Elio Vittorini quando veniva insolentito dal leader decisionista Palmiro Togliatti per aver messo in discussione la linea del Partito. Però manifestavano il loro disprezzo per i molli democristiani, che pure condussero l’Italia a «cambiare verso» facendolo diventare da Paese sconfitto e stremato dalla guerra in una grande e prospera potenza industriale, conservando il suo carattere democratico.
Gli attuali cantori del decisionismo non ebbero mai nulla da dire. E ora, tutt’a un tratto, gli intellettuali sarebbero diventati i bastian contrari che fanno da ostacolo nella via delle riforme? Ora si può deplorare la mania degli appelli, l’allarmismo che vede orrende «svolte autoritarie» in ogni rafforzamento dei poteri del governo? Lo zelo dei neofiti gioca brutti scherzi. Un po’ di sana accettazione delle critiche può essere addirittura un corroborante, come hanno sempre sostenuto i (pochi) liberali della cultura italiana. I gufi, si possono lasciare alla zoologia.

17 agosto 2014 | 10:51
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_17/quell-insofferenza-professoroni-nell-era-140-caratteri-1b041520-25eb-11e4-9b50-a2d822bcfb19.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:10:03 pm »

Il massacro, le vittime e la svolta di Francesco
Guerre giuste?
Il Papa non è bellicista: ma chi cercava protezione in Vaticano per promuovere un pacifismo assoluto non lo troverà
Di Pierluigi Battista

La parola «guerra», quella è sempre bandita. Ma la Chiesa cattolica non ha mai disdegnato gli eufemismi per gli interventi militari che si prefiggevano di fermare «la mano dell’aggressore» contro le popolazioni civili. L’«ingerenza umanitaria» per l’intervento armato nel Kosovo. La «polizia internazionale», limitata e circoscritta, per l’azione in Afghanistan, all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Oggi però le parole di papa Francesco segnano una correzione significativa nella politica vaticana in Medio Oriente. Il massacro dei cristiani in Iraq sta assumendo dimensioni apocalittiche. La linea della prudenza appare destinata alla disillusione. La Chiesa di Francesco non è diventata bellicista. Ma difficilmente chi si è sempre nascosto sotto il manto papale per dare autorevolezza a una linea di «pacifismo» assoluto troverà accoglienza a piazza San Pietro. Come accadde nel 1991 e nel 2003, quando la sinistra italiana finì per sfilare sotto le finestre di Giovanni Paolo II, riconoscendo la sua leadership morale nel fronte contrario sia alla guerra promossa da Bush padre che a quella di Bush figlio e di Blair.

Non tanti anni, ma pochissimi mesi fa, le parole di Francesco sono apparse come un alt categorico alla tentazione obamiana di intervenire in Siria contro la carneficina compiuta da Assad, in un conflitto che conta oggi circa 170 mila vittime, quasi tutte civili. Invece di «fermare l’aggressore», la priorità sembrò allora quella di fermare l’interventismo ondivago degli Stati Uniti. Un digiuno di testimonianza a favore della pace suonò più polemico nei confronti di Obama che non di Assad. Un pacifismo un po’ strabico, che però poteva essere giustificato dalla necessità di difendere i cristiani di Siria dai crimini che i ribelli jihadisti avevano cominciato a perpetrare contro il popolo della croce.

La stessa prudenza per le sorti dei cristiani che ha indotto il Vaticano nel corso di questi anni a non chiedere la mobilitazione del mondo contro i regimi islamici (non solo fondamentalisti, ma anche «moderati» come l’Arabia Saudita) che non risparmiano persecuzioni contro i «blasfemi» che osano possedere un crocefisso o un rosario e contro i luoghi di culto cristiano, ostracizzati e martirizzati. Le dimensioni catastrofiche del massacro dei cristiani da parte dei seguaci del Califfato islamico inducono papa Francesco a correggere il tiro. Non si parla certamente di «guerra giusta» lungo una tradizione cattolica ed ecclesiastica che ha segnato secoli di riflessione sull’uso degli strumenti bellici da parte degli Stati.

La deplorazione di papa Benedetto XV contro l’«inutile strage» rappresentata dalla Prima guerra mondiale, oramai un secolo fa, esprimeva una nettezza che non dava spazio a interpretazioni equivoche o minimizzanti. E persino nella Seconda guerra mondiale, di fronte a uno sterminio di proporzioni inusitate, la linea della prudenza consigliava al Vaticano (ma non ai singoli vescovi e agli istituti religiosi) un atteggiamento che non suonasse come elemento ulteriore di conflitto e di divisione. Nel Medio Oriente, poi, la politica vaticana del buon vicinato con il mondo arabo, ha sempre suggerito una linea, se non di aperta ostilità, comunque di diffidenza nei confronti dello Stato di Israele.
Nella Guerra del Golfo, all’indomani della fine della guerra fredda e nella ricerca affannosa di un nuovo «ordine internazionale» garantito dalle Nazioni Unite, il papato di Wojtyla rappresentò la calamita capace di attrarre tutto il variegato mondo contrario all’intervento in Iraq, malgrado la palese violazione della legalità internazionale da parte di Saddam Hussein con l’invasione del Kuwait. Nel 2003 le bandiere arcobaleno della pace sventolarono con l’appoggio della Chiesa cattolica che pure non si era spesa contro l’intervento per estromettere il regime dei talebani in Afghanistan: e anche lì le ragioni geopolitiche si mescolarono a quelle umanitarie, con la persecuzione da parte del regime di Saddam dei curdi uccisi con il gas e degli sciiti di Bassora. Poi la guerra del Kosovo, che pure cercò di mimetizzarsi come atto di indispensabile «ingerenza umanitaria».

Ora la necessità ribadita da Francesco di fermare la mano assassina dell’aggressore e impedire ulteriori massacri. Una svolta che può influenzare la politica degli Stati. Non una «terza guerra mondiale», ma certamente un ribollire incontrollato dei conflitti.

19 agosto 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_agosto_19/massacro-vittime-svolta-francesco-3b43f7c6-2765-11e4-9bb1-eba6be273e09.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Agosto 30, 2014, 09:17:56 am »

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione

di Pierluigi Battista

Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato.

Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche.

Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

29 agosto 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_29/ordine-giornalisti-contro-allam-cosi-si-calpesta-liberta-opinione-130c2c5e-2f41-11e4-ba33-320a35bea038.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Agosto 31, 2014, 09:00:48 am »

L’editoriale
L’equilibrio capovolto dall’assenza di una legge

Di PIERLUIGI BATTISTA

Che le coppie gay possano adottare un figlio dovrebbe stabilirlo una legge dello Stato, non una decisione della magistratura che, presa da una sindrome di supplenza onnipotente, vuole interpretare, forzare, piegare una legge che non c’è. O che non c’è ancora, perché attualmente sono in discussione molte ipotesi per regolare la convivenza stabile tra coppie dello stesso sesso per riconoscere a queste ultime diritti ancora calpestati. Ma anche nella più «avanzata» tra queste ipotesi l’adozione di un figlio è ancora materia controversa. Deciderà il Parlamento, nella sua sovranità legislativa. Invece ieri un magistrato ha deciso al posto del Parlamento, deliberando a favore del sì all’adozione. Montesquieu avrebbe qualcosa da eccepire su questa invadenza del potere giudiziario che si arroga la titolarità del potere legislativo.

Naturalmente i sostenitori della possibilità per una coppia gay di adottare un figlio si mostrano molto soddisfatti per questa sentenza. Dicono che nella paralisi della politica, la magistratura può pungolare il legislatore, costringerlo a decisioni rapide e tutte in favore di un principio che, vale la pena ripeterlo, non è contemplato nemmeno nella più aperturista delle proposte sulle convivenze tra persone dello stesso sesso. Ma la magistratura che si sostituisce alla politica e alla sua incapacità di legiferare dovrebbe preoccupare chiunque, a prescindere dal merito delle singole questioni. Possibile che debba essere una sentenza a stabilire se in un ospedale debbano essere somministrati gli intrugli di Stamina? O che sia una sentenza a fissare le regole della fecondazione eterologa?

Non si può dimenticare il dramma legato al caso Englaro quando, nel vuoto di una legislazione sul «fine vita», divenne compito della magistratura autorizzare la cessazione dell’alimentazione e idratazione di Eluana. La magistratura, semplicemente, le leggi deve applicarle, non anticiparle, indirizzarle, auspicarle. La sua supplenza non può che avere dei limiti e il legislatore, anche se incline all’immobilismo, non deve costruire norme dettate da una sentenza precedente. È il capovolgimento dell’equilibrio tra i poteri, e non c’è nessuna buona causa che possa legittimarlo. Fare una legge, subito. È il compito del Parlamento.

30 agosto 2014 | 07:55
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_agosto_30/equilibrio-capovolto-dall-assenza-una-legge-30231ac8-3009-11e4-88f9-553b1e651ac7.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Settembre 22, 2014, 04:03:26 pm »

Analogie a sinistra tra Parigi e Roma
I nostalgici del Novecento


Di Pierluigi Battista

Ogni sterzata in senso riformista in Europa occidentale ha un prezzo: l’inasprirsi della guerra tra le due sinistre. Oggi è il turno della Francia e dell’Italia, le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri princìpi violati dall’«usurpatore» di turno. I piloti dell’Air France che bloccano il Paese per protestare contro i piani di sviluppo della compagnia low cost controllata dal gruppo sono i cugini d’Oltralpe dei sacerdoti che si sentono chiamati alla missione di difendere il dogma dell’articolo 18: una clausola oramai sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati.

Le svolte riformiste comportano gravi prezzi di popolarità e di consenso. Tony Blair ingaggiò un’interminabile e spietata battaglia contro il potente ma oramai decrepito establishment del vecchio Labour e solo grazie a quella offensiva coraggiosa riuscì a sfidare con successo la lunga egemonia dei Tories thatcheriani. Nella Germania del 2003 l’allora leader socialdemocratico Gerhard Schröder fu molto baldanzoso ed esplicito nel presentare un progetto riformista sul mercato del lavoro: «Ridurremo le prestazioni sociali dello Stato, promuoveremo la responsabilità individuale ed esigeremo un maggior contributo da parte di ciascuno». Fu una ricetta dolorosissima per la sinistra tedesca, che si spaccò, erodendo la base dei Socialdemocratici, pagò un duro prezzo elettorale ma contribuì alle riforme di cui la Germania aveva bisogno e che oggi fanno la differenza con tante nazioni dell’Europa mediterranea e latina. Oggi è la volta della Francia e dell’Italia, la culla della sinistra «latina», fortemente segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche. E anche qui la guerra tra le due sinistre si annuncia feroce e cruenta.

Alla Francia di Hollande non basta certo la testa dei tre ministri del governo Valls, e in particolare di quella del ministro dell’Economia Montebourg sostituito dal neoministro Macron, socialista certo ma con un passato di banchiere. Già con Mitterrand, il massimalismo ideologico della sinistra francese subì fortissimi colpi. Nel primo mitterrandismo la sinistra socialista pagò il prezzo della sua alleanza con il Pcf, ma quella fase si chiuse, con una rottura e una guerra tra le due sinistre che si esaurì provvisoriamente con la disfatta di quella più vecchia e conservatrice. In Italia la bandiera di un riformismo capace di sfidare i tabù e i veti di un sindacato impermeabile alle innovazioni più radicali nel mondo del lavoro venne dapprima impugnata da Massimo D’Alema: ma il braccio di ferro fu vigorosamente vinto dalla Cgil di Sergio Cofferati, che qualche anno dopo, riempiendo le piazze e trascinando l’intera sinistra politica di allora, sconfisse anche il tentativo di Berlusconi di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Oggi Francia e Italia sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare «l’anima» della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi.

22 settembre 2014 | 08:28
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