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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108796 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:33:49 pm »

Sospesi nel vuoto

Berlusconi sa benissimo che dall'abbattimento del governo presieduto da Enrico Letta non ne scaturirebbe nessun vantaggio «pratico» sul piano delle sue vicende personali e giudiziarie. Investire il governo di compiti che non gli sono propri, pensare che la soluzione di un problema giudiziario possa entrare nel novero dei provvedimenti di un governo, mescola piani che non possono che restare distinti. Né è possibile perseguire obiettivi di rottura del governo con il pretesto di pregiudiziali messe in campo dall'avversario. Il Pdl dovrebbe sapere che la tentazione di scaricare le proprie tensioni sul governo innescherebbe una gara autodistruttiva che non conosce vincitori ma solo sconfitti. Del resto, è stato proprio Berlusconi, a poche ore dalla sentenza di condanna della Cassazione, a dire che il governo non doveva essere la prima vittima dell'inevitabile inasprimento del conflitto politico. Basterebbe tenere fede a quanto ha già proclamato rendendosi conto che precipitare l'Italia nell'abisso dell'ingovernabilità sarebbe un atto irresponsabile e autolesionista.

Il Pdl ha tutto il diritto di denunciare la commistione democraticamente anomala tra politica e magistratura e anche di considerarsi vittima di un accanimento che dal '94 in poi ha messo il suo leader nel mirino di un numero incalcolabile di inchieste giudiziarie. Può anche portare le sue buone ragioni, peraltro avallate da molti giuristi e costituzionalisti non di area berlusconiana, sull'interpretazione della nuova legge Severino sull'incandidabilità dei politici condannati con sentenza definitiva, nella sua prima e fragorosa applicazione.

Ma la politica degli ultimatum, peraltro in modo inconcludente come si è visto nel vertice di ieri tra Angelino Alfano ed Enrico Letta, esprime solo uno spirito di rappresaglia fondato su un calcolo tutto da verificare: quello secondo il quale il Pdl potrebbe avvantaggiarsi da un rapidissimo ricorso alle urne. Il Pdl non dovrebbe dare ascolto alle pulsioni più distruttive che albergano nella psicologia del leader e nell'istinto di paura del suo gruppo dirigente. Il governo delle larghe intese non ha ancora realizzato il compito per cui era nato e che era stato indicato come essenziale dallo stesso Pdl. Soffocarlo ora, quando si annunciano primi, timidissimi segnali di un possibile rischiaramento nel buio pesto della crisi italiana, non avrebbe alcun senso.

E del resto al Pd si può chiedere un atteggiamento responsabile, e tutti gli approfondimenti che la prima applicazione della legge Severino comporta. Si deve chiedere di non far prevalere al suo interno personalismi e rancori destinati a rovesciarsi drammaticamente sulla tenuta del governo. Ma non di immolarsi ingoiando umilianti ultimatum. Né si può devastare un governo per materie sulle quali il governo non può intervenire. Il senso di responsabilità può addirittura portare risultati migliori se si riesce a non cedere all'istinto di rappresaglia.

22 agosto 2013 | 7:39
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_22/sospesi-nel-vuoto_cd99f20e-0ae9-11e3-ab6e-417ba0dfe8a6.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Agosto 25, 2013, 05:05:01 pm »

La corda si sta spezzando


Una pietra dopo l'altra, inesorabilmente, i proclami del Pdl annunciano la valanga finale che potrebbe spazzare via il governo delle larghe intese. Formalmente, dopo il vertice di Arcore, non c'è nulla di definitivo. Si pongono ancora condizioni, l'ultimatum è ancora privo di quella inappellabile perentorietà che lo renderebbe ineludibile, ma una pietra dopo l'altra, una dichiarazione dopo l'altra, il partito di Silvio Berlusconi sta decidendo di mettere fine, assieme all'eventuale decadenza del suo leader da senatore in seguito alla sentenza della Cassazione, all'esperienza del governo Letta.

Quando Angelino Alfano, segretario del Pdl ma anche vicepresidente del Consiglio, include il suo stesso primo ministro nella lista di quelli a cui ci si rivolge per evitare la crisi finale, vuol dire che un'altra barriera è stata disintegrata. Il governo non deve temere, disse lo stesso Berlusconi all'indomani del verdetto della Cassazione. Oggi invece il governo deve temere moltissimo, e viene addirittura messo sulla graticola come possibile corresponsabile di una decisione bollata a priori come «costituzionalmente inaccettabile». Ma il governo non ha nessun potere «costituzionale» per orientare il voto del Pd quando si dovrà decidere della decadenza di Berlusconi sulla base della legge Severino. E se viene menzionato così esplicitamente in una dichiarazione che prelude alla lacerazione di un patto di governo nato quattro mesi fa, e dallo stesso vicepresidente del Consiglio, vuol dire che la via che conduce allo strappo si fa sempre più breve.

Una scelta sbagliata, quella del Pdl. Che giocherebbe sullo sfacelo di un governo che ha sì bisogno di spinte per realizzare il suo programma, ma che oggi svolge una funzione preziosa di equilibrio. Lo stesso equilibrio fortemente voluto da Napolitano, il vero artefice di un governo nato in condizioni di emergenza. Lo stesso equilibrio che si richiede quando l'Italia è ancora paralizzata da una crisi interminabile e avrebbe bisogno di riforme, non di ricatti da consumare nel cielo della politica, con esiti incomprensibili per tutti, anche per l'elettorato di centrodestra sempre più frastornato. La scelta della rottura azzererebbe tutto questo.

E se è legittima la richiesta di ulteriori approfondimenti «costituzionali» sulla legge Severino, lo è decisamente meno il tono ricattatorio con cui si chiede al Pd di capitolare senza condizioni, cancellando così ogni possibile mediazione. Una mediazione politica, in ogni caso. Non una mediazione che possa essere promossa da un governo. Una mediazione che parta dal riconoscimento del ruolo di Berlusconi e del Pdl nella vita democratica italiana formulato dal capo dello Stato nel suo messaggio di Ferragosto. Ma non il frutto di un ultimatum dettato da senso di irresponsabilità e dalla chiusura dell'intero centrodestra nel fortino in cui ha voluto serrarsi Berlusconi. Prima che sia troppo tardi.

25 agosto 2013 | 8:38
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_25/la-corda-si-sta-spezzando-battista_6190dc12-0d4b-11e3-a0ce-befba0269146.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:29:16 pm »

L'EDITORIALE
L'orlo del precipizio


Se gli ultimi tentativi di mediazione fallissero, se l'ultimo, accorato appello del presidente Napolitano cadesse nel vuoto e il Pdl optasse nelle prossime ore per la spallata finale al governo Letta, allora non ci sarebbe nemmeno un vincitore, ma sul terreno solo uno stuolo impressionante di vinti.

Sarebbe sconfitta innanzitutto l'Italia, la cui condizione economica preoccupa ancora l'Europa e il cui spread ha proprio ieri sorpassato quello spagnolo. Perderebbero le istituzioni, che nella scorsa primavera, quando i partiti in Parlamento avevano mostrato tutta la loro penosa impotenza, furono salvate con uno sforzo d'emergenza attraverso la rielezione di Giorgio Napolitano. E il capo dello Stato, come è noto, si è detto personalmente e istituzionalmente indisponibile, fino alle estreme conseguenze, a giochi e manovre che farebbero ripiombare l'Italia nel caos politico.

Non vincerebbe lo stesso Berlusconi, che non vedrebbe minimamente migliorata la propria condizione personale, drammaticamente invischiata in vicende giudiziarie il cui automatismo oramai non sarebbe recuperabile neanche da una linea di condotta ultra-aperturista del Pd nella Giunta del Senato.

Non vincerebbe il centrodestra, decapitato del suo leader, frastornato, illuso, incapace di capire che il burrone è molto vicino e che senza un rinnovamento radicale di leadership, di classe dirigente, di linguaggio la partita è perduta, per quante fantasmagoriche performance Berlusconi sia ancora in grado di esibire in campagna elettorale, il suo terreno preferito ma che da ora in poi dovrà affrontare come un'anatra zoppa.

Non vincerebbe il centrosinistra, già pronto ad inebriarsi per la scomparsa del Nemico da cui è stato battuto tanto frequentemente, ma che sembra condannato all'eterna ripetizione degli stessi errori. Non vincerebbe il Pd, che anche ieri ha dimostrato di intrattenere un rapporto morbosamente ambiguo con il movimento di Grillo, colpito sì dai suoi insulti ma anche segretamente tentato dall'idea di una pur sbrindellata alleanza per mettere definitivamente all'angolo il centrodestra. Svanirebbe la stessa idea di riforme costituzionali condivise, la prospettiva di una riduzione del numero dei parlamentari, di maggiori poteri al capo del governo, della fine del paralizzante bicameralismo perfetto, del ridimensionamento dei costi della politica, Province in primis, che sembrano inscalfibili.

Impallidirebbe la speranza che sia possibile in Italia una normale democrazia dell'alternanza, in cui gli schieramenti si contendano la guida del governo, ma non vogliano perseguire l'annientamento reciproco, come è accaduto in questi venti anni e come i coriacei detrattori della «pacificazione» vorrebbero che continuasse in una rissa infinita e inconcludente. Perderebbero tutti e si correrebbero gravi «rischi», come avverte Napolitano. C'è ancora pochissimo tempo per sperare che ci si voglia fermare un centimetro prima del precipizio.

11 settembre 2013 | 7:40
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_11/orlo-del-precipizio-pierluigi-battista_8a208016-1aa1-11e3-a75c-ad7543f2d611.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Settembre 29, 2013, 11:11:37 pm »

L'EDITORIALE

Moderati, dove siete?

Berlusconi impone le dimissioni dei ministri del Pdl, ma con la caduta del governo molte cose cambierebbero in peggio. Tranne una, che non cambierà affatto, né in peggio né in meglio: il destino personale di Berlusconi, che nessuna peripezia governativa o parlamentare potrà oramai minimamente modificare, in forza di una sentenza di condanna che, oltre alle misure cautelari, aggiungerà l'interdizione dai pubblici uffici, e dunque l'immediata decadenza da senatore.

Purtroppo non cambierà, anzi si rafforzerà, il sospetto che Berlusconi ritenga che il suo destino personale debba coincidere con quello del centrodestra e dell'intero Paese. Perciò il leader della neonata Forza Italia gioca al tanto peggio. Dopo di lui, deve esserci solo il diluvio.

Se la corsa al baratro della crisi dovesse rotolare fino in fondo, cambierà lo stato di un Paese che ad ottobre non potrà nemmeno scrivere la propria legge di Stabilità, consegnandosi interamente a un umiliante commissariamento internazionale.

Cambierà in peggio l'impatto delle tasse sui consumi, perché l'Iva inevitabilmente aumenterà per colpa di chi farà crollare il governo, anche se Berlusconi ne vuole fare un cavallo di battaglia. Cambierà, anzi crollerà la speranza che una responsabile azione di governo possa assecondare gli ancora troppo flebili annunci di ripresa e possa dare un sostegno all'economia che boccheggia e che vuole ripartire.

Cambierà la possibilità di mettere mano a serie riforme costituzionali, lungo un percorso che possa siglare un patto sulle regole fondamentali tra i partiti che poi, come è normale in una democrazia liberale, si contenderanno la vittoria alle elezioni su fronti opposti. Cambierà, anzi svanirà del tutto, l'idea che l'Italia possa conoscere un barlume di pacificazione, una competizione dura ma leale tra forze politiche che si dividono ma riconoscono legittimità al reciproco avversario, combattendolo ma non odiandolo fino ad augurarsene la distruzione.

Berlusconi ha sempre detto che il governo delle larghe intese è stato anche il frutto di una scelta di responsabilità del suo partito. È vero. Ed è vero anche che in tutti questi mesi, o almeno prima della fatale sentenza della Cassazione, il Pdl è sembrato più convinto del sostegno al governo di quanto non lo sia stato il Pd, che pure poteva contare sul suo ex vicesegretario Letta come premier. Più una folta rappresentanza di ministri.

Ma l'atto di responsabilità nazionale con cui Berlusconi ha permesso la nascita di questo governo viene totalmente annullato dall'atto di irresponsabilità nazionale con cui ne vuole decretare la morte. Berlusconi non può dare la colpa della fine al Pd, ancora immerso in un travaglio dilaniante per affrontare una campagna elettorale dagli esiti imprevedibili.

La colpa è invece tutta racchiusa nella sindrome autolesionista che in pochi giorni ha trasformato il «responsabile» Berlusconi nel capo di un drappello di falchi. Una forma di autolesionismo nazionale, che fa male all'Italia. E di autolesionismo personale, perché questo gesto di pura e inconcludente ritorsione, che scarica sul governo gli spasmi di un centrodestra frastornato e stremato, non avrà alcun effetto pratico sulla sua vicenda giudiziaria.

Un puro paradosso: si apre una pericolosa crisi di governo senza che nemmeno ne abbia a guadagnare la posizione personale di chi la promuove con tanto fragore.

Il tentativo di attribuire la colpa della crisi al Pd, ma addirittura al capo dello Stato, che vede disfarsi con un atto di irresponsabilità una costrizione politica precaria ma indispensabile per non far precipitare l'Italia nel caos politico, economico e finanziario, è insensato. Perciò è un bene che con un atto parlamentare solenne si chiarisca davanti agli italiani chi è disposto a dare la fiducia al governo Letta e chi invece vuole ritirarla. Un voto che dissipi ogni equivoco. E che consenta alla pattuglia dei moderati del centrodestra di dimostrare apertamente un dissenso dalla linea autolesionista del leader. A carte scoperte, stavolta.

29 settembre 2013 | 8:45
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Pierluigi Battista

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_29/moderati-dove-siete-pierluigi-battista_a0cdfd28-28d1-11e3-8fff-a1e6916711a7.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:20:52 am »

Il Caso berlusconi

La solitudine del capo tra i cortigiani avidi

I questuanti assediano un Cavaliere ormai cupo

Era l’uomo solo al comando. Oggi è un uomo solo. Un barboncino da tenere in braccio. Una ragazza che lo mette in guardia perché nelle cucine hanno fatto la cresta dicendo di aver pagato 80 euro un chilo di fagiolini. I falchi che lo assediano. Gli avvocati che non si sono dimostrati all’altezza delle loro ragguardevoli parcelle. Michelle Bonev, quella che reclamava insistentemente per un posticino, un premietto, una particina, che oggi si vendica nelle tribune compiacenti del Nemico mediatico. Un uomo solo. Inasprito. Deluso. Senza un sorriso. Cupo e finanche lugubre.

Un uomo asserragliato ad Arcore o a palazzo Grazioli, con una condanna definitiva, l’interdizione, la decadenza da senatore. Braccato e inseguito, dicono, da altre Procure cui non sembra vero di dare la caccia a chi tra un po’ non avrà alcuno scudo, e da altre accuse, altre imputazioni a cascata. Un leader che ha dovuto cedere alla fronda di chi non voleva seguirlo. Lui ha tentato di dare di sé un’immagine di rassicurante normalità. La fidanzata Francesca Pascale che si presenta con la maschera del dolore quando la Cassazione dà il colpo finale con il suo verdetto di inizio agosto, il cane Dudù esibito sui rotocalchi. Ma è tutta una corte di questuanti, pretendenti, parassiti, miracolate, giovani carrieriste, procacciatori di dubbia reputazione, amici che si dimostrano avidi cortigiani senza pudore che si stringe a un leader, Silvio Berlusconi, che oramai non mette più piede a Milanello, sembra disinteressarsi della sua adorata creatura rossonera. Non si sente più in sintonia con nessuno. Ci sono i figli, Marina in testa, e vecchi e inossidabili amici come Fedele Confalonieri, che gli ricordano i tempi in cui il Re Sole poteva contare su affetti, solidarietà, senso di missione. Quella fotografia alle isole Bermude, tutti a fare jogging con candida divisa regolamentare dietro di lui, Gianni Letta, Marcello Dell’Utri, Galliani. E persino quelle gite sullo yacht di Cesare Previti, con mogli e amici cari (o che tali sembravano, come Stefania Ariosto e l’avvocato Dotti). Tempi passati.

Tempi passati anche quelli in cui l’onnipresente Paolo Bonaiuti e la segretaria Marinella facevano da scudo, da filtro, da protezione. Oggi no. Oggi Berlusconi è solo perché scopre che tutti vogliono da lui sempre qualcosa, soldi, carriere, posti, incarichi, prebende, visibilità. Altro che normalità paraconiugale. Altro che Francesca Pascale che mette a posto la borsa della spesa e fa da buttafuori con tutto il gruppo degli ex prediletti, da Daniela Santanchè a Daniele Capezzone, da Denis Verdini a Mara Carfagna. Adesso sono solo ricordi cupi quelli che affiorano: gente che chiede, amici che tradiscono. Una cresta generalizzata. La fiera degli approfittatori e delle approfittatrici. Le elargizioni. «Silvio il Bancomat».
Tradito da Emilio Fede che consigliava a Lele Mora di chiedere, oltre agli 800 mila euro di cui aveva bisogno, anche 400 mila da attaccare all’amico, lui stesso, che si era fatto mediatore. E le ragazze intercettate al telefono, avide, senza fondo. Ingrate. Come Nicole Minetti che se la prendeva con il vecchio «culo flaccido» se i pagamenti non fossero stati cospicui e tempestivi. E poi bonifici, «prestiti infruttiferi», assegni circolari, «regali», «regalissimi», «buste chiuse» da ritirare, «un braccialetto e 2.000 euro», «son 500 euro a testa», «un diamantino piccino», anelli, bracciali, spille, orecchini, appartamenti. Tutte a lamentarsi, tutte a chiedere al Ragioniere di più, a mostrarsi insoddisfatte, a promettere sfracelli: «voglio un mutuo che è uno dei miei sogni più grandi»; «Papi è la nostra fonte di lucro»; «vado io a tirargli la statua in faccia»; «sono stata un po’ cogliona perché non ho beccato nulla». Avide, insaziabili, attentissime alle minime quantità, gelose. Oppure frequentatori avidi e scrocconi, i Tarantini, i Lavitola, i De Gregorio, affamati di denaro, pronti a svuotare la cassaforte con il consenso del legittimo proprietario sempre più frastornato. Sempre più solo. Sempre più assediato da richieste.

È quasi implorandolo che Berlusconi chiede ad Agostino Saccà, intercettato in un’inchiesta svanita nel nulla, di dire alle ragazze segnalate che lui, il Capo, si era davvero interessato: «Diglielo che te l’ho chiesto io». Oppure il partito disabituato a ogni forma di fundraising, funzionari che acchiappano, parlamentari che non pagano le loro quote, arraffatori di posti, sedie, poltrone. Berlusconi non ne può più. Non vuole più cacciare un euro per la sua Forza Italia. Se ne sta rinchiuso ad Arcore, o a palazzo Grazioli. E nessuno lo consulta. C’è la leggenda sull’immediatamente cancellato Radiobelva , il talkshow con il duo Cruciani-Parenzo che aveva indotto i vertici di Mediaset, dopo una sequenza turpiloquente da record e con scarsissima audience, a chiudere il programma. Poi, narra la leggenda, una telefonata di Berlusconi che dice di aver molto gradito il nuovo programma. La cancellazione è diventata, in modo più tenue, «sospensione». Ma la mancanza di una sintonia, l’ulteriore sintomo di una solitudine oramai quasi completa con il suo mondo, sembra la maledizione di questi mesi del Berlusconi ferito a morte.

Ora girano attorno al palazzo custodito da Francesca Pascale, che non si è staccata da Arcore sin dal 2006, falchi e colombe, questuanti e avvocati che Berlusconi stima sempre di meno, visto che non sono riusciti a tirarlo fuori dai guai, nonostante i lauti onorari. Gli chiedono udienza per far cadere il governo. Gli chiedono colloqui per non far cadere il governo. I figli percepiscono che il malumore, l’aspetto cupo del padre, sembrano aver trascinato un uomo brillante, intraprendente, sempre ricco di trovate e di risorse di buonumore, nel gorgo di un ripiegamento depressivo, come se la sentenza della Cassazione avesse lasciato balenare agli occhi del leader incontrastato il buio della fine politica, la rarefazione dei rapporti umani ridotti al minimo, la tristezza di una finta domesticità, tra giovanissime fidanzate e cagnolini pelosi da tenere in braccia mestamente per la gioia dei fotografi. Un palazzo allegro che è diventato tetro. Un uomo socievole che sta diventando misantropo. Sempre più solo, mentre da fuori, dai tribunali e dalle televisioni ostili, l’assedio sembra non finire mai.

21 ottobre 2013
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_21/solitudine-capo-cortigiani-avidi-768296e0-3a16-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Novembre 29, 2013, 06:46:32 pm »

Al diavolo il Paese

E adesso, dove vuole arrivare Forza Italia? Se ha legato a tal punto e indissolubilmente il suo futuro politico alla sorte parlamentare del leader, cos’altro dovrà essere strappato, oltre al (legittimo) formale ritiro dalla maggioranza che sostiene il governo Letta? Si sono affrettati a dire, i maggiorenti di Forza Italia, che si ritirano da tutto: anche dal tavolo delle riforme istituzionali. Resta solo la terra bruciata. Soltanto la demolizione del perimetro che dovrebbe tenere insieme forze politiche diverse, alternative e conflittuali tra loro, eppure accomunate dallo stesso destino democratico. Resta solo l’incoerenza assoluta di indicare come nemico numero uno il capo dello Stato che si è contribuito ad eleggere sette mesi fa. Che fine ha fatto il senso di responsabilità giustamente sbandierato allora dal Pdl, dopo un esito elettorale che segnava l’impotenza politica perfetta, quando l’Italia sembrava sull’orlo del default istituzionale?

Berlusconi e il suo partito hanno cercato di imporre al Pd, a Enrico Letta e allo stesso Napolitano, come condizione per consentire al governo di non morire, di sposare senza riserve mentali l’idea di una persecuzione giudiziaria del leader del centrodestra. E addirittura di adoperarsi per annullare gli effetti di una condanna definitiva. Una condizione impossibile da accettare. Senza questa condivisione, hanno però sostenuto, la democrazia italiana si sarebbe sostanzialmente svuotata. Ora, alla vigilia del voto sulla decadenza di Berlusconi, hanno scelto per coerenza con questa lettura oltranzista e radicale della parabola giudiziaria del loro leader, di lacerare tutto il tessuto che dovrebbe reggere un sistema fondato sull’alternanza. Altro che legge di Stabilità. Si mettono in una posizione anti-sistema. Hanno suonato le campane a morto per le «larghe intese», proprio mentre in Germania si stanno preparando a sostenerle in una grande coalizione. Non vogliono più contribuire alla riforma della legge elettorale e a quella delle istituzioni. Non è solo la sfiducia a un governo: è l’applicazione letterale del motto distruttivo e autolesionista «Dopo di me il diluvio». Solo che il diluvio travalica i confini di un partito e del suo leader. Da oggi la democrazia italiana vive nella tenaglia di due forze, l’altra sono i Cinque Stelle di Grillo, che rifiutano ogni collaborazione («collaborazionismo»?) con le altre forze politiche sulla base di una nozione minima di bene comune, o interesse generale. La promessa delle riforme istituzionali viene disattesa, come se la necessità di snellire e adeguare le istituzioni per garantire forza ai governi non fosse più attuale. Il senso di responsabilità si è dissolto. E ogni posizione intermedia o dialogante è stata cancellata con la separazione dai «governisti» di Alfano. Il diluvio. Sull’Italia, che non lo merita. E al diavolo il Paese.

27 novembre 2013
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_27/al-diavolo-paese-e80fbe6e-5730-11e3-901e-793b8e54c623.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Novembre 29, 2013, 06:54:15 pm »

La storia

Vent’anni dopo, una storia di amore e odio
Dal «teatrino della politica» al «ribaltone» ai «delfini» mai lanciati davvero. Tutte le mosse e le contromosse del Cavaliere
L' ultimo suo giorno da parlamentare, lui ha voluto passarlo fuori dal Parlamento. Sul palco ad arringare la sua gente. Berlusconi ha vissuto vent'anni di vita parlamentare non nutrendo grande ammirazione per un'istituzione descritta come una macchina farraginosa di lungaggini, resa viscida dalle astuzie dei mandarini e dei burocrati padroni del regolamento e dell'agguato da corridoio. Ora che non ci sta più, però, si sente defraudato. È la fine di una storia di amore e di odio. Di amore per il Parlamento espressione della sovranità del «popolo». Di odio per il Parlamento che non sa comportarsi con la prontezza e la rapidità di un'assemblea di azionisti di una grande azienda in attivo.

Berlusconi esce dal Senato, inasprito e furioso, accusando neanche tanto velatamente Giorgio Napolitano di essere stato uno dei responsabili della sua estromissione. Eppure uno dei primi gesti del Berlusconi parlamentare, nel '94, neopresidente del Consiglio di un governo formato dai partiti che avevano vinto avventurosamente, con la forza di un blitz, fu proprio un clamoroso gesto di rispetto verso Giorgio Napolitano. Ex presidente della Camera, l'ultimo della Prima Repubblica prima di lasciare lo scranno alla giovanissima leghista Irene Pivetti, Napolitano come capogruppo dell'allora Pds aveva fatto un discorso molto dialogante rispetto al nuovo governo. Il resto della sinistra ringhiava o lacrimava per l'avvento del Tiranno, del Venditore, dell'Usurpatore, del Nemico Antropologico, e invece Napolitano non disse di no alla possibilità di cooperare per l'attuazione delle «riforme costituzionali». Già da allora, vent'anni fa: la collaborazione per le «riforme costituzionali». Ma Berlusconi (il grande suggeritore era stato Giuliano Ferrara, allora ministro per i Rapporti con il Parlamento) scese dai banchi del governo, andò verso Napolitano e nello stupore generale, strinse vigorosamente la mano all'avversario (che solo per un soffio non fu indicato da Berlusconi, insieme a Mario Monti, come Commissario europeo, sostituito all'ultimo da Emma Bonino). Una promessa bipartisan che durò pochissimi giorni. La guerra civile fredda e permanente sarebbe nuovamente divampata di lì a poco, anche in Parlamento, con una virulenza inusitata.

Il Parlamento come croce e delizia del Silvio Berlusconi disavvezzo ai riti romani da lui efficacemente, e poi sempre più stucchevolmente, ribattezzati «il teatrino della politica». Fu proprio in quel teatrino che Berlusconi lanciò la sua invettiva contro il Bossi che stava apparecchiando la tavola del «ribaltone» assieme a Massimo D'Alema e Rocco Buttiglione, commensali di Gallipoli. Bossi aveva già attaccato la solfa del «Berluskaiser» e del «Berluskaz», Berlusconi, l'uomo del «mi consenta» cerimonioso e cortese, replicò in Aula sulla figura dalla «doppia e tripla» personalità dell'alleato che lo stava tradendo, malgrado la calda estate della canottiera in Sardegna. La fine del governo si era già consumata, ma Berlusconi volle «parlamentalizzarla», anche perché le telecamere erano accese sul «teatrino» allestito a Montecitorio. Sempre in Parlamento, stavolta nelle aule di una Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali (tanto per cambiare), Berlusconi mise in mostra la sua resurrezione politica dopo la batosta elettorale del '96 che aveva consegnato il Paese all'Ulivo di Prodi. Sembrava la formazione di un asse indistruttibile con D'Alema. Si favoleggiava di una creatura mostruosa che fosse l'assemblaggio dei pezzi peggiori dei due protagonisti: «Dalemoni». L'esperimento fallì, ma Berlusconi aveva cominciato a impratichirsi nelle manovre del Palazzo, nelle trappole parlamentari, nei colpi di scena in Aula.

Il pallottoliere parlamentare, per esempio, Berlusconi aveva cominciato a usarlo molto meglio dei suoi navigatissimi avversari, rotti a ogni esperienza di Palazzo, ma che nell'ottobre del 1998 sbagliarono clamorosamente i conti e permisero al centrodestra la conta all'ultimo voto per mettere in minoranza il governo di Romano Prodi. E fu sempre in Parlamento, con le due Camere riunite, che Forza Italia rientrò trionfalmente nel gioco politico, portando i suoi voti determinanti per l'elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica. Da quel momento, tra discorsi di fiducia e manovre di corridoio Berlusconi diventò uno dei protagonisti assoluti del «teatrino della politica» domiciliato presso la Camera e il Senato. In fondo, ha accettato per ben due volte di piazzare i suoi delfini alla guida di Montecitorio per sterilizzarli e tenerli in standby, Casini nel 2001 e Fini nel 2008. A conti fatti, non si è rivelato un calcolo lungimirante. Ma il Parlamento era diventato oramai un campo tra gli altri. Una divisione dei ruoli in cui a Berlusconi veniva affidata la missione del governo, mentre, nella retorica berlusconiana, il Parlamento era presentato come la grande palude in cui l'attivo operare governativo correva sempre il rischio di impantanarsi nelle lentezze esasperanti del bicameralismo, nelle strettoie regolamentari, nelle pigrizie romane, nelle geometrie delle camarille e delle correnti. Fino a che lo stesso Berlusconi non è diventato il maestro delle manovre, un imitatore così solerte delle astuzie altrui da farsene l'interprete imbattibile.

Proprio lui, che aveva denunciato l'impronta del Quirinale di Scalfaro nelle acrobazie parlamentari di Lamberto Dini. Proprio lui, che aveva marchiato con parole di fuoco il «ribaltone» con cui una parte del centrodestra aveva dato ossigeno al governo di sinistra succeduto a Prodi, proprio lui nel biennio tra il 2006 e il 2008, dall'opposizione, mise a punto le pericolosissime tecniche parlamentari per acquisire singoli deputati e senatori dalla parte avversa. Partito come il grande nemico dei ribaltoni e del rispetto dei risultati elettorali, divenne il protettore dei deputati modello Scilipoti, pronti a ogni contorsione pur di salvaguardare un equilibrio politico favorevole (e conveniente). Le ultime apparizioni di Berlusconi in Parlamento, per la verità, denunciano un uomo stanco e provato. Un volto sorridente quando fu messa a segno la rielezione di Napolitano mentre il Pd sprofondava nello psicodramma dell'impotenza. Un volto gonfio e coperto da impenetrabili occhiali neri per via di una misteriosa e invalidante uveite nell'aula del Senato, circondato dai fedeli sempre più apprensivi. Poi la clamorosa giravolta del 2 ottobre. Poi ieri, assente nel giorno dell'umiliazione e della decadenza. Via dal Parlamento, per l'ultima volta.

28 novembre 2013
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Pierluigi Battista

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« Risposta #127 inserito:: Gennaio 05, 2014, 06:05:33 pm »

Risse democratiche
Pd: il Congresso infinito e il Patto che non c’è


Nel Pd non possono pensare di fare del governo la sede rissosa di un interminabile congresso di partito. Renzi è stato plebiscitato meno di un mese fa e già sembrano realizzarsi le profezie sulla troppo problematica coabitazione tra il neosegretario del Pd e il governo di Enrico Letta. Ma le dimissioni del viceministro Stefano Fassina, protagonista del ricambio generazionale ma su posizioni di sinistra «classica» opposte a quelle di Renzi, non solo fanno spettacolarmente seguito a espressioni decisamente brusche («Fassina chi?») pronunciate dal sindaco di Firenze. Di più: trasmettono l’immagine di un rapporto ambiguo e tempestoso tra il Pd renziano e un governo che pure è presieduto dall’ex vicesegretario del partito. Una coabitazione difficile che rischia di diventare reciproca insopportazione.

Un’atmosfera di destabilizzazione permanente che sembra fatalmente replicare quel continuo sommovimento impresso da Silvio Berlusconi prima di dare sepoltura al governo delle «larghe intese». Si disse allora, e lo disse lo stesso Enrico Letta, che il governo ne sarebbe uscito più «coeso». Un’illusione. Con la decadenza da senatore di Berlusconi e l’ascesa impetuosa di Renzi alla leadership del Pd, sono saliti a tre, assieme a Beppe Grillo, i leader che stanno fuori dal Parlamento che formalmente sostiene il governo. Le «larghe intese» sono finite con la frattura tra Alfano e Berlusconi. Il capo dello Stato viene quotidianamente messo sotto pressione concentrica di berlusconiani e grillini. E oramai anche il Pd si aggiunge alla schiera delle forze politiche che puntano esplicitamente alle elezioni il più presto possibile. Il governo Letta non è affatto più «coeso», ma è il bersaglio quotidiano di agguati, attacchi, trappole che ne compromettono il cammino, esponendolo peraltro a figure non proprio commendevoli (come i giorni dell’assalto parlamentare alla legge di Stabilità) e alla tentazione dell’immobilismo come estrema difesa dello status quo.

Ma le sorti di un governo non possono dipendere dalle tempeste che scuotono il partito che oramai con maggioranza schiacciante lo sostiene. Stefano Fassina ha sbagliato ad obbedire più a logiche di posizionamento personale nel partito che allo spirito di una compagine governativa. Ma Renzi e Letta devono siglare un patto chiaro e trasparente se davvero pensano, come dicono, di non andare alle elezioni nei primi mesi di quest’anno. Un patto esplicito, fondato su punti condivisi e formulati senza tortuosità e riserve mentali, a cominciare dalla riforma della legge elettorale. Un patto in cui Letta riguadagni un rapporto politico decente con il suo partito di provenienza, e il segretario Renzi a sua volta si senta moralmente vincolato all’attuazione di un programma minimo. Se invece l’alternativa è la guerriglia quotidiana, tanto vale non dare seguito a una condotta ondivaga, incerta e tentennante che è il contrario di ciò di cui l’Italia ha bisogno. Un patto di lealtà reciproca, oppure la fine di un equivoco troppo devastante.

05 gennaio 2014
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_05/pd-congresso-infinito-patto-mancante-3f9a2b92-75db-11e3-b130-d13220de9ace.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 07, 2014, 11:30:35 pm »

CORSI E RICORSI

Da Amendola-Ingrao a Veltroni-D’Alema L’eterna sindrome del dualismo a sinistra
Con la Seconda Repubblica, e la crisi dei vecchi partiti, il dualismo diventa lo scoglio su cui si infrangono i progetti


Deve essere una maledizione. L’istinto a reiterare sempre lo stesso schema. L’ossessione del dualismo. Ora è Renzi contro Letta e il giorno dopo è Letta contro Renzi. Basta ricordare i tormentoni del passato per accorgersi che qualcosa del genere ha dominato perennemente l’immaginazione della sinistra. Talvolta in una spirale autodistruttiva. Anzi, quasi sempre. Nel Pci erano ufficialmente proibite le correnti. E la guerra interna tra le diverse «anime» (si doveva dir così, per evitare la parolaccia «corrente», contraria allo spirito e alle liturgie del centralismo democratico) si incarnavano in personalità contrapposte che, specialmente dalle tribune congressuali in cui si apprezza la bravura oratoria dei leader, dividevano emotivamente il partito: Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, per esempio, con le schiere degli «ingraiani» e degli «amendoliani». Ma poi c’era il segretario a «fare sintesi» e il dualismo si smussava, non produceva spaccature, non si ossificava in uno scontro permanente. Nella Dc invece, le correnti erano talmente forti da imprigionare i conflitti tra i «cavalli di razza». Poi, con la Seconda Repubblica e la crisi verticale dei vecchi partiti, il dualismo sembra diventare lo scoglio inamovibile su cui si infrangono progetti, speranze, buoni propositi.

Il dualismo tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema è diventato addirittura un genere letterario: su di esso sono state scritte tonnellate di articoli. Due caratteri, due personalità. Due modi di vedere contrapposti, due immagini. Niente di male, in linea assoluta. Ma quando la ferita non si rimargina mai, si rischia l’infezione. E la cronicizzazione. Lo scontro politico, culturale e caratteriale tra Veltroni e D’Alema ha poi dominato gli anni della sinistra al governo e della sinistra all’opposizione. Sembrava un duello interminabile, anche se poi gran parte dell’opinione pubblica di sinistra è diventata insofferente a un dualismo così ossessivo. Perché intanto altrui duelli, altri dualismi hanno calcato la scena dell’autolesionismo di sinistra nel corso di questi venti anni. Per esempio il dualismo tra uno dei protagonisti del duello storico, Massimo D’Alema, e Romano Prodi. Nel ‘96 il dualismo sembrava essere disciplinato e canalizzato in questo modo: a Prodi il governo, a D’Alema la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Niente, la ragionevole separazione delle carriere non funzionò. Fallita la Bicamerale, il dualismo si riaccese fino ad arrivare nel ‘98 al famoso ribaltone che portò D’Alema a Palazzo Chigi estromettendone Prodi, a sua volta in partenza per la Commissione Europea. Fu un trauma, uno strappo. E si sa poi come andò a finire: con la sconfitta storica della sinistra nel 2001.

Ma la lezione non è stata definitiva. Si decise di far confluire in un unico partito i Ds e la Margherita proprio per disinnescare il dualismo tra le due anime del centrosinistra. Ma con la nascita ufficiale del Pd, nel 2007, un inevitabile dualismo si ripropose, stavolta tra il leader del neonato Partito democratico Walter Veltroni e Romano Prodi, logorato al governo da una coalizione rissosa e senza requie. Anche lì, il risultato non fu brillante. E certamente non fu brillante il risultato conseguito da Pierluigi Bersani nelle elezioni del 2013 dopo essersi sfiancato (ormai «spompo», a detta del sindaco di Firenze) in un duello feroce con Matteo Renzi per le primarie. Oggi di nuovo una tensione palpabile quotidiana tra Renzi, che ha stravinto le primarie per la segreteria del Pd, ed Enrico Letta, che è diventato capo del governo occupando la carica di vicesegretario di quello stesso partito. Una ossessione. Una questione di istinto? L’istinto a farsi del male.

07 febbraio 2014
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_07/da-amendola-ingrao-veltroni-d-alema-l-eterna-sindrome-dualismo-sinistra-e6888af0-8fe1-11e3-b53f-05c5f8d49c92.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:50:10 pm »

Non c’È nessuna deriva autoritaria
Il complesso del tiranno

Di PIERLUIGI BATTISTA

Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa «deriva autoritaria». O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del «regime autoritario», da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali.

Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe. Ma spingere, dopo decenni di dibattiti inconcludenti, sul tasto dell’«allarme democratico» e della «Costituzione violentata» rivela l’impantanamento in uno schema mentale squisitamente conservatore che ha impedito sin qui di avviare le riforme istituzionali, di incardinarle in un progetto razionale, senza il terrore del cambiamento e la difesa cieca di un assetto immutabile.

I nostri padri costituenti avevano ragione ad avere paura. Venivano da vent’anni di dittatura. Disegnarono un sistema in cui nessuno potesse vincere mortificando le minoranze, come era accaduto con il fascismo. Avevano il «complesso del tiranno», come dicono i costituzionalisti, e crearono un edificio istituzionale dominato dalla mediazione, dal bilanciamento estremo, dall’equilibrio perfetto, dalla lunghezza dei tempi di riflessione. Ma con il passare del tempo, e mentre questo sistema di equilibri perfetti diventava l’alibi di ogni immobilismo, l’incancrenirsi del «complesso del tiranno» ha impedito la modifica, anche la più lieve, in senso «decisionista». Da notare che gli stessi costituenti avevano previsto, regolando ogni modifica del testo costituzionale con apposite procedure di garanzia, che si potesse mutare la legge fondamentale della nostra Repubblica, almeno nella sua seconda parte, «istituzionale», pur lasciando intatta la prima, quella dei principi. Ma con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale («la Costituzione più bella del mondo»), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D’Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell’altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni.

«Deriva autoritaria» è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l’idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato «stravolgere la Costituzione». Ogni riforma «un attentato alla democrazia». Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso «autoritarismo». Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza.

1 aprile 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_01/complesso-tiranno-949f1f6e-b95e-11e3-92e9-a78914a8c77a.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Aprile 10, 2014, 06:00:52 pm »

Ha portato una ventata di nuovo. Ma conserva il tipico fastidio italico per chi la pensa diversamente
Se Renzi innova anche il lessico ma è ossessionato da gufi e rosiconi
Gli attacchi (non originali) del rottamatore a «parrucconi» e «disfattisti


di Pierluigi Battista

Matteo Renzi ha il grande merito di aver portato una ventata di innovazione. Nella politica. Nello stile pubblico. Nella modernità dei riferimenti culturali. Nella composizione anagrafica del governo. Anche nel lessico. Con qualche dolorosa eccezione, però. Quando Renzi accusa i suoi critici di voler «remare contro» non sente che l’ha già detto qualcuno? Non percepisce forse il contrario dell’innovazione, un tuffo nel passato, un sapore di già detto, qualcosa che abbiamo già abbondantemente sentito in questi anni di Seconda Repubblica e anche prima, un tic mentale che identifica nel dubbioso, nel perplesso, non sia mai nell’oppositore, un sabotatore, un nemico della Patria? Il suo collega di governo Franceschini ha già riesumato la triste e bellicosa categoria del «disfattista». No, già dato. Occorre innovare di più: anche nel linguaggio.

E invece la sana spavalderia, il ritmo arrembante, l’energia che sprigiona dalla persona del giovane presidente del Consiglio ogni tanto, nella loro
Ci sarà pure la possibilità che qualche obiezione sia mossa da qualche buona intenzione e che non debba essere messa a tacere dal cerchio magico renziano precipitazione, appannano gli usi buoni del linguaggio. Come è possibile che chi, legittimamente e giustamente, chiede quali siano le coperture finanziarie per ridurre il cuneo di 80 euro a dieci milioni di italiani, venga additato al pubblico scherno come un «gufo». E chi è perplesso su questa particolare riforma del Senato deve essere per forza bollato come uno «che rema contro»? Ci sarà pure la possibilità che qualche obiezione sia mossa da qualche buona intenzione e che non debba essere messa a tacere dal cerchio magico renziano pronto a indossare i panni del neo-arditismo giovanilista: «parruccone». Oppure prevale il modo manicheo: chi è con Renzi con entusiasmo è un patriota, chi obietta è un riottoso che «gufa» contro la Nazione, deve essere per forza un frenatore, insensibile all’alacre attivismo di chi si spende con tanta generosità alla guida del governo? Occhio, perché i «regimi» (linguistici) possono cominciare anche così, malgrado le migliori intenzioni.

Renzi fa bene ad accelerare, a imprimere un ritmo che metta fine alle inconcludenze del passato, alle infinite discussioni che paralizzano ogni attività e impediscono ogni riforma. Ma farsi qualche domanda non dovrebbe essere deprecata come malsana e patologica inclinazione «antidemocratica». C’è poi l’orribile predominio di una nuova parola, un tempo adoperata nella suburra romana e oggi assurta a sublime categoria politico: «rosicone». Rosicone è chi rosica, è chi gode delle disgrazie altrui ed è corroso («roso»: rosicone) da un’insana voglia di augurarsi l’insuccesso di chi merita successo. Ecco, un fiorentino orgoglioso, perché chi parla un buon italiano dovrebbe manzonianamente immergersi nell’Arno, non dovrebbe cedere al plebeismo del «rosicone». Anche «uccellacci del malaugurio» non va bene per niente. È vecchio, non è giovanile. È superstizioso, non è moderno.

Dubitare che dalla spending review annunciata vengano tutti i denari per le misure annunciate non è augurarsi il malaugurio, è essere realisti. E se alcune cose
Dubitare che dalla spending review arrivino tutti i denari necessari per le misure annunciate non è augurarsi il malaugurio, è essere realisti annunciate non possono essere realizzate (il piano di edilizia scolastica rimandato, per esempio) non è perché qualche «gufo» l’ha tirata, ma più prosaicamente perché i soldi non bastano; lo dice la contabilità, non chi «rosica». Ecco, «rosicare» va bene per una curva, non per le opinioni politiche. Si «rosica» se la squadra odiata o temuta miete successi, non si «rosica» se si avanzano dubbi sulla fattibilità di mirabolanti progetti. Se poi si disseppellisce il luogo comune trito e consunto del «disfattismo» allora la democrazia e la pluralità di opinioni cominciano a venir percepite come un oltraggio. Un tradimento. E infatti il «disfattismo» diventa centrale nelle guerre quando la trasparenza di un dibattito libero e democratico è destinata ad appannarsi. Mentre invece Matteo Renzi vuole fare le riforme, non la guerra. Vuole realizzare programmi ambiziosi, non mettere il bavaglio (morale) a chi dissente. Anche lui è stato in minoranza e da lì ha combattuto una battaglia coraggiosa. Ora che è maggioranza non ha bisogno di umiliare le opinioni dissenzienti e concorrenti. Non sono «gufi», sono solo in cerca di risposte convincenti. Che male c’è? Domanda, non «rosicata».

10 aprile 2014 | 11:10
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_10/se-renzi-innova-anche-lessico-ma-ossessionato-gufi-rosiconi-ded59f68-c08e-11e3-95f0-42ace2f7a60f.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:51:02 pm »

La stagione dei rancori
I tormenti di Bonaiuti, l’abbandono di Dell’Utri, i casi Fitto e Scajola, la minaccia di divisione in Campania, le dichiarazioni di Francesca Pascale, il cerchio magico

Di Pierluigi Battista

Gli esponenti del centrodestra italiano hanno ragione quando dicono che troppe volte è stata prematuramente annunciata la fine politica di Berlusconi, con regolare e clamorosa smentita dei fatti. Sperano che sia così anche questa volta. Nelle stanze sature di apprensione di Forza Italia si augurano che l’emorragia di consensi sia tamponata dall’ennesima e imprevedibile trovata ad effetto del loro vulcanico leader. Sperano che sia solo un caso l’abbandono di Alfano. Un altro caso i tormenti dell’ex braccio destro Paolo Bonaiuti. Un altro caso ancora l’istinto di abbandono di Dell’Utri. Un episodio isolato la minaccia cosentiniana di secessione in Campania. Il caso Fitto. Il caso Scajola. Lo spettacolo da corte stanca offerto dalle dichiarazioni della signorina Pascale. Il caso del cerchio magico. Il caso dei sondaggi che pronosticano il precipizio. Il caso dei fuorionda in cui si descrive un leader disperato per l’abbraccio di Renzi. Tanti casi che per miracolo Berlusconi dovrebbe far sparire grazie alla sua prodigiosa capacità di recupero. Come sempre. Ma se stavolta fosse diverso?

Elettorato sconcertato e angosciato
Stavolta l’elettorato di Forza Italia è sconcertato e angosciato. L’infatuazione del leader per Renzi può essere il preludio di un esodo verso quello che in condizioni normali dovrebbe rappresentare l’avversario storico del centrodestra. Stavolta si profila un nuovo bipolarismo per le elezioni europee, come se la partita avesse per protagonisti Renzi e Beppe Grillo, con Berlusconi comprimario. Affiorano addirittura tentazioni di modifica della legge elettorale concordata perché il ballottaggio potrebbe escludere il partito di Berlusconi, terzo dietro i due contendenti maggiori: una catastrofe. La leadership berlusconiana è stanca, appannata, comprensibilmente ossessionata dallo stato d’animo cupo di un leader che non sa più trasmettere dinamismo, ottimismo, forza di volontà. Il ceto dirigente di Forza Italia è minato da contrasti personali animati da astio e rancore reciproci, ed è difficile rintracciare in quel partito le tracce di un partito, se non coeso, almeno geloso di sé e della propria identità.

Moderati
Problemi interni a Forza Italia? Non solo. Perché il mondo dei «moderati» italiani (sempre che abbia ancora senso questa locuzione) non può non avere più rappresentanza, voce, persino ambizioni di governo. E non merita di essere confinata in un recinto minoritario e marginale. Sono mesi oramai che dai vertici di Forza Italia non esce una parola che non sia sulle vicissitudini giudiziarie del suo leader o sui malumori scaturiti dal patto con Renzi per le riforme istituzionali. Non una parola che si rivolga, come è accaduto per questi vent’anni, al ceto medio, al mondo del lavoro autonomo, dei piccoli imprenditori, delle partite Iva, dei commercianti. Non una parola chiara sulle pulsioni che agitano il centrodestra in Europa e che saranno al centro dello scontro elettorale. La crisi di Forza Italia sembra oggi travolgere il suo gruppo dirigente. Che non può limitarsi a reagire affidandosi allo stellone del leader e alla sua sin qui prodigiosa forza di recupero. E che forse dovrebbe interrogarsi su se stessa anche prima dei risultati elettorali che il 25 maggio saranno attesi soprattutto per l’esito dello scontro tra Renzi e Grillo. Anche i miracoli non sono infiniti.

12 aprile 2014 | 08:27
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_aprile_12/stagione-rancori-2c66008a-c1ff-11e3-b583-724047d41596.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Aprile 15, 2014, 05:51:46 pm »

Dalle magliette a righe ai «blue bloc» La seducente estetica della rivolta
Lottano contro il dominio dell’immagine ma ne sono gli abili figli

di Pierluigi Battista

Si sono messi i giubbini blu, per il cambio di stagione della guerriglia urbana. Fino a ieri portavano il nero: i black bloc. Ma da ieri si impone il blu: i blu bloc (o anche in versione sofisticatissima: blue bloc). La violenza seducente, charmant, attraente. Dicono di ribellarsi al dominio dell’immagine, ma ne sono figli, anche molto abili. Un tempo a organizzare la piazza c’erano i servizi d’ordine. Oggi, dietro le quinte, si muove forse un team di coreografi?

L’errore di chi sottovaluta la violenza urbana è che si tratti di cose vecchie, residui di secoli passati. Sui contenuti e gli slogan, forse: fossili di epoche tramontate, cascami iper-ideologici che riaffiorano da Ere geologiche sepolte. Ma sul piano delle forme, delle mode, dell’immagine, della resa mediatica no, i guerriglieri sono modernissimi e capaci di attrarre stuoli di ammiratori. A Roma, mentre devastavano la città, sabato scorso i violenti sembravano calcare una passerella di moda. Il loro blu attirava fotografi e cameraman. Sanno benissimo che nell’epoca del telefonino di massa, le immagini della guerriglia urbana saranno riprodotte in un numero incalcolabile. E dunque bisogna sfidare l’usura del tempo, cambiare gli accostamenti cromatici, fare restyling, offrire un’estetica nuova. Curano i minimi particolari. Sul piano acustico qualcosa di molto rumoroso e scioccante: da qui l’uso dei petardi che fanno botti micidiali (e vittime tra chi li lancia, come il guerrigliero gravemente ferito a una mano). Poi molti fumogeni multicolori: fucsia, gialli, rosa, blu, verdi, in un caleidoscopio cromatico che può degnamente sostituire le fiamme provocate dalle Molotov, i blindati che prendono fuoco, le barricate fumiganti. Dicono che il «sistema» è il loro peggior nemico. Ma loro fanno parte con grande agio del sistema dei media e delle immagini. Non aspettano altro che le telecamere, per questo devono dare qualcosa di nuovo e sorprendente: tante giacca a vento blu, e il gioco è fatto.

Nella storia
L’estetica della rivolta è un fenomeno relativamente nuovo nella storia delle violenze di piazza. Nella Genova del luglio 1960, in rivolta contro il congresso del Msi allora nella maggioranza di governo con Tambroni, la scena fu presa dai ragazzi con le «magliette a righe» (o «a strisce», ci sono differenti versioni storiografiche). Fu una svolta importante nella storia italiana. Ma quelle magliette erano solo ciò che mettevano i ragazzi nel caldo estivo. E anche gli scontri, immortalati da poche macchine fotografiche, quasi mai dalle telecamere, avevano come armi ciò che si trovava sul selciato, con disordine e senza regia. L’uniforme della guerriglia urbana prende invece piede nelle manifestazioni degli anni Settanta. Lì la violenza prevedeva precise liturgie. Nelle «manifestazioni pacifiche e di massa» non c’era traccia di pose militaresche. In quelle ribattezzate «militanti», si capiva che le cose in piazza avrebbero preso una certa piega. Le prime file indossavano caschi, fazzoletti sul volto, paniere (preferibilmente borse di Tolfa) colmo dell’armamentario richiesto dalle circostanze, limoni anti-lacrimogeni compresi, allineati da nodosi bastoni appena agghindati con piccoli drappi rossi e chiamati familiarmente «Stalin». Anche allora c’era chi si sdilinquiva per i passamontagna calati, ma l’estetica della rivolta era solo agli inizi.

La violenza sexy
Quando la violenza di piazza torna, sull’onda delle proteste no-global che, da Seattle in poi, accompagnano i vertici internazionali, la società dello spettacolo ha rotto tutti gli argini. E i guerriglieri si ripresentano con nuove uniformi, tenute che fanno impazzire fotografi e telecamere, combinazioni cromatiche che affascinano i media. Ecco le tute bianche, con i loro scudi di plexiglass e i caschetti da minatore, gialli o arancione, a scelta. Ed ecco i temibili black bloc, che si muovono con seducente agilità, snelli, magri, con il nero che slancia. A Genova, quando fanno la loro apparizione e bucano lo schermo, impressionano tutti per la loro eleganza. E mentre i più robusti sfasciavano macchine, vetrine e bancomat, gli altri addirittura si disponevano in cerchio, con i tamburi a scandire ritmicamente le gesta dei teppisti che distruggevano metodicamente la città, ben lontani dalla celeberrima «zona rossa». Poi se ne andavano, gettando nei cespugli le loro magliette nere per mimetizzarsi con il corteo. Ora è l’epoca dei blu bloc, grandi venditori della loro merce nel mercato delle immagini, impresari di moda abilissimi. Attenzione a non sottovalutarli. Quando la violenza diventa sexy nascono i problemi peggiori.

14 aprile 2014 | 10:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_14/dalle-magliette-righe-blue-bloc-seducente-estetica-rivolta-7a99cd76-c3a9-11e3-a057-b6a9966718ba.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Maggio 03, 2014, 12:01:27 pm »

L’Occidente e gli orrori dei CONFLITTI
Con lo sguardo posato altrove

di Pierluigi Battista

E l’Occidente, e l’Italia, e noi, che diciamo di fronte alla spirale di orrori che stanno martoriando la Siria? Possiamo fingere, per comodità, che nulla accada. Possiamo cercare di cancellare il disgusto per le fotografie (sempre che siano vere) degli uomini trucidati e crocifissi dalla guerriglia jihadista. Oppure ignorare i massacri del regime di Assad e lo smantellamento solo parziale delle armi chimiche ancora a sua disposizione. Ma se fingiamo di non occuparcene, la realtà si accorgerà di noi, e la stazione di Milano si riempirà, come sta accadendo, di profughi siriani in fuga disperata. Pensiamo sempre che, in fondo, la campana stia suonando per qualcun altro. E invece suona anche per noi.

In Siria non sappiamo nemmeno per chi parteggiare. Siamo orripilati dalle carneficine di Assad (120.000 morti, i cittadini di Aleppo ridotti alla fame). Ma a Maalula, il cuore della presenza cristiana in Siria, i guerriglieri anti Assad si stanno macchiando di stragi terrificanti e ancor oggi tredici suore sono nelle mani dei ribelli: e questa non è una foto che potrebbe essere manipolata dalle opposte propagande. Parliamo di democrazia, però è come se l’alternativa fosse tra un dispotismo feroce ma rassicurante per gli equilibri di cui vorremmo continuare a beneficiare, e un integralismo fanatico che potrebbe portare a una tirannia ancora più mostruosa. Un’alternativa impossibile. Come al Cairo, dove i Fratelli Musulmani al potere stavano gettando l’Egitto post Mubarak nelle fauci di un oscurantismo senza speranza, e dove i militari che si sono ripresi il potere con un golpe hanno rimesso in piedi un regime oppressivo, comminando centinaia di condanne a morte, al termine di processi farsa, per l’organizzazione degli estremisti musulmani. Per chi scegliere? Come nella Libia post Gheddafi. Come in Arabia Saudita, che l’Occidente si tiene stretta per il suo ruolo «stabilizzante», ma dove le donne sono perseguitate, i cristiani condannati a morte se trovati in possesso di un rosario o di un crocefisso.

Con chi stare? Intanto, prima di trovare una risposta che non verrà mai tra le convulsioni di quelle guerre e di quel mondo squassato dai conflitti, i profughi vengono a cercare qui protezione, alimenti, sopravvivenza. Non potremo voltare la testa per molto tempo. L’Occidente non sa più che fare. Non ha più una strategia. Siamo passati dall’«ingerenza democratica» all’«indifferenza democratica».

Le poche forze democratiche che si muovono nel Medio Oriente e nel mondo islamico sono lasciate sole. L’opposizione democratica e non qaedista ad Assad è senza armi, senza voce, senza una sponda nelle cancellerie sonnecchianti dell’Europa e dell’Occidente. Anzi, l’Europa mostra in questi frangenti tutta la sua disperante inconcludenza e irrilevanza, come del resto sta capitando sul caso ucraino. Se in Iraq i cittadini si recano alle urne, anche sfidando i terroristi che odiano le elezioni, l’indifferenza è totale. Pensiamo di essere più astuti e di far passare la tempesta. Ma la tempesta non si placherà ai nostri confini. E li scavalcherà, mentre noi tenteremo di chiudere gli occhi ancora una volta di fronte a una foto di uomini crocifissi.

3 maggio 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_03/con-sguardo-posato-altrove-1f944c30-d281-11e3-8ae9-e79ccd3c38b8.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Maggio 15, 2014, 11:05:01 am »

Particelle elementari
Perché non tolleriamo il pensiero diverso
Le proteste contro Alain Finkielkraut e le chiusure verso Ayaan Hirsi Ali

Di Pierluigi Battista

L’importante è non abituarsi all’idea che siano ovvie le veementi e indignate proteste che in Francia si sono sollevate pretestuosamente per la nomina di un intellettuale raffinato come Alain Finkielkraut ad accademico di Francia. Non sono ovvie: sono un’ennesima manifestazione di insofferenza per un pensiero diverso, meno corrivo, meno propenso ad adagiarsi alle prescrizioni di chi si considera l’unico monopolista autorizzato del Bene. Come non è così scontato che a una vittima del fanatismo fondamentalista come Ayaan Hirsi Ali vengano sbarrate le porte dell’università di Boston, dove un sinedrio di insigni professori, paladini del politicamente corretto, si sono piegati al diktat degli estremisti che non volevano contaminare le aule accademiche con la ventata di libertà culturale che la Hirsi Ali avrebbe trascinato con sé. Come non è così nell’ordine naturale delle cose che Brendan Eich, manager di Mozilla Firefox, nell’avanzata e libertaria Silicon Valley, sia stato costretto a lasciare il suo importante posto di lavoro per aver offerto un contributo finanziario personale al referendum californiano contro l’istituzione dei matrimoni gay. Non è normale che, ispirato dalle buone intenzioni e al servizio di una Causa buona e giusta, si stia addensando una nuova intolleranza dal sapore maccartista verso chi è sospettato di sostenere opinioni contrarie all’ondata maggioritaria.

Non è possibile che si debba pagare per via delle opinioni liberamente espresse, anche se queste opinioni risultino irritanti, ostili al senso comune, iper-ideologiche di segno opposto. Non c’è bisogno di scomodare lo pseudo-Voltaire che sonnecchia in ogni banalissimo discorso pubblico sulla tolleranza, per capire che nel nome del Bene si possono fare disastri irrimediabili. E che non è giusto condannare al silenzio della prudenza, all’omertà del conformismo le opinioni diverse che rischiano di essere zittite dal fragore dell’indignazione a comando, dai sospetti cervellotici, dall’incapacità di capire che non solo le opinioni diverse sono le benvenute, ma che una società è più ricca, più vivace, più solida, se favorisce il libero conflitto delle idee.

E che tenere sempre all’erta l’arsenale delle solite accuse, diventare inquisitori per un giorno, accodarsi al coro delle belle anime oltraggiate dall’orco cattivo che posa dissentire favorisce la causa della stupidità collettiva, non quella del bene. E che non saper ammettere che Alain Finkielkraut ha tutti i titoli culturali e morali per meritare quel posto nella gloriosa Accademia francese chiude e soffoca il cervello in un recinto di ossessione claustrofobica, dove viene considerato pericoloso (e dunque simbolicamente da mettere al rogo) ogni sia pur lieve deragliamento dai binari prefissati da una Norma prepotentemente imposta. E che dunque questa parodia di nuova, piccola inquisizione è quasi più patetica, perché allestita per favorire le idee più nobili. Che ne vengono deturpate, irrimediabilmente.

12 maggio 2014 | 12:30
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