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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108841 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:45:14 pm »

La risalita Da fenomeno in tv ha rianimato un corpaccione stordito e frammentato

La riscossa del giaguaro e quell'umore antitasse sbeffeggiato dai «nemici»

L'antiberlusconismo miglior alleato del Cavaliere. Lo avevano dato per morto. Ora a sinistra daranno la colpa agli elettori


Altro che «la mummia», come ha commentato inorridito un giornale francese quando Berlusconi ha dichiarato di volersi ricandidare.
Il berlusconismo non era stato cancellato e sepolto. In cinque anni ha lasciato sul terreno una quindicina di punti percentuali: un'enormità.
In un Paese normale un leader che perde quasi il quindici per cento dei suffragi verrebbe considerato uno sconfitto.

Ma il mondo che ha scelto Berlusconi in tutti questi anni non è stato inghiottito dal nulla. I media non se ne sono accorti. Noi non ce ne siamo accorti. La bolla in cui vive chi fa opinione non se n'è accorta. Ma il centrodestra viveva ancora nel Paese. Devastato. Malconcio.
Ma esisteva. Con il suo linguaggio, i suoi interessi, la sua antropologia che la sinistra snob non ha mai cessato di sbeffeggiare, inanellando in consenso la più deprimente sequenza di rovesci della storia italiana.

Ne fanno una questione di stile, anzi di mancanza di stile. E sono inorriditi che un uomo che incarna così compiutamente tutto ciò che le élite considerano moralmente ed esteticamente riprovevole possa ancora avere un suo ragguardevole seguito. Ma lui parla di tasse. E loro non si accorgono che milioni di italiani si sentono vessati dalle tasse. Sorridono sulla «restituzione dell'Imu». Ma non si accorgono che l'Imu è stato un colpo durissimo in tempo di tredicesime. Lui parla di Irap e loro non si accorgono che per colpa dell'Irap piccole e piccolissime aziende chiudono e che il popolo berlusconiano non voterà mai e poi mai chi non si occupa di Irap e piuttosto si astiene, piuttosto vota Grillo, ma quelli che ignorano l'Irap mai e poi mai. Lui parla di Equitalia, e loro non se ne accorgono. Alcuni della sinistra vengono dalla cultura marxista e dovrebbero sapere che gli interessi di classe esistono. Hanno letto Gramsci e dovrebbero sapere che un "blocco sociale" è una cosa seria, coriacea, fondamentale. Berlusconi può fare tutti i disastri del mondo ma sa parlare il linguaggio degli interessi del suo "blocco sociale". E un blocco sociale non lo di distrugge con una trasmissione di satira e con le battutine oblique del Festival di Sanremo politicamente corretto.

Una parte del popolo berlusconiano se n'è andato, beninteso. Ma un'altra, quasi il trenta per cento degli elettori, non aveva alternative. Stavolta non ha votato con entusiasmo. Ha fatto come Montanelli nel '46 e ha scelto nella cabina Berlusconi turandosi il naso. Ai sondaggisti non dicevano la verità, perché dirsi elettore di Berlusconi non è segno di finezza, ti espone al ludibrio dei monopolisti del buon gusto.
Ma c'erano. E il sistema dell'informazione non se n'è accorto. Quello dei partiti tradizionali della sinistra non se n'è accorto.
Quello dei padroni dei sondaggi non se n'è accorto. E avevano dato per morto Berlusconi e il berlusconismo. Sbagliavano. E per penitenza dovrebbero andare inginocchiati sui ceci. Ma non lo faranno. E daranno la colpa all'elettorato. Ne deploreranno la rozzezza, la credulità, la volgarità, l'essenza naturaliter delinquenziale. E ancora una volta non avranno capito.

Che poi è perfettamente vero che il centrodestra versava in una crisi mortale e che Berlusconi ha dovuto fare il fenomeno in tv per rianimare un corpaccione stordito, disorientato, frammentato in agguerritissimi clan, diviso da faide intestine. Ma pensavano che quella parte che era stata maggioranza lungo tutti questi vent'anni si sarebbe dissolta senza reagire, avrebbe lasciato campo libero a chi non ha mai saputo capire ciò che avveniva nel territorio mentale del centrodestra? Davvero potevano pensare che battute sullo smacchiamento del giaguaro non avrebbero irritato, indignato, reso furibondo chi in questi anni aveva scelto Berlusconi e che quest'anno non lo avrebbe fatto più, ma poi l'ha fatto perché pur di non dargliela vinta a chi fa ironie sull'Imu e sull'Irap, sarebbe tornata di nuovo nei seggi per votare direttamente Berlusconi o qualcuno che stava nei paraggi e nell'alleanza?

E così è stato nel 2006. E così è stato anche in questi giorni. Il centrosinistra dato per vincente nel 2006 cincischiava sulla tassazione delle «rendite finanziarie» e tutti i possessori di Bot si sono spaventati. Oggi il centrosinistra ha scaraventato nel recinto infetto dell'evasione potenziale tutto l'umore antitasse. Ha sbagliato. E ha sbagliato a non considerare che Berlusconi, invece, su quel terreno non avrebbe mai sbagliato. E si leggeranno pensose analisi sui costumi degli italiani, e si almanaccherà ancora sulle due Italie, quella buona e corretta e quella brutta, sporca e cattiva. E ci si chiederà come mai, quasi all'unanimità, nessuno aveva previsto che il berlusconismo, ammaccato ed elettoralmente assai dimagrito, esisteva ancora. E che i girotondi di giubilo attorno al Quirinale quando Berlusconi si era recato da Napolitano per rassegnare le dimissioni erano una grande e sacrosanta festa, ma non la veglia funebre di un fenomeno politico molto più resistente dei nervi troppo fragili di chi aveva solo da tirare il pallone in rete e invece ha sbagliato l'occasione più facile. Perché non c'è miglior alleato di Berlusconi degli antiberlusconiani professionali. La mummia si è risvegliata. Ma per loro no, l'incubo è appena cominciato.

Pierluigi Battista

26 febbraio 2013 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-riscossa-del-giaguaro-battista_3b297940-7fdd-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #106 inserito:: Marzo 15, 2013, 11:30:01 pm »

 "La fine del giorno". Il diario di Pierluigi Battista sulla malattia e la morte della moglie

L' Huffington Post  |  Di Antonia Laterza   Pubblicato: 14/03/2013 17:53 CET  |  Aggiornato: 14/03/2013 18:56 CET


Il sesso e la malattia, il desiderio, quello di continuare a vivere, non solo più a lungo, ma più intensamente, che accomuna colui al quale è stata diagnosticata una malattia terminale e l’uomo che si trova improvvisamente a non riconoscere più il riflesso di se stesso, venato dall’ombra della vecchiaia. E l’impotenza, che porta a tratti alla disperazione, altre volte all’atarassia, in un’altalena di lotta e resa, di senso e vuoto logico. L’impotenza di chi si trova corpo a corpo con un virus invincibile, ‘inoperabile’ e quella, effettiva, anche qui medica, di chi non può più disporre della propria sessualità.



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La Fine del Giorno di Pierluigi Battista non è la descrizione del cancro, del tumore e delle sue piaghe fisiche e mentali. Non è il diario giorno per giorno degli effetti e i decorsi della malattia “immortale” come la definisce l’autore. O almeno, non innanzitutto, non solo.
E’ innanzitutto una riflessione, come potrebbe essere fatta in un lungo pomeriggio, di fronte ad un amico, come suggerisce la copertina spoglia, contemplativa. Una riflessione su due poli apparentemente opposti ma legati dalla stessa ‘ossessione’, la fine della vita.

Uno scherzo beffardo, un ‘caso’ – un caso? Forse no, perché alla fine di questo monologo ci si può riscoprire meno inclini a cercare spiegazioni razionali e illuminate e ad abbracciare un modo di pensare più ‘orientale’, come scrive Battista. Il caso fa sì che P., il protagonista, si ritrovi scaraventato da un giorno all’altro in un mondo di medicine, flaconi, testi oncologici e cedimento del corpo, tramite la diagnosi di tumore della moglie, Silvia, proprio quando lui è prossimo ad iniziare uno studio sulla vecchiaia e la libido. La vecchiaia che, a un tratto, percepisce seguirlo come un’ombra e quella negata alla compagna.

Solo adesso, giunto oltre la soglia dei 50 anni, P. riesce a rileggere in una luce diversa i suoi autori preferiti: Coetzee, Amis, Mann, Svevo, ma soprattutto Philip Roth, di cui La Fine del Giorno è costellato come da grandi statue di saggi, lungo un viale di cemento. I vecchi, una volta perversi, che attentavano mentalmente e carnalmente alle giovani protagoniste dei romanzi, alle volte accondiscendenti e perfino manipolatrici, cambiano luce per rivelarsi a P., non senza dubbi e sensi di colpa, degli uomini impauriti ma anche coraggiosi perché decisi a non arrendersi alla mollezza delle membra, il retrocedere della chioma e, più di tutto, l’addio al piacere del letto.

Il tutto per merito di una magica pillolina blu, che ha risolto il dilemma di generazioni ritrovatesi con quasi metà della vita davanti, ma senza la possibilità di attingere alla linfa vitale, ciò che ha reso gli anni passati “pieni” e non solo lunghi. Il Viagra, la miracolosa cura, che spinge questi uomini dalla ritrovata libido ad affannarsi per preparare il fisico, con creme e bisturi, ad altri anni di ‘vera vita’, quella che “non c’è domani” perché il tempo non esiste. La sola verita eternità possibile, quella della giovinezza, ignara della sua stessa fine.

P., che ha una passione per la storia, ci conduce in lunghe digressioni, quasi fossero flussi di coscienza, sui pregressi di questo fenomeno, nel cinema, nella letteratura e in vite passate. Ma è oggi che la smania di giovinezza è tale da far perdere la testa, contemporaneamente, a tanti personaggi pubblici - DSK, Petraeus, Berlusconi, per nominare i più noti - e dunque da imporre , si giustifica P. , uno studio sulla faccenda. Il sesso che può lì dove la medicina non riesce, la passione che riesuma, riaccende fino a incatenare la ragione al volere della gioventù, ambita ed amata, e a ribaltare i ruoli.

E quasi ci si è scordati del dramma che continua in sordina ma è per poco, perché i due temi sono indissolubilmente intrecciati in questo paradosso, per tutto il libro. La malattia viene osservata attraverso il suo riflesso negli occhi di P., senza che assuma mai tinte troppo intime o sconvolgenti per il lettore, ma come in un sogno, un incubo ovattato, quello in cui si viene gettati come per effetto di un’anestesia totale, quando ci viene annunciato qualcosa di più grande di noi. L’autore ci descrive senza cercare la nostra compassione, il girotondo di emozioni che si innescano, senza linearità: la rabbia contro i medici, le teorie complottistiche su una presunta cura contro il cancro, conosciuta da tempo ma tenuta sigillata in qualche scantinato, per proteggere case e casse farmaceutiche. La smania della conoscenza di tutto ciò che riguarda il cancro, per sentirsi più padroni, meno impotenti. La ricerca della normalità, nelle ‘piccole cose’, e allo stesso tempo il disgusto per i luoghi comuni dispensati da amici e conoscenti.

Si finisce di ascoltare l’ultima parola e se ne rimane a lungo storditi dall’eco. Un libro che ne nasconde al suo interno tanti altri, quello vagheggiato sulla vecchiaia e il desiderio, quello della malattia vera e propria, quello del passato di una famiglia di cui si tinteggiano solo degli angolini e quello della vita di un uomo che va avanti, nonostante tutto. La Fine del giorno ci fa riflettere senza rendercene conto su alcuni dei quesiti più viscerali che affannano l’essere umano da quando ha cominciato a riflettere sulla propria esistenza. Sul rapporto, complementare ma al contempo irrimediabilmente antagonista, fra mente e corpo. Sulla vita e la passione, che si direbbe coincidere per definizione con l’istante, ma sempre più possiamo stimolare a comando. E su cosa vuol dire questo per le categorie stesse di giovinezza e vecchiaia. Sul desiderio dell’uomo di domare la natura, di domare il caso, senza però esserci mai davvero riuscito.

Alla fine sì, nelle ultime pagine, ci vengono esposti i sentimenti nudi, il dolore in tutta la sua incommensurabilità e incontenibilità, senza rimedio, senza spiegazione. Si può solo assorbire, come un colpo che ci assale nel dormiveglia. Solo allora l’autore ci permette, di partecipare della sua sofferenza, come in un abbraccio, di iscriverla in una condizione universale e allo stesso tempo di immedesimarci in quella particolare storia, fatta soprattutto di un grande amore, e di una vita che silenziosa scivola via per lasciare il posto ad una sedia vuota, come l’Adirondack rossa.


LA FINE DEL GIORNO, PIERLUIGI BATTISTA
RIZZOLI
pp. 180 - 11.99 euro

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/03/14/la-fine-del-giorno-il-diario-di-pierluigi-battista-sulla-malattia-e-la-morte-della-moglie_n_2876359.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 23, 2013, 05:50:50 pm »

Ineleggibilità

L'avversario politico cancellato per legge


Reclamare oggi l'ineleggibilità di un cittadino di nome Silvio Berlusconi, già eletto nel Parlamento italiano per ben sei volte dal '94 ad oggi, può apparire un esercizio surreale. Il passato non può essere smontato a piacimento e la realtà non può essere piegata ai propri desideri. Oggi scenderanno in piazza per chiedere a una legge di controversa interpretazione di operare come fa la magia nei racconti per l'infanzia: far sparire d'incanto i cattivi, abolire la realtà dolorosa con appositi rituali.

In termini più adulti, cancellare d'imperio il nemico politico dichiarandolo inesistente. Una scorciatoia puerile, ma anche la premessa di un micidiale errore politico. Perché l'invocazione dell'ineleggibilità di Berlusconi non è solo riesumata da una frangia di oltranzisti dediti alla sistematica delegittimazione politica e persino etica di chi viene dipinto da decenni come l'incarnazione del Male. No, stavolta trova ascolto anche tra gli esponenti di un Pd ancora traumatizzato dalla travolgente avanzata grillina, e che tenta di ritrovare in un più pugnace intransigentismo antiberlusconiano la consolazione di un'identità antagonista oramai appannata. Berlusconi era dato per finito prima delle elezioni. Ma le cose sono andate diversamente, e allora si richiede la sua fine per via legale. Si dirà: sia pur tardiva, la riscoperta di una legge del '57 (quando la tv commerciale era ancora fantascienza) è pur sempre un doveroso atto di omaggio al principio di legalità e le leggi devono essere applicate.

Ma la sua applicabilità al caso di Berlusconi non è così incontrovertibile, come sostengono illustri giuristi e costituzionalisti certamente non sospettabili di debolezze filoberlusconiane, e come dimostrano ben tre voti parlamentari, due all'interno di legislature a maggioranza di centrodestra, ma una a maggioranza di centrosinistra. Del resto, la stessa recriminazione molto frequente nella sinistra di non aver saputo o potuto varare una legge sul conflitto di interessi dimostra che, da sola, quella norma del '57 non è così chiara. E allora, che senso ha riesumarla oggi? E quali pericoli può procurare alla politica italiana, la riscoperta di un provvedimento inevitabilmente destinato a scatenare la rivolta dell'elettorato di centrodestra?

Il perché è contenuto nell'eterna tentazione di imboccare la scorciatoia della legge per non dover ammettere i propri errori e le proprie clamorose manchevolezze. Spingere in modo compulsivo sul tasto dell'ineleggibilità rafforza l'impressione che le sconfitte politiche ed elettorali di questi ultimi vent'anni siano il frutto di un inganno e che il consenso incassato in modo così massiccio e reiterato da Berlusconi sia dovuto alla posizione dominante del leader di centrodestra nel possesso delle reti televisive. Sarebbe sciocco negare il peso della tv nell'orientamento delle scelte elettorali. Inoltre non si può negare che una democrazia liberale viva di contrappesi, di pluralità, di forze non smisuratamente diseguali in termini di potenza comunicativa e di ricchezza. Ma il possesso berlusconiano delle tv è anche stato il più potente alibi autoconsolatorio e autoassolutorio per le ripetute sconfitte della sinistra in ben sei tornate elettorali, lungo l'intero arco temporale della Seconda Repubblica. Berlusconi vince perché è il padrone dell'etere: ecco il grande autoinganno dei perdenti nel corso di vent'anni. Non ci sono meriti e demeriti, colpe e responsabilità. C'è solo l'autovittimizzazione, molto simile a quella dei tifosi di una squadra sconfitta che si sentono vittime di un sopruso arbitrale.

Ma la politica non è una partita di calcio giocata sugli «episodi», come si dice in gergo. E oggi ancora una volta la tentazione della scorciatoia legale e giudiziaria tradisce il desiderio di chiudere con il «berlusconismo» non per effetto di una chiara vittoria politica, ma per vie più sbrigative. Da qui anche una certa venefica impazienza che circola nelle file del Pd e che ha spinto un esponente del partito autorevole come Migliavacca a giocare nientemeno con l'ipotesi di un «arresto» di Berlusconi peraltro smentito dagli stessi inquirenti che hanno messo sulla graticola il leader del centrodestra. Ecco perché imboccare la via estremista della richiesta perentoria dell'«ineleggibilità» di Berlusconi, proprio alla vigilia di consultazioni delicatissime per la formazione del nuovo governo, sembra più un esorcismo che una razionale scelta politica. Un errore grave. E anche un sintomo di regressione culturale.

Pierluigi Battista

23 marzo 2013 | 10:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_23/avversario-politico-cancellato-per-legge-battista_f2119bea-9380-11e2-8b46-37cbdff83c98.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Marzo 27, 2013, 06:40:17 pm »

Nuova politica

Al vertice come al Grande Fratello

Se la trasparenza uccide la trattativa

Con lo «streaming» il confronto diventa fiction, per poi parlarsi davvero di nascosto


Il nuovo feticcio della mitologia politica odierna: lo streaming. Il simbolo della trasparenza assoluta. Lo strumento magico che distrugge ogni opacità. Ora questo prodigio della tecnica che trascina discorsi estatici sulla nuova democrazia web, entra nella rete polverosa delle consultazioni per la formazione del nuovo governo. Lo porteranno quelli del Movimento 5 Stelle nel colloquio con Bersani. Ci sarà la recita. Sarà pura fiction. Ma quanto ci si sentirà confortati dalle meraviglie della democrazia integrale, del mondo interamente trasparente, senza segreti, senza ombre, tutto solare, tutto illuminato, tutto in diretta?

Un'illusione. Ma illudersi un po' può sempre massaggiare l'anima. L'unica volta che davvero avremmo tanto voluto seguire in streaming una riunione grillina è stata quando i neo-senatori dovevano decidere se votare Pietro Grasso alla presidenza oppure no. Lì però, niente trasparenza: solo oscurità, urlacci percepiti nei corridoi, divisioni nascoste alla grande platea democratica. Ma che senso ha lo streaming sulle consultazioni di governo? È ovvio che lì non si diranno le cose vere. Si eserciterà l'arte dell'autocontrollo, oppure si diranno cose molto pesanti, spettacolarmente molto pesanti, perché tutto il mondo sappia che si sono dette le cose molto pesanti. Perché se la trasparenza, la pubblicità totale di colloqui che richiedono un ineliminabile margine di ragionevole riservatezza provocherà un nuovo livello ancora più segreto. E che si fa, lo streaming su ogni conversazione privata. Dovremmo avere lo streaming di ogni telefonata tra Bersani e Renzi? Non può esserci nessun margine di riserbo per trattative normali, ma che non possono essere rappresentate in diretta tv o web pena la loro totale nullità o irrilevanza.

Un bene? Un male? Ma nella storia i momenti più delicati, che hanno prodotto anche i migliori risultati, non sono stati trafitti dalle luci abbaglianti dello streaming. Quando Clinton chiamò Arafat e Rabin per far parlare tra di loro due nemici irriducibili, non c'era uno streaming che avrebbe reso le trattative preparatorie a quello storico incontro semplicemente impossibili. Ci sono riunioni che non devono essere necessariamente pubbliche. Se i nostri Padri costituenti avessero discusso in streaming sulla Costituzione che stavano preparando, probabilmente non avrebbero discusso in totale libertà. La trasparenza è un valore quando non ci devono essere ombre sui bilanci pubblici, quando i rappresentanti discutono di problemi che sono strettamente legati alla vita dei cittadini.

È bene che in Parlamento tutto sia limpido, e nelle assemblee locali. Ma la vita delle istituzioni, come quelle di tutti noi, non è una sequenza del Truman Show, non è un provino del Grande Fratello per fare qualunque cosa sotto l'occhio indagatore del pubblico pagante. La trasparenza non è un invito al voyeurismo. E la riservatezza non è necessariamente un disvalore. Non perché, come recita la vulgata neo-roussoiana della democrazia diretta e senza nemmeno l'ombra di una mediazione, ci sia necessariamente qualcosa di losco o di poco raccomandabile «da nascondere», ma perché la trasparenza totale e senza residui contiene paradossalmente un'idea autoritaria della vita e della politica. Il massimo della democrazia diretta, come insegna la degenerazione giacobina della Rivoluzione francese, può trasformarsi nel massimo della coercizione. L'idea che ogni frammento dell'esistenza sia sottoposta al costante scrutinio dell'opinione pubblica è anche alla base del Panopticon descritto da Jeremy Bentham, in cui da un'unica autorità installata al centro si può controllare ogni singolo fiato emesso dai cittadini. Winston Smith, il protagonista di «1984» di Orwell si nascondeva persino dentro casa non perché avesse qualcosa di osceno da «nascondere», ma perché si sentiva soffocare da un'autorità che controllava ovunque ogni suo singolo movimento. Se avessero già inventato lo streaming a quel tempo, l'immaginazione anti-totalitaria di Orwell ne avrebbe tratto spunto come strumento di controllo e di oppressione.

Sono solo «consultazioni», certo. Ma è altrettanto certo che Bersani e i grillini in diretta streaming non si diranno la verità, ma reciteranno una fiction in cui si racconta di due soggetti che fanno finta di dire la verità. Per poi parlarsi di nascosto, sperando che il Truman Show non arrivi anche lì. Senza il mito della democrazia diretta potranno anche essere sinceri. E dialogare sul serio. Ma i cantori della trasparenza assoluta ogni dialogo lo chiamano «inciucio».

Pierluigi Battista

27 marzo 2013 | 11:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_27/battista-al-vertice-come-al-grande-fratello_b1807690-96c9-11e2-b7d6-c608a71e3eb8.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Marzo 29, 2013, 12:04:40 pm »

L'EDITORIALE

Il Paese in ostaggio

Se ci si impicca a un coacervo di formule astruse e i destini di una Nazione finiscono per essere appesi alla sottile distinzione lessicale tra «non risolutivo» e «rinuncia», allora vuol dire che l'Italia sta correndo un rischio davvero troppo elevato. Ci si smarrisce nel labirinto delle ostinazioni, dei veti, delle fumisterie gergali, ma ancora non sappiamo, dopo il difficile colloquio tra il presidente Napolitano e il leader del Pd Bersani, se riusciremo ad avere in tempi ragionevoli un governo, e con quali forze, e in nome di quali priorità, mentre l'economia e la società ristagnano e il pericolo di un nostro crollo di credibilità europea e internazionale si fa sempre più minacciosa.

La speranza era lo smantellamento delle barricate, l'uscita dalle trincee in cui il Pd e il Pdl si stavano di nuovo inabissando. La speranza di un nuovo inizio in cui si sarebbe, sia pur tardivamente, esaurito il corteggiamento (non la comprensione, che è un'altra cosa) del mondo grillino. La speranza di un'intesa su pochi punti ma essenziali per dar vita a un governo capace di mettere a segno un risultato che desse al Paese una guida, dopo settimane di paralisi. Ma questo soprassalto di responsabilità nazionale, invocato in modo esplicito dal capo dello Stato, richiederebbe, da parte di tutti i contendenti, un almeno parziale raffreddamento del furore di parte. La presa d'atto che nel pareggio assoluto nessuno può rivendicare una supremazia politica negata dalle urne, dettare condizioni capestro, chiudere le porte del dialogo, lanciarsi messaggi di guerra totale in vista dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Ieri, però, il presidente incaricato Bersani non ha voluto inaugurare il primo tempo di una nuova fase politica ma ha voluto aggrapparsi all'ultimo respiro di una fase politica che si stava chiudendo per la manifesta impossibilità di ottenere una maggioranza. Solo che, affidando allo stesso capo dello Stato un supplemento di consultazioni e la missione di rimuovere le «preclusioni» che gli hanno impedito di raggiungere l'obiettivo, Bersani ha inevitabilmente inferto un colpo alla propria immagine rischiando così di uscire, nella migliore delle ipotesi, come un premier dimezzato o comunque «commissariato».

Non è dato sapere a chi convenga una tale caparbia volontà di non prendere atto degli ostacoli insormontabili che impediscono a Bersani di raggiungere Palazzo Chigi. Sicuramente non conviene all'Italia. E forse nemmeno allo stesso Pd. Le prossime ore ci diranno se le ultime resistenze saranno smussate e se si potrà dar vita a un «governo del presidente». Sta alle principali forze politiche scegliere se impegnarsi in un'impresa difficilissima, oppure rituffarsi in una nuova campagna elettorale e spezzare l'ultimo filo che impedisca alla nuova legislatura di morire in fasce. Se seguire le indicazioni di saggezza del capo dello Stato o giocare la carta della contrapposizione assoluta. Se scegliere la responsabilità o l'ignoto.

Pierluigi Battista

29 marzo 2013 | 9:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_29/il-paese-in-ostaggio-pierluigi-battista_85fa6fa2-9832-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Aprile 14, 2013, 07:22:44 pm »

PAROLE E POLITICA

Barca e l'attacco al «catoblepismo» : scalderà i militanti del Pd?

Dal comizio alla severa lezione accademica Barca contesta «l'élite estrattiva» e auspica lo «sperimentalismo democratico»


Quelli che conoscono la materia dell'economia e della finanza dicono che sì, il «catoblepismo» evocato da Fabrizio Barca nel suo manifesto di insediamento per la leadership del Pd indica un problema sentito nella comunità scientifica. Ora si tratta di scaldare anche i cuori democratici nella tempesta post elettorale. Ma intanto Barca ha sfoderato tutte le arti del suo lessico didattico. Ascoltandolo non sembra di stare a un comizio di partito, ma a una severa lezione accademica. O forse no, il parlar difficile in politica non è sempre il tratto distintivo degli intellettuali che amano il linguaggio gelido e astruso della cattedra. Massimo Cacciari, per dire, è capace di separare di netto i due ambiti disciplinari. Quando parla e scrive di filosofia non si risparmia vertiginose allusioni al gergo contorto del profondismo metafisico (sempre con il trattino: l'«Ur-pflanze goethiana»; «la vita-per-la-morte di Heidegger»), ma quando entra nell'agone politico è di una chiarezza cristallina, una perfetta incarnazione del polemista senza diplomazie lessicali. Oppure, al contrario, il parlar difficile di Nichi Vendola è un'ipnosi della «narrazione» che si tiene rigorosamente su un piano di incomprensibilità («a Nichi, ma che stai a dì», come recita l'irriverente titolo di una rubrica ad hoc del Foglio ) ma malgrado tutto trascina nell'avventura, allarga gli orizzonti, ti scaraventa in un nebbioso futuro. Il «manifesto» con cui si è presentato Barca, e che ieri ha scatenato il solito iconoclastico cinguettio nel fatato mondo di Twitter , è invece sia l'espressione di un tecnico a lungo immerso, e con brillanti successi, nella scienza dell'economia, sia l'espressione di un'antica passione ideologica che mette in stretta sintonia il Barca fervente militante giovanile del Pci e il Barca ministro del governo Monti per la «coesione territoriale».

Una creatura linguistica molto complessa in cui il «catoblepismo» è solo una parte, e forse nemmeno la più impervia. Nella «forma partito» e nel «partito palestra» resuscitate da Fabrizio Barca si sente di più il lascito delle militanze di un tempo, in cui un certo dottrinarismo si accoppia a una notevole passione per la teoria pura. L'«élite estrattiva», ecco, questa è effettivamente di più faticosa decodificazione. L'«Addendum» finale, invece, non è il solito latinorum di memoria manzoniana, ma è un cedimento alle abitudini del saggio accademico (sarebbe una postilla. O un post scriptum, però più elaborato). Il «telaio sociale» è espressione mutuata da una certa fantasia sociologica, che forse può risultare di difficile comprensione per l'eventuale giovane del Pd che volesse aggiornarsi sul programma del nuovo leader, ma che pure contiene una sua potenza vendolianamente narrativa. Importante, perché ripetutamente citato nel «manifesto», l'indicazione di Barca dello «sperimentalismo democratico», che dovrebbe essere una terza possibilità (una «terza via», per restare nell'ideologismo più consueto) tra due modelli di partito ambedue insoddisfacenti. Poi c'è la «procedura deliberativa», che il militante del Pd deve saper riconoscere come la forma democratica del partito, ma anche, sembra di capire, del tipo di Stato che rifiuta di essere ridotto ai compiti assegnatigli dall'ideologia «minimalista» frequentemente attaccata da Barca in luogo di «liberista» o addirittura «liberale».

Un certo scalpore l'aveva fatto già nei giorni scorsi l'obiettivo che Fabrizio Barca aveva indicato come compito del Pd in cui si accingerebbe, sia pur da poco tesserato, a competere con Matteo Renzi per la leadership: quello della «mobilitazione cognitiva». Un certo scalpore e anche una certa costernazione per chi voleva fossero indicati obiettivi più chiari e comunque espressi con parole di immediata comprensione. Ma adesso si aggiungono anche un problematico «monitoraggio in itinere» e anche una molto impegnativa «disintermediazione». Parole difficili che però, a meno che non si voglia scadere nel più vieto anti intellettualismo, possono anche rappresentare nuove mete per un partito frastornato e ancora scosso dal non smagliante risultato elettorale. E che ha bisogno di una forte mobilitazione. Morale, ma anche cognitiva.
p.s. Catoblepismo - da catoblepa, secondo la Treccani leggendario quadrupede africano, con il capo pesante sempre abbassato verso terra - dovrebbe significare la perversa alleanza tra banche e affari denunciata da Raffaele Mattioli.

Pierluigi Battista

13 aprile 2013 | 7:59
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_13/barca-militanti_8a0ae55e-a3fe-11e2-9657-b933186d88da.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Aprile 20, 2013, 12:16:21 pm »

Prodi e il «suo» Ulivo

Torna la maledizione del pallottoliere

Anche per le votazioni del presidente della Repubblica il professore fa i conti con i numeri


Il pallottoliere stavolta no, in viaggio dal Mali Romano Prodi non se l'era procurato. Quello strumento per far di numero è infatti il simbolo dell'episodio parlamentare che ha condensato in modo crudele il legame conflittuale tra il mondo del centrosinistra e il suo leader nel corso della Seconda Repubblica. Quel pallottoliere che nel novembre del '98 dimostrò quanto il cerchio magico prodiano avesse fatto male i conti. I voti della fiducia in Parlamento mancarono all'ultimo. Finiva il primo governo Prodi dopo due anni di perigliosa navigazione. Bertinotti se ne andava. Si preparava il governo D'Alema. Ma non sarebbe stata l'ultima, gigantesca amarezza aritmetica che Prodi ha dovuto subire da quelli che avrebbe dovuto essere, ieri come quindici anni fa, suoi fedeli supporters.

Prodi e il suo Ulivo. Prodi e la sua Unione. Prodi e il suo Pd. Ma il suo Ulivo, la sua Unione, il suo Pd l'hanno sempre vissuto come un corpo estraneo. C'erano gli ex comunisti, divisi anche loro da avversioni inscalfibili, ma che comunque sentivano il calore di una comunità, di un lessico, di un'iconografia, insomma di una storia. Poi c'erano gli ex democristiani, poi Popolari, anche loro con le stesse consuetudini. A rigore Romano Prodi non poteva non essere considerato anche lui come un ex democristiano. Ma fu catapultato sul centrosinistra ancora frastornato dal trionfo di Berlusconi, chiamato da Beniamino Andreatta, per fare il federatore, l'esterno che avrebbe messo insieme i tasselli del mosaico. Questo ruolo non poteva essere incarnato da un ex comunista, perché a pochi anni dal crollo del muro di Berlino era inimmaginabile che una figura così, un figlio di Botteghe Oscure, potesse conquistare la maggioranza "silenziosa", l'elettorato moderato, instabile, oscillante, incerto ad ogni elezione se scegliere la destra o la sinistra. Ma non poteva essere incarnato nemmeno da un ex dc, perché la disfatta di Tangentopoli era ancora troppo angosciosa, il partito si era frantumato, il suo popolo disperso. Il salvatore, esterno, poteva essere solo lui, Romano Prodi.

Prodi che aveva l'antiberlusconismo nel suo Dna culturale. Aveva fatto il ministro di Andreotti, ma come capo dell'Iri, il primo dei boiardi di Stato, uno dei protagonisti del cenacolo intellettuale bolognese del Mulino in cui prendeva forma il cattolicesimo democratico con una forte propensione ad interloquire con il mondo del Pci, non poteva che nutrire un'ostilità antropologica assoluta nei confronti del craxismo prima e soprattutto del berlusconismo: il mondo scollacciato e sgangherato della tv commerciale, la volgarità, l'economia del self made man e non quella da insegnare nelle aule universitarie e nei consessi internazionali che contano. Prodi salvò il centrosinistra dal dominio berlusconiano. Ma è sempre stato vissuto con una punta di rancore, in modo sordamente ostile. C'erano i "prodiani", ma si sentivano circondati dal gelo degli orfani dei grandi partiti. Coltivavano relazioni economiche di altissimo livello, ma non avevano, come si dice, "radicamento". Servivano per vincere le elezioni. Ma dopo un po' dovevano farsi da parte.

E mentre gli ultrà del prodismo come Arturo Parisi teorizzavano addirittura lo scioglimento dei partiti, l'Ulivo stentava a trasformarsi da cartelle elettorale a partito, inevitabilmente guidato da Romano Prodi. Nel '98 il ribaltone fu un colpo brutale, un assalto finale alla diligenza condotta da Prodi. Il quale, da quel momento, coverà propositi immarcescibili di vendetta, specialmente con Massimo D'Alema, ma anche con Franco Marini (suo predecessore nell'impallinamento rituale di questi giorni) e persino con Walter Veltroni, reo, a suo parere, di non aver contrastato con sufficiente forza il disegno di D'Alema a Palazzo Chigi e lo stesso Veltroni alla guida dei Ds. «No, noooooo», gridava infuriato Prodi dal palco all'indomani del giorno del pallottoliere, con Veltroni alle sue spalle, a chi gli chiedeva un gesto distensivo nei confronti dei congiurati. D'Alema fu poi il più fervente architetto della nomina di Prodi alla guida dell'Ue, e i soliti maliziosi interpretarono tanta generosità come un modo dalemiano furbo di spedire l'ex leader dell'Ulivo lontano da Roma, di neutralizzarne gli impulsi vendicativi.

Storia finita, sembrava. Sembrava e basta. Perché al termine del quinquennio berlusconiano, periodo nel quale i due partiti pilastri della coalizione hanno perso molto tempo prima di decidersi a una formale unificazione, Prodi fu nuovamente chiamato a contrastare il nemico, stavolta descritto dai fallaci sondaggi come un cadavere politico. Di nuovo. Con un'unica differenza: che l'Ulivo era stato ribattezzato Unione, per includervi, imprigionandolo in un gigantesco carcere cartaceo detto anche "Programma", quel Bertinotti che già si era defilato nel 1998 provocando la caduta di Prodi. Un'Unione in cui ci stava dentro di tutto, dall'ala trotskista di Rifondazione comunista all'ipermoderatismo di Lamberto Dini e di Clemente Mastella. Vennero fatte anche delle primarie, per rafforzare la leadership prodiana nel popolo di centrosinistra. Si dimostrò però che Berlusconi non era affatto un cadavere politico, avvicinandosi al multiforme schieramento prodiano di poche migliaia di voti. E si dimostrò che il governo Prodi non avrebbe avuto vita facile, con un margine risicatissimo e con i senatori a vita a far da guardiani a Palazzo Madama. Ribattezzarono quell'esperienza «un Vietnam», per dare l'idea dell'idillio. Fecero anche il Partito democratico con Veltroni leader. Ma a quel punto anche il secondo governo Prodi era agli sgoccioli, e non tutti nel centrosinistra si strapparono le vesti per quell'ennesima dipartita. Sembrava finita. Per Prodi si erano schiuse le porte di impegni internazionali di alto livello, con missioni africane sotto l'egida dell'Onu e per lezioni di economia nella Cina capital-comunista. Fino alla crudeltà dell'ultima chiamata finita ieri in una disfatta immeritata da un uomo che comunque aveva portato il centrosinistra due volte nelle competizioni elettorali con Berlusconi. L'ultimo oltraggio che il suo mondo gli ha voluto infliggere. L'ultimo atto di una storia di amore e odio (molto più odio che amore).

Pierluigi Battista

20 aprile 2013 | 9:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/20-aprile-romano-ulivo-storia-di-poco-amore-odio-battista_e372f956-a985-11e2-8070-0e94b2f2d724.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:08:02 pm »

Ultima chiamata

L'indicazione di Enrico Letta come possibile nuovo presidente del Consiglio sancisce il carattere politico, non «tecnico» o minimalista del governo che si sta formando per impulso del Quirinale. L'interminabile vacanza di una campagna elettorale rissosa, inconcludente, vuota, incapace di scegliere, potrebbe finalmente concludersi. Abbiamo trascorso mesi da incubo: mentre la politica era prigioniera della sua immobilità, immersa nei suoi temporeggiamenti puerili, la società italiana retrocedeva ogni giorno. La crisi non ha perso tempo, i partiti ne hanno perso sin troppo. Chi nel Pd voleva nascondersi dietro l'indistinto di un governo «tecnico» solo per fingere di aver imparato la brusca lezione impartita da Giorgio Napolitano davanti alle Camere, sarà costretto a ricredersi perché un governo affidato al suo vicesegretario non è un esecutivo incolore cui concedere un credito «obtorto collo». E nel Pdl dovranno dimostrare che la disponibilità a un governo di larghe intese non era solo una trovata propagandistica per mettere in difficoltà un avversario frastornato e drammaticamente diviso al proprio interno, ma un impegno vero, costante nel tempo e non vulnerabile alle incostanze degli umori e dei malumori.

I due partiti maggiori che si accingono a formare un governo presieduto da Letta stanno compiendo un atto coraggioso. Sanno di avere a che fare con l'ansia dei rispettivi elettorati, che vivono talvolta con comprensibile dolore la coabitazione governativa con avversari lontani e ostili. Sanno che per loro questa è l'ultima chiamata. Sanno che non possono fallire. Sanno che dovranno pagare un conto salatissimo, se in tempi brevissimi non sapranno fronteggiare gli effetti di una crisi economica devastante, liberare l'economia italiana dalla morsa di un Fisco insopportabilmente esoso, tutelare con maggior vigore le fasce più deboli della società. Sanno che stavolta nessuno li perdonerà o avrà per loro indulgenza se il Parlamento non avvierà sul serio e nei tempi costituzionalmente più brevi la riforma delle istituzioni, e non solo la legge elettorale da tutti vilipesa ma che nessuno è stato in grado di modificare in un anno e passa di sconcertante paralisi. Sanno che si giocheranno ogni residuo credito se non abbatteranno i costi della politica, dall'abolizione non più rimandabile delle Province fino al drastico ridimensionamento del finanziamento ai partiti. Sanno che non ci saranno tempi supplementari: o si dimostreranno seri, oppure il verdetto dell'opinione pubblica sarà stavolta implacabile.

Per questo il coinvolgimento non svogliato dei partiti, a cominciare da quello del premier Letta, figura interamente politica, può essere un vantaggio e non una pillola amara da ingoiare recalcitranti e malmostosi. Può offrire una motivazione in più a fare le cose urgenti e indispensabili, con convinzione e senza paralizzanti riserve mentali. Un governo vero, dove si vince o si perde. Tutti, senza distinzioni.

Pierluigi Battista

25 aprile 2013 | 9:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_25/ultima-chiamata-pierluigi-battista_9b759642-ad61-11e2-9202-c83d8fd61b81.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Maggio 21, 2013, 04:59:19 pm »

La scelta del sindaco il 26 e il 27 maggio

Elezioni un po' spente di una Roma disincantata

Pochi giorni al voto che deciderà il nuovo sindaco della Capitale, ma la città è delusa e disincantata

Di PIERLUIGI BATTISTA

In una grande e vasta metropoli come Roma è difficile per un aspirante sindaco segnalare la sua stessa presenza alla vasta cittadinanza indaffarata o indifferente. Le tv locali hanno un bacino d'ascolto molto circoscritto, quasi catacombale. Le radio della città sono un'infinità e raggiungono un pubblico molto spezzettato, assatanato dalla campagna acquisti della Roma e della Lazio.

Un pubblico poco versato nella decifrazione degli immensi problemi che angustiano la città. I manifesti costano e qui, come altrove, circolano pochi euro, anche se adesso va di moda inondare taxi, bus e tram con la propaganda di partito. E i 19 candidati girano come trottole sperando di intercettare un timido frammento di attenzione pubblica. Solo che se parli a Primavalle, davanti a una dozzina di avventori, a Torpignattara, all'altro capo della città, nessuno di accorge di te. Almeno, una volta, c'erano i partiti a presidiare il territorio, anzi «i territori» come si dice ora in gergo. Ma ora la parola «partito» fa scappare la gente: e i candidati devono pure mimetizzarsi.

Mancano pochi giorni, alle elezioni che decideranno del nuovo governo del Campidoglio, ma l'atmosfera non sprizza energia e passione. La città è indolente, si sa. E ora è anche delusa e disincantata. I quattro candidati più accreditati sono ovviamente: Gianni Alemanno, sindaco uscente del centrodestra; Ignazio Marino, candidato del Pd dopo elezioni primarie che hanno scombussolato la vita del partito già piagato dalle vicissitudini nazionali; Marcello De Vito, del Movimento 5 Stelle, nominato sul web con una platea elettorale molto più esigua di quella del Pd; e Alfio Marchini, indipendente, mediaticamente la star di questa campagna elettorale. Poi c'è la pletora delle candidature che aspirano a un buon piazzamento (e a un po' di tonificante visibilità).

C'è un folto gruppo che si colloca all'estrema destra (da CasaPound a Forza Nuova a Militia Christi). C'è un candidato noto per le sue stravaganti, e costose, trovate auto promozionali, Alfonso Luigi Marra, che vanta tra i suoi sostenitori liste come «Dimezziamo lo stipendio ai politici» e «Fronte giustizialista». C'è un candidato che grosso modo gravita attorno al mondo che un tempo si aggregava in Rifondazione comunista, che gode dell'appoggio di una «Lista pirata» e che propone che Roma si rifiuti di pagare i debiti e violi il soffocante «patto di Stabilità». Ma qui si gioca sugli zero virgola. I magnifici quattro, invece, giocano su percentuali molto più elevate, quelle necessarie per il ballottaggio.

La città segue pigramente una campagna elettorale abbastanza opaca e spenta, se si eccettuano risvegli momentanei nell'esercizio che alla classe politica italiana viene decisamente meglio: la rissa da talk show. Roma è soffocata, sporca, ingabbiata in un traffico infernale. Un giorno sì e uno no la metropolitana non funziona. Quella ancora da costruire è un cantiere che il romano cinico già vive come un incubo che non finirà mai e di fronte al quale bisognerà adattarsi, L'Ama, la municipalizzata che si occupa della pulizia delle strade, si è fatta conoscere per una Parentopoli che certo non ha portato prestigio alla giunta Alemanno e i suoi camioncini attraversano la città per svuotare i cassonetti all'ora di punta, vicoli del centro compreso: si può immaginare con quanto entusiasmo dei romani bloccati. Dei nuovi filobus pagati con un conto molto salato non si ha notizia. Recentemente ha chiuso il servizio dei battelli sul Tevere, per via dei detriti che rendono il fiume impraticabile ed è di questi giorni la notizia che sta smettendo di funzionare l'impianto di depurazione del fiume.

Ma nella campagna elettorale questi temi sono lasciati sullo sfondo, pure sono manipolati in modo strumentale senza che nessuno dica in modo chiaro, circostanziato e credibile quante risorse serviranno, e come saranno reperite, e come si assicureranno appalti trasparenti, e chi controllerà che i lavori saranno svolti bene, con accuratezza, nei tempi stabiliti, nel rispetto della cittadinanza non trattata come un gregge, come «traffico» con cui ingolfare irrimediabilmente la città.

I candidati maggiori preferiscono tenersi sul vago e, come si dice, buttarla in politica. Gianni Alemanno, che i sondaggi danno in ripresa dopo i tonfi degli ultimi anni, deve spiegare credibilmente perché tutto quello che propone per il prossimo quinquennio non è stato fatto nei cinque anni precedenti. La sua è una battaglia per la vita, perché una sconfitta lo declasserebbe di molto nella nomenclatura che si riconosce nel Pdl. Il sindaco uscente è molto nervoso, reagisce come davanti a un'offesa a chi gli contesta le manchevolezze della sua gestione del Campidoglio, ma spera in un buon piazzamento per il ballottaggio che è una strana creatura della psicologia collettiva, come si dimostrò proprio a Roma nel 2008, a scapito del superfavorito Francesco Rutelli.

Poi c'è Ignazio Marino, che ha vinto con ampio margine le primarie, ma opera con il Pd romano sull'orlo dell'autodissoluzione. Finora lui ha evitato di farsi sommergere dall'apparato del partito, ma una campagna elettorale molto scialba ha consigliato al candidato di non apparirgli troppo estraneo.

Alfio Marchini, un cuore rosso come simbolo della sua lista, di una famiglia di costruttori romani da sempre vicina al Pci e alla sinistra, «buca il video» e sui social network si è scatenata, sotto la dicitura «Arfio», la corsa alla presa in giro bonaria del candidato molto danaroso. Un finto annuncio fra tutti: «Rinuncio allo stipendio di sindaco, perché troppi spicci in tasca mi danno fastidio». Il suo destino è di pescare in un'area di consenso trasversale.

Come il candidato di Grillo, De Vito, sempre chino sui suoi appunti anche quando deve dire «votatemi». Ora il Pd cerca di riprendersi la piazza San Giovanni «occupata» da Grillo prima delle ultime elezioni, mentre Alemanno sfida le ire della Soprintendenza proponendo il palco elettorale nei pressi del Colosseo. La battaglia dei simboli prima di quella dei voti veri. Per i candidati e i loro partiti una boccata d'ossigeno, o la fine di molte ambizioni politiche.

Pierluigi Battista

21 maggio 2013 | 10:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_maggio_21/elezioni-un-po-spente-di-una-Roma-disincantata-battista-2221243114090.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Maggio 25, 2013, 11:36:19 pm »

 M5s, Pierluigi Battista giornalista del Corriere della Sera attaccato dai grillini: "È solo un maggiordomo"

Pubblicato: 25/05/2013 13:26 CEST  |  Aggiornato: 25/05/2013 15:04 CEST


"Come si può in questo Paese davvero credere nella professionalità e nell'imparzialità dei giornalisti se a due giorni dalle elezioni un noto editorialista del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, scrive menzogne sapendo probabilmente di mentire". L'attacco arriva direttamente dal blog di Beppe Grillo, è firmato dai gruppi di Camera e Senato del Movimento Cinque stelle.

L'editorialista del Corsera viene pubblicamente accusato di aver riempito il suo ultimo articolo (dal titolo "Nebbia dietro la liturgia dello scontrino") solo di falsità, scrivendo che il Movimento si sarebbe interessato solo di rendicontazione delle spese e non di temi reali che interessano al paese, non mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale.

"Ma davvero - scrive Battista - il Movimento 5 Stelle crede di star offrendo uno spettacolo di efficienza e operosità parlamentare a chi sperava che la "società civile" avrebbe avuto finalmente voce dentro le istituzioni?".

"Non fanno che parlare di «streaming - continua Battista - stanno sempre a discutere sul blog della casa, si controllano l'un l'altro con uno zelo sconosciuto persino nei vecchi partiti centralizzati, istruiscono processi a chi ha osato recarsi a una trasmissione tv sgradita al Capo, usano in forme maniacali la parola «rendicontazione»: non che la rendicontazione non sia importante ma non può nemmeno essere il principio e la fine di ogni interesse".

Sul blog la risposta piccata dei grillini, il vero interrogativo ora è: criticare legittimamente significa essere maggiordomi di qualcuno?
Di sicuro Battista sarà da oggi senza alcun dubbio inserito nella quella black list dei giornalisti sgraditi.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/05/25/m5s-pier-luigi-battista-attaccato-dai-grillini_n_3335365.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #115 inserito:: Maggio 25, 2013, 11:37:27 pm »

 M5s, intervista Pierluigi Battista:"Attaccano chi sei e non cosa dici, anche le Brigate Rosse ci definivano pennivendoli"

Di Andrea Punzo Pubblicato: 25/05/2013 15:00 CEST  |  Aggiornato: 25/05/2013 16:16 CEST


"Il più classico degli schemi: attaccano la persona non il merito delle cose" Pierluigi Battista non si scompone, agli insulti che ha ricevuto in queste ore dal blog di Grillo sembra non voler dare troppa importanza: "Di certo - racconta all'Huffpost - la mia professionalità non viene intaccata dal giudizio di un Vito Crimi o di una Roberta Lombardi, loro che passano un intero giorno a discutere se cacciare o no un loro senatore (Marino Mastrangeli) perché ha partecipato a un programma televisivo invece di occuparsi di problemi seri, ma per favore".

Ancor meno l'editorialista del Corsera si scompone di fronte all'appellativo 'maggiordomo': "che poi - dice - è come dire servo del potere. Negli anni '70 le Brigate Rosse ci definivano pennivendoli".

A riceve insulti è abituato dunque, forse ora in tempi di socialità e condivisione sulla rete l'unico vero problema è far fronte alla quantità: "Su Twitter in queste ore me ne hanno dette di tutti i colori: "Venduto, leccaculo, lecchino, mercenario di merda, pagato da noi e così via, in fondo anche in questo caso lo schema è sempre quello: Grillo dice una cosa e i grillini - perché checche se ne dica questo sono discepoli di un capo - lo ripetono nello stesso modo e nelle stesse forme".

"Che sia chiaro io non nego il confronto, chiunque può criticare liberamente il lavoro mio e dei mie colleghi, ci mancherebbe. Io non sono per le cose ecumenche classiche, però con loro il conflitto non è più sul merito delle cose. Insultano la persona, la umiliano. Prendete il caso della Gabanelli, prima votata come candidata alla presidenza della Repubblica e poi insultata e definita una traditrice per un servizio in cui raccontava alcune contraddizioni sul movimento",

Alla domanda se risponderà nel merito delle accuse, risponde così: "E perché mai, oggi come tutti gli altri giorni tornerò a fare il mio lavoro, scriverò un articolo da giornalista libero in un giornale libero".

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/05/25/intervista-battista_n_3335528.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #116 inserito:: Maggio 28, 2013, 05:04:25 pm »

Amministrative 2013 / I personaggi

Dalle piazze deserte alle urne vuote

Ridono il chirurgo e il «ruspante» Marchini

Lo sberleffo degli elettori colpisce anche il centrodestra e non premia Grillo

diPIERLUIGI BATTISTA


ROMA - Con la metà degli elettori romani che sono rimasti senza fiducia a casa, il sindaco uscente di Roma, Gianni Alemanno, con il suo 30 per cento è stato scelto da circa il 15 per cento (un cittadino su sei) degli aventi diritto al voto: il minimo storico da quando esiste l'elezione diretta dei sindaci. Potrà tentare la rimonta clamorosa al secondo turno, ma il segnale di scoramento dei romani nei confronti di chi è stato a capo del Campidoglio negli ultimi cinque anni è evidente e incancellabile. Alemanno, tra i candidati di Roma, è quello che stasera non potrà mai sorridere.

E non potrà sorridere nemmeno Beppe Grillo. L'onda astensionista ha travolto anche lui. Il re dell'antipolitica non viene più riconosciuto come il portabandiera della protesta e dell'ostilità nei confronti delle nefandezze e degli sperperi della politica. Il non voto appare una protesta ancora più forte, la diserzione delle urne uno sberleffo di gran lunga più sferzante del voto a Grillo. Anche in Sicilia, in realtà, era accaduto qualcosa del genere. Ma il voto romano viene dopo il trionfo grillino nelle elezioni politiche. Il 12 e rotti per cento al candidato De Vito riflette ancora una sacca di consenso irriducibile, un po' come l'inscalfibile fedeltà che una minoranza di elettori francesi tributa a Le Pen, ma comunque tradisce un esaurimento, un senso di stanchezza della cavalcata del 5 Stelle, determinato un po' dal comportamento sin qui seguito dal movimento nelle turbolenze parlamentari, un po' dall'oramai patologica capacità italiana di bruciare in tempi rapidissimi ogni novità.

Ride Alfio Marchini, il cui irriverente fake "Arfio" ha contribuito a dare una popolarità insperata a un outsider che, all'inizio della sua avventura di candidato, sembrava non poter aspirare che a percentuali ridottissime. E invece la sua efficacia mediatica, il disincanto verso gli apparati tradizionali dei partiti, e una certa immagine un po' stralunata veicolata da un nomignolo, "Arfio", che ne ha sottolineato il carattere romanescamente ruspante, hanno permesso a Marchini addirittura di contendere il terzo posto al molto più onnipresente Beppe Grillo. Ora Marchini sarà oggetto della corte molto insincera dei due candidati al ballottaggio, ma l'elettorato che gli ha dato fiducia in un mare di astensioni non è certamente un esercito così disciplinato e così politicamente e socialmente omogeneo da garantire l'ascolto granitico di eventuali endorsement marchiniani.

Non ride certo Silvio Berlusconi. Stavolta è accaduto il contrario nella differenza tra i sondaggi della vigilia e i voti effettivamente conquistati: oggi i risultati sono molto inferiori rispetto alle previsioni. Non dicevano tutti che la tempesta che stava annichilendo l'avversario del Pd avrebbe clamorosamente favorito Berlusconi? E invece anche l'elettorato di centrodestra, già massicciamente in fuga nelle elezioni dello scorso febbraio (quasi il 16 per cento in meno rispetto al 2008), non sembra riconquistato dalla "responsabile" scelta governativa del suo leader. Berlusconi era davvero affranto e sconcertato quando, venerdì scorso, la piazza antistante il Colosseo accolse il candidato Alemanno e il leader incontrastato del Pdl con i vuoti desolanti di una manifestazione numericamente fallita. Ma ha pensato a un incidente di percorso, a un disguido tecnico-organizzativo. Sbagliando. Perché la crisi del radicamento del centrodestra a Roma sta diventando cronica. Con l'aggravante che ancora una volta il Pdl si dimostra incapace di affrontare una sfida elettorale impegnativa senza un'immediata identificazione con la figura del leader. Un'incapacità che il carosello elettorale dello scorso febbraio ha parzialmente occultato, anche grazie allo psicodramma che ha funestato il Pd bersaniano, ma che è destinata a ripresentarsi quando l'esigenza di un ricambio, la necessità di un centrodestra senza Berlusconi, diventeranno scadenze improrogabili.

Sorride Ignazio Marino. Per diventare sindaco di Roma ha bisogno tra due settimane di conquistare un altro 10 per cento. E vale per lui lo stesso calcolo proposto per Alemanno quando un elettore su due ha deciso di non recarsi alle urne: il suo 40 per cento e passa diventa il 20 per cento e passa degli aventi diritti al voto. Eppure Marino può fregiarsi del titolo di (provvisorio) salvatore della patria di marca Pd. Un partito che sembrava allo sbando, con l'apparato romano sull'orlo della disintegrazione, spaccato da primarie al veleno, è comunque riuscito a rintuzzare l'impetuosa avanzata grillina e ad aggregarsi attorno a un candidato considerato non fortissimo e non proprio popolare. L'astensionismo ha colpito duramente anche il mondo dei Democratici, ma il partito con Marino ha evitato l'effetto squagliamento. Risultato che certo non dispiacerà al premier Enrico Letta. Il chiasso del dissenso, il fragore di «Occupy Pd», sembravano aver inchiodato il governo di coabitazione tra Pd e Pdl in una condizione difficile, come se un vento di rivolta potesse squassare il partito di cui Letta è stato fino a poco più di un mese fa. Ma la rivolta non ha sgretolato il Pd e soprattutto non ha premiato il movimento di Grillo, che anzi oggi appare ancora più in crisi del suo competitore Democratico.

Letta non sorride, ma tira legittimamente dal voto romano un sospiro di sollievo. Berlusconi non può più cantare facilmente vittoria, il candidato Alemanno è il più colpito dalla delusione di una città sempre più esausta e scettica. Il Partito democratico può pretendere ancora di giocare un ruolo, malgrado l'uragano che lo sta spezzando e che certo non sarà placato dalla precaria leadership di Guglielmo Epifani. Nella lotteria romana sorride il candidato Pd e l'outsider "Arfio" a cui adesso imploreranno i voti. Ma il ballottaggio è una creatura bizzosa. Per due settimane i competitori dovranno cercare di domarla.

Pierluigi Battista

28 maggio 2013 | 10:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/politica/speciali/2013/elezioni-comune-roma/notizie/28dalle-piazze-deserte-alle-urne-vuote-2221364370870.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:32:34 pm »

IL COMMENTO

Nessuno parli di «calo fisiologico»

Il crollo dell'affluenza ai ballottaggi e le responsabilità dei partiti

Non è un calo, è un crollo. Nemmeno lo spirito municipale appassiona e porta i cittadini a votare.

È il disincanto. Non una fatalità, ma un «no» secco e clamoroso.


Dicono: anche in altre nazioni democratiche, Stati Uniti in testa, le percentuali di voto sono basse, anzi ancora più basse di quelle, bassissime, riscontrate in questa tornata di ballottaggi. Già, ma prima non era così. E quindi va spiegato perché le cose sono cambiate tanto rapidamente, in misura così massiccia, con una scelta tanto corale e inequivocabile. Si dice anche che chi si astiene e non va a votare, si rannicchia nella non-scelta. E se fosse invece la scelta di non dover scegliere in un'alternativa improponibile, in un dilemma impresentabile, in un dualismo non all'altezza?

La città, poi, non è il Parlamento lontano e inaccessibile. Non è la Regione o la Provincia, che sono costruzioni fredde, frutto di un'ingegneria politico-geografica che non affonda le sua radici nel vissuto storico dei cittadini. La città è il luogo dell'orgoglio e della partecipazione. Il municipio è una bandiera, è il cemento che raccoglie i problemi sentiti come vitali e prioritari da milioni di persone. Se un mare di indifferenza travolge i municipi, è come se un pezzo importante del senso di una comunità venisse meno.

I partiti useranno il loro linguaggio legnoso per cercare di arginare la loro catastrofe, a prescindere dai vincitori delle singole competizioni: parleranno di calo «fisiologico», discetteranno sulla freddezza del secondo turno che mortifica il voto identitario. Ma non dicono che la fisiologia è sempre stata fisiologia, ma che in queste dimensioni diventa patologia. Che più della metà degli aventi diritto al voto si dichiari indifferente a chi sarà il proprio sindaco testimonia di un distacco inimmaginabile fino a pochissimi anni fa. Troveranno rifugio dietro le formule complicate delle leggi elettorali. Ma gli italiani vanno sempre meno a votare, con qualsiasi legge elettorale. I partiti faranno finta di niente, ma la prossima volta sarà ancora peggio. Si ritroveranno sempre più soli e più «delegittimati», con una democrazia sfibrata e stanca. Quando se ne accorgeranno?

Pierluigi Battista

10 giugno 2013 | 11:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_10/i-partiti-non-parlino_032758c2-d187-11e2-810b-ca5258e522ba.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Giugno 26, 2013, 12:14:15 am »

I dubbi, le conseguenze

Le sentenze si rispettano, ma si possono commentare e criticare, come in ogni nazione libera. Negarlo è ipocrita.
Come lo sarebbe negare che una condanna rigidissima, addirittura superiore alle pur severe richieste dell'accusa, possa evitare conseguenze politiche se ad essere considerato il vertice di una ramificata banda dedita a reati moralmente spregevoli è il capo di uno schieramento che compartecipa in modo determinante al governo del Paese. I risvolti giuridici sono discussi nelle aule del tribunale. Ma i media internazionali non si sarebbero mobilitati così massicciamente se si fosse concluso in primo grado un processo come un altro. E se non fossero stati convinti che la sentenza di ieri avrebbe ipotecato il futuro politico di questo Paese.

Dopo la sentenza di ieri, durissima, che si abbatte come uno schianto su Silvio Berlusconi e sul suo partito, il futuro politico del Paese non è tra i più leggiadri. E la spaccatura che da vent'anni spezza in due l'opinione pubblica italiana è ancora più profonda e irriducibile. Da ieri si sentiranno più forti quelli che, su un fronte, considerano il nemico Berlusconi come una figura losca da gettare nel precipizio della vergogna e della non rispettabilità e, sull'altro, quelli che difendono in trincea Berlusconi come vittima di un accanimento politico-giudiziario senza precedenti, molto prossimo alla persecuzione.

Da ieri saranno più baldanzosi i demolitori professionali della «retorica della pacificazione», i nostalgici di un ventennio in cui lo scontro tra politica e magistratura è stato rovente e senza mediazioni, i cantori di una «guerra civile fredda» o «a bassa intensità» che hanno trovato nella demonizzazione o nella santificazione di Berlusconi l'unico parametro dei loro giudizi politici. Da ieri è più debole il governo presieduto da Enrico Letta, anche se non saranno risparmiati gli appelli a tenerlo fuori dalla contesa, a separarne il destino da quello (dicono, anche qui non senza ipocrisia, «personale») di Berlusconi. Dopo la richiesta di condanna di Ilda Boccassini, una manifestazione a Brescia del Pdl fece sfiorare la rottura tra Alfano e Letta nel pulmino che li portava nel «ritiro spirituale» dell'abbazia di Sarteano.

Dopo la sentenza a sette anni di Berlusconi (solo un anno meno di Misseri ad Avetrana e uno più di Scattone e Ferraro condannati come gli assassini di Marta Russo, si twitta sui social network), come si può immaginare che le tensioni tra il Pdl e il Pd non siano destinate ad incattivirsi? Occorrerà molto spirito ascetico per non farsi trascinare nel gorgo di una polemica che rischia di diventare autodistruttiva nell'ambito di una strana e mal sopportata coabitazione di maggioranza. A rigor di forma, una sentenza di primo grado non si carica di conseguenze pratiche per chi è condannato.

Ma una sentenza così aspra, da rispettare certo e da non liquidare sbrigativamente come una «sentenza politica», mette in discussione la stessa legittimità morale del capo di un partito. Viene quasi rimproverata l'accusa di aver indicato un reato meno grave di quello sulla base del quale Berlusconi è stato condannato. E si intima perentoriamente di riconsiderare la posizione di tutti quelli che hanno testimoniato senza indicare in Berlusconi il «male assoluto», come a individuare una rete di complicità omertosa che esclude il carattere esclusivamente «personale» dello stesso Berlusconi, additato invece come il capo di una banda dedita alla prostituzione guidata dal presidente del Consiglio dell'epoca. Ci vuole autocontrollo e senso di responsabilità per non trascinare il governo nella spirale della divisione. Da ieri tutto sarà più difficile.

PIERLUIGI BATTISTA

25 giugno 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_25/dubbi-le-conseguenze-battista_df01e6e2-dd57-11e2-a264-78b7af641acd.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:52:52 pm »

LETTA AL MEETING

I professionisti dell'identità


Al Meeting di Rimini Enrico Letta sapeva che, rivendicando il valore dell'«incontro» tra forze politiche diverse e che vogliono mantenere inalterate le loro «differenze», si sarebbe esposto alla logora, ma sempre vigorosamente intimidatoria, accusa di «inciucismo». Ma non ha voluto arretrare da una convinzione che ribadisce da quando è diventato capo di questo governo: il sano conflitto politico non viene necessariamente mortificato se partiti tra loro alternativi, vincolati a un mandato preciso e consapevoli della drammaticità di uno «stato di eccezione», decidono di formare un governo chiamato a realizzare pochi punti, ma decisivi. E le forze politiche non possono rovesciare sul «loro» governo ogni malumore, ogni debolezza, ogni idiosincrasia.

Il guaio è che sia il Pd che il Pdl stentano a riconoscere, senza remore e paralizzanti riserve mentali, nel governo Letta il «loro» governo. Se ne sentono ostaggi e vorrebbero tenerlo come ostaggio impotente in balia della loro volubile umoralità. Il Pdl, ferito fino allo sbandamento dopo la condanna del leader in Cassazione, sembra esigere dal governo (a giorni alterni, sinora) un salvacondotto impossibile, un atto di sottomissione con cui il Pd e Palazzo Chigi si dovrebbero accodare alla campagna contro la magistratura acutizzatasi all'indomani di una sentenza definitiva: un'assurdità infantile, prima ancora che un ricatto politico destinato, nella migliore delle ipotesi e comunque senza arrivare allo strappo definitivo, a rendere tumultuosa la vita di un governo vulnerabilissimo.

Il Pd cerca di scaricare sulla stabilità del governo un'interminabile guerriglia interna che rende del tutto irrilevante il fatto che al capo del governo ci sia un esponente storico del loro partito, addirittura vice segretario fino al giorno della chiamata del Quirinale. Ambedue, il Pdl e il Pd, sembrano vivere l'esecutivo cui hanno dato la fiducia come una camicia di forza, una prigione soffocante, un obbligo di coabitazione che non prevede bussole comuni, punti di incontro, provvedimenti circoscritti ma efficaci per far uscire l'Italia dalla crisi in cui è drammaticamente sprofondata.

Ma il messaggio di Letta si propone di mettere un argine a un primitivismo culturale che, da sinistra come da destra, liquida e squalifica come «inciucio» ogni accordo, come capitolazione ogni punto di intesa, come annebbiamento di un'identità pura e incontaminata ogni provvedimento macchiato da un peccato originale. Il messaggio di Letta, semplicemente, è in controtendenza con tutto ciò che ha avvelenato la vita politica di decenni di bipolarismo primitivo e muscolare. Non dominata da nobili passioni e contrapposizioni, come amano ridipingerlo i suoi aedi terrorizzati come guerrieri rissosi da quella che definiscono sprezzantemente «retorica della pacificazione».

Ma da un'incoercibile pulsione alla reciproca dannazione, da una voglia, sconosciuta in ogni altra matura democrazia dell'alternanza, di annientamento dell'avversario politico ridotto e caricaturizzato come Nemico assoluto. Dopo il risultato elettorale di parità perfetta, dopo la plateale prova di inettitudine politica per la (mancata) elezione di un nuovo presidente della Repubblica, dopo la strigliata di Giorgio Napolitano che ha sferzato nel suo discorso di reinsediamento l'inconcludenza verbosa dei partiti, i rinfocolatori di una guerra distruttiva e autodistruttiva, i custodi del dogma «anti-inciucista», hanno vissuto la nascita del nuovo governo come un obbligo da adempiere obtorto collo , senza convinzione, sempre con la tentazione di staccare la spina se gli interessi dei rispettivi partiti dovessero richiederlo.

Senza mai chiedersi se non convenga procedere rapidamente sulla realizzazione di un programma di governo, per non aggiungere fallimento a fallimento, per non dare un'ulteriore e stavolta definitiva dimostrazione dell'incapacità della politica di scegliere, di governare. Senza mai chiedersi perché un periodo limitato di «grande coalizione» ha portato in Germania a risultati significativi e duraturi. Senza chiedersi se la fine di questo governo non porti a una crisi drammatica della nostra democrazia. Non con le identità incontaminate, come pensano i rinfocolatori, ma con identità devastate.

19 agosto 2013 | 8:05
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_19/20130819NAZ27_444_3da6cfca-0894-11e3-abfd-c7cdb640a6bb.shtml
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