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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108673 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Luglio 04, 2010, 09:25:20 am »

Il bivio del premier


La debolezza del governo non è il frutto di un complotto o di un disegno finalizzato a scalzare Silvio Berlusconi. La sindrome dell’assedio è molto diffusa nel mondo più vicino al premier, ma indica un nemico immaginario per impedirsi di guardare la realtà. La realtà di una leadership palesemente in difficoltà. Con un Pdl lacerato, come si è visto plasticamente nel duello tra Gianfranco Fini e Sandro Bondi. Con la Lega che per la prima volta, conseguenza avvelenata del caso Brancher, sembra smentire l’infrangibile solidità dell’asse d’acciaio tra Bossi e Berlusconi. Con le Regioni del centrodestra in rivolta. Con la conduzione caotica e frenetica del ddl sulle intercettazioni. Non è un complotto: è la fotografia di una coalizione confusa e nevrotizzata.

Il malumore per le recenti osservazioni del Quirinale sui «punti critici» della legge della discordia ne è solo un sintomo, come pure lo sconsiderato attacco dell’onorevole Ghedini al capo dello Stato. Così come è evidente l’oscillare del premier tra due strade contrastanti per affrontare il dissenso oramai sempre più marcato di Fini: una conciliazione oppure il redde rationem, fino alla prevedibile scissione in un partito nato soltanto poco più di un anno fa. Che poi è lo specchio di un dilemma più profondo: sopravvivere per tre anni in uno stato di permanente conflittualità nella maggioranza oppure giocare la carta delle elezioni anticipate, in cerca di un plebiscito ancora più imponente di quello incassato nel 2008. I due dilemmi non sono identici, ma convergenti: se Berlusconi vorrà sfidare Fini sino alle estreme conseguenze, sarà difficile scommettere sulla stabilità di questo governo (e della stessa legislatura).

Ma se Berlusconi fosse tentato dalla via dello scontro, sarebbe costretto a spiegare agli italiani che gli hanno dato fiducia cosa non ha funzionato. Cosa gli ha impedito di governare con una certa stabilità avendo dalla sua numeri parlamentari mai goduti da nessun'altra maggioranza. Avendo un'opposizione debole e scoraggiata. Godendo dell'iniziale non ostilità di una parte importante del mondo economico, industriale, sindacale, culturale e persino di una parte della magistratura poco incline alle parole d'ordine dell'estremismo giudiziario.

Cosa non ha funzionato? Davvero, come ha raccontato Gian Antonio Stella su questo giornale, è tutta colpa di un presunto lavorio dei «poteri forti»? Davvero è colpa del presunto ostruzionismo protagonistico di Fini? La determinazione con cui questo governo ha saputo affrontare la crisi economica e finanziaria e alcune riforme importanti come il federalismo e l’università dimostra che, senza scuse e accuse di complotti, le cose positive sono alla sua portata. Ma dimostra anche che, anziché la linea dello scontro e della rottura, il bandolo della leadership può essere riafferrato affrontando le riforme liberali promesse oramai da più legislature. Con la prova dei fatti e non degli annunci. Dipende solo da loro.

Pierluigi Battista

03 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_03/bivio-premier-editoriale-battista_36159dee-8661-11df-8332-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Luglio 26, 2010, 11:12:51 pm »

Dissenso e Provibiri

Stupisce che un partito che porta la «libertà » nel suo nome si esprima con tanta disinvoltura con il linguaggio dell’espulsione, della radiazione, dell’epurazione. Il partito che caccia via chi dissente è leninista, non liberale. E la non sopportazione della diversità bollata come minaccia e sabotaggio della «giusta linea», è un pezzo del ventesimo secolo che si perpetua in quello nuovo. È la malattia delle oligarchie e delle burocrazie di partito. Una malattia, come usa dire, trasversale: che in questi giorni a sinistra invoca l’abiura di Umberto Veronesi e, a destra, la messa al bando del «finiano» Fabio Granata. Quello di Granata è un delitto di lesa maestà. Meglio: è un delitto d’opinione. Come tutte le opinioni, anche quella di Granata, per definizione, è controversa, discutibile, per di più non immune, a parere di chi scrive, da un certo morbo giustizialista che evidentemente in Italia alligna in tutti gli schieramenti. Ma è un’opinione liberamente espressa. E le opinioni liberamente espresse non dovrebbero ammettere il deferimento ai probiviri del partito, come invece si è imperiosamente intimato nei vertici del Pdl. Semmai i probiviri dovrebbero muoversi in presenza di comportamenti che possano confliggere con i princìpi dell’etica pubblica e con il rifiuto della commistione tra politica e affari. Ma il Pdl è, giustamente, un partito garantista. Non emette condanne sommarie per quegli esponenti del partito, da Cosentino a Verdini, coinvolti in un affaire di cui è difficilissimo scorgere un profilo penale e che comunque godono del diritto costituzionalmente tutelato alla presunzione d’innocenza. Suona perciò bizzarro e incoerente che al posto della prudenza sui comportamenti subentri l’intransigenza, la severità e finanche l’intolleranza quando si ha a che fare con le parole, i giudizi, le opinioni che in ogni partito democratico, a meno che non sia una setta chiusa e soffocante, dovrebbero avere libera circolazione. Nei panni di Berlusconi, leader carismatico e indiscusso del Pdl, ci si dovrebbe preoccupare più degli esercizi di dossieraggio slealmente praticati all’interno del partito per squalificare il rivale o il concorrente (caso Campania) che delle parole, anche ingenerose, manifestate da uno dei suoi dirigenti in odor di eresia. Prevale invece l’allarme per un dissenso dipinto come un complotto e dunque da amputare con ogni mezzo disciplinare. Si alimenta la tentazione della resa dei conti contro i «guastatori» di Fini. Ci si comporta come una fortezza assediata dove il nemico più insidioso è quello «interno », additato come il principale responsabile delle difficoltà in cui versa il partito (e il governo). La sindrome dell’accerchiamento trascina sempre con sé l’invocazione del giro di vite, l’illusione che una stretta repressiva abbia un valore pedagogico e scongiuri la diffusione del dissenso. Ma è il frutto di un accecamento. L’attesa di una scorciatoia nasconde i problemi, senza risolverli. Trattare chi dissente come una molesta anomalia, un corpo estraneo da tagliare soddisfa un bisogno d’ordine. Ma non può essere la risposta liberale di un partito che, aspirando al 40 per cento dei voti, non può che contenere linee e opinioni diverse. Senza affidarsi alle sentenze dei probiviri.

Pierluigi Battista

26 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_26/battista_dissenso_provibiri_881f51ea-9875-11df-a51e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 31, 2010, 09:02:22 am »

I protagonisti

L'imprenditore e il politico: gli alleati che non si sono mai amati

Due stili agli antipodi, un percorso comune durato oltre sedici anni


Berlusconi e Fini non si sono mai amati. Mai. Diversi, diversissimi per stile di vita. L’uno longilineo, l’altro non propriamente slanciato, fisicamente agli antipodi. L’imprenditore di successo contro il «politico di professione». La televisione contro la sezione. Nel Partito Fini ha compiuto la sua educazione sentimentale. Per Berlusconi i partiti hanno emanato sempre i miasmi del «teatrino della politica». La necessità, il calcolo e le bizzarrie della storia li hanno messi insieme. E il divorzio si compie in un paradossale rovesciamento di ruoli. Berlusconi diventa il sacerdote della supremazia del Partito, il custode della sua Disciplina che espelle, radia, scomunica, butta fuori dal recinto sacro. Fini il dissidente, l'uomo dell'apparato che si ribella all'apparato e prende su di sé l'anatema: fuori linea, indisciplinato. Sabotatore.

Non si sono mai amati. Hanno spesso litigato. Ma hanno convissuto onorando uno schema che appagava le reciproche convenienze. Lo schema era, per Berlusconi, l'inamovibilità gerarchica: lui era il numero uno, l'altro il numero due. Per Fini lo schema coincideva, cinicamente, con il destino anagrafico: giocare al numero due, confidando sull'ineluttabilità della successione. Quando lo schema si è rotto, l'antagonismo caratteriale dei due è esploso. La convivenza si è fatta tempestosa. Si è gonfiata a dismisura l'insopportazione reciproca. Che ha conosciuto numerose tappe, scene madri, frizioni, scontri, espressioni contrariate del volto. Ora che la rottura è consumata, quella sequenza di tensioni acquista un nuovo significato. Tutto diventa indizio di una frattura irreparabile. Come nei matrimoni. Ma questo non è mai stato un matrimonio d'amore. Berlusconi pensa di essere lui lo «sdoganatore» di Fini: per questo lo considera un ingrato. Pensa che con quel suo fatidico «se fossi romano voterei Fini» pronunciato nel novembre del 1993 alla vigilia del ballottaggio per il sindaco di Roma, lui abbia fatto uscire l'allora segretario del Msi dal ghetto infrequentabile del neofascismo per portarlo in una dimensione inimmaginabile fino ad allora. Gli eredi del fascismo, gli «esuli in Patria» scaraventati grazie al suo tocco magico nell'area di governo: ecco il suo capolavoro. Fini non l'ha mai pensata così. Ha sempre sostenuto che lo «sdoganamento» è stato promosso dagli elettori di Roma e di Napoli che avevano mandato al ballottaggio lui stesso e Alessandra Mussolini. Che a quel tempo il suo partito si chiamava ancora Movimento Sociale e non ancora Alleanza Nazionale. Che la fine dell'«arco costituzionale» della Seconda Repubblica era stata decretata nelle aule giudiziarie, non in uno studio Fininvest. Per dire: non sono stati d'accordo nemmeno sul significato delle origini, sul mito fondativo. Non proprio la base migliore per un matrimonio duraturo. Che però è durato. E neanche poco: più di sedici anni. Con burrasche e scenate, ma è durato.

È durato anche quando alla fine del 1995, dopo il ribaltone che estromise Berlusconi da Palazzo Chigi e il governo Dini che il Cavaliere visse come un tradimento, Fini decise di indossare i panni di quello che si sarebbe definito il «signor No» e di ostacolare il governissimo di Antonio Maccanico: le elezioni sarebbero state rimandate sine die, la candidatura di Prodi si sarebbe indebolita, chissà come sarebbero andate le cose dal '96 in poi. Berlusconi non gliel'ha mai perdonata. Poi il signor No sarebbe diventato proprio lui, Berlusconi. Decise di far saltare la Bicamerale proprio quando Fini si dimostrava favorevole al patto (detto anche «inciucio») con D'Alema. Ma i ruoli non si sarebbero più scambiati. Si imponeva lo schema, quello del numero uno e del numero due. Ma con dispetti, ritorsioni, screzi, gesti sgarbati. Quando nel 1999 Fini organizza a Verona la conferenza organizzativa di Alleanza Nazionale, propone un'operazione di restyling con una coccinella che sparirà dal simbolo con la stessa velocità con cui era entrata, cerca di rimarcare la sua autonomia politica e culturale dal potente alleato, Berlusconi il numero uno dello schieramento politico, nonché capo dell'impero editoriale della Mondadori, arriva con camion pieni di copie del «Libro nero del comunismo» che vengono distribuite ai delegati aennini. Fini non se ne rallegrò. Anzi, si infuriò. Proprio lui che si era fatto le ossa nel Movimento Sociale, proprio lui che aveva fatto dell'anticomunismo di piazza una bandiera e una scelta esistenziale, doveva sorbirsi adesso lezioni di anticomunismo? Anche Fini non gliel'ha mai perdonata.

E poi l'elefantino di Fini con Mariotto Segni alle Europee del '99. Una digressione, una scappatella, un'avventura (finita male). Ma il matrimonio, anche stavolta, non esplose. Finché non si arriva al quinquennio della legislatura berlusconiana tra il 2001 e il 2006. Fini accetta la vicepresidenza del Consiglio (numero due), il ministero degli Esteri nelle turbolenze internazionali post-11 settembre (sempre numero due). Ma il suo umore nei confronti del numero uno è stampato sul volto di disappunto, stupefazione, disperazione che Fini non fa finta di nascondere quando Berlusconi si produce, nell'aula del Parlamento europeo, nella clamorosa gaffe sul «Kapò». Fini il numero due, seduto, tira addirittura la giacca al numero uno, in piedi. Ma in quella scena si manifesta la lacerazione umana di un matrimonio di convenienza in cui i risentimenti reciproci, le insofferenze, la suscettibilità di entrambi acquistano una preponderanza sempre più evidente, sempre meno governabile. Il partito del «predellino», Berlusconi lo fa principalmente contro l'altro, il numero due, lo «sdoganato», Fini, ribattezzato addirittura il «parruccone». Lui, il parruccone sempre più detestato da Berlusconi, bolla la scena del predellino così: «Siamo alle comiche». Ma poi quel partito si farà. Fini lo subirà. Berlusconi lo imporrà. Incapace di concepire anche il sia pur minimo dissenso, il Capo sottolinea tutti i passaggi critici del discorso di Fini alla convention di fondazione del Popolo della Libertà con plateali cenni di assenso, seduto in prima fila, accanto a Elisabetta Tulliani nientemeno: come a dire che la grande famiglia non si sarebbe sciolta mai. E invece ieri sera si è sciolta, liquefatta. Il dissenso è ufficialmente bandito. Il monolitismo del Pdl è salvo. Il Partito mistico e sacro amputa l'infezione eretica e si sottomette alla volontà unica e insindacabile del Capo carismatico. Finisce una storia, un matrimonio. Una rivoluzione che doveva essere liberale e si consuma mimando le liturgie epuratrici dei partiti comunisti. Nasce l'epoca dei probiviri buttafuori. Nel «Libro nero» si chiamavano Commissioni Centrali di Controllo. Ma quello era il «teatrino della politica».

Pierluigi Battista

30 luglio 2010
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http://www.corriere.it/politica/10_luglio_30/battista_imprenditore_politico_8ba21f58-9b9c-11df-8a43-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 02, 2010, 09:20:26 am »

Nomi e politica

I Novelli Futuristi e un duello retorico su antichi fantasmi


Di "futurista" in senso proprio, c'è forse solo il richiamo alle spavalde scazzottature che animavano le serate nei cabaret quando Filippo Tommaso Marinetti faceva deflagrare il suo esplosivo avanguardistico. Per il resto, appare un po' patetica, persino un pochino retrò e nostalgica (povero Marinetti), questa corsa a chi è più "futurista" nella bolgia scissionistica che accompagna il divorzio tra berlusconiani e finiani.

Il gruppo finiano si autobattezza «Futuro e libertà», ma non è che il futuro sia per definizione futurista, come ciò che è comune non fa il comunista, e un fascio non diventa di per sé sinonimo di fascista. E invece, «futurista» è la bandiera del «Secolo d'Italia» finiano. E gli antifiniani come Pietrangelo Buttafuoco esclamano: «Fini futurista? Ma mi facciano il piacere». E Giampaolo Pansa compiange il destino del «povero Futurista». E nel pensatoio «Fare Futuro», antemarcia per marchio e insegna, si suggerisce di un «manifesto del nuovo futurismo». In attesa di un nuovo Boccioni, o dell'immaginazione sfrenata di un Sant'Elia, o di un componimento in «parole libere». O di un proclama in cui si dichiari marinettianamente la guerra «sola igiene del mondo». O in attesa che audaci, dinamici e velocisti, quelli del gruppo parlamentare di «Futuro e libertà» realizzino il minaccioso intento futurista di ammazzare «il chiaro di luna» e di lasciar inghiottire la museale Venezia nei gorghi del passato asfissiante. In attesa di tutto questo, non è un bello spettacolo (né futurista, né passatista) questo mescolare così sfrontato di politica e letteratura. E se si lasciasse in pace il fantasma di Filippo Tommaso Marinetti?

Bisogna considerare infatti che attorno al «futurismo» un'ansia di «riabilitazione» si è addensata negli anni in cui la «destra» è stata sdoganata e portata alle glorie del governo nazionale. Una storia, quella «futurista», soffocata dalle spire dell'«egemonia culturale» di sinistra e antifascista che non avrebbe perdonato l'adesione al regime fascista di Marinetti. Mostre sul futurismo, fiction sul futurismo, libri sul futurismo letti e interpretati come riscatto, testimonianza che la «destra» in Italia ha avuto una grande cultura e una grande arte colpevolmente sottaciuta e sottovalutata. Ecco perché la disputa sulle spoglie del futurismo divampa così intensa tra chi, nel momento della scissione, attinge a un comune patrimonio simbolico e a personalità che testimonino la grandezza di una storia. Una storia che si spezza, ma comunque una grande storia. Ma immaginare che un redivivo Marinetti oggi possa optare tra chi ha rotto con Berlusconi e chi ha deciso di rimanergli fedele sembra un esercizio retorico questo sì, un pò passatista. Che poi si debba aderire a una poetica anziché a un programma di governo, soddisfa più un'esigenza di trovare illustri precursori che la volontà di fissare una linea politica. Meglio lasciare il futurismo ai manuali scolastici di storia dell'arte e della letteratura.

Pierluigi Battista

02 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_02/novelli-futuristi-battista_8a86dcb0-9e00-11df-a94c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Agosto 04, 2010, 04:42:07 pm »

L'analisi

La maggioranza evanescente


Non sarà il terzo polo, come si affannano a dire gli stessi protagonisti, ma il patto siglato sul «caso Caliendo» tra finiani, Udc, l’Api di Rutelli e il Mpa di Lombardo (un’ottantina almeno di voti parlamentari) spezza simbolicamente l’autosufficienza della maggioranza uscita dalle urne del 2008. I numeri dicono che la soglia dei 316 parlamentari necessari per sancire la maggioranza del governo alla Camera non si raggiunge senza l’apporto del nuovo «Futuro e Libertà» di Fini. Le scelte politiche dicono che una parte dell’attuale maggioranza subordina il proprio voto a un accordo preventivo con una parte della minoranza. Fini, appena estromesso con atto d’imperio dal Pdl, aveva avvisato che il voto favorevole dei nuovi «separati» sarebbe stato garantito solo sui provvedimenti in linea con il programma elettorale e nel patto con gli elettori. La sfrenata fantasia della terminologia politica italiana, prodiga di governi «tecnici», «balneari», e così via, rischia ora di essere costretta a partorire una nuova bizzarria: il governo «di volta in volta». Una maggioranza che a volte c’è, e altre volte no. Con una parte della maggioranza, i finiani, che di volta in volta preferisce accordarsi con una parte della minoranza, anziché con il resto della maggioranza schierata senza indugio con il premier.

Un pasticcio. Che forse si poteva evitare se Berlusconi, prima della clamorosa rottura con Fini, non avesse sottovalutato i numeri dell’avversario, facendosi orientare da consiglieri poco accorti, o poco avvezzi alle insidie del pallottoliere parlamentare. Ma ora che la frattura si è consumata, il premier non può dare l’impressione di barcamenarsi con la variabilità delle contingenze. Non può rassegnarsi alla filosofia paralizzante del «governo di volta in volta». Un’oscillazione che si riflette nelle dichiarazioni di Berlusconi negli ultimi giorni. Prima rassicura la sua maggioranza, ma anche i mercati internazionali e le istituzioni sovranazionali preoccupate per una nuova stagione di instabilità in Italia, di avere i numeri per governare secondo il mandato degli elettori. Poi paventa la possibilità che «incidenti » di percorso possano costringere il governo a gettare la spugna e a ricorrere alle elezioni anticipate. Le somiglianze con il precedente del governo Prodi, evocate per sottolineare l’analogia di governi retti su una base fragilissima e risicatissima di voti parlamentari, finiscono proprio qui. Perché per Prodi l’ipotesi delle elezioni rappresentava la morte politica del governo e del centrosinistra. Per Berlusconi, le elezioni possono essere invece la soluzione ricercata e desiderata, la prospettiva di una nuova vittoria autorizzata dalla debolezza dell’avversario e dalla confusione in cui versa l’attuale opposizione.

Il segretario del Pd Bersani ha aperto all'idea di un «governo di transizione» (a guida Tremonti, parrebbe di capire nonostante le rettifiche). Ma il vero dilemma che si pone a Berlusconi è puntare al voto anticipato, sfidando paure e perplessità internazionali e confidando sugli inevitabili «incidenti» che i finiani potrebbero provocare. Oppure accettare una navigazione entro i confini di questa legislatura. Ma la seconda opzione implicherebbe necessariamente se non una ricucitura con Fini, allo stato delle cose impossibile, per lo meno la definizione di un patto tra diversi, così come è avvenuto e continua ad avvenire tra il Pdl e la Lega. Quel che non può accadere è la maggioranza «di volta in volta»: sarebbe l'antefatto di una paralisi dell'azione di governo. Di un'incertezza che lascerebbe l'Italia senza guida e senza un orientamento stabile. Se Berlusconi vuole andare alle elezioni anticipate, sarebbe meglio una scelta chiara, dichiarata, esplicita, anziché subordinata alle occasioni che di volta in volta potrebbero provocarle. Se invece la sua intenzione fosse quella di non interrompere traumaticamente la legislatura, il riannodarsi di un minimo di collaborazione con Fini sarebbe obbligato. Mettendo da parte orgoglio e risentimenti, come del resto Berlusconi già ha fatto in passato proprio con Bossi e la Lega. Una scelta politica, e non l'attesa di un «incidente».

Pierluigi Battista

04 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_04/maggioranza-evanescente-editoriale_d6049556-9f86-11df-ad29-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Agosto 10, 2010, 02:42:11 pm »

PARENTI E POLITICA

Un codice contro il neo familismo

I politici promettano di non occuparsi di faccende che riguardino familiari e parenti fino al quinto grado


L'invettiva di André Gide «Famiglie, vi odio!», nella Prima e nella Seconda delle Repubbliche italiane potrebbe essere capovolta così: «Famiglia, ti amo (troppo)». Un amore appassionato. Che però, foriero di guai e apocalittici capitomboli, potrebbe riconvertirsi nuovamente in odio: causa per reputazioni macchiate, carriere rovinate. Percorsi interrotti, talvolta, nei casi più estremi.

Una cronaca politica gravata dalla presenza ingombrante di cognati, come il «Sig. Giancarlo Tulliani» indicato così gelidamente nella nota esplicativa del presidente della Camera. Ma anche, in modo sufficientemente bipartisan, di figli, figlie, mogli, ex mogli, seconde o terze mogli, suocere, generi, nuore, fratelli, sorelle, fratellastri, sorellastre, cugini, fidanzati, fidanzate, amanti, ex amanti che complica enormemente il quadro familiare tradizionale con le più moderne forme di famiglia allargata, multipla, doppia, tripla, di fatto. Il «familismo amorale» descritto oltre cinquant'anni fa da Edward C. Bansfield (prima la famiglia, poi lo Stato, soprattutto nel Sud: ma lì c'entrava la mafia), deve essere aggiornato. Non nel senso dell'«amorale». Ma in quello del «familismo»: a quale famiglia, esattamente, ci si riferisce? O meglio: da quale membro di quale famiglia, e con quale grado di parentela «naturale» o acquisita in corso d'opera, sta per arrivare la tegola che può colpire mortalmente una brillante posizione politica, scaraventata giù dal piedistallo o dall'empireo per una debolezza familista, un favore fatto in casa, una nomina cotta in cucina, un incarico ben remunerato maturato in un pranzo domenicale, prima di scartare il vassoio di quelle che a Roma si chiamavano «le pastarelle»?

I cognati, certo, oggetto di una ricca e puntuta letteratura e protagonisti misconosciuti nella storia del cinema (solitamente sordidi; nel caso delle cognate, invece, talvolta in versione familiar-pruriginosa). Manca, nella spiegazione di Gianfranco Fini, il dettaglio che spiegherebbe a che titolo «il Sig. Tulliani» fosse a conoscenza della casa di Montecarlo, e dunque di una parte del patrimonio del partito ereditato dalla contessa Colleoni. Ne hanno parlato a tavola, quasi casualmente in una conversazione libera e sciolta, rallegrata da cibo squisito e ottime bevande? Oppure l'informazione è stata acquisita in altro modo, onde avvertire gli acquirenti della società off-shore che poi, dopo una sequenza di compravendite, gratificheranno «il Sig. Tulliani» dell'affitto monegasco in casa ristrutturata? Interrogativo non secondario, ma il cui significato dovrebbe andare al di là del caso di Montecarlo per coinvolgere anche recenti storie di figli e mogli ed ex mogli che hanno avuto un notevole impatto politico?

Per esempio: il «Trota». Il figlio di Umberto Bossi, insomma, di cui le cronache fino a poco tempo fa si erano occupate per segnalarne il non smagliante rendimento scolastico e nelle ripetute prove di maturità e che oggi ritroviamo non solo eletto nelle liste del Carroccio, ma figura centrale nella gestione di delicatissimi dossier di portata europea come quelli sulle multe agli allevatori per le quote latte.

Del resto, per restare nell'attualità, tutta l'ondata di gossip e serate a Palazzo Grazioli che ha bersagliato il presidente del Consiglio non avrebbe certamente avuto l'eco che si è prodotta se la moglie Veronica, sull'orlo della rottura coniugale, non avesse denunciato l'esistenza di un «ciarpame». E già stavano cominciando a suonare le trombe delle interrogazioni parlamentari, appena si è appreso che nelle elezioni del Consiglio direttivo dell'Automobil Club di Milano, settore di pertinenza del ministro per il Turismo, Michela Brambilla, erano spuntati i nomi del presunto fidanzato del ministro ma ancor più quello di Geronimo La Russa il quale, a meno di un clamoroso caso di omonimia, risulta essere il figlio del ministro Ignazio. Senza considerare la generosità dell'onorevole Di Pietro, del cui cognato Gabriele Cimadoro tutto si sa, e del cui figlio Cristiano si conosce la certamente meritata discesa in campo nella politica molisana.

Visto poi che nelle vicende che riguardano la «cricca», anche lì è tutto un fiorire di figli da raccomandare, mogli intestatarie e cognati che dicono nefandezze al telefono a pochi minuti dal terremoto in Abruzzo, forse sarebbe il caso, a bocce ferme, di considerare l'abbozzo almeno di un codice di autoregolamentazione in cui i politici promettano di non occuparsi di faccende che riguardino familiari e parenti fino al quinto grado. Onde evitare equivoci e raggiri.
E mettere un punto fermo nell'ondata di neo-familismo che, comunque la si consideri, non è un bel vedere, né un contributo potente al decoro delle istituzioni. Un codice ingiusto, certo. Ma almeno rappresenterebbe un argine di emergenza e un criterio per contenere l'abuso familista che rischia di screditare l'intera politica italiana (prima o poi). Né odio, né amore, ma: «Famiglie, statemi a distanza di sicurezza!».

Pierluigi Battista

10 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_10/politici-famiglie-serve-codice-battista_471c54c8-a44a-11df-81a0-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Agosto 19, 2010, 09:31:28 am »

Ostilità e retorica spericolata


È impressionante l’impasto di retorica, narcisismo e faziosità che si è condensato nei commenti e nelle reazioni pubbliche alla morte di Francesco Cossiga. Incapace di raccontare e giudicare uno dei suoi più illustri e controversi protagonisti, è come se l’Italia ufficiale (ma anche quella anarchica e tumultuosa che si muove nell’universo parallelo dei siti online) si fosse dimostrata incapace di raccontare e giudicare se stessa. Un diluvio di parole magniloquenti ha sommerso una figura che suscitava consensi, ma anche conflitti. Un rincorrersi di stereotipi ha appiattito e svilito, facendone un santino o un ritratto demoniaco, il ruolo che Cossiga ha incarnato per decenni. L’ennesima occasione perduta per riflettere su se stessi. Sorvolando sul coro incresciosamente protagonistico dei mille «mi disse», «mi svegliò», «mi confessò» (è spuntato anche, perla rara, un «seduti a tavola, mi guardò a lungo») che in Italia fiorisce contagiosamente all’indomani di una morte eccellente, si è celebrato il rito degli ammiccamenti, dei pregiudizi, degli arruolamenti postumi di un irregolare purissimo della politica italiana. La sua irregolarità fu ridotta in vita a una manifestazione di bizzarria e di incontrollata umoralità. E tale sembra rimasta anche post mortem, sebbene mitigata dal rispetto che si deve ai grandi della storia italiana che scompaiono. In compenso si è scatenata l’ostilità chiassosa e irriducibile di chi ha costruito attorno alla figura di Cossiga un alone di tenebre e di segreti inconfessabili. Come se Cossiga fosse nella migliore delle ipotesi il depositario omertoso dei misteri che hanno insanguinato l’Italia e, nella peggiore, il burattinaio di ogni stragismo, di ogni terrorismo, di ogni nefandezza compiuta nella storia repubblicana.

Un’ostilità che fa da contrappeso alle spericolate retoriche celebrative, recitate anche, anzi soprattutto, da chi in vita fu feroce avversario politico di Francesco Cossiga, fino a chiederne, ai tempi delle esternazioni e delle «picconate» dal Quirinale, l’«impeachment» e la messa sotto accusa per tradimento della Costituzione. È vero, succede spesso che quando se ne va un protagonista così ingombrante della scena pubblica, la commemorazione prenda il posto dell’analisi e della riflessione. Ma succede raramente con queste dimensioni e anche, spiace dirlo, con dosi così massicce di ipocrisia e doppiezza. Le cose aspre che Cossiga diceva sulla magistratura, sul sistema politico, sui partiti vecchi e nuovi, sulle ideologie che li hanno sorretti, sugli uomini e sulle donne che ne impersonavano il destino, e anche sul ruolo dei cristiani nella politica italiana sono state semplicemente cancellate nei commenti e nei discorsi pur commossi dopo la morte di quel politico anomalo, di quell’intellettuale irrequieto e, appunto, irregolare. Sono rimasti invece i pregiudizi e i luoghi comuni di chi è assolutamente convinto che Cossiga fosse una figura detestabile, destinata a portarsi nella tomba i segreti più conturbanti e destabilizzanti della storia italiana. L’omaggio formale e l’invettiva, la mummificazione precoce o l’odio verso un uomo e un politico che sapeva raccontare molte più verità dei suoi più felpati e prudenti colleghi: ancora una volta l’Italia ha mostrato il suo lato peggiore porgendo il suo ultimo saluto a Francesco Cossiga. Un patriota che però non amava il «coro» italiano e ha voluto lasciarci restando solo con il suo inno della Brigata Sassari.

Pierluigi Battista

19 agosto 2010
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http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_19/ostilita-e-retorica-spericolata-editoriale-pierluigi-battista_26cd3474-ab4f-11df-94af-00144f02aabe.shtml
 
       
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« Risposta #52 inserito:: Agosto 21, 2010, 03:56:31 pm »

Conti con la realtà


Se la sigla solenne del «patto» richiesto da Berlusconi è la condizione per non andare al voto anticipato a dicembre, peraltro ventilato dallo stesso premier, con i risultati del vertice del Pdl è difficile che questa maggioranza di governo possa decomporsi a settembre.
I cinque punti del «patto» saranno sottoscritti dai «finiani». I quali non hanno nessun motivo per dissociarsi dai cinque punti della mozione di fiducia (federalismo fiscale, fisco, Mezzogiorno, giustizia, lotta alla criminalità) già presenti nel programma con cui si erano presentati agli italiani. E inoltre non hanno nessuna intenzione di presentarsi come i devastatori ad ogni costo della maggioranza, accelerando vorticosamente la corsa verso elezioni che non vogliono. Se questi sono i cardini di un nuovo patto di governo, la maggioranza di centrodestra potrebbe non venire meno. Un governo che dura anche se, fatalmente, è destinato a diventare un governo di coalizione.

Poi ci sono i prevedibili punti di frizione e di contrasto. Berlusconi ha esplicitamente incluso tre provvedimenti della discordia con Fini (il processo breve, un nuovo «lodo Alfano» con modifica costituzionale, la normativa sulle intercettazioni) che potrebbero alimentare nuove tensioni. Fini del resto aveva già dichiarato che il suo gruppo avrebbe sostenuto le riforme sottoscritte nel programma elettorale, ma che avrebbe valutato caso per caso quei provvedimenti non presenti in quel programma. È probabile che su questi terreni si possa scatenare una guerriglia estenuante. Ma solo dopo la mozione di fiducia richiesta dal Pdl. Il che, temporalmente, dovrebbe comportar e l ’ i mpossi b i l i t à d i u n eventuale voto a dicembre, come sostiene Bossi e come, forse, viene auspicato dallo stesso Berlusconi: ma il Parlamento ha dei tempi che un governo non può piegare a suo piacimento.

La proposta di Berlusconi sembra più dettata dal realismo che dal desiderio di una prova di forza che metta i «finiani» all’angolo.
È un bene che il premier ieri abbia ripetutamente fatto riferimento ai «tre anni di legislatura» come orizzonte temporale e politico del suo governo. È un bene che abbia anteposto i cinque punti di un programma dettato dall’interesse generale alle beghe e alle lotte di fazione che stanno logorando in modo preoccupante la stessa immagine del governo. È un bene che non si sia presentato con il volto della feroce resa dei conti con Fini. E sarebbe un bene se privilegiasse le riforme per il Paese a leggi sulla giustizia che assecondino i suoi interessi personali.

Anziché la strada velleitaria di una scaltra ma mediocre campagna acquisti (o riacquisti), ha scelto la strada di un «patto» chiaro e comprensibile per continuare la sua attività di governo. Accettando l’idea che la maggioranza possa reggersi su forze diverse, ma coalizzate da una convergenza sulle riforme da fare. Sarebbe bene che questo bagno di realismo producesse i suoi effetti anche nel prossimo futuro, nei contenuti e persino nello stile e nei toni del governo.

Resterebbero deluse le tifoserie oltranziste e rissose. Difficilmente gli italiani.

Pierluigi Battista

21 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_21/battista_e64d1aae-ace3-11df-b3a2-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Agosto 24, 2010, 11:03:42 am »

L'estate dei veleni Gruppi e partiti che hanno governato insieme

L'ex centrodestra finito a insulti

Dalla faida pdl alla rissa Udc-lumbard: esplode la «questione immorale». Fine di ogni remora



Si è arrivati addirittura allo stronzo. Che non si fossero mai amati o stimati, anche negli anni in cui erano alleati, era notorio.
Ma che tra Lega e Udc dovesse finire in uno scambio cruento a base di «trafficoni» (Bossi a Casini) e «trafficanti di banche e quote latte» (Casini a Bossi) non era così scontato.

Sfondata la frontiera dell'invettiva politica, il nuovo linguaggio del centrodestra che fu ora è il pugilato delle insinuazioni. E un mondo pare inabissarsi nella questione immorale.

«Trafficare», in politica, non ha un significato innocente. O meglio: presuppone la non innocenza di chi è accusato di traffici, per congettura, non leciti. È probabile che nel «trafficone» di conio bossiano e anti-casiniano si senta l'eco di una virulenta diffidenza antidemocristiana: un trafficare nei palazzi della Prima e della Seconda Repubblica, nelle manovre, nei corridoi, nei giochi consumati nella penombra. Nella rappresaglia Udc si fa invece un riferimento esplicito agli oggetti di interesse dei «trafficanti». Le quote latte, con allusione alle multe risanate per intervento della Lega e in particolare di Renzo Bossi, ribattezzato dallo stesso padre come il «Trota». E soprattutto le banche, con allusione, con ogni evidenza, ad antichi e nuovi interessamenti leghisti a cordate bancarie e assetti di vertice delle fondazioni distribuite, come si dice, nel «territorio». Ambedue allusioni a fatti poco chiari, a interessi non innocenti. Come se l'Udc rinfacciasse alla Lega, partito molto attento a coltivare una propria diversità rispetto alla «partitocrazia», di non avere i titoli per fare la morale a chicchessia.

Tutti nella stessa barca, oramai. La battaglia politica passa per messaggi cifrati e chiamate di correità. Se esiste «Sputtanopoli», come è stata definita da Giuliano Ferrara, dentro le sue mura non si risparmiano più colpi bassi. E i primi ad alimentare dicerie, denunce oblique, sarcasmi allusivi, sono proprio i suoi abitanti del centrodestra. O dell'ex centrodestra, come oramai si deve definire.
Con il divorzio tra Fini e Berlusconi e la forsennata campagna di stampa contro il presidente della Camera ogni remora si è smarrita: la soglia della polemica aspra ma tenuta a bada da un vincolo minimo di solidarietà di schieramento è stata abbondantemente oltrepassata.

Non si fa che sparare, con annessa e adeguata ripresa polemica nei commenti e nelle interviste degli esponenti politici fedeli al premier, su case, vecchie e nuove parentele, cognati, contratti di affitto, raccomandazioni Rai, favori e favoritismi grandi e piccoli, appartamenti, attici, contratti di locazione, società off-shore, paradisi fiscali. Improvvisamente nel quartier generale del centrodestra «garantista», custode della privacy, sensibile a una visione non moralistica della vita e della politica ci si scatena per i «traffici» di case e metri quadri. Non solo contro Fini, ma contro i finiani (l'ultimo sotto tiro: Luca Barbareschi). Chi fino a poco tempo fa denunciava come un'accanita intrusione negli affari privati e personali del premier la denuncia delle sue frequentazioni a Casoria e Palazzo Grazioli oggi non conosce freni e inibizioni nell'agitare la «questione morale» su compravendite e appartamenti. Persino sulle segnalazioni in Rai. Proprio loro, che dovettero subire un processo mediatico (sepolto quello giudiziario) sulle segnalazioni di Berlusconi a favore di attrici e conoscenti.

La frontiera oltrepassata, appunto. Tant'è che tra i finiani si è imposta la tentazione della rappresaglia, mettendosi a sventolare con pari veemenza acquisti di ville a prezzi stracciati, ricorso delle aziende berlusconiane a società off-shore e così via e più attuali guai affaristico-bancari dei vertici del Pdl. Ognuno rinfaccia all'altro «traffici» poco chiari. Di grande o piccola entità, ma comunque riconducibili alla categoria del non ammirevole, del non moralmente immacolato. Si seppelliscono così antiche solidarietà di coalizione, ma anche un codice della polemica che anteponeva la prudenza «garantista» all'offensiva «colpevolista». Oggi il colpevolismo è il nuovo lessico degli ex garantisti. E le ostilità, le avversioni personali, i risentimenti compressi esplodono non appena la cornice che tutto teneva assieme si sgretola. Alleanze che si sfasciano sulla questione «immorale» e nuovi abbracci con gli alleati del tempo che fu si dissolvono nella diffidenza generale, tra traffichini, trafficoni e trafficanti. C'era una volta il centrodestra.

Pierluigi Battista

24 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_24/battista-commento_6aa8e42e-af44-11df-bad8-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 08, 2010, 03:43:44 pm »

Coppie politiche - I difficili rapporti tra Sarkozy e Chirac e le tensioni tra Medvedev e Putin

Silvio e Gianfranco, Tony e Gordon

Il (fatale) passaggio dall’amore all’odio

Ma la ragion politica prevede addirittura che Fini e Berlusconi potrebbero siglare un «patto di legislatura»


Non si parlano neanche più. Per mandarsi segnali in codice, si affidano agli ambasciatori più volonterosi. Si detestano. Si separano ma sono costretti a coabitare, almeno per un po’.

Divisi da rancori inestinguibili, devono percorrere un tratto insieme. Sul piano sentimentale vorrebbero sbranarsi. Ma la ragion politica prevede addirittura che Fini e Berlusconi potrebbero siglare un «patto di legislatura». Come faranno? L’odio tra i leader costretti a convivere ha una lunga storia nella politica. Tony Blair e Gordon Brown nutrivano reciprocamente un’ostilità assoluta, e nelle sue memorie Blair si vendica senza pietà del suo nemico giurato. Cosa pensassero l’un dell’altro Sarkozy e Chirac è cosa nota e tra Sarkozy e de Villepin è finita addirittura in tribunale, in un’atmosfera di spionaggio e colpi proibiti. Si dice pure che tra Putin e Medvedev la tensione, la gelosia, il sospetto siano i sentimenti dominanti. Nella Prima Repubblica, sia pur nel linguaggio felpato e prudente dell’epoca, non scorreva una calda corrente di simpatia tra Moro e Fanfani e nemmeno tra Moro e Andreotti. Amendola e Ingrao, nel Pci, non erano solo l’incarnazione di un’antitesi ideologica, erano anche la personificazione di due caratteri opposti, di due modi d’essere e di pensare (un po’, si parva licet, come i due eredi postcomunisti D’Alema e Veltroni). Anche tra Craxi e Amato, dopo l’esplosione di Tangentopoli, il rapporto frantumato in pochi mesi rappresentava solo la conclusione amara di stili e tipologie umane diverse. Ma mai si arrivò in tutti questi casi alla pubblica contrapposizione puntigliosa e risentita tra due alleati che hanno cominciato a scambiarsi epiteti come «infame» (per interposto giornale) e «traditore». L’infame e il traditore dovrebbero continuare a condividere la stessa avventura di maggioranza? E se poi dovessero scendere alle vie di fatto, con padrini e armi regolamentari?

Il «patto» lo propone Fini, quello tra i due che ha più dimestichezza con il «teatrino della politica» che più o meno a Mirabello ha proposto il seguente scenario: il Pdl non esiste più, tu sei uno stalinista insofferente al dissenso, uso a circondarti di colonnelli che indossano con disinvoltura la livrea dei cortigiani, però se riconosci l’importanza di Futuro e Libertà possiamo metterci d’accordo su cinque punti per arrivare alla fine della legislatura. Per Berlusconi è tutto più difficile. Bisogna certo dire che Berlusconi è stato umanamente capace di un’impresa impossibile: rimettersi con Bossi, dopo che il leader della Lega aveva fatto il ribaltone del ’94 e cominciò a coprirlo di insulti sanguinosi come «mafioso», «Barluskaiser» e «Berluskaz». Passare sopra a queste ingiurie e rimettersi con Bossi è stato il capolavoro politico di Berlusconi. Ma anche all’apice dello scontro con il capo della Lega, Berlusconi non ha mai conosciuto il sentimento del rancore, della delusione. Quel tipo che veniva a trovarlo con l a canottiera d’estate non gli è mai stato veramente antipatico.
Fini sì, è la rappresentazione fisica di tutto ciò che lo irrita nella politica italiana. I rapporti, tra i due, non si ricuciranno mai.

Berlusconi ha sempre detto che la sua arma psicologica è di sapersi fare convesso con i concavi e concavo con i convessi. La diplomazia della pacca sulle spalle e del cucù alla Merkel è per lui un ingrediente umano indispensabile della politica. Quando venne fondato il Pdl e Berlusconi credeva ancora che il rapporto con Fini avrebbe potuto salvarsi, venne naturale la scelta di ascoltare l’insidioso discorso del numero due sedendosi accanto a Elisabetta Tulliani, a sua volta gratificata come donna «fine» ed elegante che «Gianfranco» aveva fatto bene a scegliere. Paradossale, ora che sulla Tulliani si è scatenata la muta dei segugi della privacy (altrui). Non è vero che non si siano parlati più. Le cronache raccontano che nelle stanze della clinica dove Berlusconi era ricoverato dopo l’aggressione di Tartaglia, il colloquio con Fini venne bagnato persino da qualche lacrima. Ma quel residuo di elementare solidarietà umana è svanito con l’espressione rabbiosa del Berlusconi che il 29 luglio annuncia la brutale cacciata dell’ingrato delfino e con il puntiglioso elenco di accuse lanciate da Fini sul palco di Mirabello.

Eppure devono convivere. Se non passa la linea delle elezioni anticipate, l’«infame» e il «traditore» non potranno lasciarsi definitivamente. Non stanno più nello stesso partito. Ma stanno ancora, fino a sfiducia contraria, nella stessa maggioranza. Si diranno ancora le cose più terribili ma non potranno ancora spezzare l’ultimo filo che ancora li lega. Dovranno far prevalere il gelo della ragion politica sulla spontaneità degli istinti che esigerebbe una liberatoria scazzottata. Altro che separati in casa. Incatenati a casa, colmi di un’avversione reciproca che non può esplodere fino all’ora X. Tenere lontano i coltelli.

Pierluigi Battista

08 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_08/barrista-ex-alleati-si-odiano_36a70992-bb0d-11df-b32f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Settembre 17, 2010, 12:56:41 pm »

LE CAMPAGNE ACQUISTI NON DANNO LA STABILITÀ

Il naufragio dei «responsabili»



Svanisce l’epopea dei «responsabili ». Comunque vada a finire la campagna acquisti, è quasi certo che lo shopping non formerà una maggioranza stabile che possa fare a meno dei finiani. I numeri ballerini sono la maledizione dell’estate di Berlusconi. A fine luglio pensava, mal consigliato, che i numeri avrebbero soffocato il «controcanto» di Fini. Ora voleva correre ai ripari, pescando qui e là tra i seggi in Parlamento. Ma anche in questo caso il pallottoliere non è stato generoso. È stato un errore tattico. Ma anche un danno di immagine: come può il premier additare alla pubblica riprovazione la volontà di «ribaltone» di Fini, il disegno del presidente della Camera di stracciare il patto con gli elettori, e poi puntare a micro-ribaltoncini, a raschiare a destra e a manca il barile dei parlamentari disposti ad assumersi un compito di sostegno a una maggioranza contro cui sono stati eletti? Un danno per la stabilità, anche. Per qualche giorno è sembrato di sprofondare nelle atmosfere precarie dell’ultimo governo Prodi, quando, a causa dei numeri risicatissimi, la tenuta della maggioranza veniva affidata agli umori volubili dei senatori Pallaro, Turigliatto e Cusumano. Il governo del centrodestra, uscito dalle urne con una maggioranza parlamentare schiacciante, doveva essere l’alba di una nuova era di stabilità. Ma per qualche giorno si è aggrappato alla «responsabilità » di qualche signor Nessuno, a quanto pare non sempre mosso da nobili ideali e da generose preoccupazioni istituzionali. È andata male, perché il reclutamento dei «responsabili » poggiava ancora sull’idea sbagliata che la spina finiana potesse essere eliminata con deferimenti ai probiviri o qualche gioco di prestigio numerico. Anziché siglare il patto di maggioranza che Fini ha proposto a Mirabello, Berlusconi, archiviata per il momento la tentazione del voto anticipato entro il 2010, è andato alla ricerca di qualche carta segreta di riserva che potesse rendere marginale o inutile l’apporto determinante di «Futuro e Libertà». Ha provato con l’Udc di Casini, ma il progetto si è arenato. Ha provato con una pattuglia patchwork per raggiungere la soglia dei 316 parlamentari, sufficiente per estromettere i finiani della maggioranza. Ha provato tutte le strade pur di non imboccare la strada maestra dell’accordo, considerata da Berlusconi un cedimento al ricatto, la riedizione di un potere di veto intollerabile per un premier decisionista. Ora esistono ancora i margini, da qui al discorso della fiducia che Berlusconi terrà in Parlamento tra meno di dieci giorni, per dimenticare il flop dei «responsabili», per sedare l’orgoglio ferito dalla secessione finiana e per rilanciare un programma di governo che abbia un respiro triennale, da qui alla scadenza della legislatura. È il passaggio politicamente e anche, conoscendo la personalità di Berlusconi, caratterialmente più difficile. Necessario però per chiudere una stagione confusa e persino caotica. Non è mai troppo tardi.

Pierluigi Battista

17 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_17/battista_naufragio_responsabili_1b4daaf8-c219-11df-a515-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Settembre 25, 2010, 05:04:16 pm »

CLIMA DA SVELENIRE, ISTITUZIONI DA PROTEGGERE

Le domande e la decenza


Il videomessaggio promesso per le prossime ore dovrà essere il momento della verità per Gianfranco Fini. Si tratta di una scelta giusta, anche se tardiva, perché il presidente della Camera avrà la possibilità di chiarire tutti gli aspetti ancora oscuri della vicenda della casa di Montecarlo. E anche di dare una risposta convincente a un'opinione pubblica frastornata da tutto ciò che è accaduto e sta accadendo in questi giorni: l'apertura di una delle pagine più torbide e avvilenti della politica italiana, mai come oggi macchiata da sospetti, guerre di dossier, insinuazioni, denigrazioni, lotte di potere che finiscono per infangare, insieme, ruoli istituzionali e apparati di sicurezza.

Dovrà dire, come già il Corriere ha provveduto a chiedere nell'agosto scorso, come mai la casa di Montecarlo, eredità di Alleanza Nazionale, sia finita nella disponibilità del «cognato» Giancarlo Tulliani: il «disappunto» e lo sconcerto già evocati dal presidente della Camera non bastano. Dovrà dire qualcosa sul contratto di compravendita a una società off-shore. Sull'asserita congruità del prezzo di vendita dell'immobile. Dovrà dire se in questi mesi tormentati ha chiesto al signor Tulliani ragguagli sulla titolarità della (anzi delle) società che hanno acquistato la casa per poi affittarla allo stesso soggetto che se n'era fatto intermediario. E soprattutto, davvero sopra ogni altra cosa, quale risposta il presidente della Camera ha ricevuto dal signor Tulliani.

Sinora Fini ha dichiarato di confidare nelle indagini della magistratura. Non è sufficiente. Oltre agli (eventuali) reati esistono i comportamenti: lo stesso «codice etico» che a Mirabello Gianfranco Fini ha dichiarato di voler stilare a tutela dell'onore della politica. La sua non dovrà essere una risposta ai magistrati, ma alle istituzioni, alla politica, e persino a quella fetta di opinione pubblica che guarda con interesse alle posizioni del presidente Fini. Le risposte le deve Fini, ma anche il premier. È vero che uomini a lui vicini (o gli stessi servizi che dipendono da Palazzo Chigi) hanno contribuito a costruire dossier per demolire la figura pubblica della terza carica dello Stato? Accusa degli alleati, non dell'opposizione.

Solo così è possibile fermare quella spirale di imbarbarimento della lotta politica che lascia allibita e sgomenta l'opinione pubblica incapace di rassegnarsi all'idea che la guerra nella maggioranza non abbia nessuna attinenza con i contenuti, ma con un avvitarsi sempre più disinibito nei gorghi delle rappresaglie, dei colpi bassi e dei massacri mediatici. È incredibile che il conflitto politico abbia come incontrastati protagonisti faccendieri e avventurieri, autentiche barbe finte (o un po' posticce), accompagnatori, investigatori, carte intestate di paradisi fiscali, siti caraibici che prima anticipano notizie bomba e poi fanno sparire le notizie anticipate, precari ministri della Giustizia che, sia detto con il massimo rispetto per il governo sovrano di Saint Lucia, difficilmente appaiono paragonabili a luminose figure di studiosi del diritto come Giuliano Vassalli o Giovanni Conso. La soglia della decenza è stata oltrepassata. Non resta che tornare indietro e riacquistare, tutti, un profilo di dignità. Per quanto malandata, l'Italia non merita un trattamento simile.


Pierluigi Battista
 
25 settembre 2010
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« Risposta #57 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:24:18 am »

IL VIDEOMESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA

Tra le fragilità e le debolezze un prezzo (troppo) salato da pagare

Da sabato la politica italiana ruota tutta attorno alla parola di un signore che si chiama Giancarlo Tulliani


Con il suo videomessaggio, Fini non ha usato gli accenti un po' burocratici, risentiti e non del tutto convincenti sfoggiati negli «otto chiarimenti» con cui ad agosto ritenne di liquidare l'affaire Montecarlo. Il tono è apparso sincero. Dettagliato e puntiglioso su quello che ha detto di sapere. Il problema è tutto racchiuso in quello che Fini dice di non poter sapere, o di non sapere con certezza assoluta.
Ma è su quell'ombra, che lo stesso Fini si è detto ancora incapace di diradare, che si gioca addirittura l'avvenire personale del presidente della Camera e, purtroppo, quello politico di un'intera Nazione. Questo è il dato più sconcertante e amaro di tutta la vicenda.
Da sabato la politica italiana ruota tutta attorno alla parola di un signore che si chiama Giancarlo Tulliani. Fini ha detto che, a sua conoscenza, il signor Tulliani non è il proprietario della casa di Montecarlo che ha contribuito a vendere attraverso una personale intermediazione, e di cui risulta affittuario. Ha ribadito con forza di aver affrontato con un'«arrabbiatura colossale» la notizia che quella casa, eredità di An, fosse stata affittata proprio al «cognato» che aveva indicato la società off-shore interessata all'acquisto.

Ha rivelato di aver cercato di convincere con una certa insistenza il «cognato» a lasciare l'appartamento monegasco: un'opera di persuasione evidentemente risultata sinora infruttuosa. Ha specificato che, a quanto gli risulta dopo continui interrogatori al signor Tulliani, quella casa non è di proprietà di chi ne è attualmente il beneficiario in affitto. Ma ha affermato con chiarezza inequivocabile che se si dovesse accertare la titolarità di Tulliani dell'appartamento, il presidente della Camera, tratte le conclusioni di un inganno, rassegnerà le dimissioni. Si tratta di un'affermazione impegnativa. Forse la più impegnativa di tutte. Sta a significare che su tutto il resto, dalla congruità del prezzo di vendita della casa al sospetto che il presidente di An si sia disfatto del patrimonio del partito per favorire un componente della sua nuova famiglia, Fini è apparso in buona fede, convinto di non aver agito in modo illecito se non addirittura illegale. Chi voleva dipingere Gianfranco Fini come un cinico svenditore del patrimonio di un partito, un traditore dei suoi militanti, un affarista che specula sui sentimenti di una marchesa convinta di affidare i suoi averi a una nobile «battaglia», chi ha costruito l'immagine di un Fini bieco e approfittatore da sabato ha certamente molte meno frecce al suo arco avvelenato.

Quello che Fini sa, ora è abbastanza chiaro. Adesso bisogna sapere se è vero che nel mondo che ruota intorno al presidente del Consiglio sia partita un'attività di dossieraggio (che lo stesso Fini ha indicato come molto dispendiosa) destinata ad avere il Sudamerica come meta ed epicentro. Fini si è formalmente scusato con Gianni Letta e Gianni De Gennaro se certe sue affermazioni dei giorni scorsi sono apparse come un atto di accusa ai nostri apparati di sicurezza. Che però abbia rilanciato il sospetto che attorno a questo caso, e specificamente attorno al paradiso fiscale di Santa Lucia, si sia mossa una carovana spionistica e para-spionistica mobilitata per distruggere un nemico politico, è cosa che riguarda tutti noi e la politica italiana. È un altro interrogativo che non può essere eluso, un'altra ombra che si addensa su una stagione politica torbida e intossicata cui il videomessaggio di Fini non ha certo messo fine. Sono proprio questi veleni, del resto, che hanno ingigantito una vicenda che, per quanto avvilente, non risulta avere le dimensioni degli scandali cui ci hanno abituato anni e anni di storia repubblicana. Ma il presidente Fini deve anche rendersi conto che talvolta l'«ingenuità», in politica, comporta prezzi molto gravi. E che se la stabilità politica italiana oggi dipende da quel punto interrogativo che riguarda un certo Giancarlo Tulliani e che nemmeno il presidente della Camera sa sciogliere, vuol dire che il prezzo, questo sì davvero incongruo, di una pagina orribile della politica italiana (e dell'informazione) rischia di essere pagato dall'intera comunità nazionale. Un prezzo troppo salato.

Pierluigi Battista

26 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_26/tra-le-fragilita-e-le-debolezze-un-prezzo-troppo-salato-da-pagare-pierluigi-battista_a446c750-c93e-11df-9f01-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 20, 2010, 04:58:15 pm »


L'editoriale

La natura del governo

Le tensioni e il nuovo ruolo di Tremonti

di PIERLUIGI BATTISTA

Magari Bossi esagera quando definisce il ministro dell'Economia il «Cancelliere di ferro», il «nuovo Bismarck», il sommo sacerdote dei conti pubblici che mette in riga i ministri riottosi, non di rado trattati come molesti questuanti. Ma forse l'opinione pubblica ha bisogno di sapere se quello che attualmente è in carica debba chiamarsi oramai «governo Tremonti» e non più «governo Berlusconi». Se la crisi del Pdl non abbia partorito un nuovo asse politico incardinato sulla Lega e impersonato da Tremonti. Se lo scettro decisionista sia passato dal premier al più importante dei suoi ministri.

Giulio Tremonti può, sinora, vantare (e legittimamente intestarsi) il maggior successo del governo nato dalle urne del 2008: la tenuta dei conti dello Stato, il rigore finanziario nella bufera della crisi finanziaria e della bancarotta degli Stati più fragili, la messa in sicurezza del bilancio italiano angariato dal mostruoso debito pubblico che conosciamo, l'argine severo contro le politiche di spesa facile. Ma questo successo gli ha conferito una forza che fatalmente è destinata a rendere ancora più evidente la debolezza di cui soffre il capo del governo. Il prendere o lasciare con cui Tremonti ha imposto ai ministri i suoi imperativi assegna al ministro dell'Economia un ruolo tanto più centrale e decisivo quanto più la maggioranza appare dilaniata da scontri furibondi e minata da rivalità personali che vanno ben oltre, raccontano le cronache e i retroscena di questi giorni, la spaccatura con l'ex cofondatore, poi sbrigativamente estromesso dal Pdl, Gianfranco Fini.

Il governo naviga a vista. Berlusconi, svanita per il momento l'arma delle elezioni anticipate, passa il tempo a tessere la tela delle mediazioni per rammendare strappi e conflitti. I cinque punti del programma solennemente sottoscritti con il voto di fiducia della fine di settembre sembrano dimenticati. La bussola appare perduta. Ma l'unico comando riconosciuto è quello del custode del Tesoro che avoca a sé ogni decisione, impone ai ministri la sua dieta feroce, esalta con la sua azione l'unica alleanza che sembra reggere e anzi rafforzarsi: quella tra lo stesso Tremonti e la Lega di Umberto Bossi.

Gli elettori del Pdl assistono così a un clamoroso spostamento di ruoli del tutto imprevisto due anni fa: non è più Berlusconi, di fatto prescelto nelle urne come leader del nuovo governo, a dettare l'agenda del governo, ma il suo ministro dell'Economia. È un rovesciamento che può piacere o non piacere, ma che a questo punto deve essere dichiarato, per non dare l'impressione di un cambiamento che modifica totalmente lo spirito e l'identità di un governo. Si agita lo spettro del governo «tecnico». Ma quanto di più «tecnico» di un governo le cui redini non sono più nelle mani del presidente del Consiglio ma in quelle dell'onnipotente ministro dell'Economia che lesina finanziamenti per ogni progetto di riforma tranne per quello che riguarda il federalismo fiscale? Appunto, questo spostamento può essere considerato un bene o un male.

Possiamo congratularci o meno per la nascita del nuovo Otto von Bismarck. Ma sapendo che, in questo modo, la natura di un governo cambia irrimediabilmente.

Pierluigi Battista

16 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 06, 2010, 04:01:45 pm »

CHI DIREBBE IN ITALIA: E' COLPA MIA?

No, Obama non abita qui

Barack Obama, sebbene stordito dopo la catastrofe elettorale, ha detto: «È colpa mia, sono io il responsabile della sconfitta». Ha aggiunto anche che, come leader che crede nei verdetti democratici, dovrà rispettosamente tener conto degli orientamenti dell'elettorato artefice del trionfo repubblicano. Barack Obama è un presidente americano. Fosse stato italiano, avrebbe inveito contro il destino cinico e baro. O avrebbe addossato tutte le colpe a qualcun altro. A un complotto. Alla tv. Alla cattiveria dei nemici. Ai brogli elettorali. O direttamente al popolo. Che molto spesso in Italia è buono e ammirevole quando consente. Stupido e ottuso quando dissente.

Non è una differenza banalmente antropologica, ma una diversa consuetudine con le regole della democrazia dell'alternanza. Nella matura democrazia americana, vincere o perdere sono due opzioni normali. Nel primitivo bipolarismo italiano, invece, il primo atto di chi perde è l'autoassoluzione, il secondo è la delegittimazione del vincitore. Dire, come Obama, che si dovrà tener conto della volontà popolare non è solo la reazione nobile di chi sa conservare uno stile e un contegno anche nella sconfitta. È lo specchio di una concezione della democrazia sconosciuta in Italia. Obama non ha detto che è sua intenzione rinunciare alla linea politica sin qui adottata: questo sarebbe populismo deteriore. Ma che non vuole sottovalutare la resistenza popolare alle proprie scelte espressa liberamente e massicciamente attraverso il voto: e questa è la democrazia.

In Italia non succede (quasi) mai. Quando perdono, gli sconfitti accusano il popolo di essersi lasciato abbindolare dai vincitori, o abbacinare dalla loro martellante propaganda. Non troviamo mai un leader che dica, come Obama: «Ho perso, io sono il primo responsabile della sconfitta». Ne troviamo invece numerosi che avanzano scuse patetiche, che lamentano slealtà, che accusano l'avversario. Non si interrogano sulle ragioni della sconfitta. Anzi, negando ogni responsabilità, non fanno nulla per rimediare agli errori commessi e perseverano nella condotta che li ha portati alla sconfitta. Stracciati nelle elezioni presidenziali da Obama due anni fa, per esempio, i repubblicani hanno reagito con l'energia del movimento del Tea Party. In Italia non accade nulla del genere, e le oligarchie sconfitte, sottraendosi a un esame spietato delle proprie responsabilità, puntano tutto sulla perpetuazione del proprio ruolo.

È un atteggiamento radicato nella storia italiana, fitta di Risorgimenti «incompiuti», di vittorie «mutilate», di Resistenze «tradite». Un atteggiamento che scarica tutte le colpe su qualche oscuro complotto, che denuncia l'opposizione come una torbida «manovra» e il popolo che vota in direzione opposta ai propri desideri come prigioniero di istinti «viscerali», vittima della macchina propagandistica altrui. Un atteggiamento che cancella ogni principio di responsabilità e svilisce gli stessi verdetti popolari. Una democrazia che conosce un solo senso di colpa: quello altrui.

Pierluigi Battista

05 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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