Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #15 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:32:21 pm » |
|
EGITTO, ISRAELE, LA FIERA DEL LIBRO
Boicottaggio solito vizio
di Pierluigi Battista
Ancora con la fissazione del boicottaggio dei libri, delle idee censurate, degli scrittori ridotti al silenzio, dell’assedio che stringe una Fiera, come quella torinese, dove si dovrebbe discutere liberamente, e non aver paura di chi ha una sola ossessione: il sabotaggio culturale, il bavaglio universale. Si replica lo spettacolo dell’anno scorso, quando la presenza degli scrittori israeliani alla Fiera del libro di Torino venne scomunicata come una provocazione. Ora è la volta dell’Egitto, bersagliato dagli annunci di un nuovo boicottaggio.
La simmetria è solo apparente. I boicottatori accusano l’Egitto di essere troppo «moderato», di non attenersi ai precetti dell’islamismo fondamentalista, di essere troppo cedevole con Israele, il Nemico assoluto. Ma hanno un conto in sospeso con gli organizzatori della Fiera, che pensavano di compensare la presenza israeliana dell’edizione scorsa con la celebrazione di un Paese arabo. Egitto o Israele, i nemici dei libri conoscono però un solo linguaggio: quello della protesta contro l’esposizione dei libri e delle idee. Una fissazione, appunto. Da contrastare con lo stesso appello di un anno fa: boicottare i boicottatori, partecipare in massa alla Fiera del libro, partecipare alle discussioni, mettere a confronto le idee diverse.
Comportarsi nello stesso modo. Anche se l’Egitto non può vantare la stessa libertà intellettuale che rinfresca ogni giorno la vita politica e culturale di Israele. Anche se i dissidenti egiziani sono rinchiusi in prigione, mentre le librerie di Tel Aviv e Gerusalemme sono piene di volumi scritti da intellettuali in dissenso dalla linea del governo. Anche se la libertà di espressione, di opinione, di stampa in Egitto non è lontanamente paragonabile a quella che fa di Israele un crogiuolo elettrizzante di tesi contrapposte che si scontrano su tutto, persino su ciò che la comunità israeliana custodisce di più sacro e fondamentale.
L’equiparazione tra una democrazia e uno Stato autoritario può venire in mente solo a chi, nei proclami che annunciano il boicottaggio della Fiera, definisce Israele uno «Stato canaglia». Peccato che un anno fa, nel comprensibile tentativo di far svolgere la manifestazione torinese dedicata a Israele e di ammansire i boicottatori confortati da un Gianni Vattimo in vena di negazionismo sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion, gli organizzatori abbiano architettato la rappresentazione della par condicio, con l’Egitto chiamato a bilanciare Israele. È stato un errore, un eccesso di diplomazia. Ma la difesa della Fiera del libro minacciata per la seconda volta in due anni di boicottaggio (e sempre con Vattimo in prima fila) deve essere la stessa.
Con l’aggiunta di un pensiero per gli scrittori dissidenti che al Cairo non godono della libertà d’espressione conosciuta da noi. E con l’impegno di discutere le tesi di Tariq Ramadan, che l’anno scorso, in odio a Israele, partecipò al boicottaggio e che quest’anno avrà una tribuna torinese tutta per lui. Almeno per non cedere su un punto: che contro l’ossessione del boicottaggio, contro l’idea che i libri devono essere nascosti e gli scrittori imbavagliati, sia almeno salvaguardato il meglio di una società aperta, che non ha paura dei libri, che non azzittisce con i fischi chi parla e chi espone una tesi, anche la più discutibile. Il boicottaggio dei boicottatori di professione è l’arma che resta a chi non sopporta ogni genere di censura.
16 aprile 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #16 inserito:: Aprile 26, 2009, 05:13:03 pm » |
|
QUEI DIRITTI NEGATI NEL MONDO
Storie condivise e scomode realtà
di Pierluigi Battista
E’ una ferita antica che si chiude. L’Italia trova finalmente le parole della riconciliazione nazionale celebrando insieme la «festa di libertà». Ma la libertà reale è un bene ancora troppo raro nel mondo che oggi, nel cuore del 2009, pullula di tiranni, di dittature, di Stati di polizia, di diritti fondamentali negati e calpestati. Il premier Berlusconi, raccogliendo l’appello del leader del Pd Franceschini, ha offerto all’opposizione, nel ricordo del 25 aprile, una piattaforma di valori comuni che non consentono più il lessico primitivo della delegittimazione reciproca. Ma già oggi, all’indomani della festa della liberazione e della libertà, il leader bielorusso Alexandr Lukashenko attraverserà le strade di Roma in una visita ufficiale che segnerà il debutto dell’«ultimo dittatore europeo» nel consesso dell’Ue. Dopo aver festeggiato la libertà, il governo italiano dovrà stringere la mano a chi ne straccia quotidianamente la bandiera.
E’ una contraddizione che lacera l’intera comunità delle democrazie, un contrasto drammatico tra valori e ragion di Stato, tra princìpi e realismo politico, tra libertà e opportunità economiche. La Bielorussia di Alexandr Lukashenko manda in prigione i dissidenti e imbavaglia i giornali non allineati. Ma il tema delle libertà negate non spicca tra le priorità dell’agenda scritta dalle diplomazie del mondo occidentale, non solo dell’Italia. A Pechino Hillary Clinton si è quasi scusata per la pur blanda attenzione concessa dai governi occidentali alla condizione dei diritti umani in Cina. Ci si allarma più per il programma nucleare dell’Iran che per le innumerevoli impiccagioni inscenate sulla pubblica piazza di Teheran. Più per i missili lanciati dalla Corea del Nord che per il dispotismo assoluto patito dai sudditi della satrapia stalinista di Pyongyang. L’identità degli assassini di Anna Politkovskaya non è mai all’ordine del giorno nei colloqui con Putin. Né nei proficui scambi con la Libia di Gheddafi affiora mai la curiosità sui diritti civili non garantiti a Tripoli.
Non è pensabile certo l’eroismo velleitario e impotente di una rottura solitaria con le nazioni che non conoscono né possono presumibilmente gustare nei prossimi anni il profumo di una festa di libertà. Ma occorre sapere che la libertà è un privilegio di cui, nel pianeta, godono davvero in pochi. In Italia arriviamo dopo tanti (troppi) anni a riconoscere insieme la storia, culminata nel 25 aprile, che ci ha portati alla riconquista della libertà. Ce ne congratuliamo. Ma sarebbe terribile se un modernissimo «patto dell’oblio » ci impedisse di vedere che sul tema della libertà nel mondo le democrazie sono divise. Che l’Europa non sa parlare un linguaggio comune. Che in Pakistan le donne sono oppresse come non mai dal fanatismo fondamentalista. Che nessuno ricorda più i monaci in arancione capaci di sfidare la repressione della giunta birmana. E se non si può chiedere all’Italia di chiudere le porte al dittatore bielorusso in visita di Stato, è lecito però chiedere ai governi, a tutti i governi, di includere in qualche pagina della loro agenda la parola «libertà». Per festeggiarla con più serenità e più coerenza. Per il suo presente e futuro. Non solo per il suo posto nel museo del passato.
26 aprile 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #17 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:14:48 am » |
|
Il limite che non c'è
di Pierluigi Battista
L’Italia non sta sprofondando verso il Turkmenistan, e il modello del governo Berlusconi non è l’autocrazia uzbeka. Se Dario Franceschini lo dice nell’intervista rilasciata al Corriere è per galvanizzare un elettorato esausto, ma abituato a ricompattarsi di fronte al Nemico. Oppure per colmare con una retorica pugnace il senso di vuoto che ha sin qui mortificato un’opposizione debole fino all’evanescenza. O per arginare la controffensiva dipietrista, mimetizzandosi dietro un lessico oltranzista sin troppo collaudato nel quindicennio della Seconda Repubblica.
E’ probabile che Berlusconi coglierà l’occasione per mostrarsi offeso dall’analogia turkmena (come reagì quando Veltroni lo accusò di voler fare dell’Italia un clone dell’autoritarismo alla Putin), o per reiterare la denuncia dell’inaffidabilità di «questa opposizione », come usa sprezzantemente bollarla. Ma non farebbe la cosa giusta. Perché il malessere dell’opposizione non è solo un’ossessione minoritaria ma può creare in una parte dell’Italia un sentimento di frattura, una sindrome di estraneità e di secessione rispetto all’Italia che ha vinto, che governa e presumibilmente guiderà il nostro Paese nei prossimi anni.
Con il capo del governo all’apice del consenso, l’opposizione ha difficoltà ad elaborare la percezione di schiacciante inferiorità in cui versa, un misto di crescente invisibilità mediatica e di disattenzione pubblica che acuisce il disagio di chi crede di aver perso troppo: mentre l’avversario si «prende tutto », per usare le parole dello stesso Franceschini. Un anno fa ha subito una disfatta storica, molto più devastante, sul piano della psicologia politica, di un normale rovescio elettorale. Sente montare un destino frustrante di marginalità e di irrilevanza. Assiste attonita al trionfo incontrastato del suo avversario. Vede sbriciolarsi i contrappesi che in passato le hanno lenito l’angoscia delle sconfitte elettorali: dalla magistratura al potere economico, ai media e persino in una parte del sindacato. Berlusconi potrebbe rispondere che non si tratta di un suo problema, o che il «guai ai vinti» è la crudele legge del rito democratico. Ma senza rendersi conto che un eccesso di squilibrio potrebbe danneggiare anche lui, a parti rovesciate. Un più forte senso del limite arrecherebbe un vantaggio alla sua parte politica, oltre che al comune senso del decoro.
Il limite che separa gli affari pubblici dalle vicende private, prima di tutto. Le sue fragorose traversie coniugali sono un fatto privato: dica ai suoi seguaci che non si azzardino a farne aggressivamente tema pubblico, anche se l’opposizione volesse cavalcare il danno d’immagine che il conflitto con la signora Veronica Lario potrebbe procurargli. Un limite agli applausi della democrazia acclamatoria che ha accompagnato il compimento di un fatto storico come la nascita del Pdl. Un limite all’insofferenza nei confronti del dissenso interno, a cominciare da quello impersonato da Gianfranco Fini. Un limite all’apoteosi mondana che intona la marcia trionfale della sua politica.
Un limite al troppo frenetico andirivieni tra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, anche. A Napoli e in Abruzzo, il capo del governo ha dimostrato le sue doti di leader nazionale, consacrate dalla ricucitura simbolica compiuta il 25 aprile. Ora è il momento si stabilire un limite: non per compiacere l’opposizione, ma (senza enfasi) per rendere un servizio alla causa italiana nel mondo.
05 maggio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #18 inserito:: Maggio 24, 2009, 12:07:37 am » |
|
LA FUNZIONALITA’ DEL PARLAMENTO
La lunga attesa di una riforma
Il Parlamento non è mai «inutile». In nessuna democrazia, comprese quelle a impianto presidenzialista. Negli Stati Uniti, non è raro che tra Congresso e Casa Bianca il dualismo prenda forme non lontane dall’aperto conflitto. Nella Francia in cui l'Eliseo ha poteri fortissimi, il Parlamento è tutt'altro che poco importante. Nell'Inghilterra il contrasto parlamentare con il governo è talvolta durissimo. Anche in Italia, sebbene la sua efficienza parlamentare sia indiscutibilmente bassa, il Parlamento non è mai un impaccio che meriti di essere gettato nel sottoscala dei ferrivecchi. Il premier Berlusconi ha usato il termine «inutile», sebbene in un contesto logico diverso da quello diffuso dalle più malevole interpretazioni. Ma se il Parlamento rischia un effetto di «inutilità», ha una sola strada da percorrere: chiedere la riforma, con il concorso obbligatorio dello schieramento avversario, dell'istituto che secondo la nostra Costituzione custodisce il principio della sovranità popolare.
E’ una questione di sostanza, del resto, non di parole: non è la prima volta che il capo del governo descrive con fastidio il mondo parlamentare se non come un insieme di politici di «professione» che fanno dell'inconcludenza il marchio della loro privilegiata superfluità. Se fosse vero, anche per evitare che l'immagine del Parlamento non sia così svilita, la via della riforma sarebbe ancor più urgente. Certo, se ne parla da decenni, senza cavarne nulla di apprezzabile. Una riforma costituzionale votata in solitudine dalla maggioranza di centrodestra di due legislature fa (e che conteneva un riequilibrio di poteri a favore del premier), è stata bocciata dagli elettori in un referendum. Si parla di sfoltimento del numero dei parlamentari, ma senza costrutto. E tutte le commissioni bicamerali e bipartisan non hanno partorito nessun accordo.
Ma si deve insistere. Il capo dello Stato predica da tempo contro un assurdo bicameralismo perfetto. Dall'opposizione, a cominciare da Luciano Violante, si comincia ad invocare l'urgenza di una riforma che permetta al governo di realizzare i suoi programmi senza impaludarsi nelle liturgie interminabili che paralizzano il Parlamento. E’ dal suo discorso di insediamento che il presidente della Camera Fini chiama maggioranza e opposizione alla necessità di fare di questa che stiamo vivendo una legislatura «costituente». Ma le regole della democrazia sono come le leggi: finché sono in vigore vanno onorate e rispettate. Se risultano sbagliate, inutili, dannose, «controproducenti », si cambino. Il cambiamento costituzionale da tempo non è più un tabù. Si trovi un modo per renderlo realizzabile. Senza dimenticare che l'attuale maggioranza dispone di molti seggi di vantaggio per poter legiferare speditamente.
Anche l'attuale minoranza potrebbe imporsi un compito. Anziché abbandonarsi ogni volta al solito florilegio di proteste per i «toni» eccessivi del capo del governo, metta in agenda essa stessa la riforma delle istituzioni che tutti attendono. Non giochi sempre di rimessa e proponga la prima mossa. Ci risparmierebbe l'eterno riproporsi del solito schema. E permetterebbe al suo avversario di accelerare le riforme, anziché lamentarsi per l'improduttività del Parlamento. Il risultato positivo sarebbe raddoppiato.
Pierluigi Battista
23 maggio 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #19 inserito:: Maggio 28, 2009, 10:03:27 am » |
|
Eccessi e silenzi
I figli, la famiglia, gli affetti e i sentimenti più profondi. Ha fatto irruzione anche la sfera privatissima dei rapporti umani nella saga che da un mese a questa parte sta riducendo la politica italiana a un duello cruento a base di mogli, feste, mariti, padri, figlie, nipoti, «papi». Il leader del Pd Franceschini ha commesso un errore grossolano ad affermare «fareste educare i vostri figli da Berlusconi?». A mettere in discussione la qualità di una relazione che lega l'avversario-genitore ai figli che dovrebbero vergognarsi del cognome che portano per consegnarsi pentiti al tribunale comportamentale presieduto da una parte politica. Non è chiaro dove esattamente Franceschini abbia culturalmente attinto a una visione così totalitaria della politica che si arroga violentemente il diritto di giudicare la «correttezza» di un modello pedagogico e familiare. Ma è chiaro, molto chiaro che Franceschini deve fermarsi qui, non lasciar tracimare il rancore politico fino a coinvolgere i figli di Berlusconi, che non potevano non rispondere con legittima durezza.
E' chiaro anche che lo schieramento politico di cui Berlusconi è leader non può pensare sempre a un «complotto» se la stampa internazionale (ieri è stato il turno del Financial Times) guarda sbigottita alla fosca commedia italiana di questi giorni. Parlando alla Cnn, il capo del nostro governo ha promesso che chiarirà tutto sulla «vicenda Noemi», aggiungendo che chi lo ha attaccato senza requie su questo punto dovrà «vergognarsi » una volta rivelata la verità racchiusa nel caso di Casoria. Bene, si prenda in parola, non indugi e faccia «vergognare» al più presto i suoi avversari. Si sottoponga al rito della verità e della sincerità per mettere la parola fine a una telenovela che è diventata argomento di maliziosa conversazione nelle cancellerie di tutto il mondo e nelle redazioni dei giornali internazionali che interrogano con insaziabile curiosità i loro corrispondenti a Roma.
C'è un solo modo per stroncare l'imbarbarimento di una politica che arriva a travolgere persino gli affetti familiari pur di mettere in difficoltà l'avversario: dissipare con parole inequivocabili la nebbia di sospetti, di congetture, di illazioni che avvolge non un cittadino qualunque, ma il capo del nostro governo. Parlare chiaramente e in modo convincente non sarebbe un umiliante cedimento all’ondata del gossip nazionale, come suggerisce la reazione di una parte influente dell'establishment berlusconiano. Sarebbe invece l'unico modo per spazzare via un'atmosfera che ammorba la politica italiana, per sopire le inquietudini che serpeggiano all'estero e che non sono sempre e soltanto il sintomo di un'ostilità preconcetta, se non di una strategia pregiudizialmente aggressiva nei confronti del governo di centrodestra. Non c'è tempo da perdere. Altrimenti ci si avviterà ogni giorno di più attorno a un turbine di maldicenze. L'Italia non lo merita.
Pierluigi Battista
28 maggio 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #20 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:34:59 am » |
|
Il raddoppio dei voti
Di Pietro ora deciderà cosa fare da grande?
L’ex pm deve scegliere se costruire un rapporto col Pd che porti a un’alternativa o perseverare nel narcisismo politico
Celebrata la festa del raddoppio dei voti, gustata l’ebbrezza dei brindisi e delle congratulazioni, ora Antonio Di Pietro dovrà decidere che fare nell’età adulta della sua politica. Da interprete di umori e malumori che ribollono negli strati più profondi della società italiana è diventato un protagonista stabile del palcoscenico nazionale. Da alleato minore del Pd ora rivendica addirittura la supremazia nell’(eventuale) alleanza. È stato abile a incarnare la figura dell’ «anti-Berlusconi». Ha vinto. Ma ora ha quattro anni per non dilapidare il patrimonio accumulato.
Di Pietro ha già detto che vuole passare dall’«opposizione» all’«alternativa». Che vuol dire? Nemico giurato del politichese, paladino del linguaggio ruvido e franco, stavolta ha usato una formula allusiva per dire che adesso nel fronte opposto a quello di Berlusconi non vuole essere più un ospite ma un azionista influente che detta le condizioni. Il Pd di Veltroni era nato con una «vocazione maggioritaria», come un partito che non si sarebbe limitato a mettere caoticamente in un unico calderone tutti i segmenti antiberlusconiani. Di Pietro vuole essere la smentita vivente di questo schema. Il suo modello è semplice, binario, manicheo: da una parte il Caimano, dall’altro il popolo di Piazza Navona che sposa ogni oltranzismo pur di alimentare il duello con l’eterno Nemico, anche a costo, come è accaduto, di partire all’attacco del Quirinale. E se Berlusconi, malgrado la frenata di queste elezioni, ha la maggioranza relativa dei voti degli italiani, Di Pietro si sente a suo agio nell’Italia che di Berlusconi, persino antropologicamente, rifiuta tutto. Con cui non vuole scendere a patti. Di cui vuole liberarsi, con le buone o con le cattive.
Questo è il motore primo, la carta d’identità del dipietrismo. Con questo volto ha raggiunto in pochi anni l’8 per cento. Ha mescolato insieme storie e biografie diverse, sottomettendole alla personalità prepotente del fondatore unico. Ha miscelato il giustizialismo con il radicalismo culturale girotondista, il populismo con il leaderismo spinto. Ha vinto con un partito cucito a sua misura. Adesso Di Pietro dice che vuole cambiare insegne per ribattezzare una casa più grande del rustico messo su nel corso di questi anni. Ma sinora l’Italia dei valori si è totalmente identificato con il suo leader. Ha selezionato una classe dirigente raccogliticcia e in talune contrade, Campania in primis, di una qualità imbarazzante, purché ligia alle indicazioni del Capo. Ha spezzato la linea divisoria tra il Di Pietro pubblico e quello privato. Ha gestito il partito come un affare di famiglia, scegliendo come delfino il figlio e trasformando le casse dell’Italia dei valori in una gestione familiare, dall’intestazione degli immobili alla nominatività delle cariche sociali. Ma ha aggregato con duttilità ogni scheggia di scontento, ogni pezzo del fronte del rifiuto. Ha goduto del favore di un network mediatico-giornalistico che si è forgiato nel fuoco delle battaglie politico- giudiziarie. Ha conservato il favore della pattuglia più militante e agguerrita della magistratura. Con la sua parlata ricercatamente popolare e per niente succube delle convenzioni sintattiche e grammaticali non ha raffreddato nemmeno le simpatie degli intellettuali più raffinati che hanno fatto dell’antiberlusconismo il nutrimento della loro estetica. Con la sua rozzezza compiaciuta e ostentata ha dato voce a una corrente energica del populismo italiano.
Ma ora? Leoluca Orlando, che in questi anni gli è stato a fianco con discrezione ma con efficacia, ha insistito nei commenti sul trionfo elettorale sulla consunzione dei «recinti» che hanno ingabbiato per decenni la politica e l’ideologia europee. Di Pietro è da sempre estraneo a questi recinti: a cominciare da quelli che etichettano convenzionalmente la destra e la sinistra.
Culturalmente e antropologicamente Di Pietro non è «di sinistra» e chi nella sinistra lo detesta sottolinea che in realtà il dipietrismo è un pezzo di destra law and order conficcato nell’accampamento della sinistra classica. Ma, grazie a questa spregiudicatezza ideologica, ha raggiunto le vette elettorali di questi giorni. Solo che, come si è visto in questa competizione europea, anche nell’elettorato del Pd la tentazione ideologica del dipietrismo comincia a diventare una potentissima calamita, lo sfogo di una frustrazione, il simbolo di un desiderio spasmodico di opposizione che non trova sbocco nei volti e nei rituali del Partito democratico. E così Di Pietro sta diventando un doppio incubo del Pd: un alleato troppo indocile e adesso anche un cannibale che si ciba insaziabilmente della carne democratica ancora alla ricerca di un leader.
Ma adesso comincia per Di Pietro un’altra storia: quella decisiva. Se Di Pietro sceglie di avere un ruolo decisivo per la costruzione dell’«alternativa», non può permettersi di prendere il Pd per il collo, non tener conto che comunque quel partito ha numericamente una forza elettorale tre volte superiore a quella dell’Italia dei valori. Se deve stabilire un’alleanza, deve guardare all’esempio della Lega, che vincola la stabilità del suo rapporto con il Pdl al raggiungimento di alcuni obiettivi fondamentali (federalismo, sicurezza, immigrazione). E non a quello che ha logorato l’alleanza prodiana con Rifondazione, conflittuale e rivendicativa su ogni capitolo dell’attività di governo. Non può chiedere al Pd di adottare la linea dell’Italia dei valori, ma può costringerlo a ingaggiare battaglie comuni. Altrimenti il pieno dei voti di questi giorni resterà senza uso e senza sbocco. E resterà solo il controcanto del Caimano: un esercizio di narcisismo politico e niente più. Dipende solo da lui.
Pierluigi Battista 09 giugno 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #21 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:29:03 pm » |
|
Pd, tempo scaduto
Il partito democratico non può spendere i prossimi quattro anni congratulandosi per lo scampato pericolo dell’autodissoluzione. I sondaggi più funesti pronosticavano un crollo rovinoso, ma con il 26,1 la sconfitta ha assunto dimensioni sopportabili. Non si è materializzato l’incubo della marcia trionfale di Berlusconi. La sinistra nel suo complesso, malgrado la massiccia dispersione di voti, ha conservato un cospicuo patrimonio elettorale. Ma le note confortanti per Franceschini e il gruppo dirigente democratico finiscono drammaticamente qui: per il Pd è scaduto il tempo dei rinvii.
La distanza con il suo avversario è di 9 punti percentuali: un’enormità, visto che il Pdl non è nemmeno nella sua forma più smagliante. L’ondata leghista ha invaso il cuore delle regioni rosse. Il partito di Berlusconi gode di un primato nella totalità delle circoscrizioni. Nel Mezzogiorno il Pd rischia la sparizione. Lo scomodo Di Pietro non solo conquista voti, ma appare la personificazione di un messaggio forte, capace di attirare un’opinione pubblica di sinistra sconcertata dall’immagine sbiadita dei Democratici. L’elettorato è disorientato e scoraggiato, e stenta a capire dove il Pd voglia andare, con chi, in quali forme, con quale leader.
A febbraio, con le traumatiche dimissioni di Veltroni, il Pd affidò a Franceschini il compito di traghettare un partito stordito da una dolorosa sequenza di sconfitte. E se il nuovo (provvisorio?) segretario non ha nulla da rimproverarsi avendo recitato il suo ruolo con coraggio e dignità, le oligarchie del partito danno l’impressione di aver sotterrato l’ascia di guerra solo momentaneamente. Il plebiscito che ha incoronato la giovane Debora Serracchiani denuncia l’attesa inappagata di un segnale di una svolta, se non di un nuovo inizio. Ma non viene indicata la data di un congresso. Le diverse linee politiche (che ci sono, ma mimetizzate in una sfibrante guerra tra correnti) non vengono allo scoperto. I maggiorenti del partito, imprigionati nel loro ruolo di eterni padri nobili, si consumano nel tatticismo e nel gioco incrociato delle candidature. Sulla prospettiva delle alleanze il buio è totale, nella lacerante incertezza se guardare al centro, alla sinistra, oppure restare immobili. Ora, ufficialmente, si attende il giorno dei ballottaggi per riprendere il discorso interrotto con le dimissioni di Veltroni. Ma comincia a circolare autorevolmente la voce che la resa dei conti possa aspettare le elezioni regionali del 2010: sarebbe la scelta peggiore.
Perché forse l’elettorato democratico non aspetta un’avvelenata resa dei conti, ma una competizione aperta, democratica e leale tra i diversi filoni che compongono, non «amalgamati », il Pd. Una lotta politica chiara da cui possa scaturire una leadership destinata a segnare il percorso democratico e a costruire un’alternativa credibile all’attuale maggioranza. Dovrebbe essere questa, se non si è capito male, l’ispirazione fondante di un partito a «vocazione maggioritaria». La cui missione non può essere solo l’eroica resistenza per continuare a sopravvivere.
Pierluigi Battista 10 giugno 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #22 inserito:: Giugno 25, 2009, 11:17:45 am » |
|
I CANDIDATI NEL PD
L’ora di una sfida vera tra i candidati
La qualità della discussione congressuale del Pd è un buon termometro per misurare la salute democratica dell’Italia. Per questo l’annuncio della candidatura di Dario Franceschini non è solo un fatto interno a un partito e che riguardi solo i suoi iscritti e i suoi elettori. Se una sfida vera prende il posto delle congiure di palazzo, se una competizione aperta tra candidati scaccia lo spettro di un’oligarchia immobile che si sfibra nelle trame di corridoio e nella difesa irragionevole di insegne e appartenenze ormai logore, allora se ne gioverebbe l’intero sistema politico italiano.
È un bene per tutti se il principale partito d’opposizione esce dall’angolo e la smette di essere e soprattutto di rappresentarsi come un’accolita di sconfitti che litigano sconsideratamente su tutto. La sua debolezza, perché tutto in una democrazia è connesso, incide negativamente persino su chi detiene la maggioranza. Che infatti, in presenza di un’opposizione frastornata e arroccata nella difesa della sua mera sopravvivenza, in questi mesi ha peggiorato il suo profilo. Come a confermare la legge secondo la quale in una democrazia sana e sanamente conflittuale bisogna essere almeno in due a poter vincere. Altrimenti chi è sicuro di perdere si avvita nella retorica sterile a autoconsolatoria. E chi è sicuro di vincere rischia di dare il peggio di sé, perché la certezza del primato alimenta l’arroganza della solitudine.
Ecco perché una sfida aperta e vera tra (per ora) Franceschini e Bersani deve dare al Pd il volto di un partito che aspira a vincere la prossima partita. Deve mettere in luce cosa divide i contendenti, oltre a ciò che li unisce. Quali idee e non solo le biografie che ancorano al passato. Dovrà dire parole chiare sulle alleanze, perché è dalla scelta di un'alleanza che si capisce dove un partito vuole andare e come immagina di governare l’Italia. Dovrà rimescolare le carte, costringendo tutti i protagonisti del partito a uscire allo scoperto, smettendo i panni dei kingmaker occulti. Dovrà ridurre al minimo il chiacchiericcio infinito sul look dei candidati, sulla loro presunta caratura telegenica, e andare alla sostanza del conflitto che li oppone. Dovrà spezzare la pratica estenuante delle mediazioni, degli accordi sottobanco tra correnti. Dovrà dire agli italiani perché conviene, è più giusto, è più utile, è più convincente affidare al Pd il governo del Paese ora nelle mani del centrodestra. Dovrà mettere in pratica il principio fondativo che Veltroni aveva indicato come la bussola del nuovo partito: la sua «vocazione maggioritaria ».
Con parole chiare. E senza perifrasi allusive. Come quella, sfuggita a Franceschini, in cui il neo candidato se la prende con quelli «che c’erano molto prima». Ecco, evitare di imporre la decifrazione di formule che alludono a misteriosi e risentiti scontri nella nomenklatura del Pd sarebbe un buon modo per ricominciare e voltare pagina. Spiegando cosa è andato storto e cosa ha impedito al Pd di procrastinare così a lungo la sfida aperta e vera che solo adesso si sta virtuosamente aprendo. Rompendo lo schema che ha imprigionato il Pd, portandolo di sconfitta in sconfitta. È l’unica strada percorribile. L’ultima.
Pierluigi Battista 25 giugno 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #23 inserito:: Luglio 03, 2009, 10:10:25 am » |
|
Metamorfosi a sinistra
E Debora la vincente diventò nel Pd una giovane petulante
Il «paradigma Serracchiani»: prima era un soprammobile pregiato, adesso una presenza molesta e petulante. Sono bastate due battute di un’intervista
Il «paradigma Serracchiani» prescrive che nel Pd il giovane adottato da tutti sia trattato come un cucciolo da vezzeggiare con paternalistica accondiscendenza, ma se è un giovane che sceglie una parte e dice la sua, allora sono rampogne severe, commiserazione, persino dileggio. Da un giorno all'altro il volto nuovo di Debora Serracchiani si deforma nel simbolo dell'ingenuità.
La fresca energia si rovescia in sventatezza. La schiettezza in dabbenaggine. Prima era un soprammobile pregiato, adesso una presenza molesta e petulante. Sono bastate due battute di un’intervista a Repubblica per compiere questa repentina metamorfosi. Giovane, e donna, ha appena ottenuto un record di preferenze alle europee, addirittura battendo Berlusconi nel suo Friuli. Il voto, in democrazia, dovrebbe pur fare la differenza.
Non la solita cooptazione oligarchica, l’ennesima candidatura in «quota giovani». Ma un’investitura popolare, con una messe di consensi che molti dei notabili della corrente a lei avversa, oggi in prima fila nell’accanirsi sulla poco sorvegliata creatura, neanche possono sognarsi. Invece, due battute e parte il fuoco d’interdizione. La Serracchiani ha detto che sta con Franceschini perché è più simpatico. Una leggerezza, ma da quanti anni, e con quanta stucchevole ripetitività, nella sinistra ci si avvita nella ricerca smaniosa di un leader che sia dotato di un appeal comparabile a quello di Berlusconi? Mai un rimprovero, nemmeno un buffetto: niente di paragonabile all’orrore suscitato dalla irriverente giovane (e donna). La Serracchiani ha anche detto che Massimo D’Alema rappresenta a suo parere una logica d’apparato da cui il Pd dovrebbe emanciparsi. Magari è una ruvida e ingiusta semplificazione. Ma è esattamente quella che pensano e non dicono, o forse sussurrano, esponenti ben più esperti e stagionati del Partito democratico.
E poi, se la sfida tra i candidati è una gara vera e appassionante, si ha un’idea della brutalità politica con cui è stata condotta la competizione delle primarie democratiche tra Obama e Hillary Clinton, oggi sullo stesso fronte?
La Serracchiani, ex astro nascente quando si prestava a un unanime appoggio pre-elettorale, ha parlato troppo e male. Non dispone di paracaduti di partito (a parte il dettaglio dei voti conquistati) e dunque su di lei è più agevole esercitarsi nell’arte della demolizione ad personam che sfiora il linciaggio politico. Non c’è bisogno di concordare con le sue tesi per non accorgersi che in tanta virulenza c’è qualcosa di smodato e di paradossale. Un partito che invoca il rinnovamento si trasforma in un consesso di arcigni professori che bacchettano la giovane che ha osato valicare i confini dell’irriverenza. Un partito che invoca le «primarie» a ogni passo non tiene in nessun conto il consenso elettorale che quella giovane ha ricevuto. Un partito che non fa che dichiarare la propria insofferenza per le oligarchie di appartenenza si scandalizza se la critica alla nomenklatura viene espressa con parole e concetti decisamente poco diplomatici.
Il «paradigma Serracchiani» è anche la spia di una schizofrenia politica che rischia di ipotecare seriamente la rude verità di una battaglia politica da cui scaturirà il volto del nuovo Partito democratico. Si spera solo una caduta di stile, non il sintomo di una voglia d’ordine ( interno).
Pierluigi Battista 03 luglio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #24 inserito:: Luglio 04, 2009, 12:17:02 pm » |
|
L’ex giornale di An si distingue per le posizioni laiche e dialoganti «tendenza Fini»
Il «Secolo», la destra che dice tante cose di sinistra
Una scelta di minoranza che ricorda «La Voce»
C’è il giornale della destra che oramai piace più alla sinistra che alla destra. La sinistra lo apprezza perché è più a sinistra della sinistra. La destra lo teme perché porta nella destra uno spirito di sinistra. Insomma, c’è il Secolo d’Italia. Un tempo organo del Msi, poi di An, ora del «Popolo della Libertà » ma tendenza Fini, dalle sue pagine ogni giorno è una controffensiva libertaria per la destra conservatrice, una ventata laica nella destra «teocon», un messaggio eretico nell’ortodossia berlusconiana. Ora dicono che amano sì Sarkozy, ma iscrivendolo d’ufficio alla gauche. E nello stesso numero stilano un ritratto commosso di Alex Langer, il verde eterodosso che si è tolto la vita dopo una militanza sofferta, fuori dagli schemi, estranea alla dicotomia classica tra destra e sinistra, ma comunque pur sempre di sinistra. E chissà che il Secolo non riesca addirittura a rubacchiare qualche copia ai giornali che della sinistra ufficiale sono i portabandiera.
Un tempo erano i «ragazzi di via Milano» immortalati da una oramai celebre foto che li ritrae in piedi e accucciati nelle maglie della loro squadra, e descritti da Mauro Mazza (uno degli ex ragazzi) in un libro che riprende quella formula ricavata dalla leggenda adolescenzial- romantica della Via Pal. C’erano Fini e Gasparri, Storace e Alemanno. Lavoravano al Secolo di Via Milano a Roma, nei tempi in cui lo scontro fisico era all’ordine del giorno, le prime pagine del giornale erano riempite dalle foto dei comizi oceanici di Almirante, la destra era dentro un recinto infetto, messo ai margini dell’arco costituzionale. Oggi, la diaspora. Ma oggi, con la direzione di Flavia Perina (insieme, tra gli altri, a Luciano Lanna, Filippo Rossi, Annalisa Terranova) il Secolo d’Italia è una spina nel fianco del centrodestra. Qualche mese fa, in piena battaglia sulla legge contro l’immigrazione clandestina, titolò con clamore: «No all’apartheid». Si moltiplicano gli articoli contro le ronde. Quelli molto critici con l’impostazione prevalente nel centrodestra sul caso di Eluana Englaro. Quelli contro l’occidentalismo anti-islamista di Oriana Fallaci. Quelli vergati in difesa dell’avversario Veltroni quando la stampa di destra lo trattò da «extracomunitario » solo perché l’allora segretario del Pd stava piantando un ombrellone sulla spiaggia di Sabaudia, non nel parco di Villa Certosa.
Negli ultimi tempi, all’apice delle polemiche sulle veline e sulle feste del premier, sulle colonne del Secolo è stata una sequenza di contrappunti, di punture polemiche, di contrasti con il modello antropologico e culturale che nel velinismo si esprime e si rappresenta. Fino ad arrivare a una polemica feroce con Vittorio Feltri e con Libero. Fino a rivalutare, contro il modello del leader anziano che si trastulla con donne giovani e vistose, il contromodello del «vecchio pensionato» cantato da Francesco Guccini (un altro simbolo preso in prestito dalla sinistra). Polemiche, peraltro, condotte in sintonia con le posizioni del webmagazine «Farefuturo » (da cui partirono le prime bordate contro le ventilate candidature delle veline nelle liste elettorali per le europee). Ambedue più vicine a Fini che agli ex colonnelli di An. Tutt’e due che martellano sul tema del dialogo culturale con la sinistra, sulla critica alla destra machista d'un tempo.
Ma se poi qualcuno volesse leggere sul giornale della destra qualcosa propriamente di destra? Se, dopo aver appreso come e perché la destra debba essere libertaria, multiculturalista, laica, anticlericale, progressista, dialogante, moderata, si giungesse a scoprire che questa destra ideale, utopica, onirica, futuribile ha sempre meno in comune con la destra reale, mediamente rappresentata dai partiti e dai leader (eccetto Fini, naturalmente) che attualmente e presumibilmente per molto tempo ne hanno in mano le redini politiche e culturali? Come la Voce di Montanelli, che piaceva alla sinistra (senza comprare il giornale) ma sancì un drammatico divorzio dalla massa dei lettori infatuati dal montanellismo. E non è un cattivo augurio, ma il percorso accidentato di vuole stare in minoranza. Ogni giorno, come il 'Secolo' dell'Italia berlusconiana.
Pierluigi Battista 04 luglio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #25 inserito:: Luglio 08, 2009, 12:52:27 pm » |
|
Se santa Maria Goretti diventa l’icona dell’anti-berlusconismo
Stavolta non risuona l’allarme per l’«ingerenza vaticana», visto che a farne le spese è l’odiato e pericolante Nemico. Però, è una supposizione, se non ci fosse andato di mezzo Berlusconi magari la sinistra avrebbe reagito diversamente alle parole di monsignor Crociata. L’anatema contro il «gaio libertinaggio»: sarebbe stato accolto con tanta indifferenza dai laici momentaneamente distratti? E l’elogio di santa Maria Goretti.
E l’esaltazione del «pudore», l’elogio dell’«autocontrollo», i severi rimproveri per «la sfrenatezza e sregolatezza nei comportamenti sessuali». Quanti laici, offesi dal moralismo bacchettone, avrebbero trovato mortificante l’esempio di Maria Goretti come parametro dei comportamenti cui le donne dovrebbero attenersi? Quanti calembour, sapidi e triti giri di parole, si sarebbero accaniti sulla «crociata di Crociata»? E invece niente. Solo un sogghigno di soddisfazione per il boomerang che sta colpendo Berlusconi. Ha vellicato i peggiori istinti clericali: adesso, finalmente il contrappasso, la Chiesa che ne scomunica i comportamenti.
È ovvio: a chi è contro Berlusconi non si può umanamente chiedere di non compiacersi per i guai che stanno affliggendo il capo del governo. Ma è come se fosse svanita ogni parvenza di autonomia culturale, ogni capacità di stabilire un orientamento che non sia solo e soltanto berlusconicentrico. Il giorno prima ci si fa paladini dei diritti, della libertà anche in campo sessuale, del rifiuto delle norme tradizionali e convenzionali, della laicità, dell’opposizione a ogni interferenza religiosa nella sfera dei comportamenti. Il giorno dopo, visto che il bersaglio è Berlusconi, non si ha niente da dire quando un monsignore tuona dal pulpito contro la «sregolatezza» che addirittura «invera la parola lussuria».
Neanche un sit-in, una vignetta satirica, il commento sbigottito di qualche esponente radicale, o la mobilitazione di chi addirittura interpretò come un attacco alla laicità persino una lezione di Ratzinger alla Sapienza? Niente, silenzio totale. Riverente silenzio, in omaggio alla figura di Santa Maria Goretti, nuova e imprevedibile icona dell’antiberlusconismo.
Pierluigi Battista 08 luglio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #26 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:04:11 am » |
|
Il gusto (inutile) per il chiasso
Non se ne farà niente (per fortuna), ma se ne parlerà molto (per sfortuna) e chi si è fatto promotore dell’ultima scheggia di chiacchiericcio nazionale ne resterà ugualmente appagato. Cambiare la Costituzione per spezzare il monopolio del tricolore come vessillo d’Italia con l’aggiunta di stendardi regionali sulle pareti degli edifici pubblici? È solo la deriva della sindrome identitaria, l’idea che la politica debba ridursi a rivendicazione simbolica e che con la manipolazione degli emblemi o del lessico consacrato si possa mettere a segno chissà quale fruttuosa «provocazione».
La Lega è maestra in questo rivendicazionismo simbolico. Dall’invenzione della «Padania » alla mitologia di Pontida, dal Barbarossa al Parlamento alla riscoperta dei dialetti è una sequenza infinita e fantasiosa di simboli identitari da scaraventare nel cuore dell’immaginario politico. La Lega, unicum in Italia, è molto apprezzata, anche dai suoi più severi avversari, per il suo radicamento territoriale, per la solidità dei legami con la propria terra. Ma sente anche un incoercibile bisogno di folclore come moneta da spendere nel mercato della politica e pure del governo. Non ci saranno conseguenze pratiche nemmeno stavolta, la proposta di legge costituzionale non passerà o sarà addolcita per renderla più digeribile.
Resta la percezione, estesa purtroppo anche oltre i confini dell’Italia, che una classe dirigente impegnata in una crisi senza precedenti negli ultimi decenni è invece costretta a discettare sulle bandiere regionali (tutte da scoprire, peraltro) e sul loro rapporto con il tricolore bianco rosso e verde. A tuffarsi nelle dispute sui dialetti. A perdersi nelle fumose discussioni sulla nostra (presunta) storia. Non se ne farà niente. Solo la soddisfazione di un po’ di chiasso.
Pierluigi Battista 06 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #27 inserito:: Agosto 23, 2009, 10:49:09 am » |
|
IL REGIME E LA FESTA PER IL TERRORISTA
Tutti i giochi di Gheddafi
Abdel Bassetal-Megrahi non è un «ostaggio politico», come sostiene il presidente Gheddafi. È un terrorista che ha ucciso 270 passeggeri esplosi in volo su un Boeing 747 della Pan Am, sui cieli di Lockerbie. Le autorità scozzesi lo hanno liberato per ragioni umanitarie. Lui tuttavia non ebbe nessun senso dell’umanità quando decise di compiere una strage.
E anche i libici che lo festeggiano senza pudore per il suo ritorno in patria non stanno dimostrando nessuna sensibilità umanitaria nei confronti delle vittime e di chi ancora oggi ne piange l’assurda scomparsa. La storia non si cancella con un provvedimento di clemenza. C’è qualcosa di offensivo nelle celebrazioni di Tripoli. Un sovrappiù simbolico che infligge un colpo umiliante a un elementare senso di giustizia. È la «triplice beffa» di cui ha giustamente scritto Antonio Ferrari sul Corriere di ieri a rispecchiarsi nell’accoglienza solenne che la famiglia Gheddafi sta tributando a un assassino, nelle bandiere che sventolano trionfali, nelle fanfare, nelle urla di giubilo della folla che saluta il corresponsabile di uno dei massacri meglio riusciti nella storia del terrorismo internazionale.
E anche un senso di impunità maturato sulla necessità economica e geo-politica di un buon rapporto che l’Occidente deve intrattenere con il regime libico. La percezione, che galvanizza la Jamahiriya, di avere il mondo in pugno, di poter giocare con disinvoltura spettacolare la carta della resa dei conti, conoscendo in anticipo l’identità di chi dovrà inchinarsi (le democrazie occidentali) e di chi riceverà omaggi, aperture diplomatiche, clamorosi gesti di riconciliazione (la Libia del colonnello Gheddafi). Dal terreno più tradizionale del realismo politico, strada obbligata per l’Occidente, la Libia esige il passaggio nei territori più ambigui ed evanescenti, ma non per questo meno decisivi, della resa simbolica. Per questo il terrorista appena liberato diventa un così potente simbolo di identificazione: è il prezzo che bisogna pagare, il biglietto d’ingresso per poter avere con la Libia un rapporto non conflittuale.
Con la Libia di Gheddafi il realismo politico deve diventare rappresentazione, cerimonia. È questa la sfida imprevista che le democrazie devono affrontare come un unicum nell’attuale geometria dei rapporti internazionali. Se la Cina chiede silenzio sui diritti umani in cambio della collaborazione economica, se Teheran chiede la non interferenza internazionale sul suo armamento nucleare come contropartita per gli interessi economici da intrecciare con l’Iran, la Libia chiede qualcosa in più: la riscrittura della storia e un risarcimento simbolico sul passato. È questa la porta stretta che l’America di Obama e l’Europa dovranno attraversare nel prossimo futuro.
Sinora l’atteggiamento prevalente, come si è plasticamente visto nella visita romana di Gheddafi, ha coinciso con la benevola accondiscendenza nei confronti dei libici. Le feste di Tripoli per la liberazione del terrorista della strage di Lockerbie dicono però che il prezzo potrebbe essere sempre più elevato e che la sopportazione occidentale sarà messa a dura prova.
Lo scenario peggiore prevede che ciascuno, come spesso accade, vada per conto suo: i veri ostaggi politici (ed economici) decisamente non stanno a Tripoli.
Pierluigi Battista 22 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #28 inserito:: Agosto 27, 2009, 04:08:51 pm » |
|
La vera partita dell'autunno
Dopo l'intervento di Fini alla festa del Pd
di Pierluigi Battista
E così, annunciando il suo impegno per modificare la legge sul fine vita, Gianfranco Fini scende dal cielo della guerra culturale e promette di ingaggiare una lotta politica durissima.
Dalla nicchia minoritaria allo scontro aperto. Dalle stanze ovattate di una Fondazione alla durezza del voto. Con il discorso di Fini a Genova finisce nel centrodestra l’era della monarchia assoluta. Non è detto che Fini vinca. Ma non è detto che alla fine il Pdl resti un corpo granitico e inamovibile dietro al suo (attuale) Re. Fini dichiara a Genova che lui («non ho il dono della fede») non ce l’ha con i cattolici, ma con i «clericali». Il bersaglio è evidente: ce l’ha con buona parte del suo partito. Se vuole tratteggiare una figura di cattolico che risponde alla sua coscienza, cita provocatoriamente Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, espressioni di un cattolicesimo democratico storicamente molto aperto alle ragioni della sinistra. Non Baget Bozzo, ma Elia e Scoppola, tanto per radicalizzare la portata del suo strappo. È solo il caso di ricordare che Scoppola fu, al tempo del referendum sul divorzio, uno degli animatori dei «cattolici del no». Dei cattolici che dissero «no» agli imperativi della Chiesa di Paolo VI, mica di un Pontefice conservatore. Tanti anni fa. Gli anni delle contrapposizioni ideologiche che pure plasmarono il giovane Fini negli abiti della destra almirantiana, ma che oggi Fini ricorda con il distacco che si riserva alla preistoria e ai dinosauri. «Destra» e «sinistra», ha detto Fini, così come sono non dicono più niente a chi oggi ha gli anni (già venti) che ci separano dalla caduta del muro di Berlino.
Il presidente della Camera risponde così a chi lo accusa di voler «tradire» la sua storia di destra: dicendo di considerarla vecchia, superata, sorpassata, incapace di comunicare alcunché a chi, per privilegio di anagrafe, non l’ha vissuta in prima persona. Fini è stato applaudito a Genova dalla platea del Pd che lo ospitava. Ma tra i ferrivecchi della politica, se la cortesia istituzionale e il garbo dell’ospite non gliel’avessero impedito, Fini avrebbe volentieri incluso la «sinistra» che si riconosce nel Partito democratico. Sa di piacere ai suoi avversari perché sulla laicità e sull’immigrazione parla con un linguaggio a loro più familiare. Ma sa che la partita vera si gioca all’interno del centrodestra di cui Fini si sente parte ma che considera prigioniero se non succube («una fotocopia») della Lega, soffocato dal «clericalismo», incapace di guardare al futuro, troppo soddisfatto di sé nel lucrare sulle proprie rendite di posizione. Finora questa estraneità sempre più accentuata Fini l’ha espressa attraverso distinguo, punzecchiature, proclami a difesa del Parlamento, soprassalti d’orgoglio durante la visita di Gheddafi accolto da tutti (ma non da lui) con esuberante ospitalità. Da oggi diventa arma politica esplicita, battaglia ingaggiata contro l’attuale assetto politico-culturale della maggioranza. Le parole più dure Fini le ha sì riservate alla questione dell’immigrazione (ha evocato l’ombra della «xenofobia», e persino quella della tentazione «razzista») nonché all’identità culturale della Lega, ma è sul testamento biologico che partirà la sua campagna d’autunno. È vero che, in tema di immigrazione, si impegnerà nella proposta di una legge che dia la cittadinanza agli immigrati regolari dopo cinque anni, già bollata da autorevoli esponenti della maggioranza (come Maurizio Gasparri) come irricevibile.
Ma intanto la legge sulla sicurezza c’è, non si può tornare indietro e inoltre Fini si attribuisce il merito di averla ripulita dalla norma sui cosiddetti «medici-spia».
Il terreno ancora aperto è invece quello che ha al suo centro la legge sul «fine vita». Fini può contare su un malumore diffuso anche nel centrodestra. Può contare sulla sponda del Pdl. E anche su un clima collettivo meno arroventato di quello che infiammò l’opinione pubblica all’acme del caso Englaro. È il terreno più propizio per marcare una differenza più spiccata con l’attuale maggioranza e per strappare una vittoria che lo sottrarrebbe al ruolo scomodo del testimone di minoranza, coraggioso ma irrilevante. Per la prima volta il Pdl dovrà misurarsi con un dissenso aperto, non con una dichiarazione estemporanea destinata a lasciarsi inghiottire dall’ordinaria amministrazione. La fine di un’abitudine monarchica, appunto. Per il centrodestra, quasi una rivoluzione.
27 agosto 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #29 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:07:27 pm » |
|
Qualche ragione e poco stile
Sarebbe stato meglio se il nostro presidente del Consiglio si fosse attenuto più fedelmente ai canoni e allo stile delle controversie diplomatiche. Ma l’Europa non può più rimandare la definizione di una linea univoca e seria sul tema dell’immigrazione. Non può parlare con mille voci e discordi. Non può costringere alla solitudine l’Italia, Malta, la Spagna, i fronti più esposti e vulnerabili. Non può privarsi di una posizione comune, collegialmente elaborata, ma poi coerentemente difesa nei suoi princìpi essenziali. Non può non sentire le frontiere come questione propria piuttosto che dei singoli Stati. Non può prestarsi alle strumentalizzazioni casalinghe, ai veti reciproci, alla teatralizzazione politica di contrasti che non abbiano il crisma dell’ufficialità. Non può pensare che le tragedie consumate al largo di Lampedusa o a Ceuta e Melilla non riguardino Bruxelles, o Berlino, o Parigi, e viceversa. L’Europa non può pensare che continui così all’infinito.
Le tensioni tra l’Italia e alcuni esponenti dell’Unione Europea hanno come cornice le celebrazioni dei settant’anni dell’aggressione hitleriana alla Polonia, atto d’inizio della Seconda guerra mondiale. Ricordare quella data fa pensare all’Europa unita e in pace come a un miracolo politico e accresce la gratitudine per gli europeisti che con lungimiranza hanno costruito un’Europa fino a pochi anni prima dilaniata da guerre apocalittiche e conflitti insanabili. Ma se l’immigrazione è il tema centrale dell’equilibrio europeo di questo secolo, se l’esodo biblico delle popolazioni sfortunate è l’appuntamento che l’Europa dovrà affrontare negli anni e nei decenni a venire, è impensabile che la democrazia europea si condanni a non scegliere, a impantanarsi in rivalità nazional-statali inestinguibili e anche un po’ meschine. La sua unità politica ne risulterebbe monca. E la sua credibilità irreversibilmente intaccata.
Ovviamente la linea italiana sui respingimenti può essere discussa, contrastata, persino ribaltata. Ma in modo aperto e politicamente responsabile. Non con battute, nel caos stonato dei portavoce, e solo nel cuore di emergenze drammatiche, addirittura in modo selettivo. Con un convulso rincorrersi di dichiarazioni che copre l’impotenza e l’incapacità di onorare una condotta comune. Il deficit democratico dell’Europa può solo aggravarsi, in mancanza di una politica coordinata sull’immigrazione. Accentua l’impressione che gli egoismi di Stato prevalgano sull’interesse di tutti. Acuisce la percezione frustrante che a Bruxelles e a Strasburgo ci si occupi di cose astruse e non dei temi che allarmano l’opinione pubblica. Indebolisce l’identità politica dell’Europa, alimentando l’ostilità per una fragile costruzione tenuta insieme dalla moneta e dalla burocrazia, ma non dal comune riconoscimento di valori vincolanti per tutti. Non si trova una soluzione con impuntature estemporanee, ma il tempo dell’indecisione europea non può essere infinito.
Pierluigi Battista 02 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
|